Produttivita

Enciclopedia del Novecento (1980)

Produttivita

Simon Kuznets

di Simon Kuznets

Produttività

sommario: 1. Definizioni introduttive. 2. I due rapporti della produttività aggregata. 3. Tendenze di lungo periodo della produttività. 4. Differenze internazionali nella produttività. 5. Prodotto finale e input dei fattori; problemi di definizione. a) Componenti del consumo finale del prodotto netto totale. b) Formazione del capitale. c) Inputs di produzione. d) Output netto e fattori produttivi. 6. La produttività economica e sociale 7. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Definizioni introduttive

La produttività descrive la relazione tra il prodotto, cioè il risultato positivo, e gli inputs, cioè i diversi fattori necessari che devono essere anticipati per conseguire tale risultato. Questo concetto si compone di tre elementi: il risultato positivo, gli inputs e il processo attraverso il quale i primi due elementi sono connessi tra loro. Se questo concetto deve servire sia come criterio di misurazione, sia come strumento analitico, il risultato positivo e gli inputs devono essere noti e misurabili, e per tale determinazione è necessaria una certa conoscenza del processo attraverso il quale gli inputs sono convertiti in outputs. Determinazione e misurazione richiedono evidentemente una teoria della produzione e una teoria della ‛ponderazione', sulla cui base i singoli prodotti e i singoli inputs possano essere combinati e confrontati.

Il concetto di produttività può essere presumibilmente applicato anche a un input di strumenti politici e a un output di risultati politici; oppure a un processo sociale in cui una cosa desiderabile viene ceduta al fine di produrne un'altra ancor più desiderabile, attraverso un'attività che converte la prima nella seconda. Ma qui noi ci occupiamo della produttività economica, cioè della relazione tra prodotto economico e inputs economici. Limiteremo quindi la nostra trattazione a questo ambito, anche se dovremo considerare eventuali inputs non economici necessari a ottenere un prodotto economico, ed eventuali vantaggi non economici derivanti da inputs economici.

Per opportunità espositiva la trattazione è articolata nel modo seguente.

In primo luogo, nel trattare della produttività economica, ci occuperemo di relazioni che non riflettono né variazioni né differenziali dei prezzi. I valori sono sempre prezzi di mercato, ma fissati nel tempo e nello spazio. Ciò non contraddice l'importanza che hanno, specie nelle economie di mercato, i movimenti dei prezzi nel tempo o i differenziali dei prezzi nello spazio. Sono proprio questi ultimi che condizionano le decisioni dell'imprenditore e del consumatore e quindi possono avere il ruolo di fattori che influenzano in modo determinante la produttività. Ma i risultati del processo di produzione - i rapporti di produttività, comunque determinati - non devono contenere variazioni nel tempo determinate da inflazione o deflazione, oppure differenziali dei prezzi nello spazio.

In secondo luogo, non ci occuperemo della produttività in rapporto a prodotti singoli o anche a singole industrie, ma in rapporto ad aggregati molto più vasti (le economie nazionali), dedicando qualche attenzione particolare solo ai settori più importanti della produzione. Il tentativo di stabilire misure significative della produttività per un singolo prodotto comporta inevitabilmente l'esame di una molteplicità di inputs - molti dei quali entrano anche in altri prodotti. I mutamenti o i differenziali della produttività, anche in uno dei settori più importanti della produzione, come l'industria manifatturiera, non possono essere interpretati correttamente senza prendere in considerazione le tendenze e i livelli della produttività nei settori collegati. Nel lungo periodo un aumento della produttività nell'industria manifatturiera può essere determinato, almeno parzialmente, da servizi complementari nel campo dei trasporti e della distribuzione, e può quindi richiedere un incremento degli scambi e dei servizi distributivi, i quali avrebbero avuto probabilmente livelli e tendenze di produttività diversi. Date le interrelazioni sempre più strette esistenti nelle economie moderne fra prodotti, industrie e settori, è preferibile occuparsi dei mutamenti o dei differenziali nella produttività dell'economia nazionale - con riferimento ai più importanti settori produttivi - piuttosto che della produttività dei singoli prodotti o delle singole industrie.

In terzo luogo, ci occuperemo dei mutamenti della produttività nel lungo periodo, cioè delle sue tendenze storiche e delle più importanti differenze internazionali. Porremo l'accento sui mutamenti di lungo periodo, nella convinzione che i maggiori problemi del XX secolo risultano dall'incidenza dei mutamenti di questo tipo e non dalle fluttuazioni di breve periodo. Converrà quindi operare una distinzione fra produttività economica ed efficienza economica, distinzione che non viene applicata costantemente nella letteratura. L'efficienza si riferisce all'utilizzazione delle risorse produttive a un livello dato della tecnologia; la produttività è una misura più ampia che comprende il livello di efficienza e le caratteristiche di una tecnologia (per un dato saggio minimo o medio di efficienza nell'uso di questa tecnologia). Questa distinzione è significativa, in particolar modo per l'analisi delle tendenze di lungo periodo e per i raffronti internazionali. Così, un agricoltore americano del secolo scorso può essere stato altrettanto efficiente nell'utilizzare la tecnologia di quei tempi quanto può esserlo un agricoltore indiano oggi nell'utilizzare la tradizionale tecnologia ad alta intensità di lavoro dell'agricoltura asiatica. Ma la produttività di entrambi è molto più bassa di quella di un agricoltore moderno, anche inefficiente, che usi una tecnologia agricola meccanizzata e chimicamente avanzata. La comprensione delle tendenze della produttività nell'ultimo secolo e delle sue attuali differenze internazionali richiede quindi la ricognizione dell'interazione fra i cambiamenti dell'efficienza e quelli della struttura tecnologica entro la quale l'efficienza è utilizzata.

2. I due rapporti della produttività aggregata

La misura del prodotto netto aggregato dell'economia di un paese che, al presente, è generalmente accettata, è il prodotto nazionale come viene definito nella contabilità economica nazionale corrente; esso rappresenta, in prima approssimazione, il numeratore del rapporto della produttività aggregata. Tale struttura concettuale definisce implicitamente anche i fattori produttivi: lavoro e capitale materiale riproducibile; essi costituiscono il denominatore del rapporto della produttività aggregata. Conviene soffermarsi sui concetti di prodotto nazionale e di fattori produttivi impliciti nella contabilità economica nazionale corrente (e che di fatto sono definiti all'interno della teoria economica fin dal suo nascere), in quanto essi sono fondamentali per spiegare i mutamenti di lungo periodo e le differenze internazionali nell'ambito della produttività economica.

Il prodotto nazionale misura il valore totale dei beni finali prodotti in un anno. Si tratta essenzialmente di una misura netta (il prodotto nazionale lordo comprende anche il consumo del capitale fisso). I beni prodotti si dicono finali nel senso che sono atti a soddisfare lo scopo fondamentale dell'economia e cioè la fornitura di beni all'insieme dei consumatori, in ragione della loro capacità individuale e collettiva di consumo. Secondo la destinazione finale, il prodotto nazionale lordo comprende: il flusso di beni alle famiglie (o alle associazioni di famiglie), il flusso di beni per il consumo pubblico, e infine le aggiunte allo stock di capitale del paese. Le prime due voci riguardano il consumo, privato e pubblico; la terza viene inclusa in quanto il prodotto totale è misurato nel breve periodo e registra quindi gli incrementi di capacità produttiva di beni finali. Infine, il prodotto nazionale comprende anche il saldo delle esportazioni, delle importazioni e dei trasferimenti dei redditi dei fattori produttivi (salari, dividendi ecc.) da un paese all'altro, è quindi una misura del contributo della produzione del paese alla sua posizione rispetto agli altri paesi.

I beni che vanno alle famiglie e al consumo collettivo tramite lo Stato vengono considerati come finali in quanto usati per vivere e non per un'ulteriore produzione: non si vive per lavorare, si lavora per vivere. Includendo le aggiunte allo stock di capitale del paese e ai crediti nei confronti del resto del mondo, noi aggiungiamo gli aumenti di capacità per un flusso supplementare di beni finali. Allo stesso tempo abbracciamo pienamente l'output dell'economia nel corso dell'anno, in quanto qualsiasi cosa venga prodotta deve essere consumata nel paese o aggiunta al suo capitale reale, oppure deve incrementare i crediti del paese nei confronti del resto del mondo. Il prodotto nazionale è quindi una misura completa dell'output totale di un'economia; esso è una misura del prodotto netto in quanto non vi è duplicazione fra i beni di consumo finali, o fra il consumo e le aggiunte nette allo stock di capitale del paese o fra questi due e i cambiamenti netti dei crediti nei confronti degli altri paesi. Infine, il prodotto nazionale misura i diversi tipi di beni finali mediante i prezzi di mercato, la sola approssimazione valida per misurare il consenso sociale. I vantaggi di possedere una misura così comprensiva e articolata dell'output economico netto di un paese sono ovvi. Ma questo concetto comprende una quantità di presupposti essenziali concernenti lo scopo primario dell'attività economica e il significato dei prezzi di mercato; dovremo riesaminare tali presupposti quando ne prenderemo in considerazione alcune limitazioni.

L'identità dei fattori produttivi è implicita nel concetto di prodotto nazionale. Quindi, il lavoro è chiaramente un fattore produttivo, ma il fattore lavoro non è influenzato né dall'istruzione (le cui spese gravano sulle famiglie o sul consumo pubblico, e non sul capitale), né dagli investimenti per la sanità, l'alimentazione ecc. Il fattore lavoro è quindi compreso nella contabilità economica nazionale corrente in termini di ore-uomo dalle quali sia stato dedotto qualsiasi investimento in quello che può essere chiamato capitale umano. La contabilità nazionale non prende in considerazione il capitale umano, ma si occupa soltanto del capitale materiale riproducibile. Se si considera la difficoltà di distinguere fra il consumo di beni finali e il consumo come investimento, questa esclusione del capitale umano non è irrealistica come potrebbe sembrare a prima vista; sarebbero difatti necessari decenni di calcoli e di analisi per rendere il sistema della contabilità nazionale conforme a una definizione di capitale più ampia, che comprenda anche gli investimenti per la qualificazione del lavoro. Questa osservazione vale anche per l'esclusione dal capitale (limitato dunque ai beni materiali riproducibili) delle risorse naturali non riproducibili e del più importante stock di capitale, quello della conoscenza e dei modelli di comportamento istituzionale e sociale. Il valore e i mutamenti delle risorse naturali - che sono funzioni del mutamento della conoscenza - come il valore e i mutamenti nello stock della conoscenza tecnologica e sociale - diversamente dal flusso del capitale materiale riproducibile che fa necessariamente parte dell'output corrente - non possono essere calcolati facilmente o in ogni caso con sufficiente precisione. Anche in questo caso sarebbero necessari decenni per far registrare cambiamenti di questa natura alla contabilità economica. Al presente, dobbiamo far uso dei concetti più limitati di lavoro e di capitale materiale riproducibile quali fattori produttivi. Alcune delle modificazioni che possono essere valutate approssimativamente fin d'ora saranno considerate nella nostra trattazione; ma per lo più dovremo attenerci alle definizioni comunemente accettate.

Il comune rapporto della produttività aggregata è quindi il rapporto tra il prodotto nazionale, qual è definito comunemente, e gli inputs combinati di lavoro e capitale: ci si riferisce di solito a esso come alla produttività totale dei fattori. Siccome gli inputs dei fattori devono essere combinati secondo valori accettabili, che sono i rendimenti dei fattori che si aggiungono al prodotto totale (al costo dei fattori), la grandezza assoluta della produttività totale dei fattori, in un dato momento e per una data economia, tende a 1. I valori della produttività diversi dal valore tautologico 1.0 compariranno soltanto quando confronteremo la produttività totale dei fattori in due o più momenti temporalmente diversi tra loro (cioè quando misureremo le tendenze della produttività dei fattori), oppure tra due o più economie (cioè quando misureremo le differenze internazionali nella produttività dei fattori).

Nel valutare le tendenze di lungo periodo, i tassi di crescita del lavoro (ore-uomo) e dello stock di capitale riproducibile (a prezzi costanti) possono essere combinati ‛ponderando' le quote del reddito nazionale (al costo dei fattori) che vengono attribuite rispettivamente al lavoro e al capitale; ovvero le ponderazioni possono essere approssimate costruendo una funzione di produzione adeguata alle serie temporali in questione. La differenza fra il tasso combinato di crescita degli inputs dei fattori e il tasso di crescita del prodotto totale è allora il tasso di crescita della produttività totale dei fattori (il tutto espresso in termini relativi). Nel calcolo delle differenze internazionali, le ore-uomo e lo stock di capitale (a prezzi confrontabili e in termini pro capite) possono essere combinati usando un insieme comune di ‛pesi', e la distanza fra le differenze internazionali negli inputs dei fattori combinati e le differenze nei rispettivi prodotti nazionali (pro capite) rappresenta l'oscillazione internazionale della produttività totale dei fattori. Nel lungo periodo e in confronti internazionali a largo raggio la differenza fra il rapporto del prodotto interno con gli inputs dei fattori interni e il rapporto del prodotto nazionale con gli inputs dei fattori nazionali è relativamente piccola e può essere trascurata. Il rapporto della produttività aggregata dei fattori verrà indicato nel seguito come rapporto A.

Un tipo di rapporto alternativo viene proposto qualora si metta in primo piano il fatto che lo scopo fondamentale dell'attività economica consiste nel fornire beni per i consumatori finali, cioè per i membri della società considerati nella loro capacità individuale e collettiva di consumo. Da questo punto di vista, il capitale è uno ‛strumento' e le aggiunte a esso sono beni intermedi piuttosto che finali. Nel lungo periodo, quello che è importante è la fornitura di beni di consumo: le misure correnti registrano il capitale (interno o in crediti nei confronti del resto del mondo) solo in quanto queste misure sono dirette a riflettere i mutamenti a breve termine della capacità presunta di produrre beni di consumo nel futuro. Se è possibile supporre che nel lungo periodo (nel misurare tendenze a lungo termine o ampie oscillazioni internazionali) le differenze nel flusso di beni verso il consumo finale non siano dovute al fatto che lo stock di capitale è stato intaccato in modo significativo (in valore assoluto o relativo), possiamo trascurare questi mutamenti. Il numeratore del nostro rapporto alternativo della produttività sarà limitato al flusso di beni per il consumo privato, aumentato soltanto di quelle componenti del flusso di beni per uso pubblico che rappresentano realmente un consumo finale (come le spese per l'istruzione, per la salute e i servizi per il tempo libero, ma non quelle per l'amministrazione, la difesa e simili). L'ipotesi che non venga intaccato lo stock di capitale si basa sull'argomento plausibile che, se il consumo cresce a tassi significativi per un lungo periodo (o ha un ampio campo di variazione nei confronti internazionali), è improbabile che esso sia determinato dalla distruzione di stock di capitale riproducibile, perché, se cosi fosse, non potrebbe essere realizzata alcuna crescita di lungo periodo e non potrebbero determinarsi consistenti differenze internazionali. D'altra parte, se in aggiunta a un consumo più elevato o accresciuto vi fossero aggiunte allo stock di capitale, queste ultime non potrebbero essere incluse in quanto esse sono solo preparatorie al consumo futuro e non costituiscono un prodotto finale fino a che non vengano trasformate in beni di consumo.

Se il numeratore è limitato al flusso di beni per il consumo, il denominatore deve essere limitato al lavoro, perché, come la fornitura di beni per il consumo è lo scopo finale dell'attività economica, così il lavoro è la risorsa produttiva fondamentale. È il lavoro che crea il capitale e gli altri prodotti intermedi dai quali deriva il flusso di prodotti finali. Nel lungo periodo il punto di partenza è costituito dal lavoro, così come viene fornito dalla popolazione, e il punto d'arrivo sono i beni finali che affluiscono ai membri della popolazione in quanto consumatori finali. Tutto quello che interviene fra il lavoro, come momento iniziale, e il prodotto economico finale, così come viene distribuito, ha la natura di stadio intermedio: il lavoro è quindi il solo fattore produttivo. Poiché la dimensione di tale risorsa fondamentale è il tempo a disposizione dell'uomo, è entro i limiti di questa dimensione che l'uomo deve impegnarsi nell'attività economica per procurarsi i beni di consumo di cui ha bisogno. Indichiamo convenzionalmente questo rapporto alternativo della produttività, che collega il flusso dei beni per il consumo con gli inputs di lavoro, come rapporto B. Esso mette in luce più chiaramente del rapporto A l'origine delle tendenze fondamentali e delle differenze internazionali nella produttività, i cambiamenti nelle conoscenze che possono essere utilmente applicate ai problemi della produzione economica e nelle capacità, diverse tra loro, delle società di adattare le loro istituzioni e i loro modelli di comportamento per realizzare la migliore utilizzazione di queste conoscenze.

3. Tendenze di lungo periodo della produttività

Ci occuperemo ora delle tendenze della produttività aggregata nell'arco di un secolo, quali vengono rilevate per le economie di mercato sviluppate a livello mondiale. L'arco di tempo preso in esame è intenzionalmente lungo - trattandosi degli ultimi cento anni fino alle fine degli anni sessanta - ed è più breve soltanto per quei paesi nei quali la crescita economica moderna (e la produttività a essa associata) comincia dopo il 1890 (come l'Italia e l'Australia) o per i paesi per i quali i nostri dati non risalgono abbastanza indietro nel tempo (come la Svizzera e il Belgio). Ma anche in questi casi i dati coprono i due terzi del periodo preso in esame o anche più, e questo è un prerequisito in quanto i cambiamenti nel tempo dei tassi di crescita, sia del prodotto che della produttività, sono soggetti a perturbazioni di breve periodo di una certa intensità.

Dal raffronto quantitativo sono esclusi i paesi comunisti, per il primo dei quali, l'URSS, i dati relativi alla crescita - dal 1928 - coprono un arco di tempo inferiore a mezzo secolo, e sono stati poi influenzati dalle guerre e da altri sconvolgimenti violenti. Inoltre, cosa ancora più importante, gli elevati tassi di crescita del prodotto, espresso in termini fisici, e della produttività nei paesi comunisti non sono confrontabili con quelli delle economie di mercato a causa dei diversi sistemi dei prezzi e di valutazione, e dei diversi rapporti esistenti fra condizioni economiche e altre condizioni sociali, un punto questo che verrà approfondito più avanti. Benché i modelli di crescita dei paesi comunisti ci siano in parte noti, l'analisi quantitativa delle tendenze della produttività in questi paesi esula dal nostro programma. Neppure ci occuperemo delle tendenze nei paesi meno sviluppati. Esamineremo le implicazioni di queste tendenze nel prossimo capitolo, quando ci occuperemo del rapporto, nell'ambito della produttività, tra paesi sviluppati e meno sviluppati, rapporto che è al centro di molti problemi caratteristici del mondo d'oggi.

Tabella 1

Piuttosto che dati attuali per singoli paesi, nella tab. I vengono indicate le misure idonee a evidenziare una tipica gamma di tassi di crescita del prodotto e degli inputs. I più bassi tassi di crescita del prodotto, nelle colonne 1-2 e 4-5, accompagnati da bassi tassi di aumento della popolazione (e quindi degli inputs di lavoro), rappresentano la variazione rilevabile nei paesi europei sviluppati (dieci dei quali, e cioè Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Paesi Scandinavi, Olanda, Svizzera e Belgio, sono esaminati nella fonte citata nella tab. I). Gli elevati tassi di crescita del prodotto nelle colonne 3 e 6, accompagnati da ancor più elevati tassi di crescita della popolazione (e quindi degli inputs di lavoro), descrivono l'esperienza dei paesi oltremare di matrice europea economicamente sviluppati (tra i quali Stati Uniti, Canada e Australia sono presi in esame nella fonte citata nella tab. I). Tutti i tassi di crescita - del prodotto e della popolazione, delle componenti del primo in quanto consumo finale, e degli inputs rappresentati dalle ore-uomo di lavoro e dallo stock di capitale totale (comprendente il capitale fisso riproducibile, considerato al netto) - sono realistici, ma nessuna delle colonne descrive in modo preciso le serie storiche di alcun paese. Esse indicano tuttavia le grandezze generali e le interrelazioni che noi stiamo ricercando.

Riassumiamo ora i risultati relativi alle tendenze della produttività e suggeriamo alcune implicazioni analitiche.

1. La produttività totale dei fattori è aumentata nell'ultimo secolo di un fattore compreso tra 4 e 5 (riga 8). Si può osservare che differenze abbastanza piccole nei tassi annuali di crescita del prodotto e degli inputs determinano, se cumulate, delle differenze molto più grandi nei multipli di crescita della produttività per secolo. Pertanto, una differenza di meno di un decimo nel tasso di crescita del prodotto netto (fra le colonne 1 e 2, riga 2), mantenendo immutati i parametri per la popolazione, gli inputs di lavoro, e le basi per il calcolo dei tassi di crescita dello stock di capitale, si traduce in una differenza di più di un quinto nei multipli di crescita per secolo della produttività dei fattori (riga 8, colonne 4 e 5). L'osservazione è importante se si considerano i tassi di crescita molto più elevati del prodotto totale e pro capite nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale: essi implicano anche un tasso di crescita molto più elevato della produttività dei fattori, in quanto l'input di lavoro è il fattore determinante ed è strettamente legato alla crescita della popolazione.

2. La crescita della produttività totale dei fattori, quando viene misurata su base annuale, è intorno agli otto decimi del tasso di crescita del prodotto netto pro capite. In altri termini, la maggior parte dell'incremento del prodotto pro capite, la cui grandezza è il risultato più importante del moderno sviluppo economico, è associata con l'incremento della produttività e non con l'incremento del volume dei fattori produttivi pro capite. Questa conseguenza è pressoché inevitabile qualora si accetti la definizione dei fattori produttivi implicita nella contabilità economica nazionale corrente. Le ore-uomo pro capite tendono a diminuire in quanto la percentuale della forza lavoro sulla popolazione totale è relativamente stabile e l'aumento associato alla diminuzione dei tassi delle nascite e ai corrispondenti mutamenti nella struttura dell'età è compensato dalla più tarda età di ingresso e dalla anticipata età di uscita della forza lavoro dal mercato, mentre la media delle ore di lavoro diminuisce nettamente. Il contributo del capitale all'aumento degli inputs è limitato, da un lato, dalla percentuale ristretta di prodotto che può essere conservato e investito e, dall'altro, dal basso ‛peso' che viene assegnato ai tassi di crescita dello stock di capitale nel combinarli con i tassi di crescita dell'input di lavoro, dal momento che nelle economie sviluppate i rendimenti del capitale sono ben al di sotto di un terzo dei rendimenti totali dei fattori.

Questa generalizzazione è confermata da un'analisi dei singoli paesi che utilizzi i loro parametri specifici. Per mutamenti di lungo periodo i rapporti dei tassi di crescita della produttività totale dei fattori con i tassi di crescita del prodotto lordo (nazionale o interno) pro capite erano (ponderando i rapporti con la lunghezza dei diversi sottoperiodi): 0,76 per la Gran Bretagna, dal 1855 al 1913 e dal 1925-1928 al 1963; 1,12 per la Francia, dal 1913 al 1966; 1,01 per la Norvegia, dal 1879 al 1956; 0,93 per gli Stati Uniti, dal 1889 al 1957; 1,07 per il Canada, dal 1891 al 1956. Per il periodo dal 1950 al 1962, i rapporti dei tassi di crescita della produttività dei fattori con quelli delle entrate nazionali pro capite, per otto paesi europei sviluppati e gli Stati Uniti, sono calcolati in 0,90 (tutti i dati che precedono sono tratti da Kuznets, 1971, p. 74, tab. IX).

3. Il rapporto B, che è la misura base della produttività del lavoro, mette in luce l'esistenza di tassi di crescita elevati; il multiplo di crescita nel secolo oscilla da 5 a 6,4 (riga 11, colonne 4-6). Com'è stato già osservato, rispetto al rapporto A il rapporto B è una misura meno chiara della crescente capacità del lavoro umano di fornire alla società i beni di cui necessita. Il tasso di crescita è superiore a quello della produttività totale dei fattori, in quanto il trasferimento della formazione del capitale e di altre componenti non di consumo, dal prodotto netto al consumo, non è in proporzione così grande quanto il trasferimento dello stock di capitale come input indipendente del fattore. Su base annuale, tuttavia, la differenza fra i tassi di crescita dei rapporti A e B non è grande, essendo soltanto un quinto circa dei tassi più bassi.

4. È significativo che il tasso di crescita del rapporto base della produttività del lavoro, il rapporto B, sia più grande del tasso di crescita del consumo finale pro capite. Questa relazione continuerà a sussistere finché l'input di lavoro pro capite continuerà a diminuire, e quest'ultima circostanza si produrrà se, restando stabile la proporzione tra forza lavoro e popolazione, le ore medie di lavoro continueranno a ridursi. In un certo senso, il rapporto B riflette quindi la crescente produttività del lavoro non soltanto nel fatto che essa fornisce molti più beni di consumo pro capite, ma anche nel fatto che rende disponibile più tempo libero per i membri della popolazione economicamente attivi.

Ne consegue che i tassi di crescita del rapporto B e del consumo finale pro capite sarebbero eguali ove noi aggiungessimo a quest'ultimo il valore del tempo libero addizionale, calcolato in produttività per ora-uomo in termini di flusso di beni economici finali. Ne segue anche che, se nel calcolare il rapporto A noi aggiungessimo al prodotto netto una quota per il tempo libero aggiunto (che risulta dalla riduzione delle ore di lavoro), i tassi di crescita dei rapporti A e B sarebbero più vicini tra loro e il rapporto tra il tasso di crescita della produttività dei fattori e il tasso di crescita dell'aumento del prodotto pro capite sarebbe maggiore.

Le due conseguenze più importanti sono: l'aumento del tasso di crescita della produttività e il contributo rilevante che esso dà all'aumento del tasso di crescita del prodotto pro capite. Con una lieve forzatura, si potrebbe dire che il grande aumento nell'offerta di beni pro capite, che è legato al moderno sviluppo economico, è il risultato della crescente produttività per unità di inputs di produzione, e non di una crescita dell'input delle risorse produttive pro capite. Questa conclusione ha importanti implicazioni analitiche e ipotesi esplicative, le più significative delle quali possono essere accennate brevemente.

In primo luogo, l'elemento principale che determina l'imponente aumento della produttività dei fattori o del lavoro nel moderno sviluppo economico è l'innovazione tecnologica, che nasce dall'applicazione di nuove conoscenze utili ai problemi della produzione e che è accompagnata da mutamenti istituzionali e di altro tipo necessari per utilizzare la nuova tecnologia nel modo più efficace. Le industrie che si sono succedute nel ruolo di centri propulsori della crescita della produttività nel corso dei due secoli del moderno sviluppo economico - nel settore dei trasporti, della produzione metallurgica ed elettrica, dei motori a scoppio e così via - si identificano strettamente, da un lato, con i cambiamenti nel patrimonio delle conoscenze utili e, dall'altro, con il sorgere di una domanda effettiva dei nuovi risultati, attraverso adattamenti nei modelli sociali e individuali di vita e di consumo. Da questa fonte di innovazioni basata sulle nuove conoscenze deriva un elevato aumento del tasso di produttività, in quanto le nuove conoscenze consentono allo stesso lavoro (senza che vengano modificate le nostre capacità genetiche innate) di produrre molto di più, con modesti investimenti supplementari di capitale (e, nel lungo periodo, anche a prescindere da essi). Forse la caratteristica peculiare della crescita economica moderna e quindi delle tendenze della produttività a essa collegate è l'utilizzazione nei processi produttivi della scienza e della tecnologia fondata sulla scienza, entro condizioni che assicurino un minimo di efficienza di tale utilizzazione.

In secondo luogo - stabilito che la più importante fonte dell'aumento della produttività va ricercata nelle innovazioni tecnologiche e nell'adattamento a esse, e precisato l'aumento del tasso di crescita del reddito reale pro capite associato con l'aumento del tasso di crescita della produttività - possono anche determinarsi altri rapidi e importanti mutamenti nella struttura dell'economia. Fra questi - solo per citarne alcuni - vi sono i mutamenti nella distribuzione del lavoro, del capitale e del prodotto fra i vari settori della produzione; nel peso relativo degli impianti e delle imprese di piccole e grandi dimensioni; nella distribuzione della forza lavoro fra lavoratori autonomi, imprenditori individuali, salariati e impiegati. Il tasso elevato di questi mutamenti strutturali dipende in parte dal fatto che le innovazioni tecnologiche passano da un settore a un altro. Il continuo emergere di nuove industrie caratterizzate da una crescita elevata è indice di uno spostamento nella distribuzione proporzionale delle risorse e del prodotto. L'elevato tasso di crescita del reddito reale pro capite, data la diversa elasticità rispetto al reddito della domanda per i vari prodotti, è indice di rapidi mutamenti nella struttura della domanda interna finale. Le riduzioni rivoluzionarie del costo reale dei trasporti e delle comunicazioni e le differenze mutevoli nel livello dello sviluppo economico tra le varie regioni del mondo sono indici di cambiamenti nella struttura della domanda estera per i prodotti di un dato paese e nella sua domanda di importazioni dall'estero. L'elevato tasso di cambiamento nelle strutture della produzione e degli aspetti organizzativi dell'economia, associato a tassi elevati di crescita della produttività e del prodotto pro capite, sono qui sottolineati in quanto hanno implicazioni per alcuni dei costi non economici e dei redditi dei prodotti economici. Tali implicazioni saranno esaminate in seguito quando considereremo gli elementi della crescita della produttività che emergono quando si affrontano le misure basate sulla contabilità economica nazionale convenzionale.

In terzo luogo, gli aumenti massicci della produttività, indicati nella tab. I, hanno una diffusione rilevante nell'economia ed estesa a tutti i settori. In verità è questo diffuso aumento della produttività il quale, data la diversa elasticità rispetto al reddito della domanda per i diversi prodotti, determina mutamenti strutturali a tassi elevati. Quindi, il trasferimento strutturale più comunemente osservato e più rilevante (il trasferimento del lavoro e del capitale dal settore agricolo) è dovuto al fatto che, con una bassa elasticità rispetto al reddito della domanda di prodotti dell'agricoltura, l'aumento della produttività del lavoro (e del capitale) nell'agricoltura stessa rende superflua una parte del lavoro (e del capitale) e induce uno spostamento verso i settori con prodotti rispondenti alla domanda di redditi più elevati.

E così, nonostante questa diffusione, vengono osservate comunemente delle sostanziali differenze intersettoriali nella produttività del lavoro o dei fattori combinati. I settori più influenzati dalle innovazioni tecnologiche correnti hanno probabilmente una più elevata produttività dei settori tradizionali e meno influenzati da queste. Così, la produttività del lavoro e del capitale in un nuovo settore dell'industria, come quello dei sistemi elettronici di controllo, è presumibilmente più elevata di quella di un settore più tradizionale, come quello della tessitura del cotone, anche se i sistemi elettronici aiutano a far crescere la produttività della stessa industria tessile. Siffatte differenze sono, in un certo senso, provvisorie: due o tre decenni fa, la composizione del gruppo delle industrie a ‛crescita elevata' non era la stessa di oggi e le industrie attualmente caratterizzate da una crescita elevata perderanno col tempo la loro momentanea superiorità produttiva. In un altro senso, queste differenze di produttività tra settori tradizionali (alcuni dei quali tendono all'obsolescenza tecnologica), settori ancora efficienti e settori di recente sviluppo sono una caratteristica permanente di un'economia che evolve rapidamente e la cui produttività aumenta altrettanto rapidamente. Di conseguenza, l'impatto ineguale di un aumento della produttività sui diversi settori è fonte di continue diversità nella produttività settoriale dei fattori e del lavoro, e quindi delle diversità nei rendimenti. Queste ultime differenze possono essere ridotte da una mobilità delle risorse dai settori a bassa produttività verso quelli ad alta produttività, ma la mobilità è raramente tale da compensare pienamente i continui effetti differenziali della localizzazione delle innovazioni tecnologiche o di quelle a esse collegate.

4. Differenze internazionali nella produttività

I dati disponibili per confrontare la produttività nazionale nelle diverse regioni del mondo sono molto meno soddisfacenti di quelli relativi ai mutamenti di lungo periodo nella produttività delle economie di mercato sviluppate. Devono essere presi in esame anche i paesi meno sviluppati, ma i dati attendibili relativi alle loro realizzazioni e alla loro struttura economica sono scarsi e riflettono una deficienza di capitale intellettuale non dissimile e non priva di collegamenti con la relativa scarsità di capitale materiale. Le stime contenute nella tab. II sono quindi assai più grossolane di quelle contenute nella tab. I e dovrebbero essere corrette mediante aggiustamenti e ampliamenti possibili in base a dati più precisi, e in particolare sulla base di definizioni più adeguate del prodotto e degli inputs. Ma, date le definizioni convenzionali, gli ordini generali di grandezza sono quasi confrontabili con quelli presentati nella tab. I. Omettiamo ancora una volta i paesi comunisti, per i motivi già detti; ma possiamo osservare, di passaggio, che il contrasto fra i paesi più sviluppati (l'URSS o la Repubblica Democratica Tedesca) e quelli meno sviluppati (la Cina e l'Albania) è anche qui notevole. Le stime che presentiamo sono relative al 1960, per il fatto che per quell'anno sono facilmente disponibili i dati sulla forza lavoro e quelli a essi collegati. In ogni caso, i risultati non sarebbero molto diversi per un qualsiasi anno successivo: alla fine degli anni sessanta o all'inizio degli anni settanta.

Tabella 2

Prendiamo le mosse dalle stime convenzionali del reddito nazionale, convertite mediante i tassi di cambio in unità monetarie confrontabili. Queste sono soltanto misure approssimate delle differenze nel potere d'acquisto reale e accentuano le differenze internazionali; ma questa distorsione è relativamente modesta se ci serviamo dei sistemi dei prezzi dei paesi meno sviluppati, cioè se guardiamo al confronto dal punto di vista di tali paesi. Questo punto è di una certa importanza; il contrasto nel reddito pro capite (e nella produttività) fra paesi meno sviluppati e paesi sviluppati è molto maggiore quando viene osservato dal punto di vista dei primi che non dal punto di vista dei secondi, così come la crescita nel tempo sembra maggiore quando viene osservata a partire dai periodi precedenti (usando come ‛pesi' i prezzi iniziali) che non quando viene osservata a ritroso e usando i prezzi finali (v. Kuznets, 1966, pp. 374-389).

Per il calcolo del rapporto B sono necessari i dati sulle componenti del consumo finale del reddito nazionale ed essi possono essere approssimati correlando il reddito pro capite e la struttura di uso finale del reddito nazionale. Sono anche necessari dati sugli inputs di lavoro. Sono disponibili delle cifre pressoché complete sul rapporto tra forza lavoro, maschile e totale, e popolazione totale nel 1960 e, in mancanza di dati indicativi, si può ricavare una grossolana approssimazione delle differenze in ore medie, per analogia con l'esperienza storica dei paesi attualmente sviluppati. Le differenze nei rapporti tra forza lavoro e popolazione totale, che riflettono in parte le diverse strutture di età, le quali a loro volta riflettono le differenze nei tassi di natalità, sono abbastanza piccole, almeno se confrontate con le grandi differenze che vi sono nel reddito nazionale pro capite. Anche il Nordamerica, che è la regione di maggior reddito pro capite, presenta un rapporto tra forza lavoro e popolazione totale non più elevato di quello dei paesi meno sviluppati presi nel loro complesso (si vedano le righe 4 e 5 e le colonne 1 e 7).

I parametri relativi agli inputs di capitale (per l'approssimazione del rapporto A) sono presi, nella riga 8, in parte dalla regressione delle quote dei profitti da capitale nel reddito nazionale in rapporto al reddito pro capite (con una grossolana approssimazione del profitto da capitale nel reddito dei lavoratori autonomi e degli imprenditori), e in parte dall'analisi schematica dei rapporti fra capitale totale riproducibile e output, che traccia i loro movimenti da livelli iniziali realistici nel corso dello sviluppo economico (riga 9). I risultati non sarebbero molto diversi ove noi assumessimo gli stessi rapporti fra capitale e output per i paesi sviluppati e meno sviluppati, e si potrebbe osservare che i rapporti usati nella riga 9 comportano un rapporto più elevato fra capitale riproducibile e Prodotto Nazionale Netto (PNN) per i paesi sviluppati rispetto ai paesi meno sviluppati.

1. Nel riassumere i risultati della tab. II cominciamo da quelli più chiari, e in particolare dal rapporto della produttività del lavoro. Il rapporto B per i paesi sviluppati è 10 volte maggiore di quello relativo ai paesi meno sviluppati. Per i sottogruppi di paesi i differenziali sono molto più ampi: così il differenziale tra la produttività del lavoro nel Nordamerica e quella dell'Asia o dell'Africa è più di 20 a 1. Questa differenza nella produttività del lavoro rende largamente ragione delle differenze internazionali nel consumo finale pro capite (con una variazione da 9 a 1) o nel reddito nazionale pro capite (con una variazione da 10,4 a 1).

2. La relazione che intercorre tra il rapporto A dei paesi sviluppati e quello dei paesi meno sviluppati è calcolata dividendo gli indici del reddito nazionale pro capite dei due gruppi (10,41) per gli indici dell'input pro capite dei fattori combinati, cioè del lavoro e del capitale nei due gruppi di paesi (2,61). Questo indice (4,0) è sensibilmente più basso di quello del rapporto B, in quanto riflette l'incidenza delle differenze nell'offerta di capitale pro capite nei due gruppi di paesi. Inoltre la differenza negli inputs pro capite (2,61) è soltanto un quarto circa del differenziale totale nel prodotto pro capite (10,41), mentre il rapporto della produttività incide per circa 4/10 e la componente di interazione per qualcosa di meno di 4/10 (10,41, 4,0, 2,61). Distribuendo proporzionalmente la componente di interazione fra l'input e la produttività, troviamo che la differenza nel rapporto della produttività incide per 6/10 della differenza totale nel prodotto netto pro capite fra i paesi sviluppati e quelli meno sviluppati.

Si può arrivare alla conclusione che, come i mutamenti di lungo periodo del prodotto pro capite nelle economie di mercato sviluppate, così anche le differenze internazionali fra le economie di mercato sono in larga misura attribuibili a differenze nella produttività, piuttosto che a differenze nell'offerta di fattori produttivi pro capite (sebbene il capitale pro capite non sia che una variabile di scarsa incidenza sul reddito e sui differenziali di produttività fra paesi sviluppati e meno sviluppati). Tali differenze nella produttività sono chiaramente associate alle differenze nell'uso della tecnologia moderna o alla capacità dei paesi - sviluppati e non - di utilizzare i potenziali della tecnologia moderna.

Vi sono però alcune eccezioni: da un lato alcuni paesi meno sviluppati arricchiti dal possesso di risorse naturali che vengono utilizzate dai paesi sviluppati; dall'altro alcuni paesi sviluppati dotati di risorse relativamente scarse che limitano il loro prodotto. Ma queste sono eccezioni di minore importanza nel rapporto che esiste in generale tra il livello del reddito pro capite e quello di utilizzazione della tecnologia avanzata realizzata attraverso le istituzioni economiche e sociali moderne.

Gli ampi differenziali internazionali nel prodotto e nella produttività, in particolar modo tra paesi sviluppati e meno sviluppati, che sono riassunti nella tab. II, suggeriscono diverse osservazioni generali.

In primo luogo, dato il basso livello del prodotto e della produttività pro capite nei gruppi popolosi di paesi meno sviluppati, i tassi di crescita del loro prodotto e della loro produttività pro capite non possono essere stati, nel corso dell'ultimo secolo, altrettanto alti quanto quelli rilevati nella tab. I a proposito delle economie di mercato sviluppate. Nel 1960, il reddito nazionale pro capite dei paesi asiatici meno sviluppati era di circa 100 dollari e, secondo le fonti delle Nazioni Unite, nel 1963, cioè nell'anno per il quale si hanno dati per il maggior numero di paesi, nessun paese del continente asiatico ebbe un reddito pro capite al di sotto dei 50 dollari. Se si assume 50 dollari come standard minimo, il prodotto pro capite per l'Asia nei cento anni che precedono il 1960 può essere soltanto raddoppiato, e un multiplo di crescita di 5 o superiore, come risulta dalla tab. I, sarebbe stato impossibile. In verità i multipli di crescita secolari dei pochi paesi meno sviluppati per i quali sono disponibili dati abbastanza estesi nei tempo (Egitto, India, Giamaica) risultano assai bassi (v. Kuznets, 1971, pp. 30-33, tab. III). Si può supporre ragionevolmente che tassi di crescita così bassi, nei cent'anni o più che precedono i decenni recenti, abbiano caratterizzato anche la produttività degli altri paesi meno sviluppati.

Tabella 3

Ne segue che le attuali ampie differenze nel prodotto e nella produttività pro capite che si registrano fra i paesi sviluppati e quelli meno sviluppati sono dovute, in gran parte, a diversità nei tassi di sviluppo presenti nel corso del secolo precedente o anche prima, e dipendenti quindi dalla data di ingresso del paese sviluppato nel moderno processo di sviluppo economico. Ma si può anche mostrare che, forse con l'eccezione del Giappone, il prodotto pro capite, e implicitamente la produttività, dei paesi attualmente sviluppati, immediatamente prima della loro industrializzazione e del loro sviluppo accelerato, era più elevato di quello di paesi popolosi e meno sviluppati alla fine degli anni cinquanta o all'inizio degli anni sessanta. La posizione economica più avanzata e la più elevata produttività della maggior parte dei paesi attualmente sviluppati risalgono a molto prima dei tre quarti di secolo considerati, ma risalgono anche a poco meno di due secoli di moderno sviluppo economico delle economie di mercato sviluppate.

In secondo luogo, gli elevati differenziali che stiamo esaminando non riflettono soltanto, in buona parte, differenze nella tecnologia materiale e nell'adattamento delle istituzioni sociali alle potenzialità della tecnologia moderna, ma rappresentano anche differenze profonde nei modelli di vita. Ovviamente le società adattano i loro modelli di vita ai vincoli imposti da una tecnologia di basso livello, così come esse fanno rispetto ai benefici (e ai diversi vincoli) imposti da una tecnologia di livello elevato. Questo punto è importante perché, quando consideriamo più approfonditamente le ipotesi che sono implicite nella contabilità economica convenzionale e proviamo a calcolare i costi e i benefici addizionali che non sono attualmente presi in considerazione, si scopre che l'identità (e probabilmente la grandezza) di questi costi addizionali e di questi benefici differisce tra paesi sviluppati e meno sviluppati, perché derivano da modelli di vita diversi.

In terzo luogo, i paesi economicamente meno sviluppati sono molto più popolosi di quelli sviluppati. Nella tab. II, che prende in considerazione solo le economie di mercato, la popolazione del primo gruppo (1,3 miliardi nel 1960) rappresenta più del doppio di quella del secondo gruppo (0,62 miliardi). Questa differenza diverrebbe ancora più grande ove noi tenessimo conto anche dei paesi comunisti, poiché la popolazione della Cina e degli altri paesi meno sviluppati supera di 3 volte quella dell'URSS e dei paesi comunisti sviluppati. La differenza è dovuta in larga misura alla popolosità dell'Asia e in particolare dei paesi di civiltà indiana e cinese (India, Cina, Indonesia, Pakistan, Ceylon, Corea, Taiwan e gran parte dell'Indocina). Questa popolosità è dovuta a sua volta alla passata capacità di sostentare popolazioni numerose e in crescita all'interno di strutture relativamente pacifiche e con una tecnologia di base adeguata. Questa crescita numerica pressoché continua è stata di un ordine di grandezza che ha sorpassato largamente il record storico dell'Europa fino al XIX secolo. Ovviamente, nel tentativo di modernizzare e di utilizzare meglio i potenziali di produttività della tecnologia moderna, questi paesi meno sviluppati dell'Asia, vasti e popolosi, si trovano di fronte a compiti peculiari, per i quali l'eredità dei successi passati può rappresentare non soltanto un aiuto, ma anche un ostacolo.

Infine, tutti i paesi sviluppati, con l'unica e rilevante eccezione del Giappone, sono unità che si sono formate all'interno della struttura della civiltà europea. Naturalmente, non tutti i paesi europei o tutte le loro ramificazioni oltremare sono economicamente sviluppati. Ma il Giappone è il solo paese di origine non europea che appartenga al gruppo dei paesi sviluppati. Conseguire un alto livello di produttività economica basato sulla tecnologia moderna e avere le radici nella civiltà europea sono evidentemente fatti storicamente collegati. La comprensione del significato di questo collegamento, essenziale per trasferire altrove la tecnologia avanzata, richiede un esame critico attento. Questa osservazione si applica altrettanto bene alla situazione dell'America Latina, dove i livelli più elevati del prodotto e della produttività pro capite sono associati a percentuali più elevate dei gruppi di origine europea all'interno della popolazione complessiva (come in Argentina, Uruguay e Cile).

5. Prodotto finale e input dei fattori; problemi di definizione

La diffusione dell'uso della contabilità economica nazionale per l'analisi quantitativa della crescita e delle differenze nel prodotto e nella produttività pro capite a livello internazionale, verificatesi nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, favorì una grande quantità di scoperte, alcune delle quali sono state riassunte nei precedenti capitoli. Ma questa diffusione sollevò anche un certo numero di problemi relativi all'adeguatezza dei concetti e delle misure, in particolar modo nei paesi economicamente sviluppati, dove i continui mutamenti intervenuti nel corso della crescita economica hanno portato alla ribalta problemi di questa natura e dove sono concentrate le risorse umane e di altra natura per la ricerca economica. È inutile dire che questi problemi hanno anche un rapporto con l'analisi dell'output e della produttività nei paesi meno sviluppati.

Sono emersi in questo ambito tre gruppi distinti di problemi: di definizione, di valutazione e problemi relativi a fenomeni differenziali o alla distribuzione. Il primo gruppo comprende problemi relativi all'adeguatezza della classificazione - implicita nella contabilità economica nazionale - dei beni di consumo finali, dei prodotti intermedi (cioè dei prodotti che servono come input corrente nel processo produttivo) e degli investimenti di capitale (o dei mutamenti netti nello stock di capitale). Questi problemi si basano sulle assunzioni fondamentali relative agli obiettivi dell'attività economica e sulle definizioni dell'output finale e degli inputs dei fattori. Il secondo gruppo si accentra attorno ai problemi della valutazione di mercato per beni di qualità complessa e mutevole, in particolar modo quando il giudizio dei consumatori può essere limitato da una conoscenza inadeguata o quando l'offerta si colloca in mercati controllati o gestiti dallo Stato. L'aumento della quota del prodotto nazionale relativa a merci sempre più complesse e a servizi, elementi che hanno entrambi un'ampia gamma qualitativa - e così pure relativa a merci e servizi prodotti o consumati dallo Stato, anche nelle economie di mercato - solleva problemi importanti concernenti l'adeguatezza dei prezzi di mercato come ‛pesi' nei confronti intertemporali e internazionali del prodotto e della produttività. Il terzo gruppo di problemi richiama l'attenzione sugli effetti differenziali dell'incremento del prodotto e della produttività nei diversi settori, nell'occupazione e nelle zone interne del paese, e pone al centro gli aspetti distributivi, che non sono messi in luce dalle misure aggregate complessive.

Soltanto il primo gruppo di problemi, cioè i problemi di definizione, può essere esaminato in questa sede. Si tratta dei problemi più strettamente collegati alle maggiori questioni sollevate dalle tendenze e dalle differenze del prodotto e della produttività pro capite a livello internazionale. Anche per questi problemi di definizione possiamo soltanto limitarci a riassumere i risultati e useremo misure quantitative per illustrare soltanto alcuni dei risultati ottenuti. Partiremo dall'esame delle componenti del consumo finale del prodotto netto totale, cioè del flusso di beni alle famiglie e al consumo pubblico (§ a); quindi considereremo la formazione del capitale (§ b); i problemi di definizione, che sorgono in relazione a queste due componenti dell'output finale, condurranno implicitamente agli inputs di produzione (§ c); in conclusione ci serviremo di alcune stime disponibili per illustrare la grandezza approssimativa di alcune delle correzioni suggerite per la definizione dell'output netto e dei fattori produttivi (§  d).

a) Componenti del consumo finale del prodotto netto totale

Nelle discussioni più recenti, l'esame della definizione di consumo finale ha condotto a criticare l'inclusione in esso dei prodotti ‛intermedi', cioè dei beni che servono correntemente per il processo produttivo piuttosto che per il consumo da parte dei consumatori finali; a criticare l'incapacità di rendere conto dei sottoprodotti ‛negativi' dei prodotti positivi; e a criticare infine la classificazione di un genere di ‛investimento di capitale' (in esseri umani) come consumo finale.

Si possono facilmente fornire esempi di siffatte omissioni ed errate classificazioni. Un esempio rilevante di prodotti intermedi inclusi nel prodotto finale, nella contabilità nazionale comunemente accettata, è rappresentato dalla maggior parte delle spese pubbliche relative a merci e a servizi. Nella misura in cui queste spese sono per l'amministrazione, la legislazione, la giustizia, la difesa e simili, esse possono essere difficilmente interpretate in termini di flussi alle famiglie e ai consumatori privati e finali; il concetto di un consumatore collettivo che in qualche modo utilizzi questi servizi come noi utilizziamo i cibi, le calzature e le case, sembra piuttosto artificioso. È più realistico considerare queste spese come una sorta di lubrificazione della macchina sociale ed economica, che aiuta a trovare canali adeguati per l'utilizzazione dei potenziali della tecnologia moderna, risolvendo inoltre qualsiasi conflitto che possa essere determinato dallo sviluppo e assicurando l'indipendenza di qualsiasi decisione nazionale che si renda necessaria. Come l'olio nelle ruote del macchinario industriale, anche questo è un prodotto intermedio, essendo il prodotto finale costituito dai beni di consumo e dai servizi (e dai beni capitali), i quali sono prodotti dal sistema sociale ed economico così lubrificato. Un altro esempio meno importante è dato dalle spese incluse nel flusso di beni alle famiglie (nella contabilità economica degli Stati Uniti) sotto la voce personal business, costituita per la massima parte da mediazioni commerciali, servizi bancari, servizi legali, versamenti ai sindacati e simili. Anche queste sembrano essere spese rivolte a facilitare l'adattamento alla crescente complessità dell'attività economica piuttosto che un flusso di beni finali al consumatore finale.

Alcuni dei sottoprodotti o corollari negativi di un prodotto e di una produttività pro capite maggiori possono essere stati generati (completamente o in parte) da beni economici addizionali, che spesso compaiono nel consumo privato o pubblico (o in beni capitali di consumo, come l'edilizia residenziale) e possono essere trascurati. Essi non sono un'aggiunta ‛netta' alla soddisfazione dei bisogni, ma piuttosto un ‛compenso' alla crescente difficoltà di conseguire una tale soddisfazione, imposta dalla tecnologia avanzata. Un esempio notevole è dato dall'effetto della tecnologia e della produttività crescenti sulla scala della produzione e dell'urbanizzazione. L'urbanizzazione, più della campagna, può richiedere spese maggiori, più beni economici, per soddisfare il medesimo livello di bisogni alimentari e di case. Si potrebbe concludere che le componenti del flusso di beni alle famiglie, del consumo pubblico (a livello locale) e della formazione del capitale per l'edilizia - che costituiscono incrementi in beni necessari per conseguire, nelle condizioni urbane, lo stesso livello di soddisfazione nell'alimentazione, nel tempo libero e nelle abitazioni, conseguibile a un costo molto minore nelle campagne - sono compensi di sottoprodotti negativi e non aggiunte nette al flusso di beni di consumo. Di conseguenza, le voci corrispondenti devono essere omesse dal consumo finale (e ove fossero rilevanti, dalla formazione del capitale).

Ma possono esservi anche sottoprodotti negativi, nella forma di ovvi svantaggi per i consumatori finali, che non sono stati ancora tradotti in termini quantitativi; e pertanto questi sottoprodotti debbono essere considerati nel prodotto netto totale con un segno negativo. Se, in condizioni di densità urbana, il flusso di alcuni beni di consumo sofisticati verso il consumo privato determina un inquinamento sonoro o atmosferico non compensato sufficientemente da beni economici (che allora potrebbero essere sottratti), occorre mettere in conto una voce negativa. Ovviamente, la difficoltà consiste nel fatto che, non potendo tradurre il danno in termini quantitativi, non vi è a portata di mano alcuna base adeguata per calcolare la grandezza economica a cui deve essere attribuito il segno negativo.

Infine, sempre per quel che concerne il consumo finale, si può ammettere che alcune componenti, che sono state qui considerate come beni di consumo finali, siano designate o richieste, per una migliore partecipazione all'attività economica, come investimenti in capitale umano. Mossi dall'esigenza di spiegare le grandi componenti della produttività all'interno della relazione del prodotto netto con gli inputs di lavoro e di capitale (convenzionalmente definiti), gli economisti hanno posto l'accento sui mutamenti nella qualità del lavoro dovuti a livelli più elevati d'istruzione, a miglioramenti nel campo della salute e dell'alimentazione e simili (le spese per i quali vengono incluse comunemente nel consumo finale). Se le spese per l'istruzione e per la salute, sia da parte dei privati che dello Stato, vengono considerate come strumenti per conseguire una più elevata produttività, esse debbono essere classificate come formazione di capitale ed essere omesse dal consumo finale. Le spese nette debbono poi essere aggiunte allo stock del capitale umano così concepito.

La misura del livello del consumo finale dev'essere ridotta escludendo i prodotti intermedi e i compensi per i sottoprodotti negativi, deducendo i sottoprodotti negativi che non sono stati compensati ed escludendo infine le componenti classificabili come investimenti in capitale umano. Se la percentuale di queste esclusioni e deduzioni rispetto alla misura totale cresce col passare del tempo, dev'essere ridotto anche il tasso di crescita del consumo finale. Se i tassi di crescita degli inputs dei fattori restano immutati, il tasso di crescita del lavoro o della produttività dei fattori deve essere abbassato. Inoltre, nei confronti internazionali, i differenziali devono essere ristretti a causa della maggior riduzione del consumo finale e della produttività pro capite nei paesi sviluppati rispetto a quelli meno sviluppati.

Questa è una sintesi esauriente di gran parte del dibattito recente, che esamina il contributo dello sviluppo economico e dell'aumento della produttività come vengono attualmente misurati. Questo dibattito prende in considerazione però solo gli aspetti negativi ed è decisamente unilaterale; trascura infatti alcuni sottoprodotti positivi della crescita del prodotto e della produttività pro capite (che vengono completamente omessi) e prescinde dalla prospettiva storica, la quale induce a ritenere che, nelle fasi recenti di crescita e di aumento della produttività, il peso relativo delle componenti negative possa essere diminuito e non aumentato. Se è comprensibile che in sede di dibattito si tenda a porre l'accento in modo unilaterale sugli svantaggi fastidiosi piuttosto che sui vantaggi non registrati e ritenuti scontati, è invece necessaria una maggiore considerazione delle questioni di definizione per qualsiasi analisi che voglia essere accettata.

Tre osservazioni mettono in luce le carenze del punto di vista adottato e la possibilità di riequilibrarlo. In primo luogo, mentre le stime convenzionali includono di solito alcune componenti che possono venire omesse o possono essere ridotte per tener conto dei sottoprodotti negativi non compensati, esse omettono invece alcuni vantaggi non registrati. L'esempio più notevole è dato dalla riduzione delle ore di lavoro, o altrimenti dall'aumento del tempo libero (di cui si è già discusso a proposito del rapporto B); questa tendenza potrebbe rafforzarsi col passare del tempo (o potrebbero aumentare i differenziali internazionali), in quanto la riduzione delle ore di lavoro sopraggiunge nelle fasi più avanzate dello sviluppo economico. Un altro esempio è dato dagli effetti di un'urbanizzazione intensiva, che contribuisce ad accrescere i costi per soddisfare le più elementari necessità (quali quelle dell'alimentazione, della casa e dell'igiene). Le città forniscono i beni di consumo più sofisticati e non reperibili nelle campagne; molte di queste comodità della vita cittadina, che sono il risultato di un tipo di civiltà più avanzato, non si riflettono adeguatamente nelle misurazioni convenzionali del consumo finale e del prodotto netto.

In secondo luogo, se da un lato l'accresciuta densità della popolazione urbana e il volume crescente del consumo pro capite hanno determinato anche dei sottoprodotti negativi (quali l'inquinamento) che non sono stati ancora compensati, la cronaca storica mette in rilievo come i sottoprodotti negativi e non compensati, della crescita del prodotto e della produttività, siano stati probabilmente molto maggiori nella prima fase del moderno sviluppo economico. Nei primi periodi dell'urbanizzazione - dalla fine del XIX secolo all'inizio del XX - la mortalità urbana (per età e sesso) era più elevata di quella rurale. Ciò significa che i tassi di mortalità (e di malattia) erano più elevati di quelli che sarebbero stati registrati in condizioni diverse, e questa circostanza rappresentava un sottoprodotto negativo dello sviluppo. Su scala più ridotta si può osservare che l'inquinamento atmosferico delle città dovuto all'uso di carbone bituminoso è stato molto maggiore nel XIX secolo che verso la metà del XX, quando si passò all'uso del combustibile industriale. Quindi, la deduzione dei sottoprodotti negativi, anziché condurre a una sostanziale riduzione dei tassi di crescita del prodotto e della produttività, può determinare invece tassi di crescita più elevati, nel periodo dalla metà ai tre quarti dell'ultimo secolo, rispetto a quelli dei periodi precedenti. Lasciando da parte questi risultati statistici, è la prospettiva storica, con l'indicazione che offre della notevole grandezza dei sottoprodotti negativi del passato, che appare indispensabile nel considerare i problemi attuali dei rendimenti esterni negativi e non compensati di un prodotto e di una produttività pro capite più elevati.

In terzo luogo, il tentativo di trasferire molte componenti del consumo finale nell'investimento in capitale umano, soprattutto se è fondato meramente sul contributo che un dato consumo offre alla produttività economica del consumatore, presenta diversi pericoli. Dal momento che miglioramenti e incrementi nell'alimentazione, nell'abbigliamento, nelle abitazioni e negli svaghi (oltre una migliore e più intensa istruzione) sono tutti elementi che possono contribuire in qualche misura a una più elevata produttività economica del consumatore, questo apre la strada a una classificazione di tutte le spese di consumo - che siano al di sopra del livello minimo necessario alla sopravvivenza - come investimenti in capitale umano. Il prodotto netto finale, se è limitato al consumo e se l'intero capitale viene considerato nel lungo periodo come prodotto intermedio, sarà allora eguale al prodotto della popolazione per il consumo minimo, con nessuna possibilità di aumento nel rapporto base della produttività del lavoro.

Un siffatto punto di vista, che conduce alle estreme conseguenze logiche l'attuale modo di affrontare i problemi degli investimenti nell'istruzione, nella salute, ecc., trascura la possibilità, peraltro ragionevole, che alcuni aumenti della produttività economica possano essere dei sottoprodotti positivi del consumo non registrati; che tutte queste componenti delle spese di consumo, a eccezione dell'addestramento professionale in senso stretto, delle richieste di un'alimentazione più abbondante per il lavoro manuale, o di un vestiario speciale per i minatori o i lavoratori delle costruzioni e cose analoghe, siano in larga parte consumo finale; e infine trascura la possibilità che gli effetti di questa crescita sulla produttività, da un lato innegabili, siano dei sottoprodotti, nel senso che queste spese verrebbero sopportate dai consumatori senza riguardo ai loro effetti sulla produttività economica, ma unicamente per la soddisfazione dei consumatori stessi. Dal momento che gli effetti di queste spese sulla crescita della produttività sono dei sottoprodotti, a differenza delle spese di capitale, vi è una scarsa connessione tra il ‛volume' degli inputs impiegati per un siffatto consumo al di sopra del minimo e i mutamenti o i differenziali della produttività (con l'eccezione dell'effetto contrario: profitti più alti derivanti da una maggiore produttività sul volume del consumo che può essere assorbito dai consumatori). Mentre la bassa produttività del lavoro che si registra tra i gruppi più poveri dei paesi meno sviluppati può essere dovuta in parte alla scarsa alimentazione, non si può dire invece che la produttività più elevata dei paesi sviluppati sia dovuta all'eccessivo consumo di cibo pro capite, consumo che va assai al di là del minimo necessario. Questo è vero anche per gran parte del differenziale (o delle tendenze) di qualsiasi altra componente del consumo finale di natura simile al capitale. Gli effetti incerti e probabilmente modesti sulla crescita della produttività, determinati da più elevati livelli di consumo, non possono essere usati come motivo per trasferire una quota consistente del consumo finale nell'investimento in capitale umano.

b) Formazione del capitale

Nella contabilità nazionale corrente soltanto i cambiamenti netti del capitale materiale riproducibile vengono inclusi nel prodotto netto totale, mentre vengono esclusi i cambiamenti nell'ambito delle risorse naturali; quindi non soltanto l'esaurimento di ciò che può essere definito commerciabile e delle risorse naturali convenzionali - la terra, i minerali e simili - ma anche la diminuzione, causata dall'inquinamento, nell'offerta di risorse naturali che non vengono di solito incluse nell'analisi economica in quanto non sono appropriabili, come l'aria, l'acqua e lo spazio in generale. In relazione agli effetti più vistosi che l'esaurimento e l'inquinamento causati dalla recente crescita della popolazione, del prodotto e della produttività pro capite hanno avuto sulla crescita dello stock delle risorse naturali, ha destato un'attenzione critica l'omissione, nel prodotto totale, dei mutamenti negativi relativi a queste risorse naturali; tale omissione si presenta come un'ingiustificabile dimenticanza di una conseguenza negativa della crescita del prodotto e della produttività.

Inoltre questa omissione è implicitamente collegata a un'altra, relativa ai mutamenti in uno stock di capitale ancora più importante, quello cioè delle conoscenze utili e astratte. Il significato del legame tra queste due omissioni può essere illustrato nel modo migliore facendo riferimento all'esaurimento delle risorse naturali tradizionali (un argomento che ha occupato a lungo l'economia classica, e di conseguenza anche quella marxiana). Data la dipendenza delle risorse naturali, in quanto risorse utilizzabili, dallo stato delle nostre conoscenze e della nostra tecnologia, sarebbe ingiustificato sottrarre l'esaurimento, ad esempio, del carbone, senza aggiungere, allo stesso tempo, l'aumento della nostra capacità di estrarre il carbone da profondità maggiori, di utilizzare il carbone come combustibile industriale in modo più efficiente e di sostituire al carbone, come combustibile industriale e domestico, materiali precedentemente inutilizzati come il petrolio. Il porre l'accento sui cambiamenti netti nello stock di capitale riproducibile è giustificato dall'argomento che in questo caso almeno si può essere ragionevolmente sicuri di un aumento delle nostre capacità produttive per il futuro, perché altrimenti non vi sarebbero state sottrazioni dal prodotto corrente. Ma non è possibile essere certi di saper valutare in modo attendibile gli effetti sulla capacità produttiva futura, se noi sottraiamo l'esaurimento di una data risorsa naturale senza aggiungere i cambiamenti compensativi, o più che compensativi, in altre risorse. Non si può negare che i mutamenti nei due tipi di stock di capitale omessi sarebbero consistenti, ove considerassimo il capitale come strumento per l'offerta futura di consumo finale. Ciò che dev'essere negato è che abbia senso sottolineare le variazioni di uno soltanto di questi tipi di capitale omessi, e in particolare che abbia senso porre l'accento sui mutamenti negativi in alcune componenti dello stock delle risorse naturali senza tener conto dei mutamenti positivi in altre componenti e ‛collegati' ai primi.

Queste osservazioni non devono servire per minimizzare l'esaurimento delle risorse e l'inquinamento in quanto problemi reali, in particolare se le istituzioni sociali ed economiche operanti non hanno avuto successo nel guidare le energie creative e innovative della società e nell'affrontare prontamente ed efficacemente il problema dei mutamenti negativi. L'aver trascurato, almeno temporaneamente, le conseguenze negative della crescita del prodotto e della produttività non è stato infrequente nel passato e i costi economici per neutralizzare e superare questi problemi sono sembrati probabilmente sempre molto maggiori prima, e non dopo, che questi rilevanti problemi fossero affrontati dalla tecnologia materiale e sociale delle economie moderne. Si può anche osservare che i dati attuali relativi alla mortalità e alle malattie non mostrano segni di aumento nelle società sviluppate, mentre le stime correnti delle risorse naturali attuali e potenziali sono al loro livello massimo.

c) Inputs di produzione

Le conseguenze dell'analisi che precede sulla definizione dei fattori produttivi possono essere riassunte in due punti. In primo luogo, la classificazione di certe spese di consumo come investimenti in capitale umano allarga il concetto del capitale come fattore produttivo. Questi investimenti, spesso espressi in termini di mutamenti nella qualità del lavoro, divengono privi di significato come inputs dei fattori, se sono associati con l'investimento economico, cioè con gli inputs addizionali di risorse economiche intesi come strumenti per la crescita della produttività. Al riguardo sono importanti le nostre prime osservazioni relative al carattere di sottoprodotti degli effetti dei vari tipi di spese di consumo sulla crescita della produttività. Sono particolarmente importanti per quel che concerne l'istruzione, cioè un processo che ha origine nella famiglia con la nascita dei figli e che si presenta come un insieme intricato e complesso di consumo finale, di servizi per la selezione in base alle capacità naturali e di investimenti in capacità di lavoro specializzato (fra queste componenti soltanto l'ultima può essere ragionevolmente considerata come un investimento). Ovviamente, la componente dell'investimento economico e dello stock di capitale nell'istruzione non è facilmente determinabile.

In secondo luogo, se è possibile considerare le risorse naturali e il patrimonio delle conoscenze (e le strutture correlate dei comportamenti individuali e sociali) come forme di capitale confrontabili con il capitale materiale riproducibile, non è facile tuttavia misurare le grandezze economiche di questi tipi di capitale correntemente trascurati. Abbiamo di fronte due modi di procedere possibili. Possiamo misurare i mutamenti negli stock di risorse naturali e nel patrimonio delle conoscenze mediante i profitti che essi danno. In questo caso gli inputs dei fattori del lavoro e del capitale totale così definito sarebbero eguali al prodotto totale e le variazioni dello stock di capitale omesso sarebbero, di conseguenza, una misura della produttività residua dei fattori alle stime attuali. Non si guadagnerebbe nulla, eccetto l'affermazione che le misure attuali della produttività riflettono il contributo combinato delle risorse naturali e della conoscenza (lo stock delle quali non può essere misurato indipendentemente). Oppure possiamo misurare le grandezze economiche di questi stock addizionali di capitale mediante il loro costo economico, come si fa per il capitale materiale riproducibile. Ma il costo economico delle risorse naturali è zero, in quanto gli inputs reali per la loro scoperta sono già stati inclusi nel capitale materiale riproducibile. I costi economici della conoscenza addizionale, considerata come stock di capitale, sono anche minori in quanto le spese economiche per le innovazioni e simili, che non sono già state considerate sotto la voce del capitale materiale riproducibile, sono una piccola e trascurabile frazione del prodotto totale, anche considerata la crescita delle cosiddette spese per la ricerca e lo sviluppo (che comprendono le spese per gli impianti), che si è avuta recentemente nei paesi sviluppati. Se i costi economici di entrambi gli stock addizionali di capitale fossero vicini a zero, la loro inclusione non cambierebbe in modo significativo i nostri precedenti risultati sulle tendenze o i differenziali della produttività dei fattori. Sono il fondamento e il carattere non economico in termini di costi economici - delle risorse naturali e delle conoscenze utili che spiegano perché i mutamenti in questo ambito vengano omessi dalla contabilità economica corrente. Per la stessa ragione si comprende perché vi debba essere una quota sostanziale della crescita del prodotto pro capite non riducibile agli inputs economici dei fattori (o ai costi), che rappresenta la produttività netta dei fattori.

d) Output netto e fattori produttivi

Nella tab. III vengono presentate delle approssimazioni alle correzioni suggerite da alcune delle osservazioni presentate nell'analisi che precede. Queste approssimazioni si riferiscono a un secolo di crescita in un paese sviluppato rappresentativo, e la maggior parte dei dati fondamentali sono tratti dall'esperienza degli Stati Uniti. Queste stime non tengono conto dei sottoprodotti negativi che sono stati compensati da inputs materiali; né tengono conto di qualsiasi aggiunta (al prodotto) di vantaggi non registrati.

Riassumiamo i risultati tenendo presenti la limitatezza dei dati disponibili e la possibilità di procedimenti alternativi per rendere più sicure le valutazioni, ma sottolineando anche che si tratta di un'approssimazione ricavata empiricamente.

In primo luogo, l'esclusione degli effetti dell'urbanizzazione sulla crescita dei costi in un secolo riduce la crescita del consumo finale di un settimo e l'ulteriore esclusione delle quote accresciute delle spese per l'istruzione (come forme di investimento) porta alla riduzione del tasso di crescita di circa un quinto. Gli effetti sul tasso di crescita del prodotto nazionale netto - con la deduzione dei prodotti statali intermedi e con la reinclusione dell'istruzione come investimento di capitale - sono soltanto di poco maggiori. Pertanto i multipli di crescita del prodotto totale sono ridotti di poco più di un quinto. Si deve osservare che in questa sede non si tiene conto del valore dell'accresciuto tempo libero, che può facilmente quasi compensare la correzione negativa fatta sul prodotto o sul consumo finale nelle righe 1-5.

In secondo luogo, la combinazione del prodotto ridotto e l'aggiunta dell'istruzione all'input di lavoro diminuiscono il rapporto A, dal momento che la riduzione proporzionale dipende in parte dal metodo di valutazione. Ma anche la variante b del rapporto A, che è inferiore al rapporto non corretto di più di un terzo, dà conto di circa sei decimi della crescita del prodotto pro capite (riga 10, colonna 7).

In terzo luogo, uno studio empirico delle economie europee sviluppate e degli Stati Uniti negli anni successivi alla seconda guerra mondiale mostra che le correzioni nell'input di lavoro (senza correzioni nel prodotto, dal momento che sarebbero trascurabili per un periodo breve come dodici anni) riducono il contributo della crescita del rapporto A alla crescita del prodotto pro capite da 0,9 a 0,76 (righe 11 e 12).

Correzioni analoghe, relative a confronti internazionali tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, possono sembrare maggiori di quelle appena illustrate, ma non si possono raccogliere prove per confermare questa impressione.

La conclusione ragionevolmente accettabile dell'analisi condotta sui problemi di definizione del numeratore e del denominatore dei rapporti della produttività (cioè, rispettivamente, del prodotto e degli inputs dei fattori) è che in questo ambito studi e revisioni sono altamente auspicabili in quanto permettono un'analisi più approfondita dello sviluppo e della produttività rispetto a quella che si ricava dalle misure convenzionali. Inoltre, un approccio ‛equilibrato' a questi problemi richiede che si tenga conto non soltanto dell'inclusione aggiuntiva dei prodotti intermedi e dei compensi dei sottoprodotti negativi della crescita passata, ma anche dell'omissione dei vantaggi non registrati. Non è affatto certo che un esame più attento approderebbe a una rilevante riduzione degli effetti positivi della crescita e dell'aumento della produttività, in termini di offerta di beni per il consumo finale pro capite e di capitale necessario a sostenere la crescita di questa offerta pro capite. Se il porre l'accento sulle caratteristiche negative è utile per mettere in moto risorse necessarie a controbilanciare i sottoprodotti negativi, è tuttavia difficile ritenere che ciò costituisca una base adeguata per misurare l'ampiezza delle realizzazioni economiche nel tempo e nello spazio.

6. La produttività economica e sociale

Gli outputs e gli inputs considerati fino a questo momento, sia nella forma in cui vengono trattati nella contabilità economica nazionale convenzionale, sia nel modo in cui sono stati sopra riportati nelle osservazioni critiche relative alla definizione, erano di natura economica. Ma i processi di sviluppo economico che risultano negli aumenti imponenti del prodotto pro capite e della produttività, e che contribuiscono a determinare le grandi differenze a livello internazionale, hanno anche comportato dei mutamenti fondamentali nelle istituzioni non economiche, nei modelli di vita e, in qualche misura, nell'ideologia dominante nella società. In questo senso, la produttività economica implica sia costi non economici (inputs), che guadagni non economici (outputs). A meno che non si supponga, per ragioni che fino a questo punto non sono evidenti, che questi costi e questi redditi non economici siano relativamente trascurabili, oppure siano proporzionali agli inputs e agli outputs economici, la grandezza sociale che dev'essere attribuita alla produttività economica - cioè, quella che può essere chiamata produttività sociale del cambiamento economico (o della differenza) - può essere del tutto diversa dalla produttività economica. Queste discrepanze possono risultare molto più importanti delle differenze tra le stime convenzionali della produttività economica e quelle corrette, sebbene le difficoltà di misura siano in questo caso molto maggiori.

Gli inputs non economici sono necessari per una crescita di lungo periodo della produttività economica perché le innovazioni tecnologiche implicite in questa crescita richiedono, per una loro efficace utilizzazione, dei mutamenti nelle istituzioni sociali. Pertanto, se la tecnologia richiede degli inputs di potenza meccanica enormemente accresciuti e una concentrazione di grandi risorse di capitale fisso, diviene necessario, in rapporto alla crescita della dimensione degli impianti, rimpiazzare le imprese individuali e familiari con le grandi società moderne. Ne deriva come conseguenza che le occasioni di un lavoro autonomo e di un'attività imprenditoriale indipendente sono grandemente ridotte e viene invece proporzionalmente accresciuta la dipendenza della popolazione dalle forme di lavoro salariato. La riduzione delle occasioni di lavoro autonomo e l'accresciuta dipendenza da forme di lavoro salariato possono essere considerate come costi sociali, anche se, come vedremo più avanti, alcuni aspetti di questa trasformazione forzata dello status della forza lavoro possono comportare importanti conseguenze positive di carattere non economico.

Un altro esempio delle esigenze e degli inputs non economici, strettamente legato a quello appena esaminato, è dato dalle conseguenze del passaggio al lavoro dipendente - combinate con l'aumento della richiesta di istruzione e di qualificazione del lavoro - sul costo del mantenimento dei figli e sul numero di membri della famiglia. Fra le ragioni che possono essere addotte per spiegare il passaggio dalla famiglia patriarcale numerosa dei tempi premoderni al moderno nucleo familiare caratteristico delle società economicamente sviluppate, vi sono certamente la riduzione dei servizi forniti dalla famiglia stessa e la necessità di maggiori investimenti per i figli. Nonostante i vantaggi economici e alcuni vantaggi sociali derivanti da un nucleo familiare più piccolo, non si può negare comunque che la sostituzione della famiglia patriarcale con quella ‛nucleare' abbia comportato numerosi costi sociali.

L'ultimo esempio delle esigenze e degli inputs non economici di un progresso nella produttività economica è collegato con gli effetti differenziali dei mutamenti tecnologici, o di altra natura, che sono impliciti nella crescita della produttività nel lungo periodo. Se le innovazioni tecnologiche, o l'aumento del commercio con l'estero, o ancora la diversa elasticità della domanda di prodotti diversi rispetto al reddito in condizioni di crescita del reddito pro capite, rendono obsolete alcune industrie o riducono in esse l'occupazione, lo spostamento di questo lavoro (e in parte di questo capitale) comporta una modificazione dei costi sociali, in aggiunta a quelli economici. Inoltre, e ciò è ancora più importante, questi effetti differenziali sull'occupazione, sulle industrie, o sulle regioni di un paese, possono provocare la resistenza di coloro che si trovano nella situazione peggiore in termini relativi e, forse, anche assoluti. Una delle funzioni della struttura politica di un paese è quella di contenere queste resistenze e incanalarle in modo da prevenire conflitti interni che possano minacciare la stabilità dell'unità politica e sociale e, di conseguenza, l'intero processo di sviluppo economico. Il ruolo dello Stato, cioè dell'autorità sovrana del paese, si è quindi enormemente dilatato nel corso del moderno sviluppo economico; esso è arbitro nei confronti delle innovazioni sociali, rese necessarie dallo sviluppo ma portatrici di conflitti di interessi; è un tribunale dotato del potere sovrano e inappellabile di accettare, di respingere, o anche di correggere, quelle innovazioni che possono costituire una minaccia per i gruppi costituiti che ne sarebbero colpiti negativamente, anche se vantaggiose per altri. Esso è l'imprenditore di ‛ultima istanza' per quegli investimenti nei quali i guadagni sociali sono molto maggiori di quelli privati. Questo ruolo accresciuto, che in alcuni paesi ha potuto emergere solo dopo un periodo di allentamento delle restrizioni precedenti di tipo mercantilistico, diventa evidente in quasi tutto il moderno sviluppo economico.

L'analisi dei modi specifici attraverso i quali, nei paesi sviluppati, si è fatto e si fa fronte alla necessità di un potere statale efficiente e stabile (o dei motivi per cui esso è mancante in molti dei paesi attualmente meno sviluppati) ci porterebbe assai lontano dal nostro argomento ed esula dalle competenze di un economista. Tuttavia, due osservazioni appaiono ovvie e importanti. In primo luogo, le limitazioni della libertà individuale nella vita sociale, che sono una delle basi su cui poggia un potere statale stabile ed economicamente efficiente, possono essere di diversa portata. Basta soltanto confrontare i paesi autoritari comunisti con le economie democratiche di mercato; o, fra le stesse economie di mercato, basta confrontare le strutture relativamente democratiche dei paesi economicamente più sviluppati con le strutture più autoritarie di molti dei paesi meno sviluppati. Dal momento che queste limitazioni rappresentano dei costi sociali più elevati, le differenze possono essere facilmente interpretate come inputs sociali impiegati nel processo di crescita del prodotto e della produttività pro capite in quantità maggiore in alcuni paesi rispetto ad altri. In secondo luogo, se l'intensificazione del nazionalismo viene ritenuta necessaria per consolidare il consenso di base che facilita la soluzione dei conflitti interni generati dallo sviluppo economico, allora alcuni aspetti di questo aumento del nazionalismo debbono essere classificati come un costo non economico (input) della crescita del prodotto e della produttività.

Ma come vi sono inputs o costi non economici, così vi sono outputs non economici sotto forma di sottoprodotti della crescita economica: spesso sottoprodotti positivi dei grandi mutamenti sociali e istituzionali che noi abbiamo classificato, nei precedenti capitoli, come costi. Se, per es., il passaggio allo status di lavoro dipendente all'interno di unità economiche di grandi dimensioni ha comportato degli svantaggi sociali e psicologici, d'altra parte l'introduzione del merito per il rendimento sul lavoro come criterio per l'assunzione, anziché l'appartenenza a una famiglia o a un gruppo etnico, ha rappresentato un importante guadagno. Allo stesso modo, a controbilanciare lo svantaggio implicito nella riduzione del ruolo della famiglia patriarcale e dei legami familiari nel fronteggiare le avversità economiche e di altra natura, vi è poi la libertà degli individui dai vincoli della famiglia patriarcale stessa. I contributi alla dignità e alla libertà individuali sono importanti almeno quanto altri vantaggi economici derivanti dal cambiamento delle forme di organizzazione della divisione del lavoro all'interno della società. Se da un lato lo sviluppo economico impone l'esigenza di un potere statale più forte e autorevole, con maggiori possibilità di limitare la libertà individuale, d'altra parte, l'emergere di interessi economici diversi e di una forza lavoro giuridicamente libera costituisce la base per la democratizzazione e il progresso. Dopo tutto è stato il moderno sviluppo economico che ha determinato l'abolizione della schiavitù, un'istituzione predominante nelle società premoderne. La maggiore autorità dello Stato moderno, legata al consenso sulle norme di comportamento accettate, ha determinato più vantaggi non economici che non il più debole Stato premoderno, il quale poggiava su un sistema gerarchico ostile agli ideali del valore e della libertà personali. E se da un lato debbono essere riconosciuti gli eccessi del nazionalismo esasperato che sembrano aver accompagnato in molte società le prime fasi della lotta per la modernizzazione economica, d'altra parte non si può negare il valore di un tipo di sentimento comunitario che smussa le tendenze alle divisioni interne alla società. A questo riguardo basterebbe soltanto rilevare gli avvenimenti recenti che si sono prodotti nei paesi meno sviluppati dell'Africa (o, in questo contesto, in alcuni paesi europei) per illustrare le conseguenze di una mancanza di consenso nazionale.

Si potrebbero facilmente moltiplicare gli esempi di costi e di guadagni non economici legati alle tendenze storiche e alle differenze nel prodotto e nella produttività pro capite esistenti a livello internazionale; ma non è necessario farlo. Le osservazioni condotte fin qui servono a mostrare che il moderno sviluppo economico può realizzarsi soltanto con un numero limitato di istituzioni politiche e sociali, e in concomitanza con alcune concezioni dell'uomo, della natura e dell'universo. Esso non è quindi compatibile con un sistema gerarchico statico, non collegato al rendimento economico, non è compatibile con la subordinazione dei valori economici a valori a essi non collegati e non è compatibile con l'impresa di piccole dimensioni e con un legame stretto fra vita e lavoro, qual era quello del contadino medievale e dell'artigiano. Le trasformazioni verso le nuove precondizioni sociali necessarie per un aumento del prodotto e della produttività pro capite implicano, come è stato accennato, dei costi, tra i quali la rimozione delle vecchie concezioni e delle tradizioni, il trasferimento di persone da vecchie a nuove occupazioni, da vecchie a nuove abitazioni e il rafforzamento della dipendenza degli individui e delle famiglie da organizzazioni economiche impersonali e dallo Stato. Nella grandezza di questi costi extraeconomici vi possono essere poi differenze sostanziali, che dipendono dal modo con cui sono state condotte le trasformazioni necessarie e dalla velocità con cui esse sono state realizzate.

Se le cose stanno in questi termini, l'analisi della produttività economica può essere estesa con buoni risultati al di là degli inputs e degli outputs economici; ciò è vero sia che essa venga concepita nel modo convenzionale, sia che venga concepita invece nel senso della definizione più ampia che è emersa nella letteratura recente e alla quale abbiamo fatto riferimento all'inizio di questo capitolo, parlando di grandezze sociali delle differenze e dei mutamenti economici. Se queste grandezze sono rilevanti, e non sono affatto proporzionali alle tendenze o alle differenze della produttività economica, allora il significato delle misure convenzionali della produttività economica, o di quelle più ampie, è reso oscuro dalle difficoltà che si incontrano nel confrontarle tra loro. Ciò che ci ha indotto a non includere nell'analisi le misure disponibili del prodotto e della produttività pro capite nelle economie comuniste sviluppate (o meno sviluppate) è stata proprio l'impressione che vi sarebbe stata una diversità materiale in queste grandezze tra le libere economie di mercato (praticamente tutte le economie di mercato sviluppate possono essere classificate come democrazie politiche) e gli stati comunisti autoritari. Ma sarebbe forse auspicabile tentare invece un calcolo più ampio, nel quale possano essere compresi sia i costi sociali e politici che gli inputs economici dei fattori, sia le conseguenze sociali e non strettamente economiche, se positive, che l'output economico netto.

Molti dei problemi ora accennati potrebbero essere chiariti da un allargamento anche limitato dell'indagine dalla produttività economica a quella sociale. Questo non per negare il valore di un'analisi tecnica e dettagliata dello sviluppo economico e della produttività, ma per sottolineare l'esigenza di collocare questa analisi entro un contesto più ampio. Ovviamente, il concentrare l'attenzione esclusivamente sulla produttività economica, non importa quanto ampiamente concepita, può portare a trascurare costi sociali rilevanti, che potrebbero forse essere risparmiati con il sacrificio di un guadagno economico.

7. Osservazioni conclusive

Questo articolo analizza i mutamenti di lungo periodo della produttività economica nei paesi economicamente sviluppati, quindi sostanzialmente nelle economie di mercato, e le attuali differenze internazionali nella produttività economica fra le varie nazioni. L'aver concentrato l'attenzione su questi aspetti aggregati della produttività economica, anziché sui prodotti, sulle industrie e sui mutamenti di breve periodo, è frutto della convinzione che le caratteristiche fondamentali di questa ultima parte del XX secolo - gli obiettivi e i problemi - sono collegate con questi mutamenti di lungo periodo e con queste differenze internazionali.

Da quanto è stato detto emerge una serie di risultati e di problemi a essi collegati: a) facendo uso della contabilità economica nazionale convenzionale, constatiamo che i rendimenti per unità di input totale dei fattori (lavoro e capitale) o per unità di input di lavoro, sono cresciuti a tassi molto elevati, che oscillano tra un aumento di cinque volte e un aumento di dieci volte in un secolo. La differenziazione internazionale attuale nella produttività economica è così ampia soprattutto a causa del fatto che i paesi attualmente sviluppati sono stati in grado di raggiungere questi tassi elevati di crescita della produttività economica a partire da periodi diversi del XIX secolo (e in un caso del XVIII), mentre i paesi attualmente meno sviluppati non lo sono stati. Tuttavia occorre anche ricordare che i paesi sviluppati erano in vantaggio dal punto di vista economico sul resto del mondo, anche prima di intraprendere il moderno sviluppo economico; b) le tendenze di lungo periodo nella produttività economica spiegano ampiamente l'elevato tasso di crescita del prodotto pro capite nei paesi sviluppati, così come le differenze nella produttività economica spiegano le grandi differenze internazionali nel prodotto pro capite. La produttività economica è strettamente associata, sia dal punto di vista analitico che quantitativo, con l'output economico netto pro capite. Pertanto, la caratteristica saliente del moderno sviluppo economico, e cioè l'aumento e l'alto livello del prodotto pro capite, è essenzialmente il riflesso dell'aumento e dell'alto livello della produttività economica, del rendimento per unità di input; c) l'aumento della produttività è stato determinato dal continuo rinnovamento tecnologico e dalla continua introduzione di nuovi elementi di conoscenza nei processi produttivi, che fornivano così una nuova e più ampia base per l'aumento dell'efficienza. Le differenze nella capacità di sfruttamento della tecnologia moderna spiegano assai bene le diversità internazionali nella produttività economica e quindi nel prodotto pro capite; d) il tasso elevato di rinnovamento tecnologico, che ha consentito il moderno sviluppo economico, ha avuto effetti notevoli anche sull'insieme dell'economia. In particolare ha avuto effetti differenziali, in quanto la maggiore efficacia della sua azione si è concentrata ora in un settore ora in un altro della produzione e ha poi facilitato il commercio internazionale e influenzato la domanda interna. Risultato di questi effetti è stata la rapidità di mutamenti strutturali nelle economie in sviluppo e, sempre in questo ambito, l'elevata mobilità tra i diversi tipi di occupazione, tra i gruppi economici e tra le regioni. Il progresso tecnologico - con le sue implicazioni sulle dimensioni della produzione, sulla concentrazione spaziale e sull'impiego efficiente del lavoro - ha imposto dei vincoli che hanno cambiato le condizioni di lavoro e quindi di vita della popolazione inserita nel sistema produttivo. Infine, siccome le innovazioni sono un tuffo nell'ignoto, non potevano essere previsti i sottoprodotti (alcuni dei quali positivi ma altri, ciò che è più importante, negativi) della rapida crescita della produttività economica. Di solito, questi sottoprodotti negativi, che sono emersi in modo continuativo in determinati stadi dello sviluppo delle innovazioni tecnologiche più importanti, hanno raggiunto una consistenza abbastanza grande da costituire spesso un ‛problema' rilevante; e) sia il mutamento delle condizioni di vita che i sottoprodotti negativi hanno portato, nell'ultimo decennio (circa), dopo uno studio intenso basato sulla contabilità economica corrente, a una revisione critica delle misure del prodotto e della produttività. È quindi lecito rivolgere criticamente l'attenzione alle necessità spiacevoli aggiunte come beni finali positivi e ai sottoprodotti negativi che debbono essere sottratti. Questo punto di vista dev'essere tuttavia controbilanciato dal riconoscimento del fatto che le stime convenzionali omettono anche alcuni corollari positivi dello sviluppo economico (tra cui l'aumento del tempo libero, il carattere meno faticoso del lavoro e molti prodotti raffinati della civiltà umana - un risultato questo legato alle grandi città, le quali sono a loro volta responsabili per i sottoprodotti negativi della crescita) che non si riflettono nei valori di mercato usati nel calcolo del prodotto nazionale e della produttività. L'indagine condotta attualmente sull'interazione fra crescita della produttività economica e mutamento delle condizioni di vita, che comporta costi economici addizionali, è certamente utile; ma dovrebbe essere allargata fino a comprendere i benefici economici addizionali. Se questa analisi venisse sviluppata nella prospettiva storica necessaria, rivelerebbe probabilmente il fatto che i sottoprodotti negativi che sono all'origine delle crisi attuali sono meno importanti, in relazione alla capacità produttiva attuale, di molti di quelli che hanno determinato le crisi passate; f) la crescita e le differenze nella produttività economica delle nazioni a livello internazionale si determinano all'interno di una struttura istituzionale, sociale e politica, a esse associata. I cambiamenti di questa struttura che risultano necessari possono rappresentare dei costi per alcuni gruppi della popolazione, anche se non per tutti. In questo senso alcuni inputs dello sviluppo economico e delle differenze economiche sono non economici. D'altra parte, gli inputs economici possono determinare alcuni mutamenti positivi nella struttura sociale e politica, cioè un output non economico. Sarebbe quindi auspicabile una considerazione più attenta di quelle che possono essere chiamate le grandezze sociali connesse alle tendenze o alle differenze nella produttività economica. È inutile dire che sarebbe irrazionale sopportare costi sociali elevati per ottenere guadagni economici modesti.

Ovviamente, la nostra analisi ha sollevato molti più problemi di quante risposte non abbia fornito. Ma, data la natura dell'argomento, delle risposte complete sarebbero state soltanto asserzioni dogmatiche basate su grandi semplificazioni, troppo drastiche e arbitrarie per essere utili. I mutamenti di lungo periodo della produttività economica delle nazioni (e implicitamente anche delle piccole industrie) sono un processo complicato che riflette, da un lato, il progresso della conoscenza umana e, dall'altro, l'attitudine delle società e degli individui a modificare le loro istituzioni e il loro comportamento in modo da trarre vantaggio dalle nuove conoscenze. Le differenze internazionali riflettono le separazioni tradizionali e strutturali che esistono fra le diverse regioni del mondo e che hanno le loro radici nella storia dei secoli passati. Con una conoscenza scarsamente fondata di questo processo di sviluppo economico così ampio e ramificato, che interessa regioni del mondo che hanno una storia lunga e diversa tra loro, in questa sede possiamo soltanto delineare nettamente le caratteristiche principali del panorama generale entro il quale si colloca questo processo e il suo passato prossimo, e sollevare, nello stesso tempo, quei problemi che sembrano importanti per una migliore comprensione e un perfezionamento dei metodi di misurazione. (V. anche capitalismo e consumi).

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