Proprieta

Enciclopedia del Novecento (1980)

Proprieta

Francesco Santoro-Passarelli

di Francesco Santoro-Passarelli

Proprietà

sommario: 1. Il problema della proprietà privata. 2. Proprietà e dominio nel linguaggio giuridico. 3. Vicende della proprietà privata nel XX secolo. 4. La proprietà privata come diritto soggettivo. 5. I soggetti.6. I beni. 7. Contenuto della proprietà. 8. Perpetuità e imprescrittibilità. 9. Titoli di acquisto. 10. Accesso alla proprietà. 11. Ambito della proprietà. 12. Proprietà, diritti altrui, comproprietà. 13. Limiti imposti alla proprietà. a) Il limite interno. b) I limiti esterni. 14. La funzione sociale della proprietà privata. 15. Espropriazione. 16. Proprietà e impresa. 17. Proprietà e lavoro. 18. La proprietà pubblica. 19. La proprietà socialista. 20. Proprietà e sistema economico. □ Bibliografia.

1. Il problema della proprietà privata

Per la posizione centrale che la proprietà occupa nell'ordinamento economico, sociale e, di riflesso, giuridico di ogni paese, il problema della proprietà, della sua nozione, del suo ambito, della sua struttura, della sua funzione è stato in ogni tempo uno dei più ardui e controversi della scienza giuridica. Ma in questo secolo l'evoluzione dell'economia capitalistica e l'avvento, nell'esperienza di diversi e importanti paesi, di un'economia collettivistica, l'apparizione nei sistemi capitalistici di un'economia mista, nella quale si estende di continuo, e nelle forme più diverse, la mano pubblica, fanno della proprietà l'istituto economico, sociale e giuridico intorno al quale più divampa il contrasto.

Per il giurista tutto è diventato incerto, come incerta è diventata la sorte della proprietà in ciascuna delle società contemporanee.

La proprietà privata sopravvive e come sopravvive. Quali sono i poteri e i doveri del proprietario. Quali sono gli interessi che la proprietà può e deve soddisfare. Quali sono i beni che possono costituire oggetto della proprietà privata. Come si atteggia la proprietà privata rispetto alle diverse specie di beni. Quali sono i rapporti fra proprietà e impresa privata. Quali i rapporti fra proprietà e lavoro. Quali i rapporti fra proprietà e controllo nella gestione economica. Qual è il significato reale della funzione sociale assolta dalla proprietà privata, quale il senso dell'utilità sociale richiesta all'attività dell'impresa. Quali sono la posizione e la funzione che assolve nei sistemi capitalistici la proprietà pubblica, quale la differenza fra la proprietà in mano pubblica e la proprietà pubblica, quale la differenza essenziale fra proprietà privata e proprietà pubblica. Quali sono la posizione e la funzione della proprietà socialista e della proprietà personale nei sistemi collettivistici. Quali le difficoltà nel funzionamento della proprietà socialista, quale il senso dell'espansione della proprietà personale. Ecco alcune, forse le più importanti, questioni che devono essere trattate in uno studio problematico della proprietà odierna, così versatile, multiforme e difficile a decifrare.

2. Proprietà e dominio nel linguaggio giuridico

Come sempre il linguaggio è testimonianza della realtà e anche dell'evolversi della realtà. Quando la parola viene ad assumere significati diversi da quello originario e diversi fra loro, si deve pensare, piuttosto che a un uso totalmente improprio, a quel che rimane del senso primitivo nei nuovi impieghi della parola, anche per situazioni che appaiono molto lontane da quella per cui la parola fu prima adoperata.

La parola ‛proprietà' e il confronto con la parola ‛dominio' (dominium) costituiscono un esempio, forse il più caratteristico, di una vicenda storica fra le più ampie e profonde che si siano svolte sotto il segno di una stessa parola.

Il dominio è signoria sulla cosa e deriva dalla sua originaria connessione con la signoria anche politica, con la sovranità. Quando questa connessione viene meno, emerge il momento dell'appartenenza piena ed esclusiva della cosa al privato e si afferma, come espressiva di tale appartenenza, la proprietà per antonomasia, la proprietà del privato, di fronte agli altri consociati e allo stesso Stato. Il dominio, col suo carattere politico, passa alla collettività, allo Stato, e si traduce in demanio. Qui non si può dare che questa sintesi di un passaggio di durata secolare dal dominio alla proprietà.

La proprietà, come appartenenza della cosa al soggetto, si è poi dimostrata capace di comprendere e di indicare le situazioni più disparate, dalla proprietà privata solitaria, al servizio soltanto dell'interesse individuale del soggetto, attraverso la proprietà variamente gravata di limiti, oneri, vincoli, obblighi a soddisfazione di interessi altrui, privati o pubblici, fino alla proprietà in mano pubblica e alla proprietà pubblica, di cui è titolare l'ente pubblico e massimamente lo Stato.

D'altra parte la parola ‛proprietà' viene usata promiscuamente, talora in senso stretto per indicare l'appartenenza piena del bene a un titolare, talora in senso lato per comprendere, quali derivazioni dalla proprietà, la comproprietà, la proprietà collettiva, i diritti reali limitati. E fin qui si ha riguardo sempre alla situazione di potere dei soggetti. Ma la parola ‛proprietà' viene anche usata come termine di riferimento per l'imposizione di quei limiti, oneri, vincoli, obblighi di cui si è detto, e che concorrono a formare una situazione giuridica più ampia e composita della situazione di potere su cui essi si innestano.

3. Vicende della proprietà privata nel XX secolo

La proprietà dei privati uniformata e libera da vincoli, come fu tramandata dal diritto romano giustinianeo, attraversò le vicende più diverse nel diritto intermedio. Oberata e oppressa da pesi di ogni specie nel periodo feudale, fu affrancata dalla Rivoluzione francese, che ripristinò la libertà della proprietà con la libertà della persona e ne affermò il carattere ‛inviolabile e sacro' (Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789). Nesso fra persona, libertà e proprietà che non può essere disconosciuto almeno come nesso storico. La proprietà doveva essere garantita al privato a sostegno della sua libertà e della sua personalità. La proprietà del privato doveva essere garantita anche come valore sociale, perché ritenuta utile al benessere della collettività.

Il Codice civile francese, uscito esso pure con l'impronta napoleonica dalla Rivoluzione, definisce la proprietà come ‟le droit de jouir et disposer des choses de la maniére la plus absolue", con la sola eccezione dell'uso proibito dalla legge (art. 544).

La concezione della proprietà privata così espressa dominò nella legislazione dei paesi occidentali durante il XIX secolo, e non solo nei paesi di civil law, ma anche in quelli di common law, nei limiti in cui è consentito un confronto fra la tipica proprietà continentale e la flessibile property, dilatata nell'ownership, dei paesi di common law (F. H. Lawson, Common law, in AA. VV., 1973, pp. 22 ss., 137 ss.).

Ma già verso la fine di quel secolo, e poi con crescente intensità in questo, il valore sociale della proprietà privata in sé fu messo in discussione e, con un ricorso storico di ispirazione diversa da quella del passato, nuovi limiti, nuovi vincoli, nuovi obblighi si ritennero necessari per assicurare il valore sociale della proprietà rispetto ad alcuni beni, quelli appunto d'importanza sociale. Oppure, andando oltre, si ritenne d'investire la totalità della proprietà privata di una funzione sociale, nelle diverse significazioni che saranno esaminate, o altrimenti di abolire per i beni d'importanza sociale la proprietà privata, sostituendola con la proprietà pubblica, per la diretta soddisfazione degli interessi della collettività.

Il fenomeno, salvi gli sviluppi diversi e i diversi punti di arrivo, è stato generale. Le trasformazioni economiche e sociali e i rivolgimenti politici hanno operato in questa direzione. Varie nei diversi paesi sono state le ragioni e vari i modi del fenomeno, ma un risultato comune può essere registrato: la riduzione dell'area e del contenuto della proprietà privata.

In Italia, per stare soltanto alle norme di carattere generale, dall'art. 436 del Codice civile del 1865, che riproduceva la norma del Codice francese, si è passati all'art. 832 del Codice vigente, nel quale non si parla più di un diritto spettante sulla cosa nella ‟maniera più assoluta", ma in ‟modo pieno ed esclusivo", e non vale più soltanto il limite dell'uso vietato dalla legge, ma invece il diritto viene contenuto entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico. Di tali ‛obblighi' altre disposizioni del Codice fanno già specifiche e importanti applicazioni. Si arriva infine al complesso delle norme costituzionali (artt. 41-44, 47, secondo comma) che danno alla proprietà e all'iniziativa privata una figura, come si vedrà, ben più aperta alle esigenze sociali, suscettibile anzi, secondo certe interpretazioni, di soluzioni anche radicali del problema della proprietà (v. Natoli, 1965, pp. 116 ss.; v. Rodotà, s. d., ma 1967, pp. 134 ss.; v. Rescigno, 1972, pp. 41 ss.).

4. La proprietà privata come diritto soggettivo

La proprietà privata, considerata come proiezione o anzi come supporto della personalità e della libertà del singolo, è storicamente un diritto soggettivo, anzi il massimo diritto soggettivo, dal quale si dipartono e al quale riconducono tutti i diritti soggettivi: non solo gli altri diritti reali, ma anche i diritti di credito, garantiti dal patrimonio del debitore.

Il collegamento della proprietà con la persona e con la sua libertà è ancora evidente nella proprietà detta appunto personale, cioè inerente ai bisogni personali, favorita sia nelle economie occidentali (cfr., per es., artt. 42, secondo comma, e 47 della Costituzione italiana), sia, come si dirà, nelle economie socialiste. Tuttavia sono ormai poste in discussione non solo la qualificazione della proprietà privata come diritto soggettivo, ma la stessa nozione di diritto soggettivo.

La formula del diritto soggettivo non sarebbe che la descrizione della posizione fatta al soggetto dall'ordinamento o il riflesso della posizione di dovere fatta agli altri consociati. Tanto meno sarebbe concepibile un diritto soggettivo di proprietà, giacché la proprietà mette il soggetto in grado di trarre direttamente dal bene le utilità di cui lo stesso è capace.

A parte queste obiezioni di carattere concettuale che svalutano l'importanza della storia nella formazione e nell'interpretazione degli istituti giuridici e che basta qui avere accennate (v. Santoro-Passarelli, s.d., ma 1964, e 19669, p. 70), la proprietà avrebbe cessato di essere diritto soggettivo, rispetto a quei beni per i quali è imposto al soggetto un obbligo di comportamento che si ritiene incompatibile col diritto soggettivo: allora la proprietà degraderebbe a interesse legittimo, ossia condizionatamente protetto (v. Pugliatti, La proprietà..., 1954, pp. 282 ss.; v. Lener, 1976).

Effettivamente il diritto soggettivo del privato è potere di agire liberamente a soddisfazione del proprio interesse, e in questo senso la proprietà è stata considerata diritto soggettivo, tradizionalmente sottratto anche alla prescrizione per non uso (art. 948, terzo comma, del Codice civile italiano). Dove il soggetto non è libero di comportarsi come meglio crede a soddisfazione del suo interesse, non può parlarsi di diritto soggettivo.

Il problema è però di stabilire se l'imposizione non solo di limiti e vincoli, ma anche di obblighi al proprietario rispetto a determinati beni, lascia al soggetto una sfera di potere o la esclude. Per sé l'imposizione di obblighi, come l'imposizione di limiti, di vincoli, di oneri, non è destinata a invadere l'ambito del potere ed è suscettibile di comporsi col potere in una situazione giuridica più ampia, nella quale il potere non si esaurisce, ma sopravvive, pur compresso dai limiti negativi e da quei limiti positivi costituiti dagli obblighi. In quanto questo potere di libera soddisfazione del proprio interesse spetta al titolare, la proprietà, se non si vuol fare una questione di parole, rimane diritto soggettivo anche riguardo ai beni per cui quegli obblighi sono imposti. Questo, del resto, è il senso del riconoscimento e della garanzia mantenuta dall'ordinamento alla proprietà privata: essi significano storicamente e giuridicamente riconoscimento e garanzia del potere del singolo, dell'individuo, di provvedere liberamente al suo interesse (v. Santoro-Passarelli, 1972, pp. 953 ss., e Proprietà privata..., 1976). Dove questo potere manca, viene meno il diritto soggettivo, ma viene meno anche la proprietà del privato, se pur sopravvive il nome.

5. I soggetti

Titolare della proprietà per antonomasia, la proprietà privata, è il singolo e il tipo fondamentale di questa proprietà è la proprietà individuale. L'individuo trae dal suo bene tutte le utilità di cui esso è capace, direttamente o indirettamente, a soddisfazione del suo personale interesse, con esclusione di ogni altro soggetto.

La proprietà privata può spettare anche a più soggetti. Si vedrà in seguito come può variamente configurarsi la comproprietà che allora si istituisce, e similmente si considererà la coesistenza con la proprietà di diritti diversi di altri soggetti sullo stesso bene.

La proprietà privata può avere come titolare, oltre che la persona fisica o una pluralità di persone fisiche, anche la persona giuridica, cioè un'organizzazione di persone o di cose, considerata unitariamente ed elevata a soggetto dall'ordinamento giuridico. La proprietà della persona giuridica, e specialmente di alcune specie di persone giuridiche come le società di capitali, pone altri problemi riguardo alla struttura della proprietà privata, che pure saranno esaminati.

La natura della proprietà cambia se titolare è una persona giuridica pubblica, e non solo quando si tratta della proprietà essenzialmente pubblica per la diretta destinazione al servizio pubblico dei beni che ne costituiscono l'oggetto, pur con differenze di disciplina a seconda della specie dei beni, ma anche quando si tratta della cosiddetta proprietà privata degli enti pubblici o a prevalente partecipazione pubblica, per la destinazione indiretta e strumentale dei beni alla soddisfazione di un interesse pubblico.

Indubbiamente questa seconda specie di proprietà, di cui possono essere titolari anche gli enti pubblici territoriali o istituzionali, ma è caratteristica degli enti pubblici economici e delle società a prevalente partecipazione pubblica, va tenuta distinta dalla proprietà pubblica, per la sostanziale diversità di disciplina. È però assai dubbio che possa qualificarsi come proprietà privata, per l'insistenza del pubblico interesse sulla stessa appartenenza. È meglio distinguerla come proprietà in mano pubblica.

La proprietà pubblica, cioè la proprietà dei beni pubblici, è tutta dominata dal vincolo di destinazione al servizio pubblico. Essa ha in comune con la proprietà privata soltanto l'appartenenza all'ente pubblico, e forse questo tratto può spiegare l'uso della parola ‛proprietà' per la forza attrattiva ancora esercitata da questo termine carico di una tradizione millenaria e forse ancora della sua originaria significazione politica, ma, come si vedrà più innanzi, null'altro ha in comune la proprietà pubblica con la proprietà privata.

6. I beni

Oggetto della proprietà in senso tecnico, cioè di un potere pieno ed esclusivo di fronte ai terzi, sono le cose corporali o materiali, e per estensione le energie naturali, suscettibili di appropriazione ed economicamente utili. In quanto tali, queste cose sono beni, idonei cioè a soddisfare un bisogno umano. I beni atti a soddisfare le esigenze della cultura, testimonianze di civiltà e fattori d'incivilimento, detti perciò beni culturali (d'interesse storico, artistico, archeologico, paesistico), sono in vario modo vincolati a questa loro funzione (v. Santoro-Passarelli, 1969).

Vi sono altri beni, detti beni immateriali, come le opere dell'ingegno e le invenzioni industriali, i quali, per la loro natura, sono bensì suscettibili di appartenenze a un soggetto, che si chiamano per estensione proprietà, ma differiscono nell'essenza e nella disciplina dalla proprietà, appunto perché non sono res e quindi non sono suscettibili di appropriazione come le cose corporali (tali la proprietà intellettuale, la proprietà industriale, la proprietà dell'avviamento di un'impresa o proprietà commerciale).

Peraltro differenze d'importanza economica e sociale che improntano la stessa struttura della situazione giuridica proprietaria intercedono fra gli stessi beni materiali. Vi sono beni che, per la loro natura e per la loro diretta destinazione ‟al conseguimento di fini di pubblico interesse", sono pubblici, e perciò sottratti alla disposizione degli enti pubblici territoriali che ne sono i soggetti e all'appropriazione da parte di altri soggetti: tali per la legge italiana i beni demaniali appartenenti allo Stato o agli altri enti territoriali (artt. 822-825 e 1145 del Codice civile). Altri beni, come le foreste e le miniere, sono pubblici per l'interesse pubblico alla loro utilizzazione e conservazione e perciò costituiscono per la legge italiana il cosiddetto patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti territoriali (art. 826 del Codice civile). I beni finora menzionati sono oggetto della proprietà pubblica.

I rimanenti beni patrimoniali degli enti suddetti, pur non assolvendo direttamente un servizio d'interesse pubblico, sono soggetti primariamente a una disciplina particolare, varia secondo la specie dei beni, e soltanto subordinatamente alle regole della proprietà privata (art. 828). Infine anche i beni degli altri enti pubblici non territoriali, o istituzionali, compresi fra essi gli enti pubblici economici, sono sì soggetti alle regole del diritto civile, ma sempre con la salvezza della rispettiva speciale disciplina (art. 830). Il regime speciale conferma la rilevanza del servizio pubblico indiretto che necessariamente deriva alla proprietà dalla natura pubblica dell'ente titolare.

Meritano di essere qui ricordate le norme che riservano al patrimonio dello Stato le eredità vacanti (art. 586) e i beni immobili vacanti (art. 827; gli immobili vacanti sono attribuiti alle regioni a statuto speciale): testimonianza di un antico e tuttavia sempre riemergente dominio eminente dell'ente pubblico.

Il riferimento ai beni immobili richiama un'altra distinzione fra i beni che non può non riflettersi sulla struttura e sulle vicende della proprietà privata: la distinzione fra beni immobili e mobili. La distinzione corrisponde a un'esigenza di diversa disciplina imposta dalla natura dei beni, anche se nelle moderne economie la proprietà mobiliare non è più la mobilium vilis possessio del passato, ma è cresciuta di pari passo con lo sviluppo delle industrie e dei commerci.

La rarefazione delle risorse rispetto all'aumento dei bisogni, determinato da un'economia in sviluppo e dalla crescita della popolazione, ha posto in primo piano, anche per le implicazioni politiche e sociali che ne derivano, la distinzione fra beni produttivi e beni di consumo. Il grande spartiacque fra le economie contemporanee, le economie di mercato, comprese le economie miste, e le economie socialiste, è segnato da questa distinzione e dalla diversa sorte che si vuole stabilire fra i mezzi di produzione, compresa la produzione di servizi, e quindi compreso lo scambio, e i beni di consumo. L'importanza sociale dei beni produttivi e quella personale dei beni di consumo stanno determinando il diverso destino della proprietà privata rispetto all'una e all'altra categoria di beni.

La terra, bene immobile e produttivo primigenio, occupa una posizione di particolare rilievo nelle cure dei vari ordinamenti. Per la limitazione di terre fertili, per l'abbandono provocato dallo sviluppo delle attività secondarie e terziarie, per la necessità di sostituire a un'agricoltura antiquata una coltivazione razionale e intensiva, per l'esigenza di dare ai coltivatori una posizione preminente rispetto alla proprietà inattiva, una disciplina specifica, gravemente limitativa della proprietà rurale, si è imposta da tempo nelle legislazioni dei paesi nei quali, come in Italia, tutte quelle ragioni si sono fatte sentire. Basti per ora ricordare l'art. 44 della Costituzione italiana che demanda alla legge - e già il Codice civile conteneva disposizioni, che saranno richiamate - di imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, di fissare limiti alla sua estensione, di promuovere la bonifica, di trasformare il latifondo, di ricostituire le unità produttive, di aiutare la piccola e media proprietà ‟al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali".

La diversa importanza sociale dei beni e anche la natura pubblica o privata dei soggetti titolari determinano diversi statuti della proprietà (v. Vassalli, Per una definizione..., 1960, p. 331).

7. Contenuto della proprietà

Il potere del proprietario investe direttamente il bene che ne è l'oggetto, senza che occorra la cooperazione altrui. Perciò, come si è accennato, si dubita da qualcuno della sua configurabilità come diritto soggettivo. Il diritto soggettivo postula infatti un rapporto giuridico con altri soggetti, e qui gli altri soggetti non appaiono finché il proprietario trae dal suo bene le utilità di cui questo è capace. La realtà è però diversa dall'apparenza, perché qualunque posizione giuridica, anche quella del proprietario, ha un senso per la presenza di altri soggetti e per il loro comportamento. La proprietà esige che gli altri, tutti gli altri, lascino al proprietario la soddisfazione col suo bene del suo interesse. In questo senso la proprietà è un diritto soggettivo e implica un rapporto giuridico con tutti e singoli gli altri soggetti, onde la proprietà, oltre a essere il massimo dei diritti reali, è anche un diritto assoluto, come gli altri diritti reali. Da questo rapporto giuridico di base, che si istituisce con tutti gli altri soggetti, per i quali sorge un dovere di comportamento, deriva, quando questo comportamento non venga osservato, una pretesa verso colui che così ha leso il diritto del proprietario, al ripristino del rispetto della proprietà e al risarcimento del pregiudizio subito dal proprietario.

Le azioni a difesa della proprietà, principale e tipica la cosiddetta rivendicazione del bene contro chi lo possiede o detiene indebitamente, col corollario di azioni secondarie, come l'azione negatoria di pretese altrui, tendono appunto a reintegrare il proprietario nella posizione che gli spetta. Questa posizione implica una serie di facoltà, dette anche diritti facoltativi, che possono riassumersi nei due momenti o aspetti della proprietà, quelli del godimento e della disposizione, spettanti al proprietario in modo pieno ed esclusivo, come vengono indicati e qualificati dal Codice civile italiano (art. 832).

Il godimento consente al titolare di trarre dal bene tutte le utilità, tutti i frutti naturali e civili, che il bene è atto a produrre. La disposizione consente a lui di trasferire ad altri in tutto o in parte il godimento temporaneo del bene e anche la stessa proprietà.

La pienezza e l'esclusività sono gli attributi qualificanti della proprietà in sé, perché la pienezza e l'esclusività caratterizzano e distinguono la proprietà dagli altri diritti che sulle cose possono spettare ai privati. Pienezza significa spettanza al proprietario di tutti i poteri sul bene, esclusività significa interdizione a ogni altro soggetto di qualsiasi ingerenza rispetto al bene. Beninteso questa tipica configurazione della proprietà non viene alterata dai limiti che lo stesso proprietario, nell'esercizio del suo diritto, apporti ai suoi poteri, limiti attinenti sia al godimento, sia alla disposizione. Si deve aggiungere che la tipica configurazione della proprietà è compatibile anche con l'apposizione di limiti, vincoli, oneri, obblighi stabiliti specificamente dallo stesso ordinamento.

Tale configurazione comporta che la proprietà torna automaticamente a espandersi ogni volta che, per nuove vicende giuridiche, le modifiche del contenuto della proprietà vengano a cadere, grazie all'elasticità della proprietà stessa.

Si è anche dubitato che il potere di disporre sia un momento costitutivo della proprietà, come del resto di qualunque diritto soggettivo, giacché esso sarebbe un attributo del soggetto e quindi esterno al singolo diritto. A questo dubbio va opposto che altra è la capacità di disporre, come specie della capacità di agire, la quale è veramente un attributo soggettivo, che nel singolo soggetto può sussistere o mancare, altro il potere di disporre che suppone la pertinenza del diritto soggettivo, della cui disposizione si tratta (v. Pugliatti, 1951).

Certo il potere di disporre, in determinate situazioni che giustificano, secondo la valutazione della legge, il distacco del potere di disporre dalla proprietà, può non solo essere attribuito dallo stesso proprietario, ma direttamente dalla legge a un soggetto diverso, e non spettare al proprietario: così per la legge italiana nel contratto estimatorio (art. 1558), nella cessione dei beni ai creditori (artt. 1979 e 1980), nell'esecuzione coattiva per inadempimento del compratore (art. 1515) e in altri casi, nei quali si parla di una legittimazione del non proprietario alla disposizione del bene.

In situazioni particolari la legge ammette addirittura che la disposizione della proprietà sia efficace da parte di chi ha, come si dice, una legittimazione soltanto apparente, cioè non ha neppure il potere di disporre: così negli acquisti dal non proprietario, quali gli acquisti dall'erede apparente (art. 534) e gli acquisti in buona fede dei mobili mediante il possesso e degli immobili e mobili registrati mediante l'usucapione, quando esista un titolo per sé idoneo a trasferire la proprietà (artt. 1153, 1159 ss.).

Infine è anche possibile che il proprietario sia privato del potere di disporre in confronto di altri soggetti, come riflesso della speciale posizione in cui costoro si trovano rispetto al proprietario (così i patrocinatori per i beni giudizialmente controversi in confronto dei loro clienti, art. 2233), oppure perché il proprietario sia tenuto a rispettare un diritto di prelazione stabilito dalla legge a favore di altri (come per i beni d'interesse artistico o storico a favore dello Stato o per il fondo rustico a favore del coltivatore diretto) (v. Benedetti, 1978).

Fuori delle ipotesi previste dalla legge è però da ritenere che il potere di disporre non è separabile dalla proprietà. Il principio trova conferma, fra l'altro, per la legge italiana, nell'inefficacia di fronte ai terzi del divieto contrattuale di alienazione (art. 1379) e nell'avversione, aggravata con la recente riforma (art. 197 L. 19 maggio 1975, n. 151), al fedecommesso, cioè alla disposizione testamentaria con la quale s'imponga al successore di conservare e restituire alla sua morte i beni ad altro soggetto (artt. 692 ss.). Significativa, per intendere la natura costitutiva del potere di disporre nella struttura della proprietà, la clausola esplicativa e sostanzialmente generale, con cui si chiudeva il precedente testo dell'art. 692, che stabiliva esplicitamente la nullità di ‟ogni disposizione con la quale il testatore proibisce all'erede (o al legatario, art. 697) di disporre per atto tra vivi o atto di ultima volontà dei beni ereditari".

8. Perpetuità e imprescrittibilità

La perpetuità è così connaturata alla proprietà che la legge italiana non avverte neppure l'esigenza di stabilirla esplicitamente. È un connotato storico della proprietà che dovrebbe essere escluso testualmente, e in alcune particolari ipotesi è specificamente escluso, per ammettere una proprietà temporanea, che del resto non sarebbe più, e quando è prevista non è più, la proprietà. Il silenzio della legge sulla perpetuità è la sua conferma.

La perpetuità è un momento essenziale della pienezza, che investe anche la durata del diritto. Poiché la proprietà prende il bene nella sua totalità, questa totalità dura anche nel tempo (v. De Martino, 19764, pp. 150 s.).

Non vale obiettare che una proprietà limitata nel tempo avrebbe fin quando durasse i caratteri della pienezza e dell'esclusività nel godimento e nella disposizione. Il godimento e la disposizione limitati nel tempo non sono certo il godimento e la disposizione definitivi. Il godimento temporaneo sarebbe sostanzialmente un usufrutto soggetto alle limitazioni inevitabilmente legate alla temporaneità e una disposizione temporanea non potrebbe avere altro oggetto che quel godimento. Di fronte al proprietario temporaneo sovrasterebbe il proprietario che avesse disposto temporaneamente della proprietà, onde verrebbe meno anche il carattere dell'esclusività.

Per la ragione indicata non è proprietà il diritto dell'istituito con fedecommesso, che infatti la legge accomuna all'usufrutto (art. 693), né quello sulla costruzione del superficiario per un tempo determinato, che può disporre del suo diritto, ma non a titolo di proprietà: infatti allo scadere del termine non solo si estinguono i diritti costituiti sulla costruzione dal superficiario, ma la proprietà del suolo si estende alla costruzione (artt. 953 ss.).

Un discorso a parte deve farsi per l'enfiteusi, che può essere perpetua o a tempo determinato, e nella quale la distribuzione di poteri sul fondo fra enfiteuta e concedente (nell'ordinamento italiano regolata dal Codice, artt. 957 ss., e da leggi speciali) deve condurre alla conclusione della coesistenza di diritti reali entrambi diversi dalla proprietà, piuttosto che a quella tradizionale di uno sdoppiamento della proprietà (dominio utile dell'enfiteuta e dominio diretto del concedente). Anche la distinzione prospettata, fra una proprietà formale del concedente e una proprietà sostanziale dell'enfiteuta (v. Pugliatti, La proprietà..., 1954, pp. 240 ss., 271 s.), non rispecchia le differenze essenziali che permangono fra il diritto dell'enfiteuta e il diritto di proprietà (obblighi specifici costitutivi dell'enfiteuta e devoluzione; validità, sia pure limitata, del divieto all'enfiteuta di disporre del proprio diritto, divieto di subenfiteusi, prescrittibilità del diritto dell'enfiteuta).

Vi sono casi in cui per volontà delle parti o per disposizione della legge sembra sussistere la possibilità di una proprietà temporanea formale di fronte a una proprietà definitiva sostanziale. Per volontà delle parti questa situazione sussisterebbe nella cosiddetta proprietà fiduciaria, cioè attribuita ad altri per l'assolvimento di un incarico rimesso alla fiducia in lui riposta. È discutibile che la fiducia, in altri ordinamenti largamente ammessa, sia consentita dall'ordinamento italiano. Ma pur concedendo che sia ammessa, la cosiddetta proprietà fiduciaria, proprio per l'obbligo di esercitarla in conformità dell'incarico che la domina, non è proprietà.

Per volontà della legge un esempio sarebbe quello della proprietà temporanea attribuita agli enti di riforma fondiaria nell'intervallo fra l'espropriazione e l'assegnazione definitiva ai coltivatori (ibid., pp. 291 ss.). Anche questa e altre simili ipotesi non confermano la compatibilità della proprietà con un termine perché si riferiscono a proprietà pubbliche funzionali, che non sono perciò riconducibili, come si vedrà meglio in seguito, alla proprietà tipica.

La temporaneità normale degli altri diritti sulle cose, la loro prescrittibilità, la stessa limitazione di durata del patto di riscatto nella vendita costituiscono conferma della perpetuità della proprietà.

La perpetuità della proprietà comporta che della stessa il titolare può disporre per atto tra vivi e per testamento però non ad tempus; comporta altresì che essa passi per legge, sempre senza limite di tempo, nella successione ereditaria.

Collegata alla perpetuità della proprietà del privato e reciprocamente argomento a favore della perpetuità è l'imprescrittibilità del diritto di proprietà, unico caso nella legge italiana di sottrazione alla prescrizione di un diritto patrimoniale disponibile.

Non soltanto sono imprescrittibili, com'è ovvio ed è confermato in singole disposizioni di legge, le singole facoltà comprese nella proprietà, i cosiddetti diritti facoltativi, la loro permanenza, malgrado il non uso, dipendendo dalla permanenza della proprietà. È imprescrittibile lo stesso diritto di proprietà, come risulta dalla ragione della prescrizione e, nella legge italiana, da una disposizione testuale.

La ragione della prescrizione è che l'inerzia del titolare nell'esercizio del diritto per il tempo determinato dalla legge, non soltanto la mancanza di esercizio (contra non valentem agere non currit praescriptio), ne determini l'estinzione a vantaggio dell'altro soggetto del rapporto: l'estinzione del diritto di credito a vantaggio del debitore, l'estinzione del diritto su cosa altrui a vantaggio del proprietario. Questa liberazione dell'altro soggetto non si verificherebbe con l'estinzione della proprietà per prescrizione; perciò l'inerzia durata nel tempo non pregiudica per sé il proprietario, salve le norme particolari che colpiscano positivamente questa inerzia rispetto a certi beni d'importanza sociale.

Sarebbe concepibile anche una norma di carattere generale che ammettesse la prescrizione della proprietà a favore della collettività e per essa a favore dello Stato: si ricordi la norma già citata per cui gli immobili vacanti appartengono allo Stato (art. 827). Ma una norma simile non esiste, anzi nella legge italiana esiste la norma che, come si è detto, stabilisce testualmente l'imprescrittibilità dell'azione di rivendicazione, ‟salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione" (art. 948). Occorre dunque che altri possieda il bene altrui nei modi richiesti per l'acquisto della proprietà, non basta il non uso da parte del proprietario (cfr. anche art. 533 per la petizione di eredità).

Comunque poi si configuri l'azione rispetto al diritto con la stessa tutelato, semplicemente come ius persequendi iudicio quod sibi debetur o come diritto a sé stante, certamente l'imprescrittibilità dell'azione di rivendicazione significa anche imprescrittibilità del diritto di proprietà, e infatti per la stessa legge i ‛diritti' sono soggetti o no a prescrizione (art. 2934).

9. Titoli di acquisto

L'acquisto della proprietà si fonda su un giusto titolo, cioè un atto o un fatto che giustifichi l'acquisto.

In ordine logico e storico il primo titolo è quello originario, la proprietà si acquista col possesso del bene. Avviene un miracolo giuridico, che ha molti altri riscontri, per la necessità in cui si trova il diritto di adeguarsi alla realtà: ex facto oritur ius.

Il possesso della cosa che non appartiene ad altri, perché non è mai appartenuta a nessuno o perché è stata abbandonata, fa acquistare immediatamente la proprietà a chi se ne impossessa: è l'occupazione. La caccia, la pesca sono modi di acquisto della proprietà per occupazione. Non possono essere acquistati per occupazione gli immobili vacanti che appartengono allo Stato.

È possibile anche l'acquisto a titolo originario della proprietà di cose appartenenti ad altri: così l'acquisto per invenzione delle cose ritrovate quando non siano richieste da chi le aveva smarrite, del tesoro rinvenuto per caso nel fondo altrui, attribuito nella legge italiana per metà all'inventore (art. 932); così l'acquisto per accessione a favore del proprietario della cosa che la legge considera più importante, come nelle costruzioni, piantagioni e altre opere sul suolo altrui, che cedono a favore del suolo, nell'unione di cose mobili prima appartenenti a diversi proprietari.

Significativa di una tendenza, che poi avrà straordinari e imprevedibili sviluppi, è l'attribuzione preferenziale della proprietà del prodotto all'autore della specificazione, cioè a colui che col suo lavoro ha trasformato la materia prima appartenente ad altri (art. 940 del Codice italiano).

Si è detto dell'acquisto per accessione delle costruzioni eseguite da altri a favore del proprietario del suolo. Sia ben presente però come il ius aedificandi, facoltà costitutiva del contenuto della proprietà del suolo, è sempre più largamente vincolato all'osservanza di molteplici regole, specie per le esigenze urbanistiche, quando non è addirittura subordinato, come avviene oggi in Italia, a una concessione amministrativa a pagamento, riservata al comune (L. 28 gennaio 1977, n. 10; v. cap. 13).

È altresì a titolo originario l'acquisto della proprietà mediante il possesso del bene altrui durato il tempo variamente stabilito dalla legge per l'usucapione, a seconda che si tratti di beni immobili, universalità di mobili (come una biblioteca, una collezione di quadri, un gregge) o di singoli mobili.

Il possesso conseguito in buona fede e sulla base di un titolo per sé idoneo a trasferire la proprietà, ma non proveniente dal proprietario, determina immediatamente l'acquisto della proprietà dei beni mobili a favore del possessore (en fait de meubles possession vaut titre), perché sia sicura la circolazione di quei beni. Lo stesso possesso qualificato giustifica invece l'usucapione abbreviata delle universalità di mobili, dei mobili iscritti in pubblici registri e degli immobili, con decorrenza dalla trascrizione per i beni registrati. L'acquisto della proprietà mediante il possesso fondato sul titolo (acquisto a non domino) è ancora un acquisto originario, perché la proprietà non apparteneva all'alienante e sorge in capo all'acquirente, ma soggiace ai limiti eventualmente risultanti dal titolo (v. Mengoni, 19753, pp. 379 s.).

La rilevanza positiva e negativa del titolo avvicina l'ultima specie di acquisto all'acquisto derivativo della proprietà, quello, cioè, che si verifica in conseguenza del trasferimento del diritto da un precedente proprietario, al quale l'acquirente succede.

La successione può avvenire per atto tra vivi, volontario o coattivo, ossia imposto dalla legge, oppure a causa di morte del precedente titolare, e anche qui per l'atto di volontà del medesimo che si chiama testamento (istituzione di erede o legato) o per volontà della legge, primaria a favore dei congiunti perciò detti legittimari, o secondaria rispetto alla successione testamentaria, la successione legittima. La successione a causa di morte assicura la continuità dei rapporti giuridici attivi e passivi oltre la vita del soggetto: quanto alla proprietà dei beni con la continuità ne assicura la perpetuità.

Si noti come alla fine la durevole situazione di fatto diventi rilevante anche per sorreggere l'acquisto derivativo della proprietà: essa soltanto, infatti, quando la proprietà venga contestata, consente la dimostrazione della proprietà, con la prova del possesso, anche presso i precedenti autori, per il tempo che sarebbe sufficiente all'usucapione, dimostrazione che altrimenti sarebbe impossibile (probatio diabolica).

10. Accesso alla proprietà

In una trattazione problematica della proprietà non si può non fare menzione dei problemi dell'accesso alla proprietà.

Negli ordinamenti informati al principio della libertà economica l'accesso alla proprietà rispetto ai beni che possono costituirne oggetto è aperto egualmente a tutti, s'intende però a tutti coloro che abbiano i mezzi per procurarsela. Questa limitazione sostanziale, a fronte della libertà formale dell'accesso, induce gli ordinamenti a favorire l'accesso di determinati soggetti alla proprietà di determinati beni, e precisamente dei soggetti che meritino il favore dell'ordinamento.

È questa la chiave in cui va interpretata, ad esempio, la norma della Costituzione italiana secondo la quale la proprietà privata è regolata dalla legge ‟allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti" (art. 42). L'accessibilità a tutti va intesa in relazione alla funzione sociale, di cui si parlerà più innanzi, e comporta che avvenga una redistribuzione dei beni, o almeno di alcuni beni, giacché all'infuori dell'ipotesi della creazione di nuovi beni, certo non risolutiva, non vi è altro mezzo che la redistribuzione, cioè lo spostamento dei beni da alcuni ad altri soggetti, per l'accessibilità generale alla proprietà. Perché questo avvenga occorre un interesse sociale, cioè un interesse diffuso della società generale, sebbene non assunto dall'organizzazione giuridica della società come interesse proprio, cioè come interesse pubblico.

La Costituzione italiana, a conferma del valore sociale che attribuisce alla proprietà privata, prevede che la legge aiuti ‟la piccola e la media proprietà" terriera (art. 44), la proprietà cooperativa e la proprietà artigiana (art. 45), incoraggi il risparmio e favorisca ‟l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese" (art. 47).

Sulla base dell'impostazione costituzionale, e in sostanziale armonia con gli ordinamenti stranieri informati a sistemi economici uguali, la legislazione italiana contiene norme specifiche che variamente promuovono e tutelano quella che si può complessivamente chiamare la piccola proprietà, e non solo la proprietà dei beni idonei alla soddisfazione dei bisogni personali e familiari dei singoli, ma anche dei beni produttivi il cui esercizio sia affidato all'attività personale e, almeno prevalentemente, familiare degli stessi.

Leggi speciali regolano, in conformità della direttiva costituzionale, le cooperative anche di produzione, l'artigianato, la proprietà dell'abitazione, realizzata attraverso le cooperative edilizie o l'edilizia pubblica popolare, la piccola proprietà coltivatrice.

Speciale menzione meritano le importanti leggi di riforma fondiaria, che in Italia, per creare la piccola proprietà dei poderi, hanno operato, in più parti, specie meridionali, del territorio nazionale, una larga espropriazione di terre non perfettamente coltivate.

Gli effetti discutibili della riforma fondiaria non solo hanno determinato un arresto della riforma che doveva riguardare la restante parte del territorio, ma hanno rimesso in discussione un punto, rimasto sempre indefinito: se giovi all'interesse generale la creazione della piccola proprietà, specialmente quando si tratti di beni per la cui produttività occorrono mezzi di cui il piccolo proprietario non dispone, neppure attraverso la cooperazione.

Il problema è più generale e investe la scelta di una linea di sviluppo che meglio valga a realizzare l'utilità sociale. La linea tradizionale è quella della libertà della proprietà privata, temperata ma coerente a un sistema di libertà economica, cioè anche di iniziativa e attività economica (una vivida espressione di tale indirizzo: ‟Bisogna conservare la proprietà, pur temperandola. Bisogna conservarla, perché, senza di essa, lo spazio vitale necessario all'elevazione dell'individuo si restringe, e mancano alla collettività le mille fonti che salgono ad essa dall'attività degli individui"; v. Vivante, 1969, p. 194). Lo spostamento coattivo di determinati beni alla piccola proprietà, per imperativa disposizione di legge o attraverso disincentivi che rendano inappetibile la proprietà media e grande, è la linea dell'economia mista dei paesi occidentali. Infine verso la proprietà pubblica, anche a scapito della piccola proprietà, si orienta una tendenza politica e ideologica.

Un episodio legislativo italiano recente induce alla riflessione: nonostante il manifesto ribadito favore della Costituzione verso la piccola proprietà, e specificamente, come si è visto, verso la proprietà dell'abitazione, una legge (8 agosto 1977, n. 513) ha escluso l'acquisto della proprietà dell'alloggio popolare da parte dell'assegnatario mediante il riscatto: si è detto che giova socialmente mantenere gli alloggi popolari alla proprietà pubblica.

Altro motivo di riflessione è costituito dalla concorde resistenza degli interessati, lavoratori e imprenditori, all'investimento azionario del risparmio popolare. Sono ben note le difficoltà frapposte alle azioni di risparmio, e quanto alle azioni in favore dei prestatori di lavoro dipendenti, già previste dal Codice (art. 2349), l'ostacolo decisivo è rimasto quello della non realizzata e allo stato non realizzabile partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa, ancorché proposta dalla Costituzione (art. 46).

11. Ambito della proprietà

L'ambito della proprietà è determinato dai limiti che la investono dall'interno, per commisurare il diritto al concreto interesse del titolare, e dall'esterno, per commisurare il diritto agli interessi che meritano tutela degli altri consociati, sia quali singoli, sia come collettività. Si consideri al riguardo che la pertinenza del bene al singolo intanto ha ragione di essere tutelata mediante l'elevazione a diritto di proprietà, in quanto il singolo fa parte della società: fuori della società non è concepibile alcun diritto, e nemmeno la proprietà, come massimo e fondamentale dei diritti soggettivi. È esatta quindi la proposizione di una sentenza della Corte costituzionale italiana: ‟la Costituzione dà al diritto di proprietà confini che la inseriscono nella realtà sociale e ne armonizza con questa le esplicazioni".

Il problema che trova diversa soluzione nel tempo e nello spazio è di stabilire la misura dei poteri del proprietario nella valutazione che spetta all'ordinamento del suo interesse e degli interessi altrui. Le soluzioni sono assai diverse secondo i tempi e i luoghi, sebbene la linea di tendenza sia quella di una progressiva compressione della proprietà privata a vantaggio di persone, di gruppi sociali, della società generale, i cui interessi sembrino preminenti rispetto all'interesse del proprietario. Di qui l'estendersi dei limiti legali alla proprietà privata, intendendo per limiti tutto ciò che restringe i poteri del proprietario nel servirsi del suo bene, siano essi limiti in senso stretto non comportanti o anche comportanti uno specifico diritto altrui sul bene, vincoli al libero esercizio dei poteri del proprietario, obblighi positivi di comportamento del proprietario.

Il fenomeno della moltiplicazione dei limiti legali della proprietà privata dei beni d'importanza sociale, anche a tutela di particolari categorie di persone, risale nei nostri paesi ai primordi del secolo. Esso però è diventato più incalzante in tempi più recenti, sotto l'influenza dei cambiamenti sociali e politici e delle nuove costituzioni. La moltiplicazione è avvenuta attraverso leggi speciali sempre più numerose e importanti che hanno profondamente mutato rispetto ai beni indicati la figura della proprietà privata delineata dai codici.

Al di qua dei limiti che circoscrivono l'impiego del bene da parte del proprietario alla soddisfazione del suo interesse sussiste il diritto di proprietà, che così viene a costituire, come si è accennato, il nucleo centrale di quella situazione giuridica più ampia costituita anche dai limiti, vincoli, obblighi, alla quale pure si attribuisce il nome di proprietà: l'istituto della proprietà, che comprende il diritto di proprietà, ma non si risolve nel diritto, istituto che consta, in astratto e in concreto, delle diverse posizioni attive e passive che in esso confluiscono, e non si deve quindi confondere col complesso delle norme che lo regolano, come pure è stato sostenuto (v. Rodotà, s. d., ma 1967, p. 140).

12. Proprietà, diritti altrui, comproprietà

Nell'esercizio del suo diritto di proprietà il titolare può costituire altri diritti sul suo bene sia di carattere reale che di carattere personale, e questi diritti naturalmente comprimono i poteri di godimento e disposizione del proprietario, ma non perciò si possono considerare alla stregua dei limiti imposti dalla legge alla proprietà. Con la costituzione di quei diritti il titolare anzi realizza il suo diritto di proprietà. Tutti questi diritti, come riflesso della perpetuità della proprietà, non sono perpetui e rifluiscono con la loro estinzione nella proprietà. Essenzialmente temporanei sono i diritti reali di usufrutto, uso, abitazione. Eventualmente temporanei sono i diritti del concedente e dell'enfiteuta, il diritto di superficie, e anche il diritto di servitù prediale che si estingue per estinzione del diritto del costituente non proprietario, per confusione con la proprietà e per prescrizione. Temporanei i diritti reali di garanzia, che durano quanto il credito garantito.

Alla temporaneità dei diritti reali parziali fa riscontro la loro tipicità: a salvaguardia della proprietà come diritto reale fondamentale la legge non consente che si possano costituire diritti reali diversi da quelli tassativamente previsti. E temporanei sono in principio i diritti personali di godimento del bene altrui, rispetto ai quali concorre con quella della proprietà la salvaguardia della persona del titolare dall'assunzione di obbligazioni perpetue.

Una compressione dei poteri caratteristici della proprietà si ha anche nella comproprietà, caratterizzata essa pure dalla temporaneità, e nella quale la coesistenza di più titolari altera la struttura del diritto sul bene, non essendo accettabile, quando si tratti di comproprietà per quote, che è la figura normale della comproprietà nei diritti continentali, la figura del diritto sulla quota: la quota è soltanto la misura della partecipazione al diritto sull'intero bene. La coesistenza di più titolari esige che i poteri costituenti il contenuto della proprietà vengano regolati in corrispondenza e vi sono facoltà che non competono ai singoli, ma alla collettività dei partecipanti. Più evidente è la diversità di struttura nella comproprietà senza quote, come quella detta a mani riunite, che quale comproprietà attiva per il perseguimento di determinati scopi trova specifiche applicazioni anche nei paesi nei quali, come in Italia, la comproprietà generalmente ammessa è quella per quote: la figura della comproprietà a mani riunite trova per esempio riscontri, nei limiti in cui è prevista un'autonomia patrimoniale, nella comunione tacita familiare, nella comunione patrimoniale fra coniugi, nel fondo patrimoniale, nell'impresa familiare, previsti dalla legge italiana (artt. 159 ss., 230 bis del Codice civile, nel testo introdotto con la L. 19 maggio 1975, n. 151).

Un riscontro della comproprietà a mani riunite si ha altresì nella proprietà collettiva, che in alcuni paesi, come in Italia, ha assunto diverse figure, al limite fra la proprietà privata e la proprietà pubblica, per lo svolgimento di un'attività comune diretta al conseguimento di determinati risultati di comune utilità.

La proprietà collettiva ha avuto una lunga e importante storia per le comunità locali che hanno fruito insieme di certi beni, specialmente in agricoltura. Ma essa sarebbe ravvisabile anche attualmente in quelle comunità organizzate per un'attività economica, prive di personalità giuridica (v. Pugliatti, La proprietà..., 1954, pp. 204 ss.),

Nella valutazione della proprietà collettiva si è ritenuto che la stessa sia ancora suscettibile di espansione, nonostante l'attuale decadenza. Un'apertura verso l'avvenire potrebbe essere costituita dalla previsione che si trova nella Costituzione italiana di riserva o trasferimento di determinate imprese ‟di preminente interesse generale" e ‟a fini di utilità generale", non solo a enti pubblici ma anche ‟a comunità di lavoratori o di utenti" (art. 43).

13. Limiti imposti alla proprietà

Qui si parla di limiti nel senso ampio già chiarito, comprensivo non solo dei veri e propri limiti assegnati dalla legge ai poteri compresi nella proprietà privata, ma anche dei vincoli che, senza arrivare all'espropriazione, menomano la proprietà privata a tutela di un interesse generale, e degli obblighi positivi di comportamento a cui il proprietario è tenuto in quanto tale.

a) Il limite interno

Il primo limite è commisurato all'interesse concreto del proprietario, è, come si dice, interno al diritto di proprietà, perché questo è attribuito al soggetto per la realizzazione di un suo interesse apprezzabile, non per consentirgli un comportamento arbitrario e soltanto pregiudizievole per i terzi. L'esistenza di questo limite interno per cui il diritto arriva fin dove arriva l'interesse del soggetto si argomenta dal divieto tradizionale dei cosiddetti atti emulativi, ribadito dall'art. 833 del Codice italiano, secondo il quale ‟il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri". L'esercizio della proprietà specie immobiliare può arrecare pregiudizio ad altri, ad esempio ai vicini, e dev'essere sopportato finché può considerarsi tollerabile. L'atto di emulazione è quello compiuto senza un proprio interesse e soltanto per arrecare pregiudizio ad altri.

Lo stesso limite dell'interesse, che viene qualificato come interesse ‟pratico", emerge dalla regola che stabilisce la dimensione verticale della proprietà del suolo: per il Codice italiano il proprietario non può opporsi a quelle attività che in altezza o in profondità si svolgano a livelli ai quali ‟egli non abbia interesse ad escluderle" (art. 840, secondo comma).

Da queste regole comunemente accolte e dalle altre che, nei rapporti costituiti fra consociati, richiedono correttezza e buona fede, si può risalire probabilmente a un principio di solidarietà da intendere nel senso che il criterio dell'interesse del titolare del diritto di proprietà, come di ogni altro diritto, vada messo a confronto con gli interessi dei terzi per determinare la misura concreta del diritto.

Se è così, da questa concezione del diritto di proprietà e del diritto soggettivo in generale risulta assorbita la vaga nozione di abuso del diritto: più che abusare del suo diritto chi compie un atto che non serve all'interesse per il quale il diritto gli è attribuito e pregiudica gli altri, va oltre il diritto, invade la sfera del diritto altrui, compie un atto illecito e si espone alla sanzione dell'illecito (v. Santoro-Passarelli, 19669, pp. 76 s.).

b) I limiti esterni

Gli altri limiti operano sul diritto di proprietà dall'esterno, nel senso che dipendono da una posizione di altri soggetti o della collettività, tutelata dalla legge.

È un limite alla proprietà del suolo, la quale si estende, come si è accennato, al sottosuolo, l'esclusione da questa estensione delle cose d'interesse generale che si trovano nel sottosuolo, come le miniere e altri giacimenti, le cose d'interesse storico, artistico, archeologico, le acque, che in base alle leggi speciali sono di proprietà pubblica (art. 840, primo comma, del Codice italiano).

Esterni alla proprietà degli immobili sono altresì i limiti reciproci di vicinato, relativi alle immissioni di fumo, di calore, di rumori e ad altre propagazioni derivanti dal fondo del vicino, fino al limite, per la legge italiana, della normale tollerabilità, da valutare anche con riguardo alle esigenze della produzione (art. 844). E così anche i limiti concernenti le distanze dal confine nelle costruzioni, nelle piantagioni e in altre opere che si realizzino sul suolo (artt. 873 ss., leggi speciali, regolamenti comunali), nell'apertura di finestre sul fondo del vicino (artt. 900 ss.).

Al di là di questi limiti generali, ulteriori limitazioni alla proprietà fondiaria possono essere stabilite mediante la costituzione di servitù prediali che, ricorrendo determinati presupposti, possono essere stabilite con una sentenza del giudice e, in casi particolari previsti dalla legge, anche con un provvedimento dell'autorità amministrativa. Sono queste le servitù che si chiamano coattive, per distinguerle dalle volontarie, costituite dallo stesso proprietario: tali le servitù di passaggio, di acquedotto, di elettrodotto.

Mentre i limiti legali per la loro reciprocità non danno luogo a un compenso, le servitù coattive, menomando la proprietà del fondo sul quale viene imposta la servitù a vantaggio altrui, comportano un'indennità commisurata alla menomazione.

I limiti di vicinato sono reciproci e quindi si risolvono in un migliore assetto delle proprietà immobiliari confinanti nell'interesse privato dei rispettivi titolari, ancorché di riflesso nell'interesse della comunità. Sono imposti invece nell'immediato interesse della collettività e senza carattere di reciprocità svariati vincoli alla proprietà ancora specialmente, ma non esclusivamente, immobiliare. Dei vincoli riguardanti i beni organizzati per la produzione si farà cenno a proposito dell'impresa.

Il vincolo investe i due momenti della proprietà, il momento del godimento, influenzando indirettamente il momento della disposizione, e direttamente la stessa disposizione.

Di preminente importanza, negli ordinamenti contemporanei, sono i vincoli urbanistici. Nel territorio urbano la proprietà dell'area non consente, se non col rispetto di gravosi vincoli, l'esercizio del ius aedificandi, inerente in principio a quella proprietà. L'attività edilizia è ristretta in relazione alle superfici che si possono coprire con le costruzioni, alle altezze e ai volumi delle medesime e sempre nelle zone in cui costruire è consentito, sia pure con l'osservanza di diverse modalità. I piani regolatori dei comuni, con la distinzione del territorio in varie zone residenziali, industriali, riservate al verde, costituiscono lo sbarramento dell'attività edilizia. Ai comuni è consentita l'espropriazione di quelle aree che debbono essere destinate ai servizi pubblici cittadini.

La stessa facoltà di costruire è ora subordinata in Italia, come si è accennato (v. cap. 9), a una concessione del comune che viene rilasciata dietro la corresponsione di un contributo per le spese di urbanizzazione, variamente determinato anche in relazione al tipo di costruzione che il proprietario intende elevare. Non si tratta di una concessione in senso tecnico, ma piuttosto di un'autorizzazione, perché il ius aedificandi, sia pure condizionato per la necessità del provvedimento amministrativo, non è passato al comune e continua a far parte della proprietà. Infatti la concessione è dovuta, purché siano osservate le regole urbanistiche (cfr. in tal senso Corte cost. 30 gennaio 1980, n. 5; diversamente Moscarini, v., 1979, pp. 573 e 593).

Per le varie esigenze della collettività urbana, compresa e sempre più avvertita la difesa dall'inquinamento, specie atmosferico, le proprietà nel territorio urbano, a seconda dell'ubicazione dell'area, non sono più eguali. E si noti che in principio i vincoli urbanistici, come gli altri vincoli, essendo di carattere generale, riguardando cioè tutte le proprietà che si trovano in una stessa situazione, non comportano indennità a favore delle proprietà colpite, a volte svuotate dall'imposizione dei vincoli. Diverso è stato in Italia l'orientamento della Corte costituzionale per quei vincoli urbanistici che riguardino non tutte le aree di una medesima zona, ma soltanto alcune fra esse, ai quali si e ritenuto dovesse estendersi il principio costituzionale dell'indennità stabilito per l'espropriazione (art. 42, terzo comma).

Variamente vincolata, sia nel godimento che nella disposizione, è la proprietà dei beni d'interesse artistico, storico, archeologico, paletnologico e ambientali, la cui disciplina nell'ordinamento italiano è dettata da diverse leggi speciali, fino alla recente costituzione di un'amministrazione speciale dei beni culturali e ambientali.

Molteplici e intensi sono i vincoli della proprietà terriera, per la permanente importanza della terra come primo bene produttivo. Nella Costituzione italiana l'art. 44, già ricordato, contempla obblighi e vincoli per la proprietà terriera, limiti alla sua estensione, bonifica delle terre, trasformazione del latifondo, ricostituzione delle unità produttive, agevolazioni della piccola e media proprietà agricola, ovviamente con una redistribuzione delle terre, provvedimenti a favore delle zone montane, e tutto ciò al doppio fine del razionale sfruttamento del suolo e dello stabilimento di più equi rapporti sociali (v. cap. 6).

Vincoli specifici per la bonifica integrale, per la stabilità dei terreni, per la conservazione del regime delle acque, per la preservazione dei boschi e dei terreni montani sono contemplati dal Codice e da diverse leggi speciali.

Specificamente indirizzate alle finalità indicate nella norma costituzionale sono state, con esito purtroppo non corrispondente alle aspettative, le leggi dette di riforma fondiaria riguardanti alcune parti del territorio nazionale nelle quali la riforma era apparsa più urgente.

Le assegnazioni delle terre espropriate ai coltivatori sono state assoggettate a limiti di estensione, a vincoli e obblighi riguardanti la disposizione, la coltivazione e il miglioramento dei terreni assegnati, con la sanzione della decadenza dall'assegnazione nel caso d'inosservanza.

L'obbligo di miglioramento caratterizza istituzionalmente il diritto dell'enfiteuta, il cosiddetto dominio utile, con la sanzione, per l'inosservanza, della devoluzione al concedente. A tale obbligo va ricondotta la lontana origine storica dell'enfiteusi, e lo stesso nome lo denuncia, intesa a favorire una presenza attiva sul fondo con pieni poteri, senza la perdita del dominio eminente da parte del concedente.

Gravosi vincoli alla proprietà dei terreni e degli immobili urbani, specie delle case di abitazione, derivano da altre leggi che hanno sottratto all'autonomia privata dei proprietari la determinazione della durata e del corrispettivo nei contratti di affitto rustico e in altri contratti agrari e nel contratto di locazione di immobili, a vantaggio di coloro cui viene ceduto il godimento di detti beni. L'equo canone significa che il corrispettivo del godimento del bene non può essere liberamente determinato dalle parti secondo le condizioni di mercato, ma viene stabilito dalla legge in base a criteri predeterminati. Il vincolo investe non soltanto la proprietà, ma l'autonomia dei privati, giacché la regola generale dei contratti è quella del corrispettivo concordato dalle parti, col solo limite della lesione, non quella dell'equo corrispettivo. Si fa sentire l'esigenza di più equi rapporti sociali, che sopravanza quella del tornaconto economico.

Infine la proprietà può costituire termine di riferimento di obblighi, cioè di comportamenti dovuti dal proprietario in quanto tale. Già si è avuta occasione di menzionare alcuni obblighi congiunti ai vincoli in relazione a determinati beni. Ma, a parte gli obblighi testualmente previsti insieme ai vincoli per la proprietà terriera dalla citata norma della Costituzione italiana, obblighi positivi di comportamento del proprietario sono previsti più generalmente nei vari ordinamenti.

Una norma del Codice civile italiano, alla quale non si è fatta molta attenzione e non si è data applicazione, stabilisce un obbligo di conservazione, di coltivazione e di esercizio rispetto ai beni produttivi d'interesse generale, cosi che quando quest'obbligo non viene osservato, con grave pregiudizio della produzione, il bene può essere espropriato dall'autorità amministrativa, con una giusta indennità. E la stessa norma vale per il proprietario che lascia deperire il suo bene con grave pregiudizio del decoro cittadino o di altri interessi della collettività (art. 838).

Alla sanzione dell'espropriazione conduce altresì l'inosservanza degli obblighi rispetto ai terreni siti nei comprensori di bonifica e per i quali è prevista anche la costituzione di consorzi obbligatori, se risulta compromessa l'attuazione del piano di bonifica (art. 965).

L'obbligo di coltivazione è il presupposto della legislazione sulle terre incolte o insufficientemente coltivate, che stabilisce l'assegnazione di tali terre, con provvedimento dell'autorità amministrativa, a cooperative di contadini per un tempo determinato contro un corrispettivo stabilito dall'autorità.

Obblighi per il proprietario sono previsti anche relativamente alle costruzioni nelle zone di interesse paesistico e, tornando alla proprietà terriera, nella disciplina tendente a evitarne l'eccessivo frazionamento (artt. 846 ss.).

Obblighi collegati alla proprietà del fondo, che non investono l'esercizio del diritto ma diminuiscono l'utilità del fondo per il titolare, sono quelli a una prestazione a cui il proprietario è tenuto come tale, e pertanto passano da un soggetto all'altro con la proprietà del fondo. Tali sono le cosiddette obbligazioni reali o ambulatorie. È l'appartenenza del bene che fa sorgere l'obbligo: così l'obbligo di riparare il muro comune (art. 882 del Codice italiano) o di contribuire alle spese necessarie per la conservazione dei beni comuni (art. 1104) e gli obblighi dell'enfiteuta (art. 960).

Diversi da queste obbligazioni reali sono gli oneri reali che, dopo essersi moltiplicati in passato (censi, livelli, decime), al punto da soffocare la proprietà e intralciarne la circolazione, e ancora ammessi in qualche codice moderno, come quello germanico (ÈÈ 1105 ss.), sopravvivono di regola negli attuali ordinamenti soltanto per casi determinati, nei quali la conservazione appare giustificata dalla soddisfazione di un interesse pubblico. Costituiscono oneri reali ad esempio i tributi fondiari, i contributi di bonifica (artt. 857 ss. e leggi speciali 964 e 1008).

Fuori dei casi ammessi, la tipicità delle insistenze di carattere reale sui beni altrui non consente all'autonomia privata di costituirne altri.

All'imposizione di limiti e anche di obblighi non si sottrae neppure la proprietà privata dei beni mobili: il conferimento, quando sia obbligatorio, agli ammassi (art. 837 del Codice civile italiano), il calmiere e le tariffe d'imperio dei prezzi di beni di largo consumo stanno a dimostrare l'importanza che questi limiti assumono nelle economie contemporanee.

14. La funzione sociale della proprietà privata

Il tema della funzione sociale della proprietà privata è fra i temi della proprietà quello che, fin dall'inizio del secolo, ha attratto maggiormente l'attenzione dei legislatori e della giurisprudenza teorica e pratica.

I limiti già considerati, imposti alla proprietà privata, siano essi imposti a tutela di altri interessi privati o di interessi diffusi della collettività o di interessi assunti come propri dallo Stato e resi quindi pubblici, assicurano indubbiamente la funzione sociale della proprietà privata, cioè il servizio che la stessa può e deve rendere a interessi diversi dall'interesse del proprietario. Limiti, vincoli, obblighi, oneri concorrono a formare quella situazione giuridica soggettiva nella quale, intorno al diritto soggettivo che consente al proprietario di soddisfare il suo interesse, la proprietà privata assolve la funzione sociale prevista dalle costituzioni.

Questo è il senso della formula della Costituzione di Weimar (art. 153), trasferita nella vigente Costituzione della Repubblica Federale Tedesca: ‟la proprietà obbliga" (art. 14, II: ‟Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soll zugleich dem Wohle der Allgemeinheit dienen"); questo è il senso della norma costituzionale italiana secondo cui la legge deve determinare la disciplina della proprietà privata, ovviamente senza sopprimerla, ‟allo scopo di assicurarne la funzione sociale" (art. 42).

Si tratta non di una semplice enunciazione, ma di un precetto, per quanto generico, che si indirizza al legislatore ordinario. Spetta a lui di attuarlo, come ha fatto e continua a fare, sia con l'imposizione di limiti alla proprietà privata, determinando quella situazione soggettiva composita di cui si è detto, sia agevolando l'accesso alla proprietà a coloro che ne siano privi e ne appaiano, rispetto a certi beni, particolarmente meritevoli, sia arrivando all'espropriazione e non solo ‟per motivi d'interesse generale", ma anche come sanzione a carico dei proprietari immeritevoli.

Il problema non è dunque della funzione sociale della proprietà realizzata o realizzabile dalla legge con specifiche disposizioni. Il problema è quello di una funzione sociale che, oltre i casi previsti dalla legge, giustifichi l'interpretazione analogica (v. Rodotà, s.d., ma 1967, coll. 140 ss.), o più ancora valga quale principio generale o, come ora si dice, quale clausola generale, che investa dall'interno la proprietà. La proprietà allora non assolverebbe soltanto una funzione sociale, grazie alla mediazione legislativa, ma diventerebbe una funzione sociale (v. Natoli, 1965, pp. 131 ss.; v. Rescigno, 1972, pp. 40 ss.; v. Ruffolo, 1978, nota 30).

È una conclusione a cui, con la giurisprudenza italiana e straniera più riflessiva, riteniamo non si possa dare adesione. Come in Germania si è negato che questo possa essere il senso della formula almeno apparentemente più impegnativa ‟la proprietà obbliga" (v. Kübler, 1960-1961, pp. 236 ss.), così in Italia si è contestato che tale possa essere il senso della funzione sociale della proprietà privata.

L'indicato problema del senso da attribuire alla funzione sociale è il problema stesso del significato attuale della proprietà privata. Stabilire se la proprietà rimane diritto soggettivo, potere del privato di provvedere al suo interesse, pur con la funzione sociale cui è chiamata, è un'operazione che investe l'intero ordinamento giuridico e più ancora l'assetto economico reale della società in cui viviamo.

Una proprietà diventata funzione sociale, cioè servizio di un interesse diffuso della collettività, ravvisabile anche in gruppi o singoli appartenenti alla collettività, non è la proprietà privata garantita costituzionalmente al singolo, perché per un servizio non ha senso la garanzia costituzionale, non è più proprietà, nel significato anche letterale della parola. E se la proprietà privata è funzione, anche l'impresa, che sarà ricordata più innanzi come proiezione attiva della proprietà, è necessariamente e soltanto funzione, contro l'altro principio della libertà dell'iniziativa economica privata che informa gli ordinamenti occidentali; né resta margine per un'economia di mercato, che pure, nell'interesse generale, si ammette che possa e debba coesistere con l'economia pubblica, la cui presenza è oggi necessaria, ma le cui esperienze non sono sempre state positive.

Si comprende così come in una legge ordinaria, qual è il Codice civile, la funzione sociale non abbia ragion d'essere quale precetto normativo autonomo e possa essere motivo di confusione. Perciò nella redazione del Codice civile italiano, dopo alcune incertezze, ne fu omessa alla fine la menzione nella definizione della proprietà, sebbene in quel Codice la funzione sociale sia già accolta, come si è visto, quale somma di limiti e di obblighi che dall'esterno indirizza variamente la proprietà dei beni appunto d'importanza sociale al servizio degli interessi della collettività (v. Vassalli, Per una definizione..., 1960, p. 334).

Fu detto molto nettamente in proposito che la proprietà serve fondamentalmente l'interesse del proprietario, che funzione e diritto soggettivo sono entità incompatibili, che, mentre non si ravvisa il fondamento giuridico di un generale obbligo od onere inerente alla proprietà, si può parlare di funzione sociale per indicare il complesso dei limiti e degli obblighi derivanti da concrete disposizioni di legge, che la funzione sociale ‟è un'espressione compendiosa di puro comodo [che] non può qualificare il nuovo diritto di proprietà" (v. Pugliatti, La proprietà..., 1954, pp. 140 ss.).

L'importanza sociale di determinati beni, i più diversi, terra coltivabile, suolo, altri immobili e specialmente case di abitazione, acque, fonti di energia, beni culturali, beni organizzati in impresa, rende necessaria l'adozione di diversi statuti della proprietà, provoca, com'è stato detto, un'‟invasione del diritto pubblico" (Pugliatti), che altera profondamente i connotati della proprietà rispetto al godimento e alla disposizione.

Ma alla domanda se, in relazione ai beni indicati, la proprietà è cambiata nella sua struttura, sicché la proprietà, nel suo significato storico, sopravvive soltanto rispetto ai beni di consumo, sembra si debba rispondere che la fattispecie minima della proprietà privata, il nucleo essenziale, permane anche rispetto ai beni d'importanza sociale, e in particolare ai mezzi di produzione, s'intende dove questi beni appartengano ancora ai privati.

Va detto che certe correnti anche avanzate di pensiero hanno accolto scetticamente, in Italia e all'estero, le formule ‛funzione sociale della proprietà' o ‛la proprietà obbliga', quali formule generiche e sostanzialmente elusive del problema della proprietà privata, non quali principi o clausole generali d'interpretazione. Si è scritto, anche dopo l'elevazione della funzione sociale alla dignità costituzionale in Italia (art. 42), che il problema del fine d'interesse collettivo o della funzione sociale della proprietà ‟dal lato giuridico non ha senso: più opportunamente esso va impostato tra proprietà e non proprietà"; che ‟al contrario la Costituzione sancì importanti limiti al diritto di proprietà e alla libera iniziativa privata, i quali si stanno introducendo nella nostra legislazione" (v. De Martino, 19761, pp. 144 ss.).

Ora è vero che quelle formule, così solenni ma anche così generiche, possono essere state escogitate per salvare il principio della proprietà privata. Estrema difesa o preludio alla fine? Ma è altresì vero che la funzione sociale, una volta introdotta in una costituzione, e specialmente in una costituzione rigida, assume un significato e un valore indipendenti dalla mente di chi escogitò quella formula.

Si è già visto come l'accoglimento della funzione sociale della proprietà privata nella Costituzione abbia trovato fra gli interpreti diversi significati.

Chi, prima della Costituzione, aveva considerato la funzione sociale un'espressione di puro comodo, dopo ha ravvisato in essa la tendenza dell'ordinamento a ‟polarizzare la proprietà verso la realizzazione di finalità sociali"; ‟la proprietà si avvia ad essere funzione sociale: la crisi è in via di svolgimento" (v. Pugliatti, La proprietà..., 1954, pp. 277 ss.).

Certo, con la consacrazione costituzionale la funzione sociale non è più soltanto l'espressione compendiosa del complesso di limiti e obblighi derivanti alla proprietà da specifiche disposizioni di legge. Essa, come si è detto, diventa l'indirizzo, il precetto della futura legislazione ordinaria, ferma sempre la necessità che sia la legge a stabilire limiti e obblighi.

La funzione sociale non diventa perciò lo scopo della proprietà, come si sostiene con un salto interpretativo, ma è, testualmente, lo scopo della disciplina legale limitatrice. Non solo non esiste, ma non può esistere infatti, in un ordinamento che ammetta e garantisca la proprietà privata, un generale obbligo od onere gravante sulla proprietà privata che faccia della proprietà stessa una funzione sociale, destinata cioè al servizio di interessi sociali.

Tale è la portata concreta del precetto costituzionale che vuole assicurata dalla legge la funzione sociale della proprietà privata.

15. Espropriazione

La proprietà privata, potenzialmente perpetua come si è visto, viene a cessare con l'espropriazione, senza che intervenga un atto di disposizione del titolare. Mentre l'atto di disposizione del titolare costituisce ancora esercizio della proprietà, l'atto finale del medesimo, l'espropriazione toglie al titolare la proprietà. A parte l'espropriazione forzata disposta dal giudice per il pagamento dei debiti del proprietario, l'espropriazione nell'interesse pubblico è atto amministrativo di ablazione della stessa, importa trasferimento coattivo della proprietà ad altro soggetto, traslativo se la proprietà viene tolta al titolare, traslativo-costitutivo se l'espropriazione serve alla costituzione di un diritto reale parziale sul bene.

In un ordinamento che ammetta e garantisca la proprietà privata, l'espropriazione non solo dev'essere prevista dalla legge e decisa dal potere pubblico, ma deve servire a soddisfare un interesse pubblico, salva la determinazione dell'ambito dell'interesse pubblico, assai diversa secondo i tempi nei vari ordinamenti.

Alla delineata tendenza restrittiva della proprietà privata, per la progressiva estensione di limiti, vincoli, obblighi, corrisponde una tendenza espansiva dell'espropriazione, a mano a mano che si allarga la sfera degli interessi che l'ordinamento considera pubblici, elevando a tale livello interessi della collettività economici e sociali, prima estranei all'azione pubblica. Un interesse pubblico, così inteso, è però pur sempre necessario, ancorché l'espropriazione avvenga per la soddisfazione dell'interesse di collettività particolari e a iniziativa di enti pubblici territoriali diversi dallo Stato (regioni, provincie, comuni) e anche, come al limite è possibile, di un altro privato, purché concorra con l'interesse del medesimo l'interesse pubblico.

La dilatazione dell'interesse atto a legittimare l'espropriazione risulta evidente per l'ordinamento italiano dalle diverse formule che si sono seguite nel tempo nell'ammissione dell'espropriazione. L'art. 438 del Codice del 1865 stabiliva che l'espropriazione non era consentita ‟se non per causa di utilità pubblica legalmente riconosciuta e dichiarata, e premesso il pagamento di una giusta indennità", e la legge garantistica del 25 giugno 1865, n. 2359, pur con le successive importanti modifiche, è rimasta la legge fondamentale in materia (v. ultimamente leggi 22 ottobre 1971, n. 865, e 28 gennaio 1977, n. 10). L'art. 834 del Codice vigente afferma che ‟nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarato, e contro il pagamento di una giusta indennità". L'art. 42 della Costituzione stabilisce più semplicemente e al positivo che ‟la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale". A parte la diversa intonazione testuale complessiva, utilità pubblica, pubblico interesse, interesse generale sono formule deliberatamente sempre più comprensive.

Se la proprietà privata, dei privati e degli enti pubblici, non la proprietà tipicamente pubblica, cioè soggetta al regime del demanio pubblico, può essere espropriata, con l'espropriazione la proprietà non solo viene coattivamente trasferita, ma, in vista del pubblico interesse per cui avviene il trasferimento, resta vincolata alla soddisfazione di questo interesse e sotto questo rispetto cambia natura, può diventare proprietà pubblica, in relazione all'impiego che venga fatto del bene espropriato.

La tendenza espansiva dell'espropriazione a soddisfazione dell'interesse pubblico si manifesta anche con la diversa e più discrezionale determinazione dell'indennità da parte della legge. La giusta indennità, corrispondente al valore venale o di mercato del bene, diventa l'indennità, senza attributi, e in essa si vuole che si tenga conto non solo del valore attuale del bene di cui viene privato il proprietario, ma anche della necessità del suo concorso alla realizzazione del pubblico interesse: non un'indennità simbolica - questo il limite ritenuto in Italia dalla Corte costituzionale, che, come si è già detto, ha riconosciuto dovuta un'indennita anche per l'imposizione di vincoli particolari alla proprietà (v. cap. 13, È b) - ma neppure una piena indennità. Certo la garanzia generale della proprietà privata costituzionalmente prevista riguarda anche l'indennità dovuta per l'espropriazione, perché non risulti svuotata di contenuto. L'indennità stabilita dalla legge dev'essere la risultante di una valutazione ponderata, costituzionalmente controllabile, degli interessi in giuoco nell'espropriazione. Queste considerazioni sono valse soprattutto per espropriazioni disposte da leggi particolari come quelle di riforma fondiaria (v. Santoro-Passarelli, 1972, p. 961).

Infatti, accanto alla figura generale dell'espropriazione nel pubblico interesse suscettibile di applicazione a tutti i beni in proprietà privata, esistono nei diversi ordinamenti, e fra gli altri nell'ordinamento italiano, figure particolari di espropriazione per determinati beni.

Nell'ordinamento italiano, a parte le norme del Codice e delle leggi speciali, in cui l'espropriazione è prevista come sanzione (v., in senso contrario, De Martino, 19764, pp. 174 ss.), per l'inosservanza di obblighi di esercizio della proprietà imposti al titolare (art. 838 per i beni di prevalente interesse pubblico, art. 865 per i terreni soggetti a bonifica), espropriazioni e trasferimenti coattivi complessi, anche reciproci, affidati ai consorzi di ricomposizione fondiaria, sono contemplati dal Codice per il riordinamento della proprietà rurale al fine di rispettare la minima unità culturale (artt. 846 ss., specialmente artt. 851 ss.).

Le norme di maggiore rilievo sono però quelle contenute nella Costituzione e riguardanti determinate imprese o categorie di imprese, che possono essere sottratte alla proprietà privata (art. 43), come si vedrà più innanzi (v. cap. 16), e la proprietà terriera (art. 43). Questa norma, già ricordata, prevede, fra l'altro, che la legge fissi limiti all'estensione della proprietà terriera privata, secondo le regioni e le zone agrarie, per la naturale limitazione della terra coltivabile.

In applicazione della norma costituzionale sono state adottate le cosiddette leggi di riforma fondiaria riguardanti singole parti del territorio nazionale, non seguite, come pure era previsto, da altre leggi, anche a causa dell'insuccesso della riforma.

Queste leggi hanno determinato espropriazioni generali a carico dei proprietari delle zone di riforma, dando così all'espropriazione una dimensione nuova. Dimensione nuova che si è attuata nel nostro paese integralmente con la nazionalizzazione delle imprese elettriche e che non potrebbe però essere estesa indistintamente agli altri mezzi di produzione, finché resti in vigore la disciplina costituzionale che prevede la proprietà privata e l'iniziativa economica privata (artt. 41 e 42). La previsione significa infatti garanzia non soltanto della proprietà dei beni di consumo e di uso personale, la cosiddetta proprietà personale, ma anche della proprietà dei beni di produzione e di scambio, fondamento di un'economia privata, in concorso con l'economia pubblica.

Una particolare forma di espropriazione è la requisizione di beni mobili e anche immobili adottata con procedimento sommario dall'autorità amministrativa, in conformità con le leggi speciali, per gravi e urgenti necessità pubbliche, e sempre col corrispettivo di un'indennità (art. 835 del Codice civile italiano). La requisizione può consistere anche nella temporanea privazione dell'uso del bene.

Non è riconducibile invece all'espropriazione, e manca il corrispettivo di un'indennità, sebbene determini privazione della proprietà del bene, la confisca o la distruzione di beni di cui l'ordinamento non considera giustificata l'appartenenza al titolare, previste da norme di leggi penali o amministrative.

Un'espropriazione ‛virtuale' viene ravvisata nella disciplina imperativa dei poteri delle parti, della durata del rapporto e della misura dei canoni, dettata nella ricordata legislazione vincolistica delle locazioni urbane e degli affitti rustici.

16. Proprietà e impresa

L'importanza sociale dei beni produttivi richiede una proprietà attiva, e quindi l'intervento del lavoro, dello stesso proprietario o di altri con lui o invece di lui.

La figura economicamente più importante della proprietà attiva è quella dell'impresa (v. Lucarelli, 1974, pp. 230 ss.). E quella del proprietario imprenditore rimane l'ipotesi di base, anche se l'impresa, quando raggiunge certe dimensioni, tende ad assumere un'esistenza indipendente dalla proprietà, ad avere una ragione d'essere in se stessa; e il fenomeno trova molteplici riconoscimenti nella disciplina giuridica. Si può dire di più, la tendenza all'autonomia e a una relativa soggettività dell'impresa si manifesta non solo di fronte alla proprietà dei beni organizzati in impresa, cioè coordinati col lavoro a fini produttivi, ma anche di fronte allo stesso imprenditore. La sua organizzazione, l'impresa, una volta compiuta, è infatti in grado di operare da sé, con le sue forze umane e materiali, di continuare la sua esistenza e la sua attività anche col mutamento dell'imprenditore. (V. anche impresa).

L'autonomia dell'impresa è perfetta quando è sorretta dalla personalità giuridica della società imprenditrice, e specialmente della società per azioni, costituita per l'impresa, o anche, come pure si è ritenuto possibile, di una fondazione (v. Rescigno, 1972, pp. 65 ss.). Allora la persona è tutt'uno con l'impresa, e la proprietà di chi ha fornito i mezzi rimane separata dall'impresa. Ma un'autonomia, sia pure limitata, è necessaria anche per l'impresa individuale, perché la richiede la realtà economica della stessa organizzazione nella fase operativa. Nei diversi ordinamenti sono riconoscibili i segni di questa autonomia: così nell'ordinamento italiano le norme che denunciano la sopravvivenza dell'impresa all'imprenditore (artt. 1330, 1722 e 2212 del Codice civile; v. Santoro-Passarelli, 1969).

Riconoscere questa tendenza dell'impresa all'indipendenza dalla proprietà non significa, come pure è stato sostenuto, che così si determina una disgregazione della proprietà, una dissociazione fra proprietà e controllo della gestione. La proprietà privata continua a essere la base dell'iniziativa economica privata, la cui esistenza e la cui libertà, costituzionalmente garantite (art. 41 della Costituzione italiana), suppongono la proprietà; il che ovviamente rimane vero anche quando, come ora può accadere, gli stessi impianti non sono acquistati, ma affittati in leasing dall'impresa.

La proprietà privata continua a essere la base dell'impresa anche dove la proprietà dei soci è distinta dalla proprietà della società persona giuridica, e anche dove, come nella società per azioni, la proprietà degli azionisti si comporta assai diversamente, a seconda che si tratti di azionisti che abbiano o no il controllo della società. Diverso è l'interesse concreto degli azionisti che intendono avere il comando della società dall'interesse concreto di quelli che intendono investire i loro risparmi, e la proprietà si presta, nella sua ‛multanimità', a soddisfare sia l'interesse dei primi che quello degli altri. Perciò non è probabilmente esatto neppure distinguere fra una proprietà sostanziale dei primi e una proprietà formale degli altri.

Così, se si accetta l'idea di proprietà diverse, atte a soddisfare interessi diversi, non si può ravvisare un processo degenerativo o disgregativo della proprietà, ma soltanto di differenziazione delle figure di proprietà atte a soddisfare diversi interessi, nel fatto che nelle grandi imprese il potere di decisione e di gestione passi dalle mani di chi rappresenta gli interessi della proprietà a quelle dei maggiori dirigenti (i managers) che, per la loro stessa collocazione nell'impresa, s'immedesimano con gli interessi dell'impresa in sé, piuttosto che con quelli della società imprenditrice (v. su questi punti Rescigno, 1972, pp. 62 ss., e l'anticipazione di Cesarini Sforza, 1939, pp. 361 ss.). Se questo avviene per il meccanismo della grande impresa, e gli azionisti grandi o piccoli condividono questa sistemazione, deve ammettersi che considerano in tal modo soddisfatti gli interessi della, anzi delle, loro proprietà (F. H. Lawson, Common law, in AA. VV., 1973, p. 141).

Così l'impresa, piccola, media o grande, sopravvive come strumento della libera iniziativa economica e dinamica riaffermazione della proprietà privata; così il contratto rimane, quale storicamente e genuinamente è, lo strumento dell'autonomia privata; così l'economia privata continua a essere, negli ordinamenti dei paesi occidentali, lo strumento non solo per la soddisfazione degli interessi privati, ma anche, nella libertà, degli interessi generali.

Tuttavia, perché questo avvenga, perché l'iniziativa privata serva anche agli interessi generali, il potere economico dell'impresa privata, e specialmente delle grandi imprese, nazionali e multinazionali, non può non essere controllato dal potere pubblico, in base a leggi che si rendono necessarie, anche in armonia con l'ordinamento comunitario (cfr. già nel Codice italiano artt. 836, 838; 2085, 2088 ss., che possono ritenersi ancora in vigore; 2595; 2602 ss.) (v. Santoro-Passarelli, 1971).

Il controllo deve servire, come stabilisce l'art. 41 della Costituzione italiana, non solo a evitare che l'iniziativa privata si svolga in contrasto con l'utilità sociale o la personalità dei lavoratori dell'impresa, ma anche ad assicurare il coordinamento dell'attività economica privata con l'attività economica pubblica a fini sociali, nel quadro di una programmazione di tutta l'economia, programmazione tuttavia finora mancata in Italia.

In un'economia mista, qual è l'italiana, l'iniziativa privata oltre a essere, quando occorra, indirizzata e sorretta con incentivi o disincentivi o con aiuti della finanza pubblica, viene supplita dall'impresa pubblica. Ma l'economia pubblica, in un sistema economico misto, oltre alla funzione secondaria di supplenza, assolve una funzione primaria nell'ambito di attività economiche di preminente interesse generale, come quelle indicate nell'art. 43 della Costituzione: servizi pubblici essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio. Qui l'attività imprenditrice è riservata, originariamente o per trasferimento di imprese private preesistenti, a enti pubblici o comunità ritenuti in grado di soddisfare quell'interesse. La nazionalizzazione dell'energia elettrica e la creazione di un ente pubblico, con l'espropriazione delle società che gestivano le imprese elettriche, sono avvenute in applicazione di questa norma.

17. Proprietà e lavoro

Si è già visto come la proprietà dei beni considerati d'importanza sociale sia soggetta a limitazioni quando il titolare non tragga dal bene l'utilità di cui è capace, ed è il caso della terra non coltivata o insufficientemente coltivata: una legislazione speciale in Italia prevede che la terra sia concessa dall'autorità amministrativa in godimento, dietro un corrispettivo, ad associazioni di contadini, cioè di persone che provvedano a coltivarla.

Il confronto più impegnativo per la proprietà è quello col lavoro altrui al quale il titolare fa ricorso per trarre profitto dal suo bene produttivo. Nella valutazione sociale attuale il lavoro svolto a vantaggio di altri, schematicamente a vantaggio del proprietario del bene, merita un trattamento di favore, per la posizione d'inferiorità economica in cui generalmente il lavoratore viene a trovarsi di fronte al proprietario e per l'importanza del suo apporto alla produzione di cui il bene è capace (v. Pugliatti, Proprietà e lavoro..., 1954, pp. 135 ss.). Si sono ricordati a questo proposito gli interventi antichi e nuovi della legge in favore di chi assicura la produttività del bene: l'enfiteuta diventa addirittura il domino utile, oggi si dice (come si è rilevato, non esattamente) il proprietario sostanziale del bene; l'affittuario del fondo rustico, e specialmente il coltivatore diretto, viene tutelato sempre più intensamente da una legislazione che in Italia è incorsa ripetutamente in censure d'incostituzionalità, con la determinazione ex lege del canone, della durata del rapporto, dei poteri dell'affittuario rispetto alla gestione e alla produttività del fondo.

I contratti agrari, tipica la mezzadria, strumenti di coltivazione associata del fondo fra proprietario e colono, sono stati riguardati con sospetto dal legislatore, per l'ineguaglianza economica delle parti e per l'importanza preponderante attribuita al lavoro, e sono finalmente destinati a scomparire per essere sostituiti dall'affitto, nel quale la gestione, come si è detto con poteri sempre più ampi, e il relativo risultato spettano soltanto all'affittuario.

La scomparsa finale dell'associazione fra proprietà e lavoro in agricoltura deve far riflettere sulla tesi che afferma la natura associativa del contratto di lavoro, e specialmente del contratto di lavoro nell'impresa.

Questa tesi illusoria è contraria non solo alla disciplina giuridica, ma più ancora alla realtà economica e sociale del lavoro subordinato nell'impresa. Con la consapevolezza dell'importanza del proprio apporto nell'impresa, con l'accresciuta coscienza e forza sindacale, i lavoratori dell'impresa, lungi dal considerarsi associati nell'impresa, il cui rischio e i cui risultati spettano del resto soltanto all'imprenditore, si sono sempre più decisamente collocati coi loro sindacati in una posizione di conflittualità permanente rispetto all'imprenditore.

La teorizzazione della conflittualità permanente nell'impresa che, come organizzazione, richiede invece collaborazione e coordinazione fra tutti coloro che ne fanno parte, è attualmente assoggettata a revisione critica da parte dei lavoratori e dei loro sindacati. Finché la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'impresa privata esistono, bisogna fare i conti con questa realtà e con le esigenze indeclinabili della loro sopravvivenza, ma il confronto fra le due posizioni contrapposte è inevitabile.

Se l'impresa è lo strumento dell'iniziativa economica del proprietario dei beni che si fa imprenditore per realizzare un suo interesse, nell'attuale realtà dell'impresa il rapporto di lavoro non può considerarsi associativo, deve considerarsi, quale oggi è, un rapporto di scambio, e dalla natura di questo rapporto dipende la contrapposizione degli interessi diretti delle parti.

Il risultato produttivo è certo importante per tutti coloro che operano nell'impresa, imprenditore e lavoratori. Ma questa comunanza dell'interesse finale giustifica quella partecipazione che in Italia si va faticosamente affermando nell'impresa, una partecipazione dialettica, che attribuisce ai lavoratori il diritto all'informazione e al controllo della gestione. La partecipazione diretta alla gestione, nei diversi modi in cui è attuata in altri paesi dell'Occidente, come la Repubblica Federale Tedesca e la Francia, a parte i discussi risultati raggiunti in quei paesi, non corrisponde all'odierna realtà e al sentimento dei protagonisti dell'impresa in Italia (v. Santoro-Passarelli, Il sindacato..., 1976).

18. La proprietà pubblica

Quando la Costituzione italiana afferma: ‟La proprietà è pubblica o privatà. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati" (art. 42), è evidente che la proprietà pubblica viene intesa nella sua più lata accezione. La proprietà pubblica è premessa nel dettato costituzionale alla proprietà privata, e la premessa è certo indicativa dello spirito in cui è stato considerato il rapporto fra le due proprietà nell'attuale ordinamento, in sostanziale concordanza con gli altri ordinamenti dei paesi occidentali. La proprietà pubblica, perché tale, non ha bisogno di trovare un riconoscimento e una garanzia come la proprietà privata: il riconoscimento e la garanzia sono intrinseci alla Costituzione.

La proprietà pubblica, com'è intesa nella norma costituzionale, comprende tutti i beni destinati al servizio di un pubblico interesse, quali che siano le modalità stabilite per la soddisfazione dell'interesse pubblico, in relazione alla diversa natura dei beni e alla specie d'interesse pubblico che i beni, per la loro stessa natura o per la loro destinazione, sono in grado di soddisfare.

Si è già detto che la nota distintiva dalla proprietà privata, comune a tutta la proprietà pubblica, anche a quella che impropriamente si chiama la proprietà privata degli enti pubblici, è il vincolo, sempre sussistente, anche se variamente rilevante, alla destinazione pubblica (v. diversamente Pugliatti, La proprietà..., 1954, p. 156). Perciò, per rifarsi alle categorie tradizionali dei poteri spettanti ai soggetti, la proprietà pubblica, dominata nel suo contenuto dal fine pubblico, non è un diritto soggettivo, che il titolare sia libero di esercitare o no, e nel modo che ritiene più confacente all'uno o all'altro dei suoi interessi. La proprietà pubblica è, secondo la natura e l'importanza dei beni per l'interesse pubblico, un potere interamente vincolato o al massimo un potere discrezionale, non un potere libero. La natura del potere non può non riflettersi nella sua struttura, e anche dove la struttura più appare vicina a quella del diritto soggettivo, la tutela del pubblico interesse viene a emergere, se non altro nel momento del controllo. Perciò la proprietà pubblica è bensì appartenenza a un soggetto, ma senza la libertà di godimento e di disposizione che caratterizza la proprietà privata.

Mentre, come si è visto, la legge regola la proprietà privata per assicurarne la funzione sociale, giacché per sé la proprietà privata è libertà del proprietario di soddisfare col bene il suo interesse, la proprietà pubblica è per sé funzione pubblica, in quanto vincolata alla soddisfazione dell'interesse pubblico, di cui l'ente titolare è curatore. Funzione pubblica e non soltanto funzione sociale, perché nello Stato sociale (se si vuole accettare questa formula) l'interesse sociale assurge a interesse pubblico, quando è fatto proprio dal potere pubblico.

Sotto il nome di proprietà vanno dunque, anche nel linguaggio giuridico, istituzioni diverse nella più intima essenza: rispetto al bene, la proprietà privata è diritto soggettivo e libertà, la proprietà pubblica è funzione e vincolo.

Diversi tuttavia sono gli statuti della proprietà pubblica, non meno che gli statuti della proprietà privata, e gli statuti sono collegati alla diversa natura dei beni e alla loro diversa capacità di soddisfare i vari interessi pubblici (ibid., pp. 152 ss.).

Nell'ambito della proprietà pubblica, come si è accennato, si debbono distinguere: la proprietà dei beni demaniali o soggetti al regime dei beni demaniali, totalmente vincolati alla loro destinazione (art. 823 del Codice italiano; v. Giannini, 1963, pp. 52 ss.; v. Cassese, 1969, pp. 305 ss.); la proprietà dei beni patrimoniali indisponibili o disponibili degli enti pubblici territoriali soggetta a una disciplina particolare (i beni indisponibili non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi speciali; art. 828 del Codice italiano); la proprietà dei beni degli altri enti pubblici, compresi gli enti economici, bensì soggetti alle regole sulla proprietà privata, ma con salvezza delle leggi speciali in vista della loro destinazione (art. 830; v. cap. 6).

Specialmente importante, in un confronto della proprietà pubblica con la proprietà privata, è la considerazione della proprietà pubblica nell'ambito dell'economia pubblica, che si è venuta a istituire e a dilatare in tempi relativamente recenti nei paesi perciò detti a economia mista.

La proprietà pubblica economica, in una legislazione che regoli la programmazione, viene indirizzata e coordinata con la proprietà e con l'attività economica privata a finì sociali, viene chiamata a esercitare in via esclusiva determinate attività economiche di preminente interesse generale, deve supplire la proprietà privata, quando questa, ancorché agevolata e sorretta, non riesca a far fronte alle difficoltà che si frappongono a una proficua gestione.

Il problema della spesa pubblica che dev'essere affrontata, per l'opera di sostegno dell'attività economica pubblica e privata, e dei modi coi quali questa spesa viene effettuata, è uno dei più gravi dell'economia contemporanea, nella quale, per i costi di produzione, sia l'impresa privata sia, e soprattutto, l'impresa pubblica spesso non riescono ad assolvere i loro compiti, mettendo in discussione la bontà del sistema di economia mista che rappresentano.

Forse le leggi che regolano l'impresa pubblica in forme privatistiche, attraverso enti pubblici economici direttamente operativi o di coordinamento di società per azioni a partecipazione pubblica, mentre hanno giustamente dato la preferenza agli strumenti privatistici, più idonei a una gestione economica, non hanno dato sufficiente importanza, con la determinazione di norme speciali, alla natura pubblica della proprietà e dell'attività di questi enti, in relazione al fine pubblico che essi perseguono.

L'impresa pubblica, se non deve perseguire un fine di profitto, che del resto è naturale, ma non costitutivo neppure dell'impresa privata, non può non rispettare il proclamato criterio dell'economicità della gestione, condizione della sua sopravvivenza e quindi della realizzazione del pubblico interesse, per cui l'impresa deve operare.

L'attenzione della legge italiana alla natura funzionale della proprietà in mano pubblica e delle imprese delle società per azioni a partecipazione pubblica, e in particolare a partecipazione statale, si manifesta con le attribuzioni riservate all'amministrazione pubblica e agli enti di coordinamento, detti anche di gestione.

Di scarsa importanza sono invece le norme particolari del Codice che prevedono per le società a partecipazione pubblica la nomina di amministratori o sindaci da parte dello Stato o altro ente pubblico (artt. 2458-2460). Esse non bastano certo a garantire in queste società la destinazione al fine pubblico dell'impresa, che è la sola, o dovrebbe essere la sola, a giustificare la partecipazione dell'ente pubblico a una società per azioni. Più adeguata è la disciplina speciale prevista per le società dette d'interesse nazionale (art. 2461).

Un riflesso della natura pubblica delle società a prevalente partecipazione pubblica è nella loro esclusione dalle associazioni professionali delle imprese private, stabilita per legge, e nella loro appartenenza a distinte associazioni di imprese pubbliche.

19. La proprietà socialista

Con l'instaurazione della proprietà socialista si chiude il ciclo dell'istituto. Avviene un ritorno, sotto un certo aspetto, alle origini, con l'attribuzione della proprietà dei beni economici, cioè dei mezzi di produzione e di scambio, alla collettività. La proprietà per la collettività spetta allo Stato anche quando la proprietà è ‛delegata', sotto il controllo dello Stato, a istituzioni minori, imprese o cooperative.

Le concrete applicazioni della proprietà socialista differiscono, in relazione alle diverse capacità economiche, alle diverse esigenze sociali, alle particolarità ideologiche, nei vari paesi in cui l'economia è diventata collettivistica. Imprese esercitate direttamente dallo Stato, imprese cooperative, imprese affidate all'autogestione dei lavoratori, si dividono il compito di costituire gli strumenti più idonei per la realizzazione degli interessi economici, sociali, culturali della collettività. Si può dire tuttavia che esista un diritto comune dei paesi a economia socialista (v. Crespi Reghizzi e altri, 1976, p. 72).

In un'economia in cui non viene più ammessa e utilizzata l'iniziativa privata per la soddisfazione dell'interesse economico individuale, ma i consociati sono chiamati a partecipare all'iniziativa pubblica per la soddisfazione dell'interesse collettivo, sostituendo alla molla del proprio interesse quella di un convinto spirito di collaborazione al servizio degli interessi generali, i problemi di un assetto complessivo efficiente delle forze produttive non fanno certamente difetto (v. Rescigno, 1972, pp. 53 e 55).

Dove con la proprietà privata dei beni economici viene meno la libertà economica, non può non valere, e non certo per una scelta capricciosa del potere pubblico, il principio dell'autorità nell'economia. Di un'autorità non dispotica, ma che sia in grado di mettere a profitto, con la scelta degli strumenti materiali più adatti, anzitutto la più consapevole preparazione spirituale e culturale degli uomini, la loro responsabilità professionale e infine il loro più razionale impiego. Fattori indispensabili della più soddisfacente attuazione di un programma economico vincolante per tutti, che è il fondamento stesso di un'economia integralmente socialista.

Le esperienze dei paesi socialisti attestano quali difficoltà si sono presentate e si presentano per la realizzazione di un'economia integralmente socialista, poiché gli uomini per loro natura, che non è facile correggere, tendono al particolare. Uno degli aspetti di queste difficili esperienze è la vicenda della proprietà personale, di quella cioè riconosciuta ai singoli nelle economie collettivistiche.

Il processo della proprietà personale è tipicamente inverso a quello della proprietà privata nelle economie occidentali. Questa, come si è visto, viene sempre più restringendosi attraverso limitazioni sempre più penetranti ed esclusioni sempre più larghe. La proprietà personale dei paesi socialisti, e specialmente dei più evoluti, si è andata estendendo dai beni di stretto uso personale, alla casa di abitazione, alla casa di campagna, ai beni produttivi per i bisogni personali (v. Rescigno, 1972, pp. 53 ss.). È una riaffermazione dell'importanza della persona anche in una società collettivistica.

Negli ordinamenti dei paesi socialisti, tuttavia, non solo la proprietà socialista dei mezzi di produzione, compreso lo scambio, è integralmente vincolata alla sua destinazione, ma anche la proprietà personale sottostà necessariamente ai principi di tali ordinamenti. I poteri della proprietà non sono certo i poteri della proprietà della tradizione occidentale. Nella proprietà socialista i poteri sono quelli che gli ordinamenti attribuiscono ai titolari di una proprietà, che in definitiva si considera spettante al popolo, anche quando, invece di essere attribuita allo Stato, viene decentrata a organismi particolari, operanti però sempre sotto l'egida dello Stato e della pianificazione dettata dagli organi dello Stato.

Neppure sono ravvisabili i poteri della proprietà tradizionale nella proprietà personale, perché anche questa proprietà, rispetto ai beni non produttivi di reddito per cui è ammessa nei limiti dei bisogni personali, materiali e culturali, non solo trova il suo esclusivo fondamento nel lavoro prestato alla comunità, ma è sottoposta a un controllo della sua spettanza e del suo esercizio, che tende ad assicurarne in ogni momento la compatibilità con gli interessi della collettività (F. H. Lawson, Common law, in AA. VV., 1973, pp. 140 s.). In tale prospettiva va considerata la sua disponibilità per atto tra vivi e la sua trasmissibilità anche per successione.

Questa trasfigurazione della proprietà in sistemi, per i quali più generalmente i diritti soggettivi non sono più poteri riconosciuti per la libera soddisfazione degli interessi dei loro titolari, ma costitutivamente collegati alla loro funzione sociale che in tali sistemi è, come si è detto, funzione pubblica, deve valutarsi per quella che è. La proprietà e in genere il diritto soggettivo, spettino alle istituzioni preposte al servizio degli interessi della collettività oppure ai cittadini, sono da intendere come posizioni soggettive di appartenenza dei beni, caratterizzate dal momento dominante della funzione, e non della libertà (v. Rodotà, 1963, pp. 51 ss.).

Un modello tecnicamente evoluto di disciplina della proprietà in un ordinamento socialista può ravvisarsi nelle norme relative della Costituzione del 1968 (modificata nel 1974) e del Codice civile del 1975, entrato in vigore il 1° gennaio 1976, della Repubblica Democratica Tedesca. Nella formulazione di dette norme è caratteristica la ripetizione continua dell'attributo ‛socialista' per lo Stato, gli organismi che l'affiancano e gli istituti anche civilistici.

A tale proposito va rilevato come lo stesso diritto civile in uno Stato socialista non è più il diritto civile dei paesi occidentali, è il diritto dei rapporti fra i cittadini e fra costoro e le istituzioni produttive dello Stato o operanti per lo Stato (ÈÈ 1, 13, 14 del Codice civile), con un'apertura a favore dei cittadini rispetto alla proprietà socialista (È 21), che non ha riscontro in altri ordinamenti dello stesso tipo. Diritto civile e non diritto privato, perché le stesse categorie tradizionali del diritto privato e del diritto pubblico non sono accolte in una società socialista.

La proprietà socialista, inviolabile (nuovamente sacra!) e indisponibile (È 20), spetta al popolo, e per il popolo alle aziende statali, aventi parte preminente nell'industria, dotate di personalità giuridica, operanti però sotto la direzione e in base alla pianificazione economica degli organi dello Stato o di altre istituzioni statali; spetta inoltre alle cooperative socialiste, attive specialmente in agricoltura; spetta infine alle organizzazioni sociali dei cittadini con fini politici, sociali, culturali; tutte riconosciute dallo Stato e operanti nel quadro della direzione e pianificazione statale (artt. 9, 42, 46 della Costituzione; ÈÈ 10, 17, 18, 19 del Codice).

Si noti che al centro dell'azione economica sono i Betriebe, cui non corrisponde propriamente la parola italiana ‛azienda', così chiamati per l'importanza prevalente attribuita al momento del lavoro nell'organizzazione produttiva, mentre è bandita la parola Unternehmen, impresa, ritenuta collegata all'iniziativa delrimprenditore (v., in vario senso, Crespi Reghizzi e altri, 1976, pp. 65 s.; Mercuri, in AA.VV., Il diritto..., 1978, pp. 55 ss.).

La proprietà personale fondata sul lavoro prestato alla società, disponibile e trasmissibile anche per successione ereditaria, può avere per oggetto beni di uso personale e familiare o altrimenti utili alla formazione e al perfezionamento culturale e al tempo libero, e altresì terreni ed edifici per l'abitazione e la ricreazione del cittadino e della sua famiglia, nonché i beni immateriali (art. 37 della Costituzione, ÈÈ 6, 22-1, 23, 24 del Codice). La proprietà personale è ammessa anche per i beni prodotti prevalentemente col lavoro personale degli artigiani e di altri piccoli esercenti (È 23-2).

La proprietà personale, garantita dalla Costituzione (art. 11), è tutelata dallo Stato, ma è subordinata nel suo uso agli interessi sociali o agli interessi altrimenti riconosciuti dalla legge (È 22; v. Crespi Reghizzi e altri, 1976, pp. 82 ss.).

Questa è la presentazione normativa della proprietà socialista in un Codice civile fatto piuttosto di principi che di norme operative, dal quale è esclusa la disciplina, dettata a parte, delle aziende popolari produttive e dei contratti conclusi dalle stesse. Il Codice civile della Germania Orientale (Zivilgesetzbuch, ZGB) è sorto in posizione antagonistica col Codice civile germanico (Bürgerliches Gesetzbuch, BGB) e tuttavia è beneficiario della grande tradizione giuridica e sistematica tedesca. L'ordinamento della proprietà è sorretto da una solida base economica.

20. Proprietà e sistema economico

È il momento di proporre una conclusione.

Le considerazioni che precedono sulla distinzione fra proprietà privata e controllo della gestione nelle imprese maggiori, e specialmente nelle imprese societarie, e sull'emersione non solo del potere dominante degli azionisti di maggioranza, spesso di maggioranze esigue per la dispersione delle azioni e la presenza di azioni senza voto, ma anche del potere di fatto dei grandi dirigenti, pur in confronto dei grandi azionisti, non tolgono alla proprietà privata la sua importanza fondamentale in un sistema di economia privata o mista. La distinzione dei poteri di gestione dalla proprietà e la loro attribuzione effettiva non a tutti i titolari della proprietà, ma a una parte di essi o addirittura a soggetti non proprietari, postulano comunque la sussistenza della proprietà privata e consentono a questa proprietà di rendere possibili, in nuove forme, l'iniziativa privata e il conseguimento dei frutti dell'iniziativa. La proposizione resta vera anche nel caso limite accennato dell'impresa privata che diventa fondazione: sono sempre la proprietà e l'iniziativa privata che la sostengono. Proprietà privata, libertà dell'iniziativa privata, autonomia privata e contratto, economia privata sono i termini collegati di questo assetto della società generale, anche se una distribuzione dei poteri caratteristici della proprietà apre nuove prospettive economiche e sociali.

Quando la proprietà dei mezzi di produzione è interamente tolta ai privati e l'economia produttiva è soltanto pubblica nel linguaggio giuridico dell'Occidente, la proprietà pubblica che ne è il fondamento, se ancora si può o si vuole parlare di proprietà, è totalmente vincolata alla funzione, deve servire l'interesse pubblico e lo stesso interesse sociale o l'utilità sociale trova riconoscimento in quanto diventa interesse pubblico. Proprietà pubblica funzionale, destinazione esclusiva dell'impresa alla funzione pubblica, sia l'impresa gestita direttamente dall'autorità pubblica o indirettamente attraverso enti di gestione o la stessa autogestione, abolizione o profonda alterazione del contratto (strumento di composizione di interessi non più contrapposti, ma convergenti), economia pubblica sono a loro volta termini collegati di un assetto del tutto diverso della società.

Ma dove l'economia non possa più fare assegnamento sull'interesse e sull'iniziativa dei privati, deve necessariamente fare assegnamento su un potere pubblico e specificamente politico che la convogli efficacemente alla soddisfazione dell'interesse della collettività, all'interesse pubblico. Un'economia produttiva totalmente pubblica esige un potere pubblico che disponga di tutti gli strumenti occorrenti a tale fine, senza eccezione (questo è invece il punto debole dell'azione pubblica in un'economia mista). Ai congegni teoricamente automatici dell'economia privata devono sostituirsi i congegni regolati, secondo le varie esigenze, dall'autorità pubblica. Ecco perché a un sistema economico pubblico non può non corrispondere, finché l'uomo non cambia, un potere politico in grado di opporsi alle forze centrifughe degli interessi diversi dall'interesse pubblico, com'è valutato dallo stesso potere politico.

In altre parole, il sistema politico non può non adeguarsi al sistema economico e la forza e la centralità del potere politico costituiscono un'esigenza, non una degenerazione, di un sistema di economia pubblica.

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