PROFILMICO

Enciclopedia del Cinema (2004)

Profilmico

Sandro Bernardi

Con questo termine, coniato da Étienne Souriau (1951), s'intende tutto quello che sta davanti alla cinepresa pronto per essere filmato: oggetti, volti, corpi, spazi interni ed esterni, prima della loro elaborazione cinematografica. Il p. può variare a seconda dei casi e delle tendenze storiche: a volte è la realtà (ovvero quella parte di mondo che sta di fronte al cineasta), altre volte è una messa in scena; può essere una scenografia che finge di essere la realtà oppure una scenografia dichiaratamente finta. Il materiale profilmico, nella definizione di Souriau, si trasforma poi in universo diegetico, che è quello creato dal film: il diegetico è l'universo fittizio in cui si svolge una storia. Il p. si distingue anche dal pre-filmico, un termine tecnico con cui si designa il lavoro che precede la realizzazione del film: soggetto, trattamento, sceneggiatura, sopralluoghi, scelta degli attori eccetera. Il p. indica quindi la messa in scena che precede la ripresa e che viene poi nascosta, o anche un luogo reale che diventa luogo immaginario, sede di una storia inventata e interpretata.Per tutte queste ragioni, si tratta di un concetto in cui si condensano molti problemi filosofici che concernono il cinema stesso e il suo rapporto con la realtà; in effetti è stato coniato proprio per evitare l'equivoco che il cinema riproduca o mostri la realtà e per non dimenticare che l'immagine filmica è sempre una rappresentazione, non una riproduzione. Infatti, se è possibile individuare con chiarezza il p. nei film di finzione classici, dotati di una grandiosa messa in scena, esso si confonde invece con il concetto più equivoco di realtà nei film costruiti sul rapporto realtà-finzione, dove si utilizzano luoghi reali invece di set ricostruiti, oppure attori non professionisti, come nel corso delle opere realizzate dai registi della Nouvelle vague. La splendida Parigi di Les 400 coups (1959; I quattrocento colpi) di François Truffaut o di À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) di Jean-Luc Godard, fotografata dal vero, è la Parigi degli anni Sessanta ma appartiene al p. nel senso che è il set di alcuni grandi film e il luogo immaginario di alcune storie. In questi casi le due città sembrano coincidere, ma non è che un'illusione, dal momento che il film gioca sullo scambio e sulla confusione fra realtà e cinema, facendone una poetica.

Per comprendere l'importanza del concetto di p. e la differenza dal filmico o dal reale basta considerare il carrello indietro con cui si chiude il film di Jean Renoir La carrozza d'oro (1952), oppure la scena iniziale di La nuit américaine (1973; Effetto notte) di Truffaut. Sono due casi in cui appare con molta chiarezza la differenza fra realtà e p., ma si vede anche quale vertigine può scaturire dal rapporto fra questi due universi. Nel primo film, quando Colombina (Anna Magnani) si congeda dai nobili della reggia, la cinepresa compie un lento e lungo movimento indietro con cui si svelano, ai bordi dell'inquadratura, le quinte e le cornici di un palcoscenico: tutta la storia raccontata fino a quel momento appare come una messa in scena teatrale davanti a cui si trova la cinepresa. All'inizio di La nuit américaine Truffaut riprende questa poetica dello svelamento: dopo aver mostrato una scena di omicidio in un boulevard parigino, la cinepresa si solleva altissima sopra un dolly e ci svela che tutto (boulevard, alberi, case, automobili, passanti, scale del métro) fa parte di un grande set allestito all'aperto, dietro cui si vedono andare avanti e indietro freneticamente i tecnici delle riprese, i costumisti, gli aiuto registi, gli attori che stanno entrando o uscendo di scena, il regista (lo stesso Truffaut che interpreta sé stesso) e anche i furgoni con i riflettori, poiché anche la luce del giorno è costruita artificialmente. Renoir e Truffaut in sostanza dicono che il p., ciò che la cinepresa guarda e riprende, non è la realtà ma è solo una messa in scena. La realtà è costituita dalle persone che fanno il film. Occorre però prendere atto, proprio in conseguenza di queste due scene, che la realtà non è neppure quella dei tecnici o degli attori che si vedono al lavoro: anch'essi sono personaggi di una storia immaginaria e di un'altra messa in scena. Lo stesso Truffaut nel suo film non è più il vero Truffaut ma diventa un regista immaginario che sta mettendo in scena un film immaginario. Il vero p., quindi, non apparirà mai in nessun film e, quando si vedrà, sarà un altro inganno, ossia una doppia messa in scena. La realtà non si può e non si potrà mai mostrare nel cinema, poiché, nel momento stesso in cui essa "cade in pellicola" (Bazin, 1958; trad. it. 1973, p. 23), subito si trasforma in rappresentazione, diventando il contrario di sé stessa.Tuttavia quest'illusione di cogliere la vita alla sprovvista fotografandola così com'è, pur essendo equivoca sul piano teorico come ha mostrato J.-L. Comolli, ha però generato molte scuole e tendenze cinematografiche che si sforzano di arrivare alla realtà, fra cui il Neorealismo stesso, con la teoria zavattiniana del pedinamento del personaggio o ancora la candid camera o il cinéma direct (Marsolais, 1974), dove in diverse maniere si presuppone l'identità non solo del p. ma anche del film stesso con la realtà non manipolata.Forse, il momento di maggior vicinanza fra il p. e il reale coincide proprio con il momento aurorale del cinema, il Cinématographe Lumière o, meglio, solo alcune delle riprese del Cinématographe, quelle vedute riprese dal vero in cui il p. non viene ancora utilizzato per costruire nessuna storia, ma è mostrato per sé stesso, come oggetto di una veduta e basta. La sortie des usines Lumière, o l'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat, ambedue del 1895, o altre vedute Lumière sono il momento culminante di quella che P. Sorlin definisce immagine analogica (1997) nata con la fotografia, e distinta dalle immagini precedenti che erano disegnate, immagini di sintesi, sempre secondo Sorlin. L'immagine analogica è prodotta con un apparecchio che registra la luce (la macchina fotografica o la cinepresa) e le vedute del Cinématographe Lumière appaiono calate dentro un bagno di reale (Aumont, 1989) del quale portano ancora una traccia, ma niente più che una traccia. Il cinematografo, che ancora non conosceva gli strumenti della produzione di senso (montaggio, trucchi) era più vicino alla realtà solo nel senso che non cercava di spiegarne il mistero; tuttavia anche queste immagini non erano realtà, ma rappresentazione; infatti la soggettività dell'operatore era già presente nella scelta del punto di vista, della pellicola, dell'obiettivo, o anche del momento in cui girare la manovella. Il vedutismo era molto diffuso all'inizio del Novecento, ancora presente nei programmi di sala fino agli anni 1912-13. In queste 'vedute' che aspiravano a portare sotto gli occhi di tutti paesaggi lontani, il p. non era ancora strumento di una narrazione, ma già oggetto di uno sguardo d'autore, prodotto di un'ispirazione pittorica, quindi già elaborato. Luca Comerio, Giovanni Vitrotti, Roberto Omegna furono i principali cineoperatori italiani che dettero impulso europeo e mondiale a questo tipo di rappresentazione. I pochi esempi di vedutismo rimasti mostrano scene di vita quotidiana, panoramiche di paesaggi oppure città senza didascalie. Spesso il compito di spiegare le vedute era lasciato a un commentatore presente nella sala; tuttavia la scelta del punto di vista era molto importante, perché permetteva di vedere la maggiore quantità di cose possibile.

Con la scoperta del montaggio e degli altri trucchi, la manipolazione del p. cominciò a diventare strumento per la costruzione di un racconto e nacque il mondo diegetico. Georges Méliès, che non a caso era direttore di un teatro prima di diventare cineasta, è il padre della finzione perché trasformò definitivamente il p. in una messa in scena teatrale, sia nei suoi film fantastici sia nelle cosiddette attualità ricostruite (eventi, catastrofi o cerimonie che, non essendo stati ripresi dal vero, venivano messi in scena e filmati come se fossero autentici: tra gli esempi, Le sacre d'Édouard VII, noto anche come Le couronnement du roi d'Angleterre Édouard VII, 1902). In questi due casi il p. però aveva due funzioni diverse. Nel cinema fantastico, infatti, dichiarava la sua natura di finzione, con la forma bidimensionale (paesaggi o edifici disegnati) o con i colori più bizzarri apposti sopra la pellicola, e non voleva ingannare nessuno. Viceversa nelle 'attualità ricostruite', il p. voleva sembrar vero a tutti gli effetti e spesso ci riusciva.

Con il maturare della forma narrativa si arriva al cinema classico dove, dagli anni Dieci in poi, il p. è quasi tutto ricostruito in studio, ma tende a somigliare in modo sempre più ingannevole alla realtà, sia per le dimensioni, sia per la verosimiglianza della costruzione. La difficoltà di spostare intere troupe cinematografiche e la necessità di controllare tutti i particolari, per costruire un ambiente fittizio ma perfettamente correlato con la storia raccontata, resero opportuna la ricostruzione di grandi scenografie in scala 1:1, che spesso costituiva l'occasione di vere e proprie sfide fra il regista e la produzione. Il p. assunse costi enormi. La rovina economica di David W. Griffith fu interamente dovuta alle immense scenografie delle mura di Babilonia costruite per un episodio in costume del film Intolerance (1916). Le grandiose realizzazioni di Erich von Stroheim, che ricostruì in studio a Hollywood un'intera strada di Montecarlo nel modo più realistico possibile, comprese le automobili fatte venire espressamente dall'Europa per Foolish wives (1922; Femmine folli), sono i primi esempi di ricostruzione maniacale del profilmico. Se Stroheim però fece rischiare il fallimento alla Metro Goldwyn Mayer, diretta allora da Irving Thalberg, tuttavia le fece anche moltissima pubblicità. La costruzione di grandi set divenne presto un modo classico, prima italiano (Cabiria, di Giovanni Pastrone diede inizio alla tendenza nel 1914) poi americano, di realizzare film spettacolari, da cui nacque un genere specifico, il kolossal, caratterizzato da film di grande budget, come il sontuoso Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming, famoso per la splendida messa in scena.

Spesso, per ottenere effetti altrimenti impossibili (per es. un dialogo in automobile), si produceva un doppio p., con l'aiuto di trucchi come i trasparenti, utilizzati ancora negli anni Quaranta. In questo caso c'erano due film e quindi due p.: uno comprendeva gli attori in studio seduti su un'automobile ferma e l'altro i luoghi prefilmati e proiettati dietro di loro su un telone. Molte scene di fuga-inseguimento di Alfred Hitchcock sono filmate in questo modo e anche successivamente, quando i trasparenti non erano ormai più necessari, il maestro inglese continuò a girare per ironia scene con i trasparenti (per es. in North by Northwest, 1959, Intrigo internazionale).Il p. inteso non come set ma come realtà da filmare ha invece particolare importanza nel documentario, soprattutto con alcuni grandi maestri come Dziga Vertov, Robert J. Flaherty, Joris Ivens e John Grierson, che hanno creato almeno quattro differenti tendenze. Mentre Vertov realizzava solo film di montaggio (Kinoglaz, 1924, Il cineocchio), utilizzando materiali filmati da altri dunque non intervenendo mai sul p. ma solo sul filmico, ed elaborando quindi composizioni poetiche, Flaherty invece riprendeva popoli e Paesi esotici, ma chiedeva alla popolazione di 'interpretare' davanti alla cinepresa la vita quotidiana in film famosi come Nanook of the North (1922; Nanouk o Nanuk l'eschimese) sugli eschimesi, o Man of Aran (1934; L'uomo di Aran) sui pescatori delle isole Aran; in questo caso il p. era una realtà che si metteva in scena per la cinepresa. Il nome di Ivens è invece più legato a un documentarismo poetico (De brug, 1928, Il ponte; Regen, 1929, Pioggia) oppure politico (Misère au Borinage, 1933) in cui immagini riprese dal vero venivano montate e collegate in modo da costruire un discorso sociale o politico. L'opera di Grierson, che consta di un solo film (Drifters, 1929), è rilevante soprattutto per le scuole che ha generato, quella del documentarismo sociale inglese (LindsayAnderson, Karel Reisz) e canadese (Pierre Perrault), in cui si persegue la ripresa più diretta possibile, come nel caso di operai e pescatori che lavorano.Un esempio particolarmente interessante di film narrativi che hanno un p. reale è la serie dei documentari di guerra Why we fight (1942-1945), diretta da Frank Capra durante la Seconda guerra mondiale, alla quale collaborarono anche cineasti famosi come John Ford, Howard Hawks o John Huston. Si tratta di riprese dal vero montate e commentate in modo da costituire delle storie. Questi film, che Bazin commentò con grandissima intelligenza fin dalla loro prima apparizione in Europa, sono casi particolari in cui la Storia, quella vera, diventa finzione. Si potenziava così al massimo l'inganno del cinema: costruire una guerra spettacolare mediante immagini prese dalla guerra vera. In questi film, come sottolineò appunto Bazin, la Storia si trasforma in una grandiosa scenografia che il cinema utilizza per raccontare le sue storie.Il Neorealismo ha impresso al p. una svolta storica notevole, in direzione opposta al cinema narrativo classico, indirizzandolo verso l'uso di luoghi reali. Ma anche questa non fu che una nuova forma di finzione. I neorealisti ‒ soprattutto Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis, Alberto Lattuada ‒ usavano le città e le campagne come scenografie, ricorrevano spesso ad attori non professionisti, ma sempre per raccontare storie scritte e messe in scena, anche se spesso ispirate a fatti di cronaca. La finzione si andò raffinando e si arricchì di elementi realistici, ma rimase sempre tale. Basti pensare al primo grande episodio di Paisà (1946) di Rossellini, ambientato in Sicilia e girato a Maiori, vicino a Salerno, dove vi era una torre diroccata adatta alla storia da raccontare. Oppure al primo film di Visconti, Ossessione (1943) che, al contrario, utilizzò set dal vero, come una trattoria sul Po e la città di Ferrara, per raccontare una storia di origine americana. Il Neorealismo però, nella sua spinta più radicale, andò anche al di là del semplice racconto realistico. Con Visconti (La terra trema, 1948) entrano nel cinema corpi, cose, spazi che prima non si erano mai visti: lo sporco, la povertà, il corpo umano assumono un aspetto molto inquietante. Nel film Roma città aperta (1945) di Rossellini, la visione delle case distrutte dai bombardamenti costituisce una serie di shock visivi che colpisce lo spettatore; in Germania anno zero (1948), il volto del protagonista, il piccolo Edmund, è indecifrabile. Qui ricompare il p. del Cinématographe Lumière con tutto il suo mistero. Le esperienze neorealistiche generarono anche quella passione e quella ricerca senza fine della realtà che sta alla base della Nouvelle vague e del cinema moderno (v. modernità). Nei primi film di Godard, Truffaut, Eric Rohmer o Claude Chabrol, appare una misteriosa Parigi dal vero che non esiste più, set per una storia, ma anche luogo di molte vite sconosciute e inenarrabili. Ciò ha fatto parlare di archeologia del set (Mancini, Cappabianca, Silva 1974) poiché il cinema, a partire dal Neorealismo, è divenuto anche documentazione di luoghi spariti o di città cambiate, di abbigliamento, forme di vita, oggetti d'uso scomparsi. Nell'opera di Michelangelo Antonioni, per es., il p. è costituito da paesaggi urbani di città come Milano o Roma, guardati da un personaggio-guida (Jeanne Moreau in La notte, 1961; Monica Vitti in L'eclisse, 1962), la cui avventura diventa un'avventura visiva. Così è avvenuto anche nel cinema più recente di registi come Wim Wenders, di Theo Anghelopulos, di Abbas Kiarostami con film che sono sguardi sul mondo, avventure della cinepresa oltre che dei personaggi. Recuperando il senso primitivo del guardare e lo stupore caratteristici del Cinématographe Lumière e del vedutismo, il cinema moderno pone lo spettatore davanti al p. in tutta la sua opacità, in tutto il suo mistero, che è poi il mistero del mondo.Una particolare variante del rapporto fra cinepresa, mondo e personaggio è stata praticata da Jean Rouch, padre del Cinéma vérité. Con un'interpretazione del tutto originale dell'opera di Rossellini, Rouch iniziò con il film Moi, un noir (1958) e continuò poi insieme con l'antropologo-filosofo Edgar Morin (Chronique d'un été, 1960), un tipo particolare di cinema con la macchina a mano e spesso in presa diretta, in cui la cinepresa non si nasconde ma sta accanto ai suoi personaggi, non racconta ma osserva, studia le persone, svolge inchieste, ascolta le storie che le vengono raccontate. Spesso gli intervistati parlano rivolti verso la cinepresa che entra così a far parte del p. o, meglio, sembra stare a cavallo fra il p. e il filmico perché guarda ma è anche guardata da quelli che guarda; si crea così un'interlocuzione fra l'osservatore e gli osservati.Forse però il vertice della riflessione sul p. nel cinema moderno è costituito dall'opera di due cineasti radicali come Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, in cui la cinepresa spesso rimane ferma per tutta la durata di un rullo o muove panoramiche lentissime accompagnate da una voce fuori campo che legge testi politici o letterari, o altrove filma attori intenti alla rappresentazione di opere teatrali o musicali (Moses und Aron, 1975, Mosè e Aronne; Der Tod des Empedokles, 1987, La morte di Empedocle; Sicilia!, 1999). Il rigore morale e la poesia di Straub- Huillet consistono nella volontà estrema di non illudere lo spettatore con il minimo artificio, nel rifiuto di costruire un mondo diegetico e di consegnare a chi guarda qualunque spettacolo filmico.

Per contro, il cinema spettacolare postmoderno segna un abbandono sempre più radicale del profilmico. Se il cinema tradizionale era caratterizzato dall'esistenza del p., costruito sul set o preso dal vero, il cinema postmoderno con l'immagine digitale o virtuale è in grado ormai di farne a meno, disegnando direttamente sulla pellicola o sul video i suoi oggetti, volti o luoghi. L'immagine virtuale si differenzia dall'immagine analogica per la soppressione del p. e di ogni rapporto, per quanto incerto o problematico potesse essere, con il reale. Ogni riferimento, sia pure lontano dalla realtà, è progressivamente ridotto e il p. è solo materiale da elaborare. E se ne intravede anche la futura soppressione quando gli attori recitano senza sfondo e senza spazio autentici davanti al blue screen e questi vengono disegnati poi elettronicamente dietro di loro sulla pellicola. Scompare così anche ogni mistificazione che il cinema si portava dietro, quando fingeva di essere riproduzione del reale, ma scompare anche ogni problematica del realismo che il cinema moderno aveva istituito (che cos'è il reale e chi siamo noi che lo guardiamo?). Il p. era infatti un limite del cinema, ma appunto per questo suscitava continue riflessioni, interrogazioni e confronti con la realtà presunta, che rimaneva sempre esterna al film, ma esisteva tuttavia e non la si poteva ignorare. L'eliminazione del confronto con il reale produce un'onnipotenza dell'immagine che, nel cinema postmoderno, è diventata la sola realtà. In film come The terminator (1984; Terminator) di James Cameron si creano personaggi virtuali che cambiano forma a piacimento; in altri, come The devil's advocate (1997; L'avvocato del diavolo) di Taylor Hackford, si deformano elettronicamente i volti di attori famosi (Al Pacino), in altri ancora come Vajont (2001) di Renzo Martinelli si mostrano paesaggi reali con alluvioni virtuali. Forse, con l'immagine digitale il cinema sta ritornando al disegno e alla pittura che precedevano la fotografia (Costa, 1991) o al disegno animato; forse è nato qualcosa di nuovo che porta ancora erroneamente il vecchio nome di cinema, poiché il cinema era nato come immagine analogica, ovvero come confronto fra il soggetto che guarda e il p., ovvero il mondo guardato.

Bibliografia

É. Souriau, La structure de l'univers filmique et vocabulaire de la filmologie, in "Revue internationale de filmologie", 1951, 7-8, pp. 231-40.

A. Bazin, Qu'est-ce que le cinéma?, 1-4, Paris 1958-1962 (trad. it. parz. Milano 1973, 1986²).

A. Cappabianca, M. Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto. La scena, la maschera, il gesto, la cerimonia, Milano 1974.

G. Marsolais, L'aventure du cinéma direct, Paris 1974.

J.-L. Comolli, Tecnica e ideologia, Parma 1981 (serie di saggi pubblicati a puntate sui "Cahiers du cinéma" a partire dal 1971).

J. Aumont, L'œil interminable. Cinéma et peinture, Paris 1989 (trad. it. Venezia 1991).

A. Costa, Cinema e pittura, Torino 1991.

F. Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Milano 1993.

P. Sorlin, Les fils de Nadar, Paris 1997 (trad. it. Torino 2001).

A. Farassino, Fuori di set. Viaggi, esplorazioni, emigrazioni, nomadismi, Roma 2000.

CATEGORIE