PROPRIETÀ

Enciclopedia Italiana (1935)

PROPRIETÀ

Raffaello BATTAGLIA
Rodolfo BENINI
Giuseppe FURLANI
Vincenzo ARANGIO-RUIZ
Fulvio MAROI
Tullio ASCARELLI
Francesco ROVELLI

. Etnografia. - Presso i popoli primitivi il concetto di proprietà si trova già fissato nelle sue forme fondamentali di proprietà collettiva, proprietà famigliare e proprietà individuale. Nel passato l'origine e l'evoluzione del diritto di proprietà, che si può far risalire a forme istintive (istinti del possesso e della raccolta, presenti negli animali e nei bambini), furono interpretate in modo molto unilaterale, generalizzando fatti osservati presso singoli gruppi sociali a seconda che questi fatti meglio corrispondevano alle ideologie filosofiche o politiche delle diverse scuole.

Venne sostenuto così che la proprietà primitiva era fondata su principî esclusivamente comunisti oppure, basandosi su di un ipotetico egoismo delle genti incolte, si giunse alla conclusione che la proprietà, nelle società inferiori, era strettamente individualistica. Di queste errate interpretazioni vengono incolpate le scuole evoluzionistiche e antropologiche, il cui più grave difetto fu invece quello di aver dato troppa importanza a dati di fatto scarsi e spesso inesatti, perché dovuti a osservazioni affrettate o a interpretazioni soggettive da parte degli esploratori o degli etnologi che li raccoglievano. Ma anche lo studio delle istituzioni sociali e politiche umane, come ogni altra branca delle discipline etnologiche o naturalistiche, andò sempre più perfezionandosi, e i risultati a cui giunsero le scuole etnologiche moderne, più che sul fallimento dei principî evoluzionistici (poiché il fenomeno dell'evoluzione, come tale, anche nel campo dell'etnologia viene posto dalle moderne indagini meglio in luce e in tutta la sua multiforme complessità) sono dovuti all'applicazione di metodi d'indagine più rigorosi, a una più completa conoscenza della mentalità e della vita delle genti incolte, e a una più chiara concezione dei cicli culturali e della loro diffusione spaziale.

Oggi non si può più sostenere l'esistenza di una evoluzione lineare del diritto di proprietà da forme primitive comunistiche o individualistiche, come si deve anche riconoscere che non esistono rapporti costanti tra gli stadî di sviluppo successivi e l'età etnologica dei gruppi culturali.

L'idea che i primitivi, e i popoli incolti in generale, hanno della proprietà è sempre legata al sistema di vita economica e alle istituzioni sociali e politiche. Anche l'ambiente geografico e il clima hanno talvolta notevole importanza nelle norme che regolano il diritto di proprietà. Non vanno dimenticati inoltre altri fattori, di natura mistica e religiosa, i quali hanno pure un certo peso specialmente nei casi di successione, di cessione o di vendita tanto di oggetti quanto di terreni.

Nelle società incolte l'individuo è il naturale proprietario degli oggetti che si è fabbricato con le proprie mani e dei quali egli può disporre a suo piacimento. La proprietà privata è però tra le genti primitive molto limitata e si compone normalmente delle armi e degli utensili, delle vesti e di qualche altro oggetto di uso personale. Quando un lavoro viene fatto in comune dai membri di una o più famiglie, per es. la costruzione di una capanna o la coltivazione di un campo, il gruppo intero ne diventa proprietario. Tra i Vedda anche le abitazioni cavernicole sono considerate proprietà delle singole famiglie che le abitano, e possono venir lasciate in eredità ai discendenti. In questo caso si tratta dunque di diritto di proprietà acquisito in seguito a occupazione. Su questo diritto si basa anche presso molti popoli agricoltori la proprietà fondiaria, la quale può durare fino a tanto che il terreno viene coltivato dalla famiglia o anche dall'individuo. Secondo il diritto dei Malgasci la terra appartiene al re. Ogni individuo però può coltivare un tratto di terra, quando questo non sia ancora stato occupato da altri.

Si può entrare in possesso di oggetti, di terre, di animali o di uomini (schiavi, donne) anche mediante acquisto, eredità, dono, razzia o furto. Secondo qualche autore, le donne di certe tribù negre (Camerun) non godono del diritto di proprietà. Se le notizie sono esatte si tratta certamente di eccezioni, perché anche tra i primitivi la donna può possedere non solo oggetti di vestiario e di uso personale, ma anche imbarcazioni (Fuegini) o campicelli che coltivano da sé (Mossi). Coloro che non hanno diritto di possedere beni sono gli schiavi, dove la schiavitù è ancora in vigore. Spesso però viene lasciata ad essi la libertà di lavorare per proprio conto e quindi di guadagnare e di arricchirsi anche più dei loro padroni, come viene riferito per gli schiavi della Guinea meridionale.

Nelle società primitive il sistema della proprietà privata o collettiva è spesso molto complesso. In generale oltre a salvaguardare il diritto o l'interesse del singolo, la consuetudine tende a difendere e ad agevolare anche e specialmente il benessere della comunità.

Nelle isole Trobriand (Melanesia), dove la pesca ha una grande importanza economica, ogni piroga ha un proprietario legale, il quale è in pari tempo capo dell'equipaggio e "mago della pesca". Egli deve costruire l'imbarcazione a proprie spese e procurarne una nuova quando la prima è diventata inservibile. Ogni membro ulell'equipaggio, a seconda della propria condizione, dell'età o dell'abilità dimostrata, ha l'obbligo di compiere uno speciale lavoro (timoniere, rematore, ecc.) e deve prestare la propria opera per la manutenzione della piroga e mettersi a disposizione del capo per la pesca; quest'ultimo è tenuto a mettere a disposizione la propria imbarcazione con l'equipaggio al completo quando vengono fatte le grandi pesche collettive. Gli uomini dell'equipaggio hanno diritto a una parte della pesca in rapporto al lavoro eseguito.

I prodotti della caccia vengono normalmente divisi tra i membri della famiglia o del gruppo. Chi vide per primo la preda o l'uccisore di essa riceve in più della parte che gli spetta, la pelle, le zanne o altra parte dell'animale a seconda della specie a cui esso appartiene (Australiani, Ona, Eschimesi, Ciukci). Tra i Pellirosse la divisione della carne dei bisonti tra i cacciatori veniva fatta a seconda della posizione che avevano le frecce nel corpo dell'animale ucciso. Presso certe tribù africane una parte della selvaggina viene data al proprietario del terreno dove fu uccisa.

Presso le comunità di cacciatori e di pescatori: Australiani (eccettuate le tribù del centro e del nord-ovest), Tasmaniani, Fuegini, Vedda, i territorî di caccia e di pesca appartengono in comune a gruppi di famiglie. I confini di questi sono segnati da rocce, alberi, ruscelli, talora anche da foreste. Le altre famiglie non possono varcare questi confini, almeno senza il permesso dei proprietarî. Tra gl'indigeni delle regioni nord-orientali dell'America Settentrionale e tra i Bantu il terreno appartiene a tutta la comunità e nessuno ha diritto di vendere l'appezzamento che coltiva, essendone egli l'usufruttuario e non il proprietario. Prima di venire a contatto con gli Europei, a queste popolazioni era ignoto il concetto di vendita della terra. Se il possesso del suolo rappresenta un beneficio passeggero, di cui la famiglia o l'individuo potranno godere fino a tanto che continueranno a coltivarlo, il raccolto invece costituisce una proprietà privata o famigliare, di cui ognuno può disporre a proprio piacimento. In generale tutti i popoli incolti sono molto legati alla terra in cui vivono e in cui vissero i loro avi. Secondo le loro credenze anzi, gli antenati continuano a partecipare attivamente, in maniera malevola o benevola, alla vita della comunità e quindi non mancano d'interessarsi anche delle terre e dei beni di essa. Queste credenze costituiscono spesso un forte ostacolo per l'acquisto di terre, anche là dove ne è ammessa la vendita. Vincoli speciali gravano anche sui terreni avuti in eredità. Così i Maori, per es., possono vendere o donare le terre che hanno comperato, ma non quelle ereditate.

Gli animali selvatici e le altre risorse naturali dei territorî abitati dagli indigeni nord-americani, non appartenevano, secondo il diritto consuetudinario di quelle genti, a coloro che occupavano quei territorî, ma potevano venire sfruttate anche da altre famiglie e talvolta pure da altre tribù. Sistemi analoghi vigono tra gli agricoltori primitivi dell'Africa orientale. Presso i Baria e i Cunama, la proprietà del suolo non dà diritto di esclusività per il pascolo, la raccolta della legna, del miele o della gomma. I terreni intorno ai villaggi anche se di proprietà privata, possono venire occupati dopo aver sentito il parere degli anziani e senza che il proprietario abbia diritto a nessun compenso, da altri membri del gruppo quando si tratta di costruire un'abitazione. I sentieri dei campi possono venire chiusi soltanto durante i lavori agricoli, mentre le cosiddette "strade delle piogge", che servono di facile comunicazione durante la stagione umida, devono rimanere aperte a disposizione di tutti. Tra i Bogos invece i diritti dei proprietarî del suolo prevalgono su quelli della comunità. Così, il possesso di un terreno dà diritto anche alla raccolta della legna, del foraggio, dei frutti degli alberi e degli alveari selvatici, che si trovano in linea retta sul prolungamento di tale terreno fino al versante dei monti vicini. La raccolta della legna nei tratti di bosco che non si trovano in continuazione di una proprietà è libera a tutti.

Sanzioni penali, spesso molto severe, colpiscono i reati contro la proprietà, tra i quali i più comuni e i più frequenti sono il furto e le razzie. Tra le genti incolte il rispetto per la proprietà altrui è molto più osservato che non tra i popoli civili, almeno nei confronti degl'individui appartenenti allo stesso gruppo sociale. Di fronte a popolazioni straniere e in ispecie agli Europei, queste stesse genti non si fanno scrupolo di rubare. Presso alcuni popoli: Tlingit, Navajo, Ciukci, Figiani, Matabele, il furto non è ritenuto azione biasimevole, almeno nei casi in cui l'autore dimostra astuzia e abilità. Per assicurare meglio i beni mobili e le piantagioni, i popoli incolti invocano anche la protezione degli dei e degli spiriti, e ricorrono per difendere i propri averi all'aiuto della magia e del tabù, dove questo potente mezzo di coercizione esiste.

Bibl.: D. S. Davison, Family hunting territories in northwestern North-America, in Indian Notes a. Monographs, New York 1928; id., The chronological aspects of certain australian social institutions, Filadelfia 1928; M. R. Gilmore, Some Indian ideas of property, in Indian Notes a. Monographs, New York 1928; Ch. Letourneau, L'évolution de la Proprieté, Parigi 1889; O. Leroy, Essai d'introduction critique à l'étude de l'économie primitive, Parigi 1925; E. Westermarck, L'origine et le développement des idées morales, Parigi 1929, II.

Economia politica.

La ragione d'essere della proprietà individuale dei beni mobili, prodotti del lavoro di colui nelle cui mani si trovano o a lui pervenuti da libere permute, non fu mai oggetto di controversia. Si è riconosciuto, cioè, che l'uomo, mettendo in valore le attitudini di cui natura l'ha dotato per trasformare materia e adattarla a varî bisogni, copre in certo modo della propria personalità la cosa uscita dalle sue mani e può proclamarla sua, come sua è la forza che gli occorse d'impiegare, sue le facoltà d'osservazione, di ragionamento, ecc., che prepararono o accompagnarono il processo produttivo. Qui siamo senza dubbio in campo di diritto naturale. Conseguentemente è di diritto naturale la difesa contro i predatori e il perseguimento delle cose rubate. Ciò che si dice dei beni mobili, che servono come tali all'ufficio loro, vale per quelli che, grazie ad ingegnose combinazioni, si fissano come immobili sull'immobile per eccellenza, che è il suolo; tipo la capanna o la casa, il molino, ecc.

Questioni sono sorte, invece, proprio a riguardo del suolo, il bene-fondo che tutti gli altri comprende. Matrice di innumerevoli cose indispensabili alla vita o in qualsiasi modo stimolanti gli appetiti umani, il suolo è limitato in estensione e vario di contenuto nelle sue diverse parti; qui facilmente accessibile, altrove difficilmente, ecc. Vi è dunque, chi non trova giustificazioni per la proprietà privata di esso, almeno al di là dei limiti di superficie e profondità, fino ai quali l'individuo può arrivare con i suoi proprî mezzi; chi invece l'ammette in assoluto, o non ad altto subordinata che alle esigenze di un interesse pubblico da dimostrare.

Si suole parlare di beni appropriati, senz'altra specificazione, in antitesi con la condizione di beni vacanti; e di proprietà individuale, in antitesi con la proprietà collettiva. Una società politicamente organizzata, sia pure in forma rudimentale, può, nell'interesse comune dei suoi membri, affermare la proprietà collettiva del terreno su cui vive. Nei limiti fino ai quali l'utilizzazione diretta è possibile con le forze d'insieme del gruppo o con quelle singolari dei componenti, tale proprietà sarebbe ancora da considerare di diritto naturale.

È invece di diritto positivo, ossia riceve vita dalla legge o dalla forza che si è fatta legge, la proprietà costituita fuori dei limiti indicati. Essa implica diminuzione della disponibilità dei materiali e mezzi di vita a danno degli esclusi dal bene-fondo; implica uno stato di dipendenza di costoro dai primi occupanti o dagli attuali possessori.

Nell'opera: De la propriété et de ses formes primitives, È. de Laveleye ha esposto le prove del fatto che la forma originaria, spontanea, comune a tutti i popoli, per i quali si poterono fare indagini, fu la proprietà collettiva della terra. Ricordi e sopravvivenze si conservano quasi ovunque. Prima assai che venissero al mondo i politici, i giuristi e gli economisti delle nazioni evolute a sostenere le tesi più disparate, gli anziani delle tribù, i patresfamilias, uomini semplici che veramente agivano secondo natura, cioè secondo istinti di esseri socievoli, avevano risolto univocamente il problema in senso favorevole alla proprietà collettiva, garanzia di conservazione della stirpe e di ordine interno nella stessa comunità.

Fino a quando i nostri progenitori vissero di caccia, di pesca, di frutti spontanei della campagna, l'idea del mio e del tuo, che pure aderiva tenacissima al prodotto, alle armi e agli arnesi di presa, non si fermava sul bene-fondo, lo spazio aperto a tutti. Comincia a fissarvisi presso i popoli pastori; ma perché acquisti determinatezza ed efficienza occorre si sia imparato che la fruttificazione periodica dei vegetali può essere regolata sul posto e provocata dall'arte. Conseguenza logica, la stabilità della sede o un minor bisogno di spostamenti. Allora la tribù dirà "suo" il terreno coltivabile necessario alla vita comune e procederà alle assegnazioni di lotti a famiglie o a gruppi parentali più estesi. In generale, il riparto si limita alle terre circostanti al villaggio, rimanendo queste, insieme alle più lontane e indivise, dominio della tribù. L'uso dell'attribuire a sorte dei lotti di terreno somiglia molto a una designazione dei posti di lavoro, designazione rivedibile a intervalli.

Ma poiché una forza naturale è anche l'egoismo, inevitabilmente succede che i favoriti dalla sorte coi lotti migliori o quelli che migliorarono i proprî con intelligenti fatiche, cerchino di non rimetterli alla collettività per nuove assegnazioni. All'uopo si fanno valere amicizie di capi, alleanze di famiglie, benemerenze militari, ecc.; sicché la trasformazione della proprietà collettiva in privata comincia. Col crescere della popolazione e delle occasioni di guerre esterne il processo si fa più deciso: le terre tolte ai vinti passano ai vincitori; ma tra questi medesimi il riparto del bottino si attua con riguardo alla ricchezza già appropriata, sia pure soltanto mobiliare (bestiame, schiavi), e con rispetto alle posizioni gerarchiche o di forza già stabilite, formandosi così un primo proletariato dei vinti e di quelli, tra i vincitori, che ebbero la peggio nelle divisioni. Magro e tuttavia malsicuro compenso, la terra che è dichiarata d'uso pubblico e accessibile a tutti per l'esercizio di alcuni diritti.

Senza dubbio un ambiente favorevole alla genuina proprietà collettiva presuppone semplicità di costumi, come nelle età saturnie, o fervore cristiano come in tempi a noi più vicini. Per questo fervore vedemmo o videro i nostri padri le corporazioni religiose, con patrimonio fondiario e mobiliare adibito alla vita comune degli adepti, distendersi in fitta rete per il territorio nazionale, finché il legislatore, mosso da fini superiori, che in parte coincidevano con le brame dell'homo oeconomicus, non si decise a sopprimerle.

Da Roma, come è noto, mosse il concetto assoluto della proprietà individuale e dilagò per il mondo. Tuttavia, nei primi secoli della città regia e repubblicana, fu di ragion privata solo l'heredium, circoscritto all'abitazione con due iugeri d'orto o frutteto intorno, ereditario nel gruppo domestico, inalienabile per punto d'onore fatto costume; insufficiente a ogni modo per i bisogni della famiglia, la quale doveva ricevere in più una porzione di terreno aratorio o prativo dell'ager publicus, da cui trarre il sostentamento. L'agro pubblico era, quindi, assai più esteso dell'insieme dei poderi privati e sarebbe cresciuto prodigiosamente in seguito alle conquiste che gli apportavano nuove terre tolte ai vinti, se tra i vincitori medesimi la disuguaglianza di classe non avesse deformato il carattere e i fini della ripartizione. Fu visto il patrizio occupare quanto poteva di terreno, facendovi lavorare i suoi schiavi o cedendo il soverchio in precario a clienti, e convertire silenziosamente il possesso in piena proprietà. Il plebeo dovette, all'opposto, starsene pago dei sette iugeri che la sorte gli avrebbe assegnati. Così la disuguaglianza primitivai contenuta, tollerabile, della ricchezza mobiliare, diventa la disuguaglianza immoderata, provocante, del possesso fondiario e mobiliare insieme; pericolosa per la libertà dei cittadini e per l'economia del paese.

La storia della proprietà privata, della grande proprietà anzitutto, se non giustifica la cruda definizione del Proudhon: La propriété c'est le vol, ha però pagine numerose di violenze, frodi, corruzioni, indebiti privilegi, sfruttamenti senza misericordia del lavoro libero o schiavo. Per semplicità di schema si può ritenere che i grandi patrimonî siano derivati da due sorgenti: l'attività, socialmente utile, di individui geniali, industri, capaci di comando e organizzazione d'imprese economiche; e l'attività diabolica di individui pervasi dallo spirito predatore, eccezionali a modo loro per assenza di scrupoli, brutalità, astuzia. Che dei rapaci e dei parassiti non possano durare senza una società più numerosa o efficiente di produttori, che li sopporta, li nutre, li sazia d'ogni ben di Dio, mentre provvede alla meglio a sé stessa, ciò si ammette come per sottinteso. Si ammette pure che per incroci dei discendenti dei due rami, dimenticata l'origine più o meno torbida della ricchezza ereditata, questa arrivi nelle mani di individui, i quali non hanno altro da fare che conservarla godendone i frutti; cosa che più non richiede attitudini eccezionali. Rimane, anzi, probabile la comparsa dell'erede dissipatore, che segna la fine del grande patrimonio.

Per l'economista la stratificazione sociale delle ricchezze costituisce il fenomeno di stato, mentre le categorie del reddito (profitto e rendita, interesse e salario) sono i fenomeni di flusso o di movimento. Quella è il prodotto storico dell'uomo tutto quanto, fatti e misfatti; queste sono formazioni concettualmente spogliate d'ogni apporto non economico e riferite a un ambiente di edonisti perfetti. Edonisti galantuomini, naturalmente, cioè osservanti dei varî diritti che i loro antenati o essi medesimi stabilirono per consolidare posizioni di fortuna; primissimo il diritto di proprietà. Bisognerebbe poter prescindere dai "misfatti" anche nel trattare della ricchezza in essere allo scopo di rendere omogenei i termini del rapporto. Allora sarebbe facile coordinare la teoria pura della proprietà con quella del valore di scambio, nodo centrale della scienza economica, come si è potuto fare, più o meno felicemente, per le categorie del reddito.

Se la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose, a talento, nei limiti segnati da un interesse pubblico riconosciuto, il vendere e il cedere in uso temporaneo contro un corrispettiva sono senza dubbio tra i modi del "disporre". Si vendono e si cedono, in ultima analisi, i servizî utili che i beni economici sono atti a fornire direttamente oppure attraverso altre cose generate da essi. Qui assume importanza, per gli effetti sociali del diritto, la considerazione della durata dei beni e quella dell'ammortamento del loro costo. La quasi totalità delle cose in commercio ha un costo di produzione o di riproduzione, che fa regola approssimativa dei loro rapporti di scambio. Tra esse ce ne sono di durevoli (alcune, anzi, eterne, per così dire) capaci di rendere servizî continuativi o ripetibili, dei quali i primi in ordine di tempo o i secondi o i terzi poterono bastare a compensare il produttore del costo originario della produzione, fino ad assicurargli il ricupero del capitale, oltre i profitti dell'intervallo. Posto che tali cose durino ancora, gli ulteriori servizî, che se ne possono attendere, debbono essere giudicati, non più onerosi per il proprietario, ma gratuiti.

Ecco un primitivo industrioso che si lavora un arco e delle frecce per liberarsi di un animale che attenta al suo pollaio; eccolo fabbricarsi una scala e un canestro per cogliere frutti da un albero, ecc. Ucciso l'animale, si sente pago della sua prima fatica; colti i frutti, pago della seconda. Egli avrebbe fatto ciò che ha fatto, anche solo per il fine immediato che lo decise all'azione; quindi, in linguaggio d'economisti, il capitale costituito da' suoi strumenti dovrebbe dirsi "ammortizzato". Ma se l'arco, la scala, il canestro sono, in certo modo, ancor vivi e utilizzabili per altre evenienze, gli ulteriori servizî che egli potrà ritrarne, saranno da registrare come se non costassero nulla. Beninteso che la sopravvenuta gratuità non impedisce a costui di farseli pagare egualmente solo che trovi chi glieli richieda "con la voglia pronta". In fin dei conti, se l'oggetto ha cessato di essere oneroso per il suo possessore, oneroso rimane per chiunque, non possedendolo e pur desiderandolo, si provi a fabbricarne o farne fabbricare uno somigliante.

Nel tempo di gratuità del loro servire, gli strumenti grossolani agevolano la costruzione di strumenti più specializzati e fini. Un rozzo martello è stato il progenitore di magli, martelli e martelletti d'ogni specie e uso; il primo cavallo addomesticato ha reso più facile il catturarne e addomesticarne altri. Se i servizî iniziali furono tali da meritare per sé soli la fatica affrontata, i successivi si registrano come una rendita senza spesa. Così vediamo, nella cerchia dei beni economici durevoli, svolgersi dai primi anelli di una produzione costosa una lunga catena di servizî gratuiti.

Sul mercato, tuttora si scambiano beni in condizioni assai diverse l'uno dall'altro, per quanto concerne l'ammortamento dei costi. La loro ragione di scambio è in generale regolata dal costo che bisognerebbe attualmente sostenere per la produzione degli oggetti, senza riguardo alla circostanza che il costo reale sia negli uni completamente ammortizzato e negli altri non lo sia affatto o lo sia a metà. L'enunciato ricardiano non dice questo, ma lo lascia pensare. Così agiscono gli edonisti perfetti; solo una ventata di altruismo potrebbe indurre coloro, i cui beni hanno un costo ormai dimenticato, ossia una o più volte ammortizzato, a prestarli senza interesse.

Anche la probabilità di ulteriori ammortamenti, al seguito del primo, varia da cosa a cosa. Quanto più gli strumenti di produzione sono durevoli, difficili da sostituire o da aumentare e generano prodotti rispondenti a bisogni primarî o a gusti poco variabili degli uomini, tanto più grande è la probabilità che il possessore trovi, col favore dei prezzi, la maniera di realizzare, oltre il profitto personale d'imprenditore, l'interesse sui capitali già ammortizzati una prima volta, ma fisicamente ancora in servizio attivo. Tale interesse, se ebbe inizialmente il carattere di premio del risparmio o dell'attesa, non ha più nessuna attesa o astinenza da ricompensare, dopo che l'industria ha raggiunto la condizione detta del moto stabilito e ha visto compiersi il primo ammortamento del capitale fisso; la sua funzione si riduce a dare un nome alle rate di rimborso di un costo, che pur fu già ricuperato per intero. Sicché la qualifica d'interesse con o senza quota d'ammortamento non gli conviene più; la sua natura essendo affine a quella della rendita ricardiana, che manca affatto ai beni diversamente qualificati per durata, sostituibilità, ecc. Né è da credere che la libera concorrenza possa smorzare i contrasti. La concorrenza industriale riesce a perequare il saggio dei profitti in industrie differenti e quella commerciale a perequare i prezzi unitarî di merci della stessa specie e qualità; ma né l'una né l'altra ottengono di perequare posizioni più o meno vantaggiose in fatto di possesso; né l'una né l'altra impediscono al proprietario di capitali, per così dire, eterni, di sfruttare la prerogativa dell'eternità, in forma di ripetutissimi ammortamenti. Invero se l'oggetto eccitante i desiderî della speculazione è sostituibile o aumentabile solo con difficoltà, chi ne volesse tentare la riproduzione urterebbe contro condizioni più sfavorevoli di costo; se poi l'aspirante mirasse alla cessione del diritto di proprietà e le sue offerte riuscissero allo scopo, l'effetto si ridurrebbe a una semplice sostituzione di titolare, onerosa per il subentrante, che avrà dovuto comprendere nel prezzo d'acquisto il valore del privilegio.

Il terreno coltivabile o edificabile tiene senza dubbio il primo posto nell'ordine delle cose limitate, durevoli, indispensabili alla vita. Consideriamo anzitutto i terreni da coltivazione agraria, che non per natura, ma per arte dell'uomo hanno acquistato una certa fertilità. Il crescere naturale della popolazione mantiene il prezzo delle derrate (eccezion fatta di qualche periodo critico) al livello che occorre perché il proprietario di fondi che non siano proprio di ultima qualità, percepisca il compenso non solo dei capitali incorporati di recente nel suolo, ma di quelli risalenti a merito di qualche generazione addietro. I proprietarî dei fondi di ultima qualità, la cui coltura si eseguisce ai margini di convenienza, non possono aspirare che all'interesse dei capitali da loro medesimi investiti; quanto all'avvenire remoto, chi vivrà vedrà. Lo vedranno gli eredi. Privilegiati si riconoscono nei grandi centri urbani, i terreni fabbricabili e gli edifizî che vi sono costruiti sopra, in quanto trovano nell'incessante inurbarsi della popolazione le condizioni del facile ammortizzo di costi antichi e recenti; e le aree disponibili, che pur non hanno un costo proprio, acquistano un valore che capitalizza in anticipo parte delle rendite dei futuri edifizî. Il privilegio si attenua via via che dai quartieri centrali delle città si passa ai periferici, indi ai comuni suburbani, per svanire del tutto nelle località più eccentriche, che non abbiano particolari attrattive di luoghi di cura, mete di turismo, ecc. Passando alle grandi industrie manifatturiere, nelle capaci loro installazioni sono potenti macchinarî, che potrebbero godere di una vita secolare, se l'uomo non traesse dal suo spirito inventivo strumenti sempre più perfetti, che svalutano i primi e loro accorciano la durata in servizio, sì da non lasciarli talvolta arrivare al primo ammortamento. Qui la durata economica è più breve di quella fisica. La rassegna dei casi potrebbe continuare.

Nel nostro mondo dove i prodotti e i servizî si pagano in definitiva con prodotti o servizî, avvengono normalmente, scambî di beni il cui costo, per la parte imputabile ai capitali fissi delle aziende, è già stato più volte ricuperato, contro beni, il costo dei quali è appena in via di un primo e incerto rimborso. In termini di servizî, ciò vorrebbe dire che gli scambî di servizî che hanno cessato di essere onerosi contro servizî che lo sono tuttora, costituiscono un evento abbastanza comune. Orbene, tra i casi di compensazione del gratuito col gratuito, dell'oneroso con l'oneroso, si delinea una vasta classe di scambî incrociati del gratuito con l'oneroso, in cui il contraente sistematicamente favorito risulta essere per lo più un grande proprietario di beni immobili, rustici o urbani, nelle condizioni dianzi prospettate o anche un capitalista carico di azioni di un sindacato bene avviato al monopolio. Contraenti in posizione meno favorevole, o addirittura sfavorevole, quasi tutti gli altri; e peggio degli altri il lavoratore comune, il cui salario non lascia margine per ammortizzare né una volta, né mezza, la spesa già occorsa per il suo allevamento, per quanto piccola sia stata.

Ed ecco i riformatori sociali, della tendenza di Henry George, puntare soprattutto contro la proprietà immobiliare, che vorrebbero "nazionalizzata" e altri, invece, pensare che privilegio ben diviso non è più privilegio e che la limitazione, per legge, dei grandi possessi e la diffusione della piccola proprietà coltivatrice potrebbero costituire le basi di una sana e solida democrazia.

Non si dovrebbe dimenticare, però, che in conseguenza delle alienazioni di terreni e di fabbricati, il valore del privilegio fondiario non è passato, eccetto in minima parte, nel compratore, ma si ritrova, in moneta, quasi tutto nelle mani dell'ex-proprietario. Il compratore speterà di vederlo ripristinarsi, dando tempo al tempo; e quanto al venditore, se agì da uomo economico fuori della pressione di speciali circostanze, userà della moneta come già usava del fondo rustico o urbano, senza cadere in una situazione deteriore. La moneta, mezzo indispensabile per l'incontro della domanda e dell'offerta delle merci, mezzo di collegamento della produzione in essere e di quella in corso di formazione, assicura al prestatore l'interesse a perpetuità. Nella sua funzione d'intermediario si direbbe eterna e monopolizzabile da una categoria di persone, come il terreno su cui viviamo.

Ritornando ai patrimonî in generale, comprendenti proprietà immobili e mobili, colpisce il grado di concentrazione, a cui si trovano nelle nazioni civili. In Francia, paese che si suole citare ad esempio di proprietà diffusa, nel 1930, su 357.240 deceduti, con patrimonio, per un valore d'insieme di circa 16 miliardi di franchi, si contarono 3862 possessori di almeno mezzo milione fino a più di 50 milioni. Essi costituivano appena l'1,08% come numero, ma il 46% come quantità di ricchezza trasmessa. In Italia, risalendo alle statistiche dell'esercizio 1890-91, quando il potere d'acquisto della lira era almeno cinque volte maggiore dell'attuale, si trovano registrati 1364 autori di successioni (su 158.271) che trasmisero patrimonî da 100.000 lire in su; oggi si direbbe, da 500.000 in su. Essi erano, come numero, neppure l'uno per cento (precisamente 0,86%), mentre il valore delle eredità lasciate raggiungeva il 46,5% del totale. Se si potesse tener conto della facile evasione dei valori mobiliari, che sono ed erano largamente rappresentati nelle grosse eredità, la ricchezza trasmessa oltrepasserebbe certo il 50% del totale. In Inghilterra la disuguaglianza dei patrimonî è ancor più stridente; colà non si trova mostruoso che un landlord possegga in terreni una mezza contea.

Il patrimonio conferisce alla persona una capacità di resistenza nei contratti, che può supporsi in ragion diretta della disuguaglianza economica dei contraenti, che è, altresì, in rapporto con la "liquidità" o facilità di conversione dei beni del patrimonio in altri più adatti a dare l'impressione che una delle parti sia più libera dell'altra di non addivenire, senza suo danno, all'accordo. Adattatissima, a tale riguardo, è la moneta. Il possesso di patrimonio conferisce una più o meno grande capacità di garanzia negli affari di credito, permettendo, se esso consta di beni immobili o di mobili illiquidi, di contrarre mutui in denaro, per gli scopi che il possessore si propone; conferisce similmente una più o meno grande capacità di credito attivo, se consta di moneta o di titoli di facile realizzazione. Infine esso è condizione per tentare professioni particolarmente redditizie, ma non accessibili a chicchessia, perché richiedenti un tirocinio lungo e costoso, nonché un capitale di anticipazione per l'avviamento in carriera o per l'impianto e le prime spese d'esercizio di un'azienda.

Molto resterebbe a dire circa i fattori di disgregazione e di riconcentrazione della proprietà privata. Il fatto che per ogni successione di qualche importanza si constata un numero di eredi o legatarî doppio o triplo della media generale, sembrerebbe accennare a una continua e crescente diffusione della ricchezza. Ma la realtà è diversa. Le seriazioni statistiche, che gettano luce sulla consistenza dei patrimonî ereditarî, graduati secondo il loro ammontare, sono in generale assai stabili nelle proporzioni dei gruppi che occupano i diversi gradi della scala; e ciò induce a riconoscere l'esistenza di fattori di riconcentrazione, pari in forza ai fattori di disgregazione e diffusione. Tra i fattori di riconcentrazione ci basti ricordare le eredità ripetute nel gruppo parentale a favore di una stessa persona la quale riceve oggi come figlio, e domani potrà ricevere come fratello, nipote, ecc.

Il più valido degli argomenti in sostegno della proprietà privata è che per essa lo spirito d'iniziativa e la volontà di lavoro acquistarono la massima tensione. E ciò si presume vero per l'avvenire. Posto che metà almeno degli uomini posseggano tali qualità in dosi inferiori alla media; posto che l'adattamento a una vita vegetativa rischierebbe, in un ambiente di proprietà comune, di diventare seconda natura dei popoli, si capisce che le opere della civiltà sarebbero rimaste in enorme arretrato, senza il continuato sforzo dei milioni di schiavi, di servi della gleba, di operai liberi soltanto di nome; lo sforzo sostenuto per far tacere la fame, mentre creavano gli agi e il fasto dei potenti, le comodità del vivere per le classi medie, le grandi opere pubbliche che sono oggi ancora testimonianza di civiltà. Sennonché, l'argomento non infirma la condanna dello sfruttamento inumano del lavoro; e nulla toglie al principio che, rispettando la proprietà privata, la sottopone a limitazioni o le assegna doveri sociali proporzionati all'importanza dei diritti.

Bibl.: In quasi tutte le opere di economia politica si tratta della proprietà. Quanto a scritti speciali, v. P. J. Proudhon, Lettre à M. Blanqui sur la propriété, Parigi 1841; id., Système des Contradictions économiques, ou Philosophie de la misère, ivi 1846; id., Théorie de la propriété, opera postuma (tutte in Øuvres complètes, nuova ed., voll. 9, ivi 1923-32); A. Thiers, De la propriété, ivi 1848; V. Mayer, Das Eigentum nach den verschiedenen Weltanschauungen, Friburgo in B. 1871; F. Lampertico, La proprietà, Milano 1873; A. Samter, Das Eigentum in seiner sozialen Bedeutung, Jena 1879; Fr. Engels, Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats, Zurigo 1884; A. Loria, Analisi della proprietà capitalista, Torino 1889; id., La vecchia e la nuova fase della questione della proprietà, in Studî senesi, suppl. al vol. V (1888); id., La proprietà fondiaria e la questione sociale, Verona 1897; N. D. Fustel de Coulanges, Le problème des origines de la propriété foncière, in Revue des questions historiques, aprile 1889; É. de Laveleye, De la propriété et des formes primitives, Parigi 1891 (5ª ed., 1901); G. Bernstein, Gesellschaftliches und Privat-Eigentum, Berlino 1891; H. George e E Masé-Dari, Problemi Sociali, Torino 1895; L. Felix, Entwicklungsgeschichte des Eigentums, Lipsia 1899; R. T. Ely, Property and Contract, New York 1914; R. Thurnwalds, s. v. Eigentum, Kommunismus ecc., in M. Ebert, Reallexicon der Vorgeschichte, 1924-27; A. Graziadei, La rente et la propriété de la terre, Parigi 1931; A. A. Berle e G. C. Means, The modern Corporation and Private Property, New York 1932.

Diritti orientali.

La Mesopotamia antica era un paese nel quale vigeva per gran parte il regime della proprietà privata e individuale, e già ai tempi della prima dinastia di Babele il proprietario, bälu, di una cosa poteva disporne liberamente. Si avevano però ancora alcuni casi di proprieta collettiva e pubblica, proprietà della quale l'alienazione era vincolata da non poche restrizioni. Le tribù, e anche le città, erano proprietarie di vasti territorî che per principio erano bensì inalienabili, ma dei quali il re spesso faceva acquisto per conferirne una parte o il complesso a qualche suo ministro in ricompensa dei servigi resi a lui o allo stato. Per la vendita al re è necessario il consenso dei membri o per lo meno del capo della tribù. Nei territorî a oriente dell'Assiria, abitati in prevalenza da schiatte di lingua hurrita (mitannica) e arretrate nella loro civiltà rispetto alla Valle dei due fiumi, la proprietà era fortemente vincolata alla famiglia e ai gruppi sociali. Una posizione speciale occupavano gl'immobili e i mobili di proprietà del re e del Palazzo, godendo questi maggior protezione da parte dello stato.

I Babilonesi e Assiri facevano distinzione per quanto concerne il diritto di proprietà tra la casa, il campo e l'orto da una parte e gli schiavi, il frumento, l'oro, gli animali, i battelli e gli arnesi dall'altra, tanto nell'azione di rivendicazione quanto nella trasmissione della proprietà su queste cose e nella successione ereditaria. La proprietà delle cose della prima specie era inoltre pubblica: gli immobili erano cioè inscritti in una specie di libro pubblico o registro, conservato negli archivî delle città più importanti.

Una posizione del tutto particolare avevano i feudi babilonesi, i cui proprietarî avevano l'obbligo di prestare servizio militare assieme ai loro seguaci, obbligo che era chiamato ilku. Con questa parola si designava però anche il fondo stesso. Il feudalesimo era largamente diffuso anche in Asia Minore tra i Hittiti. Il feudo consisteva in una casa e in un campo, ed era trasmissibile al figlio. Se il vassallo abbandonava il beneficio, un terzo poteva prenderne possesso. Il feudo era per principio inalienabile. Se il feudatario cadeva in prigionia di guerra, esso ritornava a lui dopo il suo ritorno.

La proprietà delle tribù e dei gruppi di famiglia non risiedeva nei singoli membri, ma questi ne avevano soltanto un diritto temporaneo di godimento, che era inalienabile e non poteva esser trasmesso a terzi. La tribù coltivava in comune i suoi terreni, assegnava però a ciascuna famiglia un lotto di terra per la coltivazione, lotto che poteva esser diverso da anno in anno. Nessuna famiglia e nessun individuo aveva la proprietà assoluta del lotto assegnato loro per la coltivazione. Coll'acquisto fatto da parte del re la proprietà passava a lui, come è attestato da alcuni documenti inscritti nelle pietre di confine o kudurru, ed egli poteva poi conferirla, assoluta e completa, a chi più gli aggradiva.

Alcuni tratti della proprietà collettiva conservò per lungo tempo il patrimonio famigliare. I beni della famiglia appartenevano alla famiglia stessa e non ai singoli suoi membri. Il capo della famiglia, il padre, non era quindi il solo e unico proprietario del patrimonio e non poteva affatto disporne a suo talento. Egli non poteva vendere i beni famigliari che col consenso dei figli, vale a dire dei futuri eredi, e all'atto di vendita intervenivano quindi anche i figli, oppure il padre mediante una clausola speciale garantiva il compratore da qualsiasi reclamo o pretesa dei figli. Da questo vincolo del patrimonio della famiglia deriva anche il diritto di retratto dei famigliari sui beni della famiglia. Una reminiscenza del regime antico di proprietà collettiva era il diritto di retratto che avevano i vicini di un fondo di fronte al compratore estraneo.

In Mesopotamia si conosceva il condominio su case, campi, schiavi e animali.

In generale il diritto di proprietà conferiva il potere illimitato sulla cosa. Le restrizioni all'esplicazione libera di tale potere erano poche e riguardavano segnatamente il proprietario di un fondo irrigato da un canale comune. Il proprietario del fondo non poteva recare nessun danno al canale e alle sue dighe e anzi doveva tenere in buono stato il tratto situato sul proprio fondo. Le servitù erano poche e sorgevano per accordo delle parti. Erano quasi tutte di carattere agrario. La proprietà si trasferiva mediante il trasferimento reale o simbolico del possesso della cosa e la consegna del documento che la concerneva. La consegna simbolica di cose mobili avveniva mediante un bastone detto bukannu. Qualche atto simbolico simile avrà caratterizzato il passaggio di un fondo da un individuo a un altro Chi aveva perduto il possesso della propria cosa poteva rivendicarla da chi la possedeva illegalmente mediante un' azione di difesa del proprio diritto. Aveva tale azione di rivendicazione della proprietà tanto il proprietario di un fondo quanto quello di uno schiavo.

Bibl.: G. Furlani, La civiltà babilonese e assira, Roma 1929, pp. 450-456; É. Cuq, Études sur le droit babylonien, Parigi 1929, pp. 77-161.

Diritto greco.

L'idea dell'appartenenza di una cosa a un individuo o a un gruppo, antica ed elementare quanto il gesto di prendere e tenere stretto ciò che si crede di poter giustamente difendere contro gli attacchi di chiunque, non trova nel mondo greco quella perfetta elaborazione giuridica che permise ai Romani di separarla da ogni altra signoria di fatto o limitata potestà di diritto sulle cose. Per i Greci la proprietà è normalmente un possesso conforme al diritto, o una più o meno sicura aspettativa di acquistare il giusto possesso (onde, le oscillazioni della terminologia epigrafica nel rappresentarsi volta a volta come proprietario il pignorante o il pignoratario, chi ha concesso ipoteca sul suo fondo o il creditore ipotecario).

L'idea della proprietà esclusiva individuale non trova, come in altri ambienti, una resistenza nell'appartenenza del territorio allo stato o al sovrano: il concetto della città, πόλις, cioè di una comunione ordinata per fini di difesa e di sviluppo economico, si traduce fin da tempo immemorabile nel diritto di ogni individuo o famiglia di tenere per sé una parte del territorio comune; soltanto la facoltà di alienare questa parte, che in certi ambienti (come ad Atene) è riconosciuta assai presto, trova invece altrove (p. es. a Sparta) un ostacolo difficile a sormontare nell'esigenza di una rigorosa eguaglianza fra i consociati. Resta comunque fermo il principio fondamentale, per cui la proprietà fondiaria è un riflesso della cittadinanza, e quindi inaccessibile agli stranieri: a parte le concessioni più o meno larghe a persone stabilmente domiciliate, e a parte le facilitazioni d'uso nelle federazioni, l'eccezione era possibile soltanto attraverso decreti che individualmente attribuissero il diritto di possedere, l'ἔγκτησις.

Entro il territorio cittadino, la proprietà pubblica è del tutto eccezionale: in Atene si riduce probabilmente al distretto minerario del Laurion, mentre lo sfruttamento di altre miniere è assicurato mediante regalia, lasciando salvo ai privati lo sfruttamento agricolo e industriale del soprassuolo.

Ma le cose cambiano nei territorî soggetti: qui la sovranita territoriale s'identifica, come nelle monarchie orientali, con la proprietà del suolo, e ogni concessione a privati è fatta con riserva del diritto eminente dello stato. Non solo ciò vale per le concessioni a indigeni, ma anche, benché le condizioni siano di gran lunga più favorevoli, per quelle fatte ai coloni provenienti dalla madre patria; e dalle applicazioni che se ne ebbero nelle colonie di Atene diviene regime normale dei paesi ellenistici, dove anche quella terra che porta il nome di ἰδιοκτητος (letteralmente, "in proprietà privata") paga allo stato un'imposta in riconoscimento del suo diritto poziore ed è soggetta a minuzioso controllo nei trasferimenti.

L'affermazione piena della proprietà individuale entro la città trova dunque resistenza solo nella proprietà familiare o gentilizia. Nella civiltà omerica, la sede e i mezzi di sussistenza (derrate e bestiame) sono della famiglia, mentre all'individuo appartengono il bottino di guerra, i profitti della pirateria e del commercio, le cose ricevute in dono: soltanto di queste categorie di beni, così intimamente legate all'individuo da dovere in massima essere seppellite con lui, egli può disporre anche a vantaggio di estranei. Gli atti di disposizione sui beni familiari, anche quando il costume e le leggi delle progredienti città li consentono, richiedono da principio l'intervento dei consanguinei, o altrimenti sono rescindibili a loro libito: tracce più o meno profonde di questo regime si trovano in certi ambienti fino in epoca assai avanzata, tanto da influire anche sugli ultimi sviluppi (greco-orientali) del diritto romano.

La proprietà è soggetta a limitazioni derivanti dai rapporti di vicinanza. Così una legge di Solone, pedissequamente imitata anche nei decreti dei Tolomei per Alessandria, determinava le distanze minime da osservarsi fra certe costruzioni, scavi, piantagioni e il confine del fondo. Altrettanto minutamente erano regolate, per quanto i particolari siano oggi controversi, le facoltà dei proprietarî circa il regolamento dell'afflusso di acque piovane. Colui nel cui fondo si trova un pozzo è tenuto a concedere ai vicini, se i pozzi pubblici sono lontani, la facoltà di attingere giornalmente una certa quantità di acqua. Altre norme regolano il diritto di passaggio per un fondo a favore dei proprietarî di fondi vicini interclusi, o per raggiungere il sepolcro familiare.

Ancora più interessanti sono le norme relative alla coltivazione e al raccolto delle olive, che nel diritto attico del sec. V si riducono a una serie di prescrizioni rituali in favore dell'albero sacro a Pallade Atena, ma nell'età dei Pisistratidi erano forse state intese ad assicurare alla città naturalmente povera di risorse, una fonte di ricchezza.

Un celebre frammento dell'opera di Teofrasto sulle leggi, controllato e integrato da un ricco materiale epigrafico e papirologico, conserva il ricordo dei varî sistemi di pubblicità nel trasferimento degl'immobili e degli schiavi: tale pubblicità non ha soltanto lo scopo di garantire gli acquirenti contro le alienazioni di cose altrui, ma anche di permettere allo stato un'esatta distribuzione dei carichi fra gli abbienti, nonché, nelle numerose costituzioni timocratiche, di facilitare l'iscrizione degli individui nelle varie classi della popolazione, misurando i diritti politici di ciascuno. Per i diversi sistemi v. egitto, XIII, p. 585; grecia, XVII, p. 892.

Molto controversa è la difesa giudiziaria della proprietà greca. Certo però la lite si svolgeva il più delle volte nella forma della diadicasia, un processo le cui parti non si presentavano nelle opposte vesti di attore e convenuto, anzi pretendevano ciascuna di esser riconosciuta come titolare del diritto controverso ed entrambe erano tenute a fornire la prova. Questo sistema, che rassomiglia singolarmente a quello praticato nella Roma antichissima (legis actio sacramento in rem), ha potuto rimanere in vigore per non essersi sviluppati in Grecia la dottrina del possesso (v.) e il conseguente principio che spetta al non possessore l'iniziativa dell'azione e l'onere della prova: un'ulteriore conseguenza è che per vincere la lite basta dimostrare che il proprio titolo a tener la cosa è più forte di quello vantato dall'avversario, causa ed effetto a un tempo di quella incertezza nella definizione giuridica della proprietà, di cui si è discorso in principio. Una vera e propria azione (δίκη), che è fra le più sicure applicazioni della tanto discussa δ. ἐξούλης, era data al vincitore della diadicasia contro il soccombente che gl'impedisse di prender possesso della cosa. k invece dubbio, e probabilmente da escludere, che le azioni note come δ. καρπῶν ("azione dei frutti"), δ. ἐνοικίου ("azione della pigione"), δ. οὐσίας ("azione del patrimonio") fossero usate in funzione di rivendicazione: piuttosto sembra che sostituissero la diadicasia in circostanze nelle quali un precedente vincolo fra le parti toglieva la necessità d'impostare la lite sulla proprietà, ad es. se il convenuto fosse inquilino o affittuario dell'attore, o se si trattasse di accertare l'appartenenza di una cosa a un'eredità.

Bibl.: L. Beauchet, Histoire du droit privé de la république Athénienne, III, Parigi 1897; E. F. Bruck, Totenteil und Seelgerät im griech. Recht, Monaco 1926; W. Felgenträger, Antikes Lösungsrecht, Berlino-Lipsia 1933; P. Guiraud, La propriété foncière en Grèce, Parigi 1887; U. Kahrstedt, Staatsgebiet und Staatsangehörige in Athen, Stoccarda 1934; P. Koschaker, Ueber einige griechischen Rechtsurkunden aus den östlichen Randgebieten des Hellenismus, Lipsia 1931, p. 49 segg.; G. A. Leist, Der attische Eigentumsstreit im System der Diadikasien, Jena 1886; J. H. Lipsius, Das attische Recht und Rechtsverfahren, Lipsia 1915, pp. 463 segg., 674 segg.; J. H. van Meurs, Rechtsgedingen over bepaalde goederen in oud-Hellecnse Rechten, Utrecht 1914; A. Momigliano, Sull'amministrazione delle miniere del Laurio, in Athenaeum, n. s., X (1932), p. 247 segg.; J. C. Naber, De proprietatis intellectu oratio tripertita, in Mnemosyne, LVII (1929), p. 175 segg.; id., Περὶ ἐνοικίου δίκης, in Aegyptus, XI (1931), p. 40 segg.; U. E. Paoli, Studi di diritto attico, Firenze 1930, p. 197 segg.; E. Rabel, Δίκη ἐξούλης und Verwandtes, in Zeitschr. Savigny-Stift., XXVI (1915), p. 340 segg. V. anche possesso.

Diritto romano.

Proprietà fondiaria. - Non si hanno tracce sicure, presso i Romani, dell'esistenza originaria di un vero regime di proprietà collettiva, intesa come proprietà incentrata nello stato e distribuita periodicamente alle famiglie, come invece vien fatto di riscontrare presso i Liguri e i Celti, nelle comunità indiane, nei diritti slavi, nella civiltà greca al tempo dei poemi omerici. L'esclusione di un comunismo agrario nelle origini non porta peraltro necessariamente a escludere una proprietà comune del consorzio gentilizio: secondo P. Bonfante la primitiva proprietà fondiaria romana è la proprietà gentilizia, nata sul fondo e su ciò che serve al fondo (res mancipi), identificantesi col territorio della gens e avente quel carattere politico di sovranità che essa poi conserva anche quando la disgregazione delle gentes, per il prevalere dello stato-città, determina il primo sorgere della proprietà familiare incardinata nel paterfamilias e comprendente indistintamente res mancipi e res nec maneipi.

Da alcuni storici si sostiene, sulla scorta dei risultati dell'indagine comparata (consorzî familiari a mani riunite dell'antico diritto germanico, mir russo, zadruga serba), che la proprietà familiare romana, anziché considerarsi originariamente proprietà incentrata nel capo di famiglia, sarebbe da qualificarsi una specie di proprietà collettiva indivisa. Questa opinione, che non pare sorretta da sicuri indizî, è contraddetta dalla struttura stessa della famiglia romana e del suo sistema successorio. Il perdurare del consortium tra fratelli (v. comproprietà, App., p. 144 seg.) è dopo la legge delle XII Tavole un'usanza sociale che nulla ha di coattivo e che si è perpetuata nell'istituto delle fraterne medievali e ancor oggi è viva nelle campagne d' Italia in quell'istituto delle comunioni tacite familiari, che trova nelle consuetudini la sua disciplina.

Il patrimonio dell'antico cittadino romano, tradizionalmente indicato con i termini familia, pecunia, familia pecuniaque, comprende il fundus, gli schiavi (considerati humana instrumenta), i greggi, gli armenti, gli attrezzi rurali e ogni altra cosa connessa con i bisogni dell'agricoltura (res mancipi). E, se il fundus è in origine l'heredium biiugerale, successivamente è il fundus sors, quello cioè attribuito al pater in seguito a limitatio (fatta probabilmente seguendo il rigoroso cerimoniale etrusco) e ad adsignatio. Vi è motivo di ritenere che a tali fundi limitati e adsignati si ricolleghi la denominazione di dominium ex iure Quiritium e che essi siano i soli che il proprietario in origine possa rivendicare con la formula: "aio hunc fundum meum esse ex iure Quiritium". In tale originario ambito la proprietà romana privata ha caratteri tipici: è perpetua, esclusiva, assoluta: non può essere acquistata che da cittadini romani, è immune da quella nota captivitatis (secondo l'espressione di Tertulliano) che è data dall'onere dell'imposta; entro i confini che la delimitano (iter limitare, se si tratta di fondi rustici; ambitus, se di fondo urbano) non tollera ingerenze di potestà estranee e assorbe necessariamente tutto quel che vi accede: è presidiata da sanzioni d'ordine sacro e religioso contro chi ne attenta all'integrità.

Contrapposta a questa stabile e perpetua attribuzione dell'ager limitatus è la concessione precaria dell'ager publicus, occupatorius, arcifinius: si tratta dapprima di un rapporto d'uso e di godimento, alienabile e trasmissibile, ma pur sempre sottoposto a revoca da parte dello stato concedente; via via, però, si venne riconoscendo a favore dei possessori una signoria di fatto che poi finì col rendersi stabile ed ereditaria, specialmente da parte delle grandi famiglie nobiliari: dopo la caduta dei Gracchi tali possessiones si trasformarono in dominio optimo iure. Divenuto, così, tutto il territorio italico di proprietà privata, anche i fondi italici (praedia in solo italico) vengono a comprendersi nella categoria delle res mancipi. Questa graduale estensione del dominium dall'ager romanus ai fondi italici è parallela all'estensione del diritto romano ai territorî dei Latini e degl'Italici e alla concessione ad essi fatta della cittadinanza romana.

Un fenomeno analogo si verifica successivamente, con l'estendersi del dominio di Roma oltre mare, per i fondi provinciali: agl'indigeni e agli stessi cittadini romani ne è consentito soltanto il possesso e il godimento (Inst., II, 7): essi debbono pagare un tributo periodico (detto stipendium nelle provincie del senato, tributum in quelle dell'imperatore); si tratta, quindi, quando un privilegio (il cosiddetto ius italicum) non la assimili a quella dei fondi italici, di una proprietà di rango inferiore per la quale i Romani non hanno un termine tecnico (nelle fonti il rapporto si designa con l'espressione: habere possidere frui licere): la distinzione fra i fondi italici e provinciali si attenua e finisce per scomparire quando, estesasi l'imposta fondiaria al suolo italico, vien meno ogni ragion di distinguere; ma solo da Giustiniano fu normalmente abolita.

Parallelamente a questo processo di espansione territoriale dell'antico dominium e giustificato dalle esigenze di un'economia più evoluta e dallo sviluppo dei nuovi rapporti sociali e commerciali, s'introduce l'istituto dell'in bonis habere, creazione del pretore determinata dallo scopo di proteggere non solo contro i terzi, ma contro lo stesso venditore, colui che ha acquistato una res mancipi senza le forme prescritte per la proprietà civile.

La riforma pretoria consiste nell'accordare all'acquirente di una res mancipi in base a semplice traditio una difesa analoga (exceptio rei venditae et traditae, actio Publiciana) a quella spettante iure civili in base a mancipatio o in iure cessio. Questa forma di proprietà bonitaria, di cui si rendono suscettibili le res mancipi acquistate senza atti solenni, messa in relazione con l'estendersi della tutela propria del dominio quiritario alle res nec mancipi, prima d'ora prive d'ogni difesa, salvo quella degli interdicta, spiega come l'originaria distinzione fra res mancipi e res nec mancipi si sia venuta attenuando fino a cadere in desuetudine. Tale distinzione, infatti, se appare logica per l'ordinamento arcaico romano che si fonda sulla modesta azienda agraria del pater familias costituita dal fondo e dai suoi originarî mezzi di lavoro (schiavi, animali da lavoro, servitù rustiche), è superata quando, dopo il sec. VI della repubblica, nuove ricchezze confluiscono a Roma dai mercati di Oriente, nuovi traffici dànno all'economia romana primitiva diverso assetto e orientamento, nuove esigenze di coltivazione e di commercio rendono angusta la concezione del fundus o della domus preparando l'avvento del fundus late patens dell'età imperiale e di quelle nuove speculazioni commerciali che hanno per oggetto la costruzione delle insulae o case di reddito.

Il dualismo tra il nudum ius Quiritium (così nelle fonti viene qualificato il dominio civile su una cosa sulla quale sussiste la proprietà pretoria) e l'in bonis, conservatosi per tutto il periodo classico, scompare definitivamente solo nel diritto giustinianeo, in cui, riconoscendosi uno stato di cose già da tempo affermatosi specialmente nelle provincie orientali, il nudum ius Quiritium vien definito antiquae subtilitatis ludibrium e conseguentemente vengono soppressi i modi civili di trasferimento delle res mancipi.

Scomparsa, infine, nel diritto giustinianeo altresì la proprietà peregrina (i magistrati romani l'avevano riconosciuta ai peregrini sforniti di ius commercii e l'avevano protetta con azioni fittizie), che aveva perduto la sua importanza con l'estendersi della cittadinanza romana ai peregrini e Latini, unica, come in origine, diviene la proprietà che appartiene ai cives (e tali sono ormai nella massima parte gli abitanti dell'impero).

Proprietà delle cose mobili. - Vi è divergenza fra gli storici del diritto romano circa l'originaria esistenza di una proprietà sulle cose mobili; giovandosi dell'analogia che si deriva dai sistemi giuridici di molte società primitive, alcuni pensano che le cose mobili (armi, vesti, ornamenti, utensili, ecc.) appartengono all'individuo in proprietà assoluta ed esclusiva quasi come continuazione della persona, prima ancora del sorgere della proprieta fondiaria; altri, invece, ritengono che fa proprietà non si distingue originariamente dal possesso (tale primitiva concezione si vuole anzi ritenere che non sia rimasta estranea allo stesso odierno ordinamento giuridico italiano attraverso l'antico diritto germanico e quello consuetudinario francese); ché, anzi, non manca chi è arrivato a sostenere che per l'antico diritto romano, non essendovi proprietà senza possesso, non altra difesa sia consentita per le cose mobili che quella contro il furto (R. Jhering).

Dalla natura della vindicatio romana primitiva, intesa come mezzo per determinare, attraverso il riconoscimento e l'attribuzione della proprietà, a chi spettasse di conservare o di ricuperare il possesso, si può indurre che in origine per il diritto romano il possesso delle cose mobili (res nec mancipi) dovesse valere come proprietà, con la conseguenza che la perdita o il ricupero del possesso importava perdita o ricupero della proprietà: questa coincidenza fra proprietà e possesso porta, perciò, a conchiudere che per le cose mobili solo in prosieguo di tempo la proprietà si vien separando dal possesso e si ha su di esse, come per gl'immobili, un diritto esperibile erga omnes.

Definizioni e caratteri della proprietà. - Manca nelle fonti una definizione della proprietà: secondo una delle pretese definizioni testuali il proprietario è "suae rei moderator et arbiter": ma c'è da osservare che il rescritto di Costantino (Cod., IV, 35, mandati, 21), da cui è desunta, non parla del proprietario, bensì del mandante, del dominus negotii. L'altra pretesa definizione è il celebre adagio dei dottori: la proprietà è il ius utendi et abutendi re sua, ispirato a una legge delle Pandette in cui si dice che i possessori di buona fede di fronte alla hereditatis petitio non sono tenuti si quid dilapidaverunt dum re sua abuti putant (Dig., V, 3, de hered. pet. 25, 11): qui il significato di abusus è consumare, non abusare. Una terza definizione è quella modellata sulla definizione di libertas (Dig., I, 5, de stat. hom., 4 pr.: "libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet nisi si quid aut vi aut iure prohibetur"), la quale si è facilmente mutata in una definizione della proprietà: proprietas est naturalis in re facultas, ecc. Forse la mancanza di una definizione si giustifica per il fatto che, in contrapposto al dominium, si affermano in Roma, come abbiamo accennato, peculiari figure di proprietà che per diversa via vennero assumendo una funzione economica e sociale prevalente: e che solo con Giustiniano raggiunsero una configurazione unitaria. Ciò non toglie che i Romani ebbero un preciso concetto della proprietà e dei suoi caratteri: per essi la proprietà è una signoria sulla cosa assoluta, esclusiva, perpetua. La proprietà per essi non è infatti una somma di singole facoltà o di diritti che si prestano a esser trasferiti: è un tutto unitario; lo ius utendi fruendi, che il proprietario ha sulla cosa, non è un diritto per sé stante. Il proprietario dispone liberamente della sua cosa per atti fra vivi o mortis causa: sono nulli i divieti privati di alienazione (pacta de non alienando) inseriti in contratti o testamenti, salvo che non siano giustificati da un plausibile motivo: al più valgono come mere raccomandazioni (nuda praecepta) nei testamenti.

In particolare la proprietà si estende a tutto ciò che si trova sopra o sotto la superficie; per i Romani il proprietario del suolo è proprietario anche dello spazio (coelum) che sovrasta il fondo e ne costituisce quasi il naturale prolungamento. Essi ignorano una proprietà delle piantagioni e delle costruzioni separata da quella del suolo (vale rigorosamente la regola: "quidquid inaedificatur vel implantatur vel seritur solo cedit"), mentre nell'antico mondo ellenico è, invece, antica e diffusa la proprietà delle arborature separata dal suolo e in molte regioni dell'Oriente è conosciuta, sia pure in epoca tarda, la proprietà per piani. Il proprietario del suolo è altresì proprietario delle miniere e delle cave che si trovano nel suo terreno e, in generale, del sottosuolo fino al limite segnato dall'interesse economico in rapporto all'uso che egli può fare del fondo. La proprietà è, infine, perpetua: solo Giustiniano non trova assurda una proprietà temporanea o revocabile.

Oggetto della proprietà. - Per i Romani oggetto di proprietà possono essere solo le cose corporali (il termine res indica nelle fonti le cose corporali in contrapposizione con le cose incorporali): essi non concepiscono proprietà su diritti o su entità economiche immateriali (le produzioni dell'ingegno sono da essi protette con le stesse azioni concesse a proteggere la personalità e la libertà). La cosa, inoltre, per essere oggetto di proprietà dev'essere individuata: per influenza delle teorie filosofiche e per esigenze pratiche essi, peraltro, non ebbero difficoltà ad ammettere che l'individualità possa essere creata artificialmente e considerarono oggetto di proprietà anche unità economiche, che elevarono a entità giuridiche, come, ad es., collezioni di cose inanimate, gruppi di animali e persino patrimonî destinati a taluni scopi.

Limiti legali del diritto di proprietà. - Fin dall'epoca delle XII Tavole i Romani riconoscono che la proprietà non si può concepire senza limiti e questi sono posti dalla legge o nell'interesse pubblico, ai fini della coesistenza sociale, o nell'interesse dei vicini. a) Limitazioni di diritto pubblico. Prescindendo da quelle relative agli schiavi e alla loro libera disposizione, ispirate sia da considerazioni di carattere economico sia da un senso di umanità dovuto all'influenza della filosofia greca e delle idee cristiane, sono qui più particolarmente da richiamare quelle dovute a riguardi religiosi (divieto di seppellire nel proprio fondo i morti, obbligo imposto ai proprietarî dei fondi vicini di concedere l'iter ad sepulchrum), o relative alla viabilità (obbligo dei proprietarî frontisti di curare la manutenzione della strada pubblica per il tratto di fondo che la costeggia; obbligo del proprietario di un fondo vicino al fiume, che ha reso intransitabile la via pubblica, di fornire il passaggio), alla fluitazione (obbligo del proprietario del fondo rivierasco di permettere ai naviganti di approdarvi o di scaricarvi merci o di transitarvi per trascinare con funi le navi o di stendervi reti, ecc.), all'edilizia (divieto fatto al proprietario dei materiali incorporati in un edificio o di semplici pertinenze di separarli compromettendo l'integrità o l'estetica dell'edificio; obbligo di eseguire le necessarie riparazioni agli edifici, di riedificare quelli ruinati o demoliti, di non alterare lo stato degli edifici da restaurare, di non costruire edifici eccedenti una determinata altezza o a distanza inferiore a una certa misura, che varia dalle XII Tavole alla legge Zenoniana).

È sempre oggetto di viva discussione, per lo meno per tutto il periodo classico, se sia da riconoscersi in Roma il diritto nello stato di privare il cittadino della sua proprietà nei casi di utilità evidente (costruzione di fori, terme, acquedotti, ecc.). Poiché è inutile cercare una disposizione esplicita nelle fonti, è da vedere almeno se questo diritto sia insito nella coscienza giuridica romana: accanto a testimonianze che parrebbero conchiudere per l'inviolabilità della proprietà privata (Cic., Ad Att., IV, 16, 8; Liv., XL, 51; Suet., Aug., 16; editto di Augusto relativo all'acquedotto della colonia di Venafro, in S. Riccobono, Fontes, I, p. 318), ve ne sono altre, invece, che sembrano deporre a favore dell'istituto (Liv., XL, 29; Val. Mass., Mem.,1, 12; 8, 2,1; Plin., Nat. Hist., XIII, 14, 84; Cic., De off., III, 16). A più sicure conclusioni si arriva per il periodo ellenoorientale: senatoconsulti e rescritti per detta epoca autorizzano per casi di pubblica utilità l'espropriazione della proprietà privata dietro compenso fissato talvolta arbitratu boni viri (Front., De aquis, 125, 128; Ulp., Dig., XI, 7, 12 pr., interpolato; Cod. Th., XV,1, 50). Giustiniano ammette l'espropriazione dei beni delle chiese mediante corrispettivo di altri beni o mediante concessione di un'immunità (Nov., VII, 2,1). Si può pertanto conchiudere che il diritto romano, se non arrivò a dettare una completa disciplina dell'istituto, ne intravide il fondamento e ne comprese la giustificazione facendo di esso un'applicazione di quel principio generale che nelle fonti è spesso ripetuto: "contemplatio publicae utilitatis privatorum commodis praefertur" (Paul., Sent., II, 19, 2). Giova infine rilevare che nell'interesse dell'agricoltura e anche del fisco nel periodo dell'impero le terre lasciate incolte si attribuiscono in proprietà a chi si assume l'obbligo di coltivarle o gli si concede un ius perpetuum salvo canone (Cod. Th., V, 13, 30) togliendo all'antico proprietario la facoltà di rivendicarle. b) Limitazioni di diritto privato. Tali limitazioni sono dettate per regolare la coesistenza fra fondi vicini e specialmente i rapporti di vicinato: servendo, così, in definitiva, pur sempre gl'interessi dell'agricoltura, dell'igiene, della sicurezza, della pace sociale. In parte note già alla legge delle XII Tavole e al diritto nazionale romano, sono particolarmente numerose nel diritto giustinianeo: obbligo di lasciare intorno al fondo rustico e urbano un sentiero della larghezza di cinque piedi, detto iter limitare o confinium nel primo caso, ambitus nel secondo; divieto di fare costruzioni o piantagioni o scavi presso il confine se non a distanza legale; obbligo di consentire al proprietario confinante di raccogliere i frutti del proprio albero caduti sul fondo vicino e di consentire al vicino di potare le sporgenze dell'albero fino a 15 piedi da terra.

Senonché qui si pone una questione che negli stessi termini si presenta per il diritto moderno: all'infuori di queste limitazioni legali è permesso al proprietario di fare sul suo fondo quel che egli vuole, quale che sia il danno che ne risenta il vicino, o invece è da ritenersi implicito, nel sistema del diritto romano, un ulteriore limite generale all'arbitrio del proprietario nell'interesse dei vicini? Si può esso desumere dalle limitazioni della proprietà fondiaria nelle fonti espressamente indicate? Che non sia da pensarsi a un divieto generale di immissione in base al principio "in suo alii hactenus facere licet quatenus nihil in alienum immittat" è evidente sol che si pensi che, se fosse così, s'impedirebbe la convivenza sociale, perché l'esplicazione di una qualsiasi attività necessariamente produce il più delle volte una propagazione di rumori, di esalazioni, di fumo o un'immissione di rami, di radici, in alienum, che entro determinati limiti pur debbono essere tollerate. Né maggior valore ha per il diritto romano il criterio molto vago dell'uso normale prospettato da R. Jhering, per cui solo l'uso normale della proprietà è concesso, non l'anormale: con tal criterio non è agevole determinare quali siano gli atti che possono essere impediti mediante l'actio negatoria o l'actio legis Aquiliae e quali gli atti che devono essere tollerati.

L'insufficienza di tali criterî discretivi per decidere ciò che al proprietario è lecito di fare, e ciò che gli è impedito per riguardo agl'interessi dei vicini, ha suggerito di far ricorso alla dottrina del divieto dei cosiddetti atti ad aemulationem, per cui debbono ritenersi illeciti gli atti che il proprietario compie senza, o con minimo, vantaggio proprio e solo con la maligna intenzione di nuocere al vicino. Senonché tale dottrina per il diritto romano classico certamente non trova base nelle fonti, nelle quali più volte si conferma che un atto in sé lecito resta tale anche se è compiuto animo nocendi; d'altra parte, i testi che potrebbero essere addotti in contrario (Dig., XXXIX, 3, de aqua et aquae pluv. arc., 12; ibid., 2, 5 e 9), nei quali si fa pure menzione dell'animus nocendi, sono evidentemente di fattura compilatoria. Inoltre, come ben rileva il Bonfante, la questione, ancor prima che dall'esegesi delle fonti, vien risoluta da quel peculiare carattere d'individualismo che anima l'istituto della proprietà romana alla stregua del quale deve valutarsi il noto aforisma: "dolo malo non videtur facere qui iure suo utitur"; è lo spirito genuino, insomma, del diritto romano che ignora una così grave e pericolosa limitazione del dominio; vero è che i compilatori hanno introdotto una serie di modificazioni particolari, ma essi non hanno perciò inteso distruggere quei principî sui quali s'incardina l'istituto della proprietà. Se il regime giustinianeo delle acque importa il divieto di alterarne il deflusso animo nocendi, ciò costituisce un ius singulare che non consente estensione analogica. La massima "malitiis non est indulgendum", che probabilmente Giustiniano è riuscito a interpolare nel celebre frammento di Celso (Dig., VI,1, de rei vind., 38) relativamente allo ius tollendi, è un criterio offerto al giudice in materia di mera equità, non è una regola che riguarda i rapporti fra proprietarî vicini (G. Segré). Conviene, pertanto, respingere sia la teoria con cui si afferma già per diritto classico l'esistenza del divieto, sia quella che attribuisce ai compilatori l'aver introdotto il divieto come principio generale.

Acquisto e perdita della proprietà. - A proposito dei modi di acquisto del dominio (che nelle fonti è indicato con le frasi adquirere dominium, adquirere rem, poiché come oggi nel linguaggio comune così anche in quello romano il diritto di proprietà è quasi idealizzato nella cosa stessa) ha rilievo anzitutto la distinzione fra modi di acquisto iuris civilis e modi di acquisto iuris gentium: i primi erano riservati ai cittadini romani ed erano i soli eon cui si rendesse in origine possibile l'acquisto del dominio sulle res mancipi; i secondi erano i soli accessibili ai peregrini che non avessero ius commercii e si distinguevano per l'assenza di ogni pubblica partecipazione e controllo. Solo attraverso l'assunzione delle res nec mancipi a oggetto di dominium e delle nuove figure della cosiddetta proprietà peregrina, bonitaria, provinciale si ammisero come mezzi di acquisto nel corso della repubblica taluni negozî o fatti naturali (occupazione, traditio, rinvenimento del tesoro, specificazione, separazione dei frutti, accessione). Abbandonati ormai dopo il sec. III i negozî iuris civilis per il trasferimento delle res mancipi, nuovi atteggiamenti e caratteri vengono assumendo due dei modi di acquisto già esistenti nel periodo classico: la tradizione e l'usucapione, in corrispondenza della nuova forma di proprietà costituita dalle risultanze delle quattro classiche figure. Altra distinzione è quella fra modi di acquisto di diritto pubblico e di diritto privato: si annoverano fra i primi la vendita sub hasta, la vendita a mezzo degli agenti del fisco, l'adsignatio, la legge. Non fanno, infine, i Romani esplicita distinzione fra modi di acquisto originali e derivativi, ma ciò non toglie che essi già la conoscano.

Il diritto di proprietà si perde per volontà del suo titolare o senza un suo atto di volontà. Casi di perdita volontaria sono il trasferimento e la derelictio. Quanto al trasferimento merita rilievo la recente dottrina di P. de Francisci (Il trasferimento della proprietà, Padova 1928), il quale dall'uso più frequente nei testi giustinianei della frase transferre dominium e simili, o dall'interpolazione di tali locuzioni, deriva argomento per sostenere che i giustinianei avrebbero inteso l'acquisto derivativo nel senso che con esso si attua un passaggio del diritto, che in sé resta identico, da un titolare all'altro (una tal forma di successione, detta "successione singolare", sarebbe stata quindi ignorata dai classici). Quanto alla derelictio c'è da osservare che la facultas derelinquendi veniva meno quando il fisco venisse danneggiato o fosse compromesso l'approvvigionamento dei mercati. Fra i casi di perdita involontaria si comprendono: la perdita materiale della cosa per distruzione (salvo il diritto del proprietario sui residui), per alluvione, per incorporazione, per sopravvenuta incommerciabilità della cosa; infine, a titolo di pena.

Tutela della proprietà. - La proprietà romana è difesa con varî mezzi. Prescindendo qui dalla difesa tipica che è data dalla rei vindicatio e che per i mobili è facilitata dall'actio ad exhibendum (v. rivendicazione), ci limitiamo a indicare quali sono gli altri mezzi a tutela delle varie specie di proprietà. Per quanto ha riferimento alla proprietà pretoria, la tutela di essa aveva luogo nei confronti del venditore sia con l'exceptio rei venditae et traditae, sia con l'exceptio doli allorquando, giovandosi della formale inefficacia del trasferimento della res mancipi avvenuta a mezzo di traditio, il venditore si facesse a ripeterla con la rei vindicatio; nei confronti dei terzi con l'actio Publiciana: l'acquirente poteva con tale azione ripetere dai terzi la res mancipi inefficacemente acquistata con la traditio (lo stesso è da dire per gli acquirenti in base ad altre cause di alienazione: dote, donazione, legato) fingendosi compiuto il decorso dell'usucapione. La proprietà dei peregrini era difesa da un'azione reale fondata sull'espediente della fictio civitatis; la proprietà provinciale da un'azione reale (vindicatio) di cui s'ignora la formula. Il proprietario era anche protetto con l'azione negatoria: storicamente è questa un'actio de servitute; con essa il proprietario di un fondo può fare accertare l'inesistenza di una servitù da altri su di esso pretesa; le fonti non risolvono il problema quale sia la prova che l'attore debba fornire: è forse da ritenersi più probabile l'opinione che, conferendo la proprietà un diritto esclusivo, il proprietario fosse tenuto solo a dimostrare il suo diritto ponendosi così a carico del convenuto la prova della sua pretesa. Il giudice, in caso di soccombenza del convenuto, lo condannava a rimettere le cose nel loro stato primitivo e a prestare una cautio de amplius non turbando.

Diritto medievale e moderno.

Definizione della proprietà. - L'istituto della proprietà romana resiste in Italia nelle sue linee e nei suoi caratteri essenziali a tutte le invasioni, sopravvive a tutte le rivoluzioni. Ben è vero che il cristianesimo primitivo, attraverso la dottrina dei padri della Chiesa, impronta le sue concezioni ai precetti della fratellanza, della carità, al dispregio di ogni bene terreno, quasi giustificando l'opinione che esso prepari l'avvento di una nuova società su basi comunistiche. Chi ciò pensasse non sarebbe però nel vero, poiché la Chiesa non ha mai dichiarato illegittima la proprietà né l'ha mai proibita: ha invece inteso trarre dalla proprietà con fervido zelo e assiduo apostolato nuova linfa di carità e di solidarietà sociale, e attingere la perfezione di un ordinamento sociale in cui la proprietà trascenda ogni umano egoismo. Così essa venne a inserire nella compagine del diritto romano imperiale principî nuovi, che nell'ultima sua fase attenuarono la rigorosa concezione della proprietà, la umanizzarono, la piegarono a nuove esigenze Il Riccobono ha potuto raccogliere tutta una messe cospicua di innovazioni che nelle fonti giuridiche romane dal sec. IV in poi sono ispirate alla nuova etica cristiana. Si è dubitato da qualcuno sull'importanza dell'influenza cristiana nell'ordinamento della proprietà romana affermandosi che le innovazioni risultanti dalle interpolazioni non rivelerebbero la genesi di nuovi istituti; ma ben si risponde che si tratta di qualcosa di più che di innovazioni singole e particolari; si tratta di uno spirito nuovo di humanitas, di filantropia, di socialità che suscita nel campo del diritto di proprietà tutta una serie di nuovi limiti, i quali restringono il libero potere di disposizione del proprietario, ne infrenano gli abusi in nome dell'interesse pubblico, rendono piò cordiale la coesistenza sociale.

La storia del diritto di proprietà dall'alto Medioevo alla rivoluzione francese ci documenta che, pur attraverso commistioni e deformazioni dovute alle invasioni barbariche e all'influenza del feudalismo (mai come per il Medioevo si nota l'esattezza del principio che le condizioni della persona si collegano indissolubilmente a quelle della proprietà fondiaria), nonché al soggiacere di essa alle pretese più disparate (gentilizie, familiari, vicinali), ai vincoli e agli oneri più diversi che ne limitavano la produzione e lo scambio (servitutes iuris germanici, regalie, censi, livelli), alle prestazioni più gravose di carattere personale e pecuniario, ai frazionamenti più arbitrarî e antieconomici (E. Chénon, Les démembrements de la propriété foncière en France avant et après la Révolution, Parigi 1923), l'istituto della proprietà individuale romana, con la sua disciplina rammodernata e ravvivata dai precetti dell'etica cristiana, riesce a sopravvivere nella dottrina del diritto comune.

Il codice civile italiano definisce la proprieta "il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta purché non se ne faccia un uso vietato dalla legge e dai regolamenti" (art. 436). Tale definizione ha tutta una sua storia che non può esssere trascurata. Se la moderna definizione deriva dal codice francese (art. 544) ed è l'espressione della dottrina individualistica della rivoluzione contenuta nella dichiarazione dei diritti del 1793, le sue più lontane scaturigini vanno ricercate nel movimento razionale da un lato (la scuola del diritto naturale) e nel movimento economico dall'altro (la nuova economia e la grande industria) che traevano di nuovo verso la libera individualistica idea della proprietà romana. Invero, durante tutto il Medioevo si perpetua un deciso antagonismo fra la dottrina che insiste sull'idea individuale romana del dominio e la pratica legislativa e consuetudinaria che vincola la proprietà immobiliare con una numerosa serie di restrizioni, le quali traggono origine e giustificazione da cause di ordine economico sociale e familiare, che costituiscono una vera camicia di Nesso vincolante ogni movimento del proprietario.

La definizione della proprietà, intesa come un potere esclusivo sulla cosa, appare già dominante nelle opere dei glossatori; la plena in re potestas e il ius plenum in re corporali che giustificano in questi antichi interpreti del diritto romano anche la distruzione della cosa, prepara la nota definizione di Bartolo: "dominium est ius de re corporali perfecte disponendi nisi lex prohibeat", alla quale si deve ricollegare la definizione della maggior parte dei codici moderni. Seguire la fortunata vicenda di questa definizione del dominio, che dal sec. XIV in poi non fu più abbandonata, significa rintracciare attraverso le varie scuole e le dottrine dei maestri e consulenti delle più opposte tendenze, sotto le scorie barbariche e feudali, le vestigia dell'istituto romano della proprietà, la cui nozione attraversa la vita giuridica del Medioevo come la corrente del Golfo le profondità dell'oceano, per sboccare benefica nella vita moderna. Né senza meraviglia vien fatto di constatare che quella definizione sia stata conservata anche da coloro che avrebbero dovuto condannare tutto ciò che, dai glossatori e commentatori in poi, era stato tramandato sul testo romano, cioè dai maggiori rappresentanti della giurisprudenza culta, Alciato e Cuiacio; questo ultimo ci dà un ampliamento della definizione di Bartolo ("Dominium est ius de re corporali perfecte disponendi aut vindicandi, nia quid lex aut conventio prohibeat", ma non la corregge né la migliora. Né minor meraviglia desta il constatare altresì come da quella definizione non si allontani nella sostanza neppure l'aspro censore di Rartolo, Hotman: quando, invero, dichiara essere il dominio "ius ac potestas in re propria tum utendi tum abutendi quatenus iure civili permittitur" si esplica con l'accenno al ius utendi et abutendi la facultas disponendi di Bartolo. E si deve proprio alle esagerate applicazioni di tale facultas abutendi, come quella che non conosce altri confini che l'eventuale danno altrui, posto in rilievo specialmnente dalla scuola di diritto naturale, il sorgere di nuovi scrupoli sulla irragionevole latitudine del concetto di proprietà comprensivo anche della distruzione improduttiva e l'affermarsi del nuovo orientamento della proprietà verso quel concetto di interesse economico e di vantaggio sociale che già sorprendiamo nelle fonti romane "expedit rei publicae ne quis re sua male utatur (Inst., I, 8, de his qui, 2). Invero Eineccio, che pur riconosce essere in facoltà del proprietario "destruere rem dominio suo subiectam et eandem corrumpere", sente la necessità di aggiungere "quamvis enim talis rerum nostrarum quae aliis prodesse possunt corruptio amori humanitatis repugnet" (Elem. iur. nat. et gent., I, c. XII, §§ 306-308), e di qualificare siffatti proprietarî "valde inhumani" cioè: antisociali, come ben traduce questo termine il Salvioni (in Riv. it. sc. giur., 1896, p. 302).

La nozione del diritto di proprietà, che la dottrina è così venuta elaborando attraverso le contraddizioni della pratica e i principî della rivoluzione francese, coincide con lo spirito della legge romana; prima ancora che nel pensiero dei compilatori del codice Napoleone e nelle discussioni del corpo legislativo, il concetto moderno di proprietà emerge nei motivi che ispirarono l'opera legislativa della rivoluzione, informata a quella generale tendenza individuale che dominava in Francia e che costituiva la temperie spirituale e filosofica di quell'epoca. E se, nel discorso pronunciato alla convenzione il 24 aprile 1793, Robespierre svolge il concetto che la proprietà è un'istituzione sociale, quando si tratta di definirla, egli non si sottrae al concetto e allo spirito romano, e proclama che la proprietà è il diritto che ha ciascun cittadino di godere e di disporre della porzione dei beni che gli è garantita dalla legge, tanto che il Duguit, nel suo Traité du droit constitutionnel (2ª ed., Parigi 1923, III, p. 610), dopo aver accennato ai diversi testi legislativi dell'epoca della rivoluzione, attinenti alla proprietà, propostasi la domanda in che senso fosse considerata la proprietà dai redattori di quelle leggi, risponde: "evidentemente nel senso romano della parola, nel senso cioè della destinazione esclusiva di una certa ricchezza ai bisogni dell'individuo, attribuendo a questo il potere di usare la cosa, di raccoglierne i frutti e di disporne".

A conferma degli ideali individualistici del codice francese sta il Trattato della proprietà di G. Pothier, in cui si riconosce l'illimitata libertà del proprietario di cambiare forma alla sua cosa, di deteriorarla, di distruggerla perfino (Oeuvres, Parigi 1831, X, p. 4). All'influenza del diritto romano non si sottrae neppure il codice austriaco. Lo riconosce lo stesso Zeiller, che ebbe parte cospicua nella redazione di quel codice, che s'informa, com'è noto, alla filosofia individualistica di Kant. Dispone infatti il par. 354: "La proprietà considerata come diritto è la facoltà di disporre a piacimento e a esclusione di ogni altro della sostanza e degli utili di una cosa". Ai principî individualistici della proprietà romana fanno omaggio anche le più recenti legislazioni (art. 348 cod. civ. spagnolo: "la proprietà è il diritto di godere e di disporre di una cosa senz'altre restrizioni che quelle stabilite dalla legge"; par. 903 cod. germanico: "il proprietario di una cosa, salvo contrarie disposizioni di leggi, e purché non vi si oppongano diritti di terzi, può disporne a suo piacimento e impedire che altri ne faccia uso"; art. 461 cod. svizzero: "Il proprietario di una cosa può disporne liberamente entro i limiti dell'ordine giuridico"; art. 524 cod. brasiliano: "La legge assicura al proprietario il diritto di usare, di godere e di disporre dei suoi beni e di farseli restituire da chiunque ingiustamente li possieda"; art. 765 cod. cinese del 1930: "il proprietario può, nei limiti delle leggi e dei regolamenti, liberamente usare della sua cosa, derivarne gli utili, disporne e escludere da essa ogni intervento di estranei").

La definizione data dall'art. 436 del cod. italiano, corrisponde allo scopo pratico di porre in rilievo il concetto più semplice e popolare della proprietà: quello della piena e libera disponibilità della cosa entro i confini della legge. Corretta di qualche espressione enfatica, la definizione si può anche approvare, tenendo presente che sono in definitiva le esigenze della vita sociale, economica, industriale, agricola riconosciute dalla legge, quelle che costituiscono il contenuto vero di una definizione, e conferiscono all'istituto il suo peculiare carattere. Il pregio maggiore della definizione del codice italiano è quello di renderla adattabile alle esigenze economiche di ciascun'epoca e quindi, come è stato ben detto, essa è meno antiquata di quanto si creda (B. Brugi, La defimzione legale della proprietà, in Riv. dir. agrario, 1922, p. 119 segg.). Non è il caso perciò di ricercarne altra più idonea o scientifica. Che se si volesse sostituire, sarebbe da preferirsi quella concisa del Bonfante: "La proprietà è la signoria più generale in atto o in potenza sulla cosa".

Caratteri del diritto di proprietà. - Anzitutto la proprietà è un diritto unitario, nel senso che la proprietà non è una serie di facoltà che siano, rispetto ad essa, autonome; ma è una signoria generale, di cui tutti i possibili poteri non sono che estrinsecazioni. È un diritto illimitato, per cui non è possibile determinarne positivamente il contenuto, ma solo negativamente, indicando ciò che al proprietario non è consentito, enumerando le facoltà che non rientrano nel contenuto normale del suo diritto, sia che questo limite derivi dalla legge, sia che derivi dalla concorrenza dell'altrui diritto. La proprietà inoltre è un diritto virtualmente universale, in quanto che, se eventualmente una o più facoltà sono sottratte al proprietario per il concorso di altri diritti o per effetto di vincoli stabiliti dalla legge, la proprietà conserva la virtù intrinseca di riespandersi, di ritornare alla sua più lata comprensione, di riprendere la sua naturale universalità, non appena quei pesi o vincoli, che la comprimono, vengano a estinguersi. In questo senso si parla di elasticità del diritto di proprietà: è merito di V. Scialoja aver dato rilievo a tale fondamentale carattere del dominio: esso spiega la natura giuridica delle servitù che non si possono considerare, come era ritenuto dall'antica dottrina civilistica, come uno smembramento della proprietà, come porzioni staccate di dominio (i diritti di servitù si dissero per ciò, ma non certo correttamente, diritti frazionarî), ma sibbene come limitazioni della proprietà. La proprietà, anche nel nostro sistema moderno, è un diritto assoluto; il che non esclude che essa venga dalla legge circoscritta, per la tutela di interessi privati e pubblici, in determinati confini: essi nei riguardi degl'immobili più che costituirne un limite ne determinano lo stato normale; nei riguardi delle cose mobili sono diretti ad agevolarne la circolazione e a proteggere la buona fede dei terzi (art. 707, 1126 cod. civ.). Al carattere di assolutezza del diritto di proprietà si riconnette la questione circa la validità dei patti o delle clausole con cui si vieta all'acquirente di disporre della cosa. La questione, già posta nel diritto romano da un rescritto degl'imperatori Severo e Antonino (Dig., XXX, de leg., 114, 14) e risoluta nel senso che tali divieti sia nei testamenti, sia nei contratti erano da riconoscersi validi solo nel caso che il disponente avesse dimostrato un plausibile motivo nell'imporli, si risolve nel diritto moderno in questo senso: sono nulle le clausole con cui si fa divieto in modo perpetuo e assoluto di alienare un determinato bene, poiché, come si legge in un'antica sentenza della cassazione napoletana "lasciare la proprietà e impedire di disporne, torna lo stesso che distruggere l'essenza del diritto di proprietà", dato che la libera commerciabilità è un principio di ordine pubblico; quando, invece, si tratti di proibizioni relative o temporanee, invece, sempre che esse siano giustificate da un serio interesse del disponente o a vantaggio proprio o di terzi, o di colui cui la disposizione è diretta, sono da ritenersi valide.

Connesso al carattere di assolutezza è il carattere di esclusività. In esso si assommano tutte le facoltà riconosciute dall'ordinamento giuridico al proprietario per assicurargli l'autonomo e indipendente godimento della cosa sua: facoltà di chiudere il fondo, di stabilire i termini della proprietà, di rivendicare la cosa; in questo senso il diritto di proprietà conserva rispetto ai iura in re aliena un posto di supremazia, poiché, mentre questi sono subordinati alla proprietà altrui, la proprietà invece conserva rispetto a essi una preponderanza giuridico-economica. Ma è forse questo il carattere più soggetto a restrizioni e limiti, è il punto di irruzione nell'istituto della proprietà di tutte le deroghe che imprimono un carattere sociale all'istituto della proprietà. Altro carattere infine della proprietà è quello della perpetuità: carattere normale, per altro, non essenziale; se quindi è da riconoscersi come tipo la proprietà perpetua e irrevocabile, esso è però contornato da varie eccezioni dipendenti dalla legge e dalla volontà delle parti (cfr. M. Allara, La proprietà temporanea, in Circolo giuridico, 1930, n. 2).

Oggetto del diritto di proprietà. - È viva nella dottrina civilistica moderna la tendenlza a estendere, in contrasto col diritto romano, il concetto di proprietà anche alle cose incorporali in quanto esse costituiscano entità economiche per sé stanti, e siano capaci di signoria diretta e indipendente da un'attività altrui. Il legislatore italiano è rimasto fermo alla nozione del diritto di proprietà inteso con esclusivo riferimento alle cose corporali; infatti, egli si è preoccupato di escludere dalla definizione della proprietà il diritto degli autori sulle opere dell'ingegno. Sulla stessa direttiva è anche il legislatore tedesco, in quanto esplicitamente nei motivi di quel codice si dichiara che l'analogia fra la proprietà e taluni altri diritti assoluti, fra i quali il diritto di autore, non conduce a generalizzare il concetto di proprietà. La questione è, più che altro, di parole; una volta, infatti, che non si discute del loro carattere patrimoniale, non vi è ragione di escludere dal concetto di proprietà anche tutte quelle signorie generali su beni immateriali, che garantiscono ai titolari un'esclusiva e diretta utilizzazione economica e la tutelano contro le usurpazioni con azioni che hanno lo scopo di riservarne l'esclusiva spettanza al loro titolare. La stessa terminologia comune qualifica, del resto, queste potestà su beni materiali come proprietà: così si parla di proprietà letteraria, artistica, industriale, di proprietà dei marchi, di proprietà delle insegne. Sono recenti le discussioni sull'ammissibilità di una proprietà dell'avviamento (art. 69 r. decr. 9 aprile 1921) detta, anche, proprietà commerciale (v. sotto: Proprietà commerciale), quantunque l'avviamento, più che un bene con carattere autonomo, si debba considerare come una qualità dell'azienda. Non meno discusso è il concetto di proprietà scientifica: essa consiste nell'attribuire allo scienziato una specie di diritto di autore sulla sua scoperta e un conseguente droit de suite sulla medesima. Secondo F. Ruffini, che ne è stato uno dei convinti fautori, quando di una scoperta scientifica di cui non si possa contestare la priorità e l'appartenenza, sia fatta da altri un'applicazione industriale utile e redditizia, dovrebbero spettare allo scopritore un diritto e una percentuale dei profitti. In sostanza, ammesso il concetto, si tratterebbe di una nuova forma di proprietà intellettuale a cui, peraltro, a differenza di quanto si riscontra nella privativa industriale e più nettamente nel diritto di autore, mancherebbe il carattere di esclusività e che avrebbe per oggetto più che una cosa, un bene. Il Ruffini nel suo Rapport sur la propriété scientifique alla Società delle nazioni (Ginevra 1923) e successivamente in scritti varî sull'argomento (La propr. scientifica, in Atti Soc. ital. progr. scienze, Napoli 1924, p. 42 segg.; Scienza e industria, in Nuova Ant., IV, 1924, p. 289 segg.; De la protect. internat. des droits sur les øuvres littér. et artist., Parigi 1927) propose, ai fini della protezione internazionale della proprietà scientifica, una convenzione con cui la retribuzione agli autori per le scoperte scientifiche si dovrebbe fare mediante il sistema della partecipazione al profitto derivante dall'applicazione industriale della loro scoperta e, in determinati casi, dovrebbe farsi dallo stato, mediante prelievo dalle industrie; secondo la convenzione stessa le controversie di priorità e di merito scientifico si dovrebbero sottoporre ad arbitrato internazionale; per opera e col controllo della Società delle nazioni si dovrebbe, infine, costituire un'unione di stati per la protezione di tale proprietà alle dipendenze dell'ufficio di Berna.

Non è oggetto di proprietà il nome civile, poiché non ha carattere patrimoniale; non lo sono egualmente i titoli onorifici e nobiliari, gli stemmi, i predicati, le qualifiche nobiliari anche se da taluni definiti come proprietà onorifica; la stessa legge, del resto (art. 5 r. decr. 20 marzo 1924, n. 442, contenente disposizioni per disciplinare l'uso dei titoli e attributi nobiliari), parla di appartenenza, evitando ogni allusione al diritto di proprietà (cfr. altresì il r. decr. 21 gennaio 1929, n. 61, sull'ordinamento dello stato nobiliare). È universalmente riconosciuto, invece, come oggetto di proprietà il nome commerciale, che è un bene alienabile in quanto suscettibile di valutazione economica e oggetto idoneo di acquisto mediante occupazione (prevenzione). Da escludersi è un diritto di proprietà sulla propria immagine: il diritto ad essa non è che una manifestazione del più ampio diritto della personalità; l'immagine, quindi, non è protetta per sé stessa come appartenenza o emanazione della persona stessa, ma solo in quanto ne venga offesa la personalità (cfr. art. 11 r. decr. legge 7 novembre 1925, n. 1951, sul diritto di autore).

Quanto alla proprietà delle lettere l'art. 12 della legge sul diritto di autore dispone che il diritto di pubblicarle spetta all'autore, ma non si può esercitare senza il consenso del destinatario. Da escludersi altresì è la proprietà del cadavere; più fondatamente è da accogliersi la dottrina di F. Ferrara (Tratt. dir. civ., Roma 1921, I, p. 398) circa la natura familiare del diritto sul cadavere.

Limiti al diritto di proprietà. - Limiti esterni. - Il problema si presenta praticamente solo in ordine alla proprietà fondiaria: le cose mobili hanno limiti posti dalla loro stessa natura. Se í confini della proprietà fondiaria alla superficie del suolo risultano spesso da segni visibili (kudurru babilonesi, ὅροι greci, lapides signatae o arbores notatae presso i Romani), o sono documentati da pubblici registri, ardua invece si presenta la questione dei confini della proprietà al di sopra e al disotto della superficie, cioè nello spazio aereo e nel sottosuolo. L'art. 440. cod. civ., affermando che la proprietà del suolo implica la proprietà dello spazio soprastante e di tutto ciò che si trova sopra e sotto la superficie, arriva all'assurdo di estendere la signoria del proprietario sino all'irraggiungibile. Più precisi il codice germanico (par. 905), il codice svizzero (art. 667) e il codice brasiliano (art. 526), nei quali si afferma che il proprietario, pur estendendo il suo diritto al disopra e al disotto della superficie, non può tuttavia vietare quelle operazioni le quali siano intraprese in tale altezza o profondità ch'egli non abbia interesse a escluderle. La giurisprudenza odierna, per quanto riguarda lo spazio al disopra della superficie, è orientata nel senso che il proprietario deve restringere il suo diritto a quella sola parte dell'atmosfera che normalmente è utilizzabile per l'uso e il godimento del suo fondo (costruzioni e piantagioni d'ogni genere: Cass. Regno, 28 aprile 1934, in Mass. Foro it., 1934, n. 241). Quantunque solo su taluni punti il legislatore abbia dettato norme concrete (ad es., sul collocamento di fili aerei per la trasmissione dell'energia elettrica), tuttavia nella complessa varietà dei casi è necessario ispirarsi ai principî generali derivanti sia dalla libertà della navigazione aerea, sia dal concetto della sovranità dello stato sullo spazio atmosferico: a questi principî sono ispirate sia la legislazione interna che stabilisce norme per la navigazione aerea (r. decr. legge 20 agosto 1923, n. 2207) sia le convenzioni internazionali (A. Giannini, Le convenziom internaz. di dir. priv. aeronautico, Roma 1933). Per quanto riguarda poi la proprietà del sottosuolo, è da osservare che la recente legislazione ha sottratto al proprietario ogni potere di disposizione sul sottosuolo minerario (v. miniera: Diritto). Fuori di questa ipotesi si applica il principio che il limite della proprietà del sottosuolo è segnato dalla possibilità per il proprietario di un'utilizzazione economica di esso, secondo quelle che sono le disponibilità della tecnica di ciascun tempo.

Limitazioni legali. - Sono anche dette, quantunque impropriamente, nell'art. 533 cod. civ. it. servitù legali (in difesa di tale terminologia, cfr.V. Scialoja, in Riv. dir. civ., 1932); rinviando alla voce servitù legali per una più ampia nozione delle limitazioni nell'interesse privato, qui ci fermiamo più particolarmente su quelle stabilite nell'interesse pubblico. Esse sono comuni a tutte le proprietà e perciò di regola non danno diritto a indennizzo, salvo che il vantaggio non sia raggiunto esclusivamente col sacrificio del singolo privato, come nel caso di espropriazioni di immobili o di requisizione di beni mobili, che costituiscono i casi-limite di subordinazione della proprietà ai bisogni superiori della collettività (v. espropriazione; requisizione).

Queste limitazioni riguardano i beni mobili e gl'immobili, le cose corporali e i beni immateriali (ad es., le invenzioni industriali brevettate); restringono più o meno intensamente nel proprietario le sue facoltà di uso, di godimento, di disposizione, lo obbligano a compiere determinate opere o gli proibiscono di compierle; sono temporanee o perpetue. In minima parte sono contenute nel codice civile (articoli 438, 534, 556, 572, 588, ecc.); nella maggior parte sono previste e disciplinate in leggi speciali di carattere amministrativo, finanziario, militare, in regolamenti anche provinciali e comunali o finanche in consuetudini locali. Si traducono in divieti (limiti al contenuto positivo della proprietà) e in comandi (limiti al contenuto negativo); i divieti sono di alienazione o di esportazione (così per le cose aventi pregio d'arte o archeologico), di costruzione o di demolizione (per la tutela del paesaggio o per la conservazione del patrimonio artistico, storico, boschivo), di coltivazione o di uso, di caccia o di pesca; di industria e di commercio (armi, esplosivi, veleni, medicinali, ecc.); i comandi riguardano l'obbligo di destinare il proprio fondo a determinate colture, di attenersi nella costruzione di un edificio a determinate prescrizioni nell'interesse della statica (zone terremotate) o dell'estetica edilizia; di sopportare l'appoggio di mensole e sostegni per condutture elettriche o telefoniche sul proprio edificio o il passaggio di esse attraverso il proprio fondo; di eseguire il rimboschimento di talune zone per finalità idrologiche; di procedere a bonifiche di terreni paludosi mediante la costruzione di consorzî obbligatorî (v. miglioria); di riparare la strada pubblica per la parte prospiciente il proprio fondo; di consentire l'uso temporaneo o l'occupazione delle proprie cose mobili o immobili per esigenze pubbliche. Queste, e altre, limitazioni (di cui si può vedere un elenco ben più completo in F. Vassalli, Il diritto di proprietà, in Atti del I Congr. giur. it., Roma 1933) che, già numerose nel periodo di guerra e nel dopoguerra, si sono intensificate nella legislazione fascista, pongono in luce l'elemento sociale della proprietà; più che considerarsi deviazioni rispetto al principio dell'inviolabilità del diritto di proprietà (proclamato nell'articolo 29 dello statuto e nell'art. 438 cod. civ. per ragioni storiche e per evitare preoccupazioni sul ritorno di vecchi istituti e abusi) sono le caratteristiche della funzione pubblica del diritto di proprietà.

Storicamente oggi superate, quantunque non tutte ingiustificate, le limitazioni della proprietà (prelazioni e retratti) imposte, soprattutto rispetto all'alienazione dei beni, per riguardo alla famiglia, agli eredi, ai vicini, ai condomini, si domanda se, oltre le limitazioni esplicitamente disposte in norme legislative, si debba nel nostro sistema ritenere implicito un principio di carattere generale che stabilisca un ulteriore e più comprensivo limite all'attività del proprietario ai fini dal contemperamento sociale della proprietà privata. Da molti si afferma che questo limite è dato dal divieto degli atti ad aemulationem, teoria già sostenuta per il diritto romano. Le vicende storiche di tal divieto, magistralmente tracciate da V. Scialoja (Aemulatio, in Enc. giur. it. e in Scritti giur., II, Roma 1934, p. 199), mentre rivelano quale generale applicazione e quale largo favore il divieto ebbe presso i glossatori, i commentatori, i canonisti, ci fanno conoscere altresì che nei secoli XVII e XVIII, col prevalere delle tendenze positive e individualistiche, si venne a una revisione della teoria medievale, la quale, attraverso un intricato sistema di presunzioni e di coniecturae circa la prova dell'animus nocendi, ne aveva esaurito ogni principio vitale. L'avere quindi il codice Napoleone (e sulle sue tracce il legislatore italiano) omesso di disciplinare il divieto dopo una così larga fama avuta nella pratica precedente, è grave argomento per escluderlo. Inoltre, implicando esso un'indagine sull'intenzione, si lascerebbero in definitiva all'arbitrio del giudice i limiti di garanzia e di protezione del proprietario: infine, sarebbe un criterio insufficiente, poiché resterebbe pur sempre a decidere circa la liceità o meno di atti compiuti senza intenzione maligna, ma che pur tuttavia sono nocivi pel vicino, e viceversa sarebbe sempre dubbio se debba perseguirsi come illecito l'atto compiuto animo nocendi, quando il danno del vicino sia assai tenue e tollerabile. Un'autorevole dottrina (F. Filomusi-Guelfi, B. Brugi, B. Dusi) e la nostra giurisprudenza sono peraltro favorevoli al divieto degli atti emulativi in quanto essi costituiscono un uso antisociale della proprietà. Le più moderne legislazioni (cod. germ., par. 226; cod. svizz., art. 2; cod. brasil. art. 160; cod. cinese, art. 148) sanciscono il divieto con disposizione di carattere generale; reprimono il manifesto abuso, in genere, del proprio diritto (in senso conforme l'art. 74 del prog. italo-franc. delle obbligazioni: cfr. F. Maroi, Il progetto it.-franc. delle obbl., Modena 1928, par. 18). Allo stato della legislazione italiana è solo da riconoscersi nel nostro sistema l'esistenza di un limite generale all'attività del proprietario nell'interesse dei vicini fondato su un criterio obiettivo che è stato dal Bonfante determinato con riguardo alle generali necessità imposte dalla coesistenza sociale: sono cioè da ritenersi illeciti gli atti del proprietario che costituiscano invasioni nella sfera interna della proprietà del vicino, purché tali invasioni o immissioni non siano il portato di necessità naturali o sociali. Verso questo concetto si va orientando anche la più recente giurisprudenza italiana (che desume l'esistenza del divieto dall'applicazione estensiva dell'art. 574 cod. civ.: Cass. Regno 13 febbraio 1932 in Foro it., 1932, n. 322; 9 agosto 1934, in Mass. Foro it., 1934, n. 549).

Modi di acquisto della proprietà. - Sono quei fatti giuridici in base ai quali la legge riconosce a un determinato soggetto il diritto di proprietà sulla cosa. È, quindi, la legge la causa prima di ogni acquisto. L'art. 710 cod. civ. non è tassativo: esso indica i principali modi di acquisto; sicché non vanno esclusi: l'accessione, il possesso di buona fede dei mobili, la sentenza, nonché tutti quei casi in cui alla volontà del proprietario si sostituisce la volontà della legge: il che si verifica, oltre che nella successione legittima, nell'aggiudicazione, nella vendita del pegno, in quella forzata giudizile, nella confisca a favore dello stato.

I modi di acquisto sono originarî e derivativi: nei primi (occupazione, accessione, usucapione) l'acquisto è giustificato da un rapporto diretto della persona con la cosa, indipendentemente da ogni rapporto con un precedente proprietario che può non esserci o, se c'è, perde la proprietà pur contro la sua volontà; nei secondi (convenzione, successione ereditaria, legato) l'acquisto si opera per effetto del trasferimento della proprietà da un precedente in un successivo titolare che l'accetta quale era in testa al suo autore, con gli stessi oneri e con gli stessi limiti. La distinzione, che si ricollega alla bizantina translatio dominii, insinuatasi nei documenti dell'alto Medioevo, si trova nettamente precisata in Grozio (De iure belli ac pacis, III,1) e poi nei giusnaturalisti: alla loro dottrina si informano il cod. Napoleone, e, sulle sue tracce, quello italiano: è merito della scuola italiana (P. Bonfante, C. Longo) aver dimostrato come l'utilità del concetto generale di successione, sulla quale si fonda la distinzione dei modi di acquisto originarî e derivativi, sia dogmaticamente molto dubbia.

Si è molto discusso se nel diritto moderno, a differenza del diritto comune, si possa distinguere il titolo di acquisto dal modo di acquisto, il titulus dal modus adquirendi (cfr. P. Hoffmann, Das Dogma von titulus u. modus adquirendi, Vienna 1873); e quindi se, ogniqualvolta si acquista un diritto di proprietà, si debba riferire il modo di acquisto a un giusto titolo. Occorre rilevare che il sistema italiano non riconosce un'obbligazione astratta dal rapportti fondamentale diretto al trasferimento del dominio: riconosce bensì l'immediato verificarsi del trapasso della proprietà in base a un negozio potenzialmente traslativo di dominio e non mai in base al mero atto di consegna. Il vero è, quindi, che, se si può in ogni atto di acquisto distinguere il momento giustificativo, o causa, dalla volontà dalle parti e in particolare dalla volontà di acquistare, l'espressione di questa è sempre necessaria e il modus è una torbida rappresentazione di essa. Si ha motivo perciò di escludere nel diritto italiano, come nel diritto romano, l'insidiosa distinzione fra titulus e modus adquirendi che, accolta dagli antichi commentatori, trova largo seguito invece nella dottrina tedesca giustificata dal sistema di quel codice: né può dirsi che la consensualità e la trascrizione stiano a testimoniare la distinzione fra titolo e modo di acquisto, tenuto conto che in Italia la trascrizione non è un modo di acquisto della proprietà.

Il codice italiano ignora il lavoro come causa di acquisto di proprietà: anche in questo punto si è attenuto al sistema romano che non considerò mai, diversamente dal diritto germanico, il diritto di proprietà su di una cosa come conseguenza del lavoro impiegato nella cosa stessa (cfr. V. Simoncelli, Il principio del lavoro come elemento di sviluppo di alcuni istituti giuridici, in Riv. it. sc. giur., 1888, 65; E. Loncao, L'accessione e il principio del lavoro nell'antico diritto germanico, in Riv. it. sociol., 1908). Quel che non vien riconosciuto dal diritto positivo, si riconosce però dal diritto consuetudinario di alcune regioni che ammettono forme di proprietà superficiaria (specialmente arborature) sulla base del lavoro: forse residui di talune specie di enfiteusi dell'Italia bizantina, forse relitti di una pratica che ha origini ben più remote. Il lavoratore di buona fede, che ha migliorato con la sua industria la cosa o il fondo altrui, è oggi tutelato solo con il ius retentionis: il lavoro in altri termini produce solo un diritto di credito verso il proprietario della cosa, non un diritto reale, e tale ragione di credito non è sempre sufficientemente garantita: condizione di cose che reclama riforme. (Secondo l'art. 125 della nuova costituzione della Repubblica degli Stati uniti del Brasile 16 luglio 1934 un Brasiliano che occupi per dieci anni un pezzo di terra altrui rendendolo produttivo col suo lavoro ne acquista la proprietà mediante sentenza trascritta nel registro degl'immobili).

tutela della proprietà. - Varî sono i mezzi di difesa della proprietà che l'ordinamento giuridico mette a disposizione degl'interessati: varî secondo la natura e l'intensità dell'attacco al quale la tutela viene contrapposta. L'attacco del terzo può arrivare a disconoscere in pieno la signoria dell'attuale titolare del diritto di proprietà, spogliandolo del possesso della cosa: il terzo così viene ad assumere di fronte alla cosa quella posizione di signoria che l'ordinamento giuridico vuole garantita al proprietario. Ma l'attacco può limitarsi anche alla pretesa di un diritto parziale sulla cosa: al titolare della cosa non se ne contesta da parte del terzo né la proprietà né il possesso, sibbene quella esclusività e pienezza di godimento che l'ordinamento giuridico riconosce a ogni proprietario.

A tale duplice attacco risponde una duplice difesa: l'azione di rivendicazione nel primo caso, l'azione negatoria nel secondo caso: entrambe di carattere reale. Ma non si esaurisce con tali azioni la difesa della proprietà: il proprietario ha a sua disposizione azioni personali a tutela del suo diritto: così ha l'azione di danni per ogni lesione proveniente da delitto o quasi delitto o da un fatto altrui ingiusto: con tale azione si attua la tutela repressiva del diritto di proprietà, si reagisce contro attacchi già concreti e in atto. L'ordinamento giuridico gli appresta mezzi di difesa altresì contro la minaccia di un danno alla propria cosa da parte della cosa altrui o ad opera di un terzo e autorizza il giudice a concedere provvedimenti d'indole interinale o conservativa per allontanare il pericolo ed evitare il danno. A questo scopo sono dirette le azioni di nunciazione (azione di denuncia di nuova opera e di danno temuto) con le quali si attua la tutela preventiva della proprietà (esse possono però essere esperite anche dal possessore).

Sono, infine, comprese nel novero delle azioni poste a tutela della proprietà alcune azioni che sono piuttosto estrinsecazioni del diritto di proprietà. Così spetta al proprietario un'azione contro il vicino per obbligarlo ad apporre a spese comuni i termini fra proprietà contigue (azione per apposizione di termini), a evitare eventuali sconfinamenti ed eventuali rivendicazioni; nel che si esplica l'efficacia di tutela preventiva dell'azione. Non altrimenti spetta al proprietario un'azione per regolament0 di confini, con la quale si chiede la determinazione dei confini incerti e di conseguenza la restituzione di quella parte del fondo che eventualmente sia posseduta dal vicino, e che ha quindi carattere personale e reale a un tempo ed attua una tutela preventiva e repressiva della proprietà.

Restano fuori dal nostro argomento le azioni possessorie: di esse può naturalmente avvalersi anche il proprietario in quanto possessore: ma il loro carattere è del tutto speciale (v. possesso: Azioni possessorie). Il proprietario può avere interesse a farsi riconoscere possessore e a fruire della tutela possessoria in quanto può così conseguire il vantaggio di sostenere la più comoda parte di convenuto in un futuro giudizio petitorio.

È discutibile se sia ammessa un'azione che accerti preventivamente il diritto di proprietà (cfr. per l'affermativa E. Betti, Rivendicazione e azione di mero accertamento della proprietà, in Temi Emil., 1925, p. 696 segg.: Cass. Regno 3 luglio 1934, in Mass. Foro it., 1934, n. 434). È invece da escludersi che l'azione Publiciana sia sopravvissuta nel diritto italiano, sia pure nella forma più temperata di una rivendicazione che non richieda la prova rigorosa di essa. La Publiciana era un istituto che il codice italiano ignora perché son venute meno le condizioni sociali ed economiche che lo giustificarono per il diritto romano (cfr. P. Bonfante, in Scritti giur., II, p. 349 segg.; A. Ascoli, in Foro it., I, 1911, c. 1117 segg.).

Perdita della proprietà. - La perdita della proprietà, come di ogni altro diritto in generale, è assoluta quando si estingue per sempre e per tutti (ad es.: per distruzione dell'oggetto; per esser divenuta la cosa extra commercium, per riacquisto della naturale libertà degli animali selvatici catturati); è relativa quando si verifica in rapporto al solo titolare della cosa; ciò può avvenire per contratto traslativo, per legge (confisca, accessione, usucapione, invenzione), per sentenza giudiziale (espropriazione per pubblica utilità), per risoluzione, revoca, annullamento, rescissione di un contratto traslativo già conchiuso.

Diverso dalla perdita è il caso della quiescenza del diritto di proprietà: la proprietà quiescente è una proprietà in potenza; essa riprende la sua efficacia col venir meno dell'ostacolo che ne impedisce al suo proprietario la rivendicazione o il godimento: così nel caso della proprietà dei materiali congiunti all'edificio altrui e di cui la rivendica è sospesa finché dura la congiunzione, nel caso di fondo inondato, e, secondo alcuni, dell'alveo abbandonato (cfr. sulla questione per il dir. romano A. Guarneri-Citati, Reviviscenza e quiescenza nel dir. romano, in Annali univ. di Messina, 1927, p. 37 segg.; id., Appunti critici in materia di accessione nel dir. rom., in Annali univ. Macerata, 1929, p. 260 segg.; id., L'alveo abbandonato e l'antico proprietario del terreno, in Riv. dir. civ., 1927, p. 209 segg.; U. Ratti, in Studi in onore di P. Bonfante, I, p. 265 segg.).

La proprietà in regime fascista. - La dottrina fascista, concezione eminentemente spiritualistica, non può non aver come suo caposaldo il rispetto della proprietà privata, tipica espressione della personalità umana, che, abolita, porterebbe gli uomini a un'eguale servitù se non tendesse fatalmente a risorgere come sta verificandosi in Russia (quantunque ivi la costituzione del 10 luglio 1918 abbia proclamato il principio: "Lo stato comunista è l'unico titolare del diritto di proprietà. Tutte le terre sono considerate come appartenenti alla nazione intera e sono trasmesse ai lavoratori senza indennità sul principio della eguaglianza di godimento"; cfr. W. Largu, Il diritto di proprietà nella legislaz. civ. sovietica, Torino 1932). La disciplina della proprietà in regime fascista è ispirata al concetto della solidarietà sociale e familiare.

Solidarietà sociale. - Affermandosi nella Carta del lavoro che la produzione, e quindi la proprietà, è una funzione di interesse nazionale con la conseguenza che l'organizzatore dell'impresa, e quindi il proprietario, è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo stato; irrogandosi nel nuovo codice penale gravi sanzioni contro chi distrugga materie prime o prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione; limitandosi i beni su cui sono ammessi diritti di proprietà del privato (acque superficiali e sotterranee, miniere, foreste); rendendo obbligatorie opere di bonifica e trasformazioni colturali; legandosi col nuovo patto di mezzadria tanto il proprietario che il mezzadro al medesimo scopo (patto che avvia la mezzadria verso la piccola proprietà), si mira a un più proficuo rendimento della terra nell'interesse nazionale.

Solidarietà familiare. - Si è inteso, d'altra parte, di favorire il costituirsi di nuclei familiari, sodalizî di lavoro e di risparmio, con una serie di provvedimenti di carattere vario, interessanti la proprietà agricola e quella edilizia, che vanno dall'abolizione dell'imposta di successione nel nucleo familiare alla colonizzazione interna e alla cessione di terra bonificata a piccoli proprietarî. Alcuni scrittori (U. Spirito, A. Volpicelli) hanno sostenuto che in regime fascista il lavoro non può produrre una proprietà privata perché l'individuo, come tale, in regime corporativo non esiste, e che il sistema corporativo sboccherà nella corporazione proprietaria: questa concezione è però autorevolmente combattuta (cfr., tra gli altri, G. Gentile, Individuo e Stato o la corporazione proprietaria, in Giorn. critico della filos. it., 1932, p. 313).

Sulla proprietà di cose incorporali o immateriali v. anche le voci: autore, diritto d'; insegna; marchio: Marchio di fabbrica e di commercio; modello: Modelli e disegni di fabbrica; nome; privativa industriale. Sull'antico consortium romano e sulla configurazione giuridica della comproprietà nel diritto romano e nel diritto moderno v. anche le voci: comproprietà; condominio. Sui modi di acquisto della proprietà v. anche le voci: accessione; mancipazione; occupazione; prescrizione; specificazione; tesoro; tradizione. Sulle limitazioni del diritto di proprietà v. anche: servitù: Servitù legali. Sulla tutela v. anche le voci: opera nuova, denunzia di; danno: Azione di danno temuto, App., pag. 158; r1vendicaz1one.

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Diritto moderno: G. Buniva, Dei beni e della proprietà secondo il codice civile, Torino 1880; G. Cimbali, La proprietà e i suoi limiti nella legislazione italiana, Lanciano 1889; F. S. Bianchi, Corso di codice civile italiano, IX, Torino 1900; E. Pacifici-Mazzoni, Codice civile italico commentato, I, Firenze 1904; F. Filomusi-Guelfi, Diritti reali. Proprietà, Roma 1909; G. Piola, Proprietà, in Digesto italiano, XIX, parte 2ª B. Brugi, Della proprietà, Torino-Napoli 1911-1918; L. Barassi, La proprietà, Milano 1918-1919; id., I diritti reali, Milano 1935; P. Bonfante-F. Maroi, Note alle Pandette di B. Windscheid, Torino 1934; VI; F. Vassalli, Il diritto di proprietà, in Atti del I Congresso giuridico italiano, X; G. Perticone, La proprietà e i suoi limiti, Roma 1930; V. Neppi, Il valore intrinseco del diritto di proprietà, Padova 1934; C. Maiorca, Lo spazio e i limiti della proprietà fondiaria, in Memorie Ist. giur. Università di Torino, 1934; C. Comte, Traité du domaine de la propriété, Bruxelles 1834; P. J. Proudhon, Traité du domaine de la propriété, Bruxelles 1839; R.G. Pothier, Traité du droit de domaine de propriété, in Oeuvres, IX, Parigi 1846; M. A. Thiers, De la propriété, Bruxelles 1849; De Vareilles Sommières, De la définition et de la notion juridique de la propriété, in Revue trim. de droit civil, 1905, p. 445; M. Picard, in Traité pratique de droit civil français, diretto da M. Planiol e G. Ripert, III, Parigi 1926; S. Schlossmann, Ueber den Begriff des Eigenthums, in Jher. Jahrb., XLV (1903), p. 289; A. Randa, Das Eigenthumsrecht nach österreichischen Rechte mit Berücksichtigung des gemeines Rechts, Lipsia 1893; R. Maschke, Das Eigenthum im Civil- u. Strafrechte, Berlino 1895; K. Hoffmann, Eigentum u. dingliche REchte, 1924; R. Stammler, Eigentum u. Besitz, in Handw. d. Staatswiss., 4ª ed., 1926, III, p. 332 segg.; A. Blomeyer, Die ausserpositiven Grundlagen des Privateigentums, Jena 1929; G. Bückling, Die systematischen und geschichtlichen Grundlagen des subjektiven Rechts, in Untersuchungen zur deut. Staats- und Rechtsgeschichte, Breslavia 1933, p. 94; G. Gusserl, Der Rechtsgegenstand. Rechtslogische Studien zu einer Theorie des Eigenthums, Berlino 1933; G. Planck, Kommentar zum B. G. B., Berlino e Lipsia 1933.

Proprietà commerciale.

Col termine "proprietà commerciale" si suole indicare l'eventuale diritto del conduttore commerciante in ordine all'avviamento o alla clientela da lui procurata al locale affittato.

Varie volte nella storia del diritto è parso degno di tutela il conduttore di fronte al locatore il quale, con l'estinzione del contratto di affitto, può privare il conduttore commerciante della clientela da lui faticosamente conquistata e che continuerà a dirigersi verso lo stesso locale costituendo una fonte di lucro per il nuovo conduttore e quindi per il locatore che potrà ottenere un più elevato prezzo di affitto. Nel Medioevo la legislazione statutaria, specialmente toscana, elaborò per ciò i particolari istituti del ius intraturae e del ius stantiandi, caduti però col sec. XVIII. Il problema è stato risollevato fin dalla fine del secolo XIX ed è stato legislativamente risolto in alcuni stati; così in Francia, dove una legge 30 giugno 1926 tutela il conduttore commerciante con la concessione di un'azione di arricchimento contro il locatore nei limiti nei quali quest'ultimo si arricchisce ai danni del primo per l'avviamento da questi procurato; agli stessi principî s'ispirano le soluzioni accolte in Inghilterra.

In Italia, nonostante numerosi progetti, la tutela della cosiddetta proprietà commerciale non è stata ancora presa in considerazione dalla legge, se non con disposizioni transitorie ed eccezionali; l'articolo 6 r. decr. legge 3 aprile 1921, n. 331, anch'esso ora abrogato, attribuiva al conduttore a scopo d' industria, commercio o professione, il diritto di adire apposita commissione arbitrale inappellabile, oltre che per ottenere una proroga di non più di un anno, anche per sentire decidere de "gli eventuali compensi da assegnarsi al conduttore dal proprietario nell'ipotesi che questi o direttamente o con diverso conduttore riesca a trar profitto dall'avviamento procurato al negozio dal primo conduttore", chiarendo nel successivo art. 9 che "il conduttore uscente avrà diritto a compenso di fronte al proprietario soltanto nel caso in cui questi, ovvero il nuovo conduttore, esercitino lo stesso commercio o la stessa industria."

Abrogate pertanto queste disposizioni della legislazione straordinaria emanata in tema di affitti nel periodo postbellico, il problema è stato esaminato in Italia da un punto di vista più generale, sostenendosi da molti che la tutela della proprietà commerciale costituisce non solo una giusta esigenza di politica legislativa, ma anche un principio che deve già ritenersi proprio della legislazione italiana vigente. Nel suffragare questa conclusione, una larga e autorevole schiera di scrittori è partita dal considerare la clientela una vera e propria cosa, oggetto di proprietà. Si è precisata la tesi osservando che, se l'avviamento, inteso come organizzazione dell'azienda o speranza o fondamento di possibili guadagni, costituisce una mera qualità dell'azienda o, meglio, lo stesso risultato dell'orgariizzazione di più cose per uno scopo economico unico, la clientela invece costituisce un vero oggetto di diritto. E, si è detto da qualcuno, se una volta perduta o appropriata da altri, la clientela non può essere rivendicata, all'azione reale subentra un'azione obbligatoria per il risarcimento.

Queste varie considerazioni hanno trovato critici numerosi. Si è opposto che la clientela non costituisce una cosa possibile oggetto di diritti reali, sia perché essa non possiede quei requisiti di separabilità che sono proprî delle cose, sia perché, dato il principio fondamentale della libera concorrenza, sono leciti gli atti diretti ad appropriarsi la clientela altrui, a meno che essi per il loro modo non siano illeciti; la liceità di atti diretti a trarre a sé la clientela altrui esclude che questa possa essere oggetto di proprietà. Si può avere di ciò una riprova considerando che il cosiddetto trasferimento della clientela non può attuarsi se non in quanto il trasferente si inibisce di fare concorrenza; ciò dimostra, da un lato, che la clientela non costituisce una cosa, sicché i negozî che la concernono si risolvono innanzi tutto in obblighi di non fare e non in obblighi di dare (come sono invece quelli della vendita), eccezion fatta per il trasferimento dei mezzi che servono per conoscere (ad es., schedarî) o attirare e conservare la clientela (p. es., marchio, insegna); dall'altro, che ogni attacco alla clientela altrui, in quanto non urti contro i limiti della legge sulla liceità della concorrenza (la materia è ora disciplinata dalla convenzione dell'Aia), è lecito, ciò che non potrebbe essere se la clientela costituisse un oggetto di proprietà, nel qual caso sarebbe illecito ogni attacco contro di essa. Nel diritto italiano la concorrenza, e quindi l'attività diretta a procurarsi una clientela eventualmente a danno di altri, è lecita. La legge si limita solamente a sancire da un lato dei diritti assoluti su quei beni immateriali che giovano ad attirare e conservare la clientela (marchio, insegna, ditta oggettiva), dall'altro a porre dei limiti generali al modo col quale la concorrenza può venire esercitata, sancendo la illiceità di ogni concorrenza che sia in contrasto con gli usi onesti del commercio e particolarmente di quella che crei una confusione tra i proprî e gli altrui prodotti.

Altri ha cercato il fondamento della tutela della cosiddetta proprietà commerciale nella disciplina giuridica dell'accessione (art. 450 cod. civ.) ravvisando nella clientela un'accessione immateriale, che il proprietario dello stabile non potrebbe trattenere se non verso congruo compenso, nonostante l'inapplicabilità, in questo caso, del principio che il proprietario ha diritto di ottenere la separazione della cosa acceduta (anziché trattenerla verso compenso): principio che, invece, costituisce una delle caratteristiche della disciplina giuridica dell'accessione. Altri, poi, ha fatto capo ai principî dell'abuso di diritto, che sembrano però estranei all'ordinamento italiano. Altri, infine, ha fatto ricorso al principio dell'indebito arricchimento, che, pur in mancanza di precise disposizioni di legge, viene spesso accolto dalla giurisprudenza, nonostante il contrasto di un'autorevole dottrina, come proprio dell'ordinamento giuridico italiano. A tenore di detto principio il conduttore potrebbe agire verso il proprietario per il pagamento della somma corrispondente all'arricchimento del proprietario a suo danno e quindi al maggiore valore dello stabile in seguito alla clientela procurata dal conduttore. Ciò permetterebbe di distinguere l'incremento di valore conseguente all'opera del conduttore e quello invece che ne è indipendente e può essere ricondotto ad altre cause (p. es. posizione del locale, ecc.); ciò permetterebbe anche di tenere ben distinto il caso nel quale il proprietario tragga vantaggio dalla clientela del conduttore (esercitando in nome proprio lo stesso commercio del conduttore o affittando o vendendo lo stabile per l'esercizio di quel commercio) da quello nel quale invece detto vantaggio non possa venire ravvisato (ad es., perché lo stabile viene adibito a uso di abitazione), limitando il diritto del conduttore all'effettivo arricchimento indebito del proprietario.

De iure condendo sono, probabilmente, il principio dell'azione di arricchimento e, eventualmente, quello della concorrenza sleale, che possono permettere di disciplinare il problema e di concedere al conduttore in linea generale quella tutela che con disposizione eccezionale gli era stata concessa dal decr. legge del 1921 sopra ricordato. Anche le leggi straniere, che hanno risolto il problema, si sono ispirate ai principî dell'azione di indebito arricchimento. De iure condito l'opinione prevalente, suffragata da ripetute pronuncie della corte di cassazione, non ritiene che possa riconoscersi nel diritto italiano l'esistenza della cosiddetta proprietà commerciale.

Bibl.: V. Polacco, in Rivista di dir. comm., 1922, I, p. 109; G. Cristofolini, ibid., 1922, I, p. 614; M. Rotondi, in Studi dell'Ist. giur. dell'università di Pavia, IX (1925), p. 107 segg.; id., in Riv. di dir. comm., 1928, I, p. 277; C. Vivante, ibid., 1928, I, p. 493; 1930, I, p. i; T. Ascarelli, ibid., 1930, II, p. 580; P. Greco, in Studi in onore di C. Vivante, Roma 1930, I, p. 573; A. Marracino, in Giurisprudenza italiana, 1930, p. i.

Proprietà pubblica.

Si può usare l'espressione di proprietà pubblica per significare il complesso dei beni pubblici che sono dello stato, cioè il complesso dei beni costituenti il demanio (v.) e il patrimonio pubblico. Più comunemente si usa l'espressione di proprietà pubblica per significare la natura del diritto che allo stato spetta sui beni demaniali: l'espressione vuol indicare che il diritto dello stato su questi beni è un diritto, nel quale, insieme a elementi del diritto di proprietà, entrano particolari elementi di natura pubblicistica.

La dottrina, però, non si può dire a questo riguardo concorde. Una teoria meno recente negava la possibilità di configurare il rapporto tra lo stato e i beni demaniali come un diritto di proprietà. Quale proprietà è quella dello stato sui beni demaniali se lo stato non ha né facoltà di godimento né facoltà di disposizione dei beni? Secondo questa teoria lo stato ha soltanto l'amministrazione dei beni demaniali, deve conservarli e mantenerli per l'uso pubblico cui sono interamente destinati, senza che ne possa ricavare vantaggio. Inoltre, non si può concepire un diritto di proprietà su beni extra commercium, quali sono i beni demaniali. Esclusa la proprietà dello stato (e, in generale, dell'ente pubblico, se si tratta di beni demaniali del comune o della provincia), i beni demaniali sarebbero res nullius o, al più, proprietà collettiva del popolo, cioè dei singoli che ne traggono vantaggio, sui quali lo stato (o, in generale, l'ente pubblico) esercita un potere di sovranita o di amministrazione. Questa teoria in Italia è ormai superata, perché non è facilmente conciliabile con le disposizioni del codice civile, nel quale il rapporto fra lo stato e i beni demaniali è sempre e unicamente considerato come un rapporto di proprietà. Non si ritengono nemmeno decisive le accennate obiezioni, alle quali la teoria suole appoggiarsi. Quanto alla incommerciabilità dei beni, si fa notare che non è assoluta, ma esclude soltanto quegli atti, che in un modo o nell'altro contraddicono all'uso di pubblico generale interesse, al quale il bene è destinato. Quanto alla mancanza della facoltà di godimento e di disposizione dei beni da parte dello stato, si osserva che il diritto di proprietà è essenzialmente elastico e che molte delle indefinite facoltà che esso contiene, anche le principali, possono essere ridotte a uno stato virtuale senza che il rapporto di proprietà si estingua. Quando il bene demaniale, cessata la destinazione all'uso di pubblico generale interesse, diventa bene patrimoniale, lo stato non acquista un nuovo bene né un nuovo diritto, ma diventano attuali le facoltà virtualmente contenute nel diritto, di cui era già titolare.

Nella dottrina francese, la teoria, che ritiene lo stato semplice amministratore dei beni demaniali, ha ancora autorevoli rappresentanti; ma di fronte ad essa va sempre più affermandosi la teoria che fa capo a Maurice Hauriou, la quale riconosce allo stato sui beni demaniali un diritto di proprietà. Hauriou parla di proprietà amministrativa, che è un diritto il quale ha essenzialmente lo stesso contenuto della proprietà privata, ma il cui esercizio è regolato e difeso da norme di diritto pubblico. Nella dottrina germanica la teoria che lo stato sia amministratore dei beni demaniali è, si può dire, sconosciuta. La dottrina e la giurisprudenza ritengono che lo stato ha un diritto di proprietà sui beni demaniali, e questa proprietà concepiscono come proprietà privata soggetta a particolari limitazioni di diritto pubblico. Otto Mayer formulò la teoria che il diritto dello stato sui beni demaniali non è diritto di proprietà privata, comunque limitato, ma un diritto di proprietà pubblica. Ma la teoria della proprietà pubblica, nonostante la grandissima autorità del suo autore e il vigore con cui egli la sostenne, rimase isolata nella dottrina germanica. La dottrina italiana più recente è unanime nell'ammettere che lo stato ha sui beni demaniali un diritto di proprietà, ma non è concorde sulla natura particolare di questa proprietà: se proprietà privata o proprietà pubblica. È orrnai prevalente, tuttavia, l'opinione, che considera il diritto dello stato sui beni demaniali come proprietà pubblica. Questa opinione osserva, anzitutto, che il concetto di proprietà, in sé stesso, non è particolare né del diritto privato né del diritto pubblico, ma è un concetto comune. Esso contiene essenzialmente il potere esclusivo che ha il soggetto di disporre della cosa. Ma l'esercizio di questo potere può essere lasciato alla libera disposizione del soggetto stesso, sia pure entro dati limiti, e allora si parla di proprietà privata o civilistica; oppure può essere vincolato a scopi di pubblico generale interesse e sottoposto a norme di diritto pubblico, e in questo caso si ha un'altra figura di proprietà, la quale è giustamente denominata proprietà pubblica. Quindi, la proprietà pubblica è un vero e proprio diritto di proprietà, ma non è una modificazione del diritto di proprietà privata; al contrario, proprietà privata e proprietà pubblica sono due figure distinte del diritto di proprietà.

Bibl.: F. Cammeo, Demanio, in Digesto italiano, IX, i, p. 900 segg.; O. Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, in Giurisprudenza italiana, I (1897), col. 356 segg.; S. Romano, Principî di diritto amministrativo italiano, 3ª ed., Milano 1912, p. 466 segg.; G. Zanobini, Il concetto di proprietà pubblica e i requisiti giuridici della demanialità, in Studi senesi, XXXVII (1923), p. 78 segg.; L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, 2ª ed., II, Parigi 1923, par. 74, p. 318 segg.; O. Mayer, Deutsches Verwaltungsrecht, 3ª ed., II, Lipsia 1924, par. 35 segg.; W. Jellinek, Verwaltungsrecht, 3ª ed., Berlino 1931, p. 508; R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, 6ª ed., Messina 1932, II, pp. 332-333; M. Hauriou, Précis de droit administratif, 12ª ediz., Parigi 1933, p. 781 segg.; E. Guicciardi, Il demanio, Padova 1934, p. 8 segg.

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