Processo penale

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Processo penale

Giovanni Masi

(XXVIII, p. 282; App. III, ii, p. 491; IV, iii, p. 59; V, iv, p. 281)

Le difficoltà del nuovo codice

L'introduzione nel sistema processuale penale italiano di un modello di codice completamente diverso dal precedente e ispirato in massima parte ai principi del processo accusatorio non poteva non determinare nei primi anni della sua applicazione rilevanti difficoltà operative. Se questo è vero e se l'esperienza insegna che comunemente una situazione del genere si verifica all'atto dell'entrata in vigore di un nuovo codice, deve tuttavia rilevarsi che nel caso concreto il complesso di difficoltà incontrate dalla riforma del codice di procedura penale in vigore dal 24 ottobre 1989 ha assunto un rilievo sicuramente particolare. Invero la scelta di fondo che valorizzava la fase del giudizio, come momento di formazione della prova (a eccezione delle ipotesi urgenti di atti non ripetibili, che consentivano nel corso delle indagini preliminari l'incidente probatorio), determinava logicamente un modello di processo ordinario notevolmente complesso, che non poteva essere adottato per tutti i procedimenti, per cui già il legislatore aveva previsto, soprattutto in relazione a ipotesi di evidenza della prova o di accordo tra le parti, procedimenti semplificati alternativi rispetto a quello ordinario. La funzionalità e la diffusione di questi procedimenti speciali, in particolare del giudizio abbreviato e del procedimento di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento), con i quali è evitato il dibattimento, costituivano pertanto presupposto indispensabile per il successo del codice. Un ruolo determinante era altresì costituito dalla funzione di filtro attribuita al giudice dell'udienza preliminare, mentre al fine di prevenire maxiprocessi di particolare complessità e durata erano state delimitate le ipotesi di connessione tra procedimenti. È risultato peraltro di immediata evidenza che, in relazione all'elevatissima consistenza numerica dei processi trattati con il rito ordinario, questo modello di dibattimento, nella sua complessità, difficilmente poteva rispondere alle esigenze di immediatezza e concentrazione che costituivano il presupposto di una corretta formazione della prova al dibattimento, così come una completa ed effettiva acquisizione della prova, in tutte le sue articolazioni, al dibattimento si presentava estremamente difficile in tutti i procedimenti che per la natura tecnica della materia avessero richiesto lunghe e complesse indagini. Ma soprattutto, nel quadro di questa situazione oggettivamente complessa, è emersa la difficoltà di conciliare i poteri attribuiti alle parti nell'indicazione degli elementi di prova e nella formazione della prova con l'esigenza di pervenire comunque, nei casi in cui l'operato delle parti sotto tale profilo fosse carente, a un completo accertamento della realtà storica dei fatti e delle eventuali responsabilità; e al riguardo è stata sicuramente valorizzata la funzione di chiusura della disposizione dell'art. 507 c.p.p., in base alla quale, terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova. In questo contesto, caratterizzato da un lato dall'esigenza di tutela della collettività da manifestazioni sempre più pericolose e diffuse di criminalità comune e organizzata, dall'altro dalla necessità di assicurare comunque il rispetto dei principi del contraddittorio e della parità tra le parti del processo, si sono verificati già nel corso dei primi anni dall'entrata in vigore del codice una serie di interventi (del legislatore e della Corte costituzionale), spesso di segno contrastante, che hanno contribuito ad alterare profondamente il modello processuale originariamente delineato.

Una prima serie di interventi ha interessato i casi di connessione di procedimenti, ampliati con la modifica dell'art. 12 c.p.p. introdotta dalla l. 20 genn. 1992 nr. 8: si ha pertanto connessione anche se una persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi in occasione di altri ovvero per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità. Sono stati inoltre attenuati i limiti originariamente previsti all'acquisizione di verbali di prove di altri procedimenti: infatti con la modifica dell'art. 238 c.p.p. (introdotta dalla l. 7 ag. 1992 nr. 356) è stata ammessa - anche in mancanza di consenso delle parti - l'acquisizione di verbali di prove di altro procedimento assunte nell'incidente probatorio o nel dibattimento ed è stato affermato il principio che, al di fuori di tali ipotesi, i verbali di dichiarazioni possono essere utilizzati nel dibattimento se le parti vi consentono e in caso contrario possono essere comunque utilizzati per le contestazioni nel corso dell'esame del teste o della parte. Con una significativa deroga ai principi dell'oralità e del contraddittorio era stato inserito nel codice dalla l. nr. 356 del 1992 l'art. 512 bis (successivamente modificato dalla l. 16 dic. 1999 nr. 479), in base al quale il giudice, a richiesta di parte, poteva disporre, tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, che fosse data lettura dei verbali di dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all'estero se la persona non era stata citata, ovvero, essendo stata citata, non era comparsa. La Corte costituzionale, con la sentenza 20 genn. 1992 nr. 24, ha invece dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 195, 4° co., c.p.p. in base al quale gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non potevano deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dal testimone (resta comunque fermo il principio generale dettato dal 1° e 3° co. dello stesso articolo in base al quale, se la parte abbia richiesto l'esame del teste e questi non sia stato chiamato a deporre, la testimonianza indiretta è inutilizzabile).

Ma l'aspetto più delicato di questa evoluzione è stato determinato dalla sentenza della Corte costituzionale 18 maggio 1992 nr. 254 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 513, 2° co., c.p.p., avente a oggetto la lettura delle dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini o dell'udienza preliminare da persone imputate in un procedimento connesso, nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura dei relativi verbali, "qualora queste si avvalessero della facoltà di non rispondere". L'incidenza concreta di questa pronuncia è stata notevolissima in quanto le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da soggetti sottoposti alle indagini, che nel corso del dibattimento si avvalevano della facoltà di non rispondere, venivano acquisite al fascicolo per il dibattimento ed erano utilizzabili ai fini della decisione senza che alle parti e al giudice fosse consentita alcuna verifica nel corso del giudizio attraverso l'esame dibattimentale. Nell'intento di porre fine a questa situazione la l. 7 ag. 1997 nr. 267 ha radicalmente innovato la disposizione dell'art. 513 c.p.p.: le dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare possono essere lette a richiesta di parte se egli è contumace, assente o rifiuta di sottoporsi all'esame, "ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso"; analogamente qualora sia la persona imputata in un procedimento connesso ad avvalersi della facoltà di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le precedenti dichiarazioni solo con l'accordo delle parti. In tema di acquisizione di verbali di prove di altro procedimento penale è stato inoltre affermato il principio (art. 238, 2° co. bis, c.p.p.) che, anche nel caso di prove acquisibili perché assunte nell'incidente probatorio e nel dibattimento, le dichiarazioni rese dalle persone imputate in un procedimento connesso siano utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione; al di fuori di tale ipotesi i verbali di dichiarazioni possono essere utilizzati solo nei confronti dell'imputato che vi consenta (art. 238, 4° co.). La legge ha dettato anche un'articolata disciplina transitoria per i procedimenti penali in corso e, per temperare i radicali effetti dell'innovazione, ha introdotto la possibilità per la parte di richiedere l'interrogatorio dell'imputato secondo le forme del dibattimento anche nell'udienza preliminare (con la conseguente possibilità di lettura in dibattimento del relativo verbale) e ha modificato l'art. 392 c.p.p. nel senso che l'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri nelle forme dell'incidente probatorio possa essere sempre richiesto, anche in assenza di specifici motivi indicativi della non rinviabilità dell'atto al dibattimento. Si è trattato di un intervento normativo finalizzato a un recupero dei principi dell'oralità e della centralità del dibattimento, ma la nuova disciplina normativa è stata immediatamente sottoposta sotto svariati profili al vaglio di legittimità della Corte costituzionale. Con la sentenza del 26 ott. 1998 nr. 361 la Corte costituzionale ha esaminato tali questioni, rivalutando organicamente la disciplina dettata in materia dal codice e sottolineando, quali espressioni del diritto di difesa, l'intangibilità del diritto al silenzio dell'imputato che abbia reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri e, per altro verso, l'esigenza che all'imputato nei cui confronti le dichiarazioni sono rivolte sia assicurata, salvo che egli stesso vi abbia rinunciato, la possibilità di sottoporre al vaglio del contraddittorio le dichiarazioni che lo riguardano, in conformità al metodo di formazione dialettica della prova, davanti al giudice chiamato a decidere. Ma al tempo stesso la Corte ha riaffermato il principio della rilevanza costituzionale del p. p., "strumento, non disponibile dalle parti, destinato all'accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità", la cui essenziale funzione non può essere pregiudicata da soluzioni normative non necessarie per realizzare le garanzie della difesa (e pertanto censurabili sotto il profilo della ragionevolezza).

Alla luce di questa lettura dei principi costituzionali la Corte ha pertanto ritenuto che soluzione normativa coerente fosse l'applicazione all'esame delle persone imputate in procedimento connesso della disciplina relativa alle contestazioni previste per i testimoni in caso di rifiuto di rispondere dall'art. 500, 2° co. bis, c.p.p., con la conseguenza dell'acquisibilità al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni e della loro valutazione probatoria secondo il criterio dettato dall'art. 500, 4° co. (esse sono valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistano altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità). La disposizione dell'art. 513, 2° co., c.p.p. concernente le dichiarazioni rese dalle persone imputate in procedimento connesso (v. art. 210), è stata pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti contestazioni, in mancanza di accordo delle parti alla lettura, si applica l'art. 500, 2° co. bis e 4° co., c.p.p. Al fine di ricondurre a legittimità costituzionale la diversa disciplina riservata all'esame del soggetto imputato nel medesimo procedimento, la Corte ha anche dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 210 c.p.p. nella parte in cui non ne è prevista l'applicazione anche all'esame dell' imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. Analogamente è stata dichiarata l'incostituzionalità della disposizione dell'art. 238, 4° co., c.p.p. nella parte in cui non prevede, in mancanza di consenso dell'imputato all'utilizzazione, l'applicabilità del meccanismo delle contestazioni previsto dall'art. 500, 2° co. bis e 4° co., nel caso in cui al dibattimento la persona esaminata a norma dell'art. 210 rifiuti o comunque ometta di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni.

Anche contro quest'intervento ricostruttivo operato dalla Corte sono state sollevate critiche fondate soprattutto sul rilievo che l'applicazione del meccanismo delle contestazioni in caso di rifiuto del soggetto di rispondere consentirebbe un recupero solo fittizio e formale di quel diritto al contraddittorio che le norme dovrebbero invece tutelare.

Una decisiva definizione della complessa questione potrebbe conseguire all'emanazione della legge costituzionale 23 novembre 1999 nr. 2, che ha previsto l'inserimento nell'art. 111 Cost. dei principi del giusto processo. Nella sua nuova formulazione la norma costituzionale non solo afferma i principi che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge e che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo e imparziale, demandando alla legge il compito di assicurarne la ragionevole durata, ma detta un'analitica disciplina delle condizioni indifferibili del giusto processo; in particolare stabilisce che il p. p. è regolato dal contraddittorio nella formazione della prova e che la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore. Solo in presenza di specifiche condizioni (consenso dell'imputato, accertata impossibilità di natura oggettiva, provata condotta illecita) la legge ordinaria può regolare i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio, mentre sempre con legge ordinaria deve essere dettata la disciplina dell'applicazione dei nuovi principi costituzionali ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore della legge costituzionale.

Anche sotto diversi profili le pronunce della Corte costituzionale hanno assunto un ruolo determinante nella evoluzione del modello processuale delineato dal legislatore. In particolare la funzionalità del sistema processuale è stata in parte compromessa dalle ripetute pronunce che, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 34 c.p.p., hanno individuato molteplici casi di incompatibilità determinata da atti compiuti del procedimento. Infatti tali sentenze, ispirate al rigoroso rispetto del principio dell'imparzialità del giudice, hanno determinato consistenti difficoltà di ordine operativo in particolare negli uffici giudiziari di modeste dimensioni.

Tra le diverse ipotesi si segnalano per la loro significativa rilevanza: l'incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata (sentenza 13 apr. 1992 nr. 186); l'incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata (sentenza 2 dic. 1993 nr. 439); l'incompatibilità a partecipare al giudizio dibattimentale del giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell'imputato (sentenza 6 sett. 1995 nr. 432), ovvero l'abbia modificata o revocata o abbia rigettato le relative richieste (sentenza 13 maggio 1996 nr. 155); l'incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che, come componente del Tribunale del riesame, si sia pronunciato sull'ordinanza che dispone una misura cautelare personale nei confronti dell'indagato o dell'imputato.

Piuttosto limitata è stata l'incidenza quantitativa dei procedimenti speciali e in particolare del giudizio abbreviato, anche perché la lentezza del modello processuale ordinario e il progressivo aumento dell'arretrato hanno costituito per molti soggetti una remora alla scelta di una decisione immediata per la prospettiva non remota di nuovi provvedimenti di clemenza e per la possibilità di pervenire con il decorso del tempo alla maturazione dei termini di prescrizione. Il filtro costituito dall'udienza preliminare è risultato d'altra parte inizialmente modesto, anche perché l'originaria formulazione dell'art. 425 c.p.p., secondo cui poteva essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere quando risultava 'evidente' che il fatto non sussisteva o non costituiva reato o che l'imputato non lo aveva commesso, lasciava al giudice un limitato margine per il proscioglimento; ma la modifica introdotta dalla l. 8 apr. 1993 nr. 105, con la quale è stato soppresso il termine evidente, non sembra aver determinato una significativa diminuzione nel numero dei provvedimenti che dispongono il giudizio ordinario.

Molto accesi sono stati i contrasti sulle norme in materia di custodia cautelare, inizialmente rese più rigorose con la l. 8 nov. 1991 nr. 356, in base alla quale per un rilevante numero di reati indicati nell'art. 275, 3° co., c.p.p., doveva essere sempre applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che fossero acquisiti elementi da cui risultasse l'insussistenza di esigenze cautelari. La necessità che il ricorso alla custodia cautelare da parte dei giudici fosse effettivamente limitato ai casi di assoluta indispensabilità ha peraltro indotto il legislatore a introdurre, con la l. 8 ag. 1995 nr. 332, significative modifiche alle disposizioni generali in materia: per quanto riguarda le esigenze in presenza delle quali è consentita l'applicazione di una misura cautelare (art. 274 c.p.p.) sono stati definiti in modo più penetrante i casi nei quali è configurabile un pericolo di inquinamento della prova (specifiche e inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l'acquisizione e la genuinità della prova), ed è stato affermato il principio che tali situazioni non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni, né nella mancata ammissione degli addebiti; analogo intervento è stato attuato con riferimento ai criteri di valutazione della pericolosità del soggetto, nel senso che la misura può essere attuata quando per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la sua personalità desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quelli per cui si procede.

Inoltre, al fine di affrontare il problema della sottoposizione a misura detentiva di soggetti mai condannati in precedenza, nel contesto dei criteri di scelta delle misure previsti dall'art. 275 c.p.p. è stato stabilito (2° co. bis) che non può essere disposta la misura della custodia cautelare (carcere o arresti domiciliari) se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. L'obbligo di applicazione della custodia in carcere (in mancanza di elementi indicativi dell'insussistenza di esigenze cautelari) è stato infine delimitato al delitto di associazione di tipo mafioso e ai delitti a esso collegati o commessi con analoghe modalità di sopraffazione. Sempre nella stessa linea, ispirata al fine di assicurare la massima correttezza da parte del pubblico ministero nel procedimento applicativo della misura, la l. nr. 332 del 1995 ha stabilito che il pubblico ministero è tenuto a presentare al giudice, tra gli elementi su cui la richiesta di misura si fonda in base all'art. 291 c.p.p., tutti quelli a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. L'interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare da parte del pubblico ministero non può precedere l'interrogatorio del giudice (art. 294, 6° co., c.p.p.).

In seguito la l. 12 luglio 1999 nr. 231, modificando gli artt. 275, 276, 286 bis e 299 c.p.p., ha stabilito che non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l'imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate secondo i criteri dettati da un apposito decreto ministeriale, ovvero da altra malattia particolarmante grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. In tali ipotesi, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia in carcere presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell'imputato o per quella degli altri detenuti, il giudice deve disporre la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Solo quando il soggetto abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti alla misura applicata o risulti imputato di un delitto per cui è obbligatorio l'arresto in flagranza per fatti commessi dopo l'applicazione della misura, il giudice può disporre che egli sia condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l'assistenza necessarie. Tuttavia la custodia in carcere non può essere comunque disposta o mantenuta quando la malattia si trovi in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

Il quadro delle innovazioni introdotte nell'originaria disciplina del p. p. è completato da una serie di interventi normativi aventi per oggetto l'introduzione di sistemi di videoconferenza (l. 7 genn. 1998 nr. 11 in tema di disciplina della partecipazione al p. p. a distanza e dell'esame dei collaboratori di giustizia), le modifiche agli artt. 633, 1° co., e 634, 2° co., c.p.p. in tema di revisione del processo (l. 23 nov. 1998 nr. 405), le nuove disposizioni in tema di competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati (l. 2 dic. 1998 nr. 420, che ha in particolare modificato la norma dell'art. 11 c.p.p. individuando sulla base di una apposita tabella il distretto di corte di appello nel cui capoluogo ha sede il giudice competente per tali procedimenti), le modifiche in tema di patteggiamento in appello (l. 19 genn. 1999 nr. 14 con cui sono stati modificati l'art. 599, e co., e l'art. 602, 2° co., c.p.p.).

Di notevole rilievo è l'innovazione introdotta dalla l. 27 maggio 1998 nr. 165 alla disposizione dell'art. 656 c.p.p. in materia di esecuzione delle pene detentive. È stato infatti stabilito che, se la pena detentiva - anche se costituente residuo di maggiore pena - non è superiore a tre anni ovvero a quattro anni per i soggetti tossicodipendenti nei casi previsti dagli artt. 90 e 94 del d.p.r. 9 ott. 1990 nr. 309, il pubblico ministero sospende con decreto l'esecuzione dando avviso al condannato della facoltà di presentare istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, al fine di ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione. La sospensione dell'esecuzione non può essere disposta nei confronti dei soggetti condannati per i delitti indicati nell'art. 4 bis della l. 26 luglio 1975 nr. 354 sull'ordinamento penitenziario (in particolare, associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti) e nei confronti dei soggetti che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva. Infine la l. 21 apr. 1999 nr. 109, convertendo con modificazioni il d.l. 22 febbr. 1999 nr. 29, ha modificato sia l'art. 5 c.p.p., precisando espressamente che anche i delitti di rapina e di estorsione, comunque aggravati, sono esclusi dalla competenza della Corte di assise, sia l'art. 294 in tema di interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare, prevedendo che all'interrogatorio nei termini di decadenza già fissati provveda fino all'apertura del dibattimento il giudice che ha deciso in ordine all'applicazione della misura cautelare (se questa è stata disposta dalla Corte di assise o dal Tribunale, all'interrogatorio procede il presidente o uno dei componenti da lui delegato).

L'istituzione del giudice unico di primo grado

Le difficoltà organizzative che si sono manifestate in sede di attuazione del nuovo processo, aggravate dai riflessi negativi che le pronunce della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giudice hanno determinato in particolare negli uffici giudiziari con limitato organico di magistrati, hanno indotto il legislatore all'emanazione della l. 16 luglio 1997 nr. 254 con la quale il governo è stato delegato a emanare uno o più decreti legislativi intesi a istituire, in vista di una più razionale distribuzione delle competenze degli uffici giudiziari, il giudice unico di primo grado. Alla delega legislativa è stata data attuazione con il d. legisl. 19 febbr. 1998 nr. 51, che è stato oggetto di significative modifiche introdotte con il d. legisl. 19 febbr. 1999 nr. 138 e soprattutto con la l. 16 dic. 1999 nr. 479. In particolare con quest'ultima legge è stato realizzato un intervento di notevole rilievo che ha abbracciato non solo le disposizioni sul procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica, ma anche svariate norme del codice con particolare riferimento all'udienza preliminare e ai procedimenti speciali. Il principio fondamentale della riforma è che la ristrutturazione degli uffici deve aver luogo attraverso la soppressione del pretore, le cui competenze sono trasferite al Tribunale. A tale trasferimento di competenza è strettamente collegata l'istituzione di un giudizio monocratico che storicamente era stato devoluto al pretore, ma che già il codice aveva assegnato anche al giudice delle indagini preliminari nel giudizio abbreviato e nel patteggiamento. Peraltro il giudizio monocratico non è stato esteso a tutti i reati in quanto il legislatore ha dettato i criteri per la determinazione dei casi in cui il Tribunale seguita a giudicare in composizione collegiale.

Il giudizio deve essere collegiale sui delitti, consumati e tentati, specificamente indicati nell'art. 10 della l. nr. 479 del 1999 (per es., delitti già indicati nell'art. 407, 2° co., lett. a, nr. 3, 4 e 5 c.p.p., delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione - salvo limitate eccezioni - associazione per delinquere comune e di tipo mafioso, usura, violenza sessuale, riciclaggio, false comunicazioni sociali, bancarotta fraudolenta) e su quelli puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a 10 anni a eccezione dei delitti previsti dall'art. 73 del t.u. in materia di stupefacenti (d.p.r. 9 ott. 1990 nr. 309), purché non aggravati ai sensi dell'art. 80, commi 1, 3 e 4 del medesimo t.u. Nei procedimenti davanti al Tribunale in composizione monocratica il pubblico ministero esercita l'azione penale con la citazione diretta a giudizio quando si tratta di contravvenzioni o di delitti puniti con la reclusione non superiore nel massimo a quattro anni ovvero di delitti già di competenza del pretore specificatamente indicati nell'art. 44 della l. nr. 479 del 1999; negli altri casi, tra i quali sono stati inclusi i delitti di omicidio colposo e truffa aggravata a norma dell'art. 640, 2° co., c.p. (già di competenza del pretore) richiede il rinvio a giudizio al giudice dell'udienza preliminare secondo le norme previste per il procedimento davanti al Tribunale in composizione collegiale. All'udienza preliminare sono state estese le disposizioni in tema di costituzione delle parti, impedimento a comparire dell'imputato o del difensore, contumacia assenza e allontanamento volontario dell'imputato originariamente previste solo per la fase del giudizio. Il giudice dell'udienza preliminare può, se le indagini preliminari sono incomplete, emettere ordinanza per l'integrazione delle indagini, fissando il termine per il loro compimento e può anche disporre d'ufficio l'assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Tra le ipotesi di incompatibilità dettate dall'art. 34 c.p.p. è stata introdotta quella tra l'esercizio delle funzioni di giudice delle indagini preliminare (esclusi alcuni provvedimenti indicati nell'art. 11 della l. nr. 279 del 1999) e la funzione di giudice dell'udienza preliminare. L'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale o monocratica deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall'art. 491, 1° co., c.p.p. (e cioè, preliminarmente all'apertura del dibattimento, subito dopo che è stato compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti). L'inosservanza delle disposizioni sulla composizione monocratica o collegiale del Tribunale non determina l'invalidità degli atti del procedimento, né l'inutilizzabilità delle prove già acquiste. In correlazione con il trasferimento al Tribunale delle funzioni devolute in passato al Pretore, è inoltre prevista la soppressione dell'ufficio della Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale, con il trasferimento delle relative funzioni alla Procura della Repubblica presso il Tribunale.

Per quanto riguarda i procedimenti speciali rilevanti sono state le innovazioni introdotte dalla l. nr. 479 del 1999 in tema di giudizio abbreviato: non è più richiesto il consenso del PM e la richiesta può essere subordinata a una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ritenuta dal giudice compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento in relazione agli atti già acquisiti e utilizzabili (il PM può chiedere l'ammissione di prova contraria). Il giudizio si svolge in pubblica udienza quando ne facciano richiesta tutti gli imputati. Quando ritiene di non poter decidere allo stato degli atti il giudice assume anche d'ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione. È stata nuovamente introdotta la disposizione dell'art. 442, 2° co., c.p.p. secondo cui, in caso di condanna, alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta (norma dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza 22 apr. 1991 nr. 176 per violazione dell'art. 76 Cost.). Nei processi in cui si sia tenuta l'udienza preliminare, la richiesta di applicazione della pena non può più essere formulata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, ma solo fino alla presentazione delle conclusioni nell'udienza preliminare.

Tra le ulteriori innovazioni si segnala la nuova modifica dell'art. 416 c.p.p., che a seguito della l. 16 luglio 1997 nr. 234 sanciva la nullità della richiesta di rinvio a giudizio non preceduta dall'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio. Infatti ai sensi dell'art. 415 bis (introdotto dalla l. nr. 479 del 1999) alla persona sottoposta alle indagini e al suo difensore deve essere dato avviso della conclusione delle indagini preliminari, con avvertimento della facoltà dell'indagato di chiedere entro il termine di venti giorni di essere sottoposto a interrogatorio e la richiesta di rinvio a giudizio è nulla se non è preceduta dall'avviso e dall'invito a presentarsi qualora l'interrogatorio sia stato richiesto nel termine previsto.

Ulteriori modifiche concernono la formazione del fascicolo per il dibattimento (art. 431), l'autorizzazione alla citazione di testimoni, periti da parte del presidente (art. 468), le richieste di prova nel dibattimento (art. 493: non è più prevista l'esposizione introduttiva del PM), e la già citata disposizione dell'art. 512 bis in quanto la lettura dei verbali di dichiarazione rese da persona residente all'estero anche a seguito di rogatoria internazionale può essere disposta solo se essa, essendo stata citata, non è comparsa e nel caso in cui non ne sia possibile l'esame dibattimentale.

All'inizio dell'anno 2000 la riforma entra in vigore in una situazione di profonda difficoltà efficacemente illustrata, con l'esposizione di dati estremamente significativi, nella relazione sull'amministrazione della giustizia del procuratore generale presso la Corte di cassazione. Tale quadro è indicativo del fatto che, nella sua convulsa e contraddittoria evoluzione, il sistema processuale introdotto nel 1989 non ha dato adeguate risposte alle esigenze di efficienza, celerità e giustizia che avrebbe dovuto soddisfare. Nella prospettiva del legislatore le nuove e rilevanti innovazioni che sono state introdotte dovrebbero consentire un progressivo superamento di questa situazione anche perché esse sono inserite nel quadro di un complesso di interventi normativi intesi a ridurre sotto distinti profili l'ambito di operatività della sanzione penale e il numero dei processi devoluti ai magistrati ordinari: in particolare la depenalizzazione dei reati minori (legge delega 25 giugno 1999 nr. 205 e d. legisl. 30 dic. 1999 nr. 507); la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto; la delega al governo (con legge 24 nov. 1999 nr. 468) concernente la competenza in materia penale del giudice di pace, il relativo procedimento e l'apparato sanzionatorio dei reati a esso devoluti; l'istituzione di nuovi tribunali e la revisione dei circondari di Milano, Roma, Napoli e Palermo (legge delega 5 maggio 1999 nr. 155 e d. legisl. 3 dic. 1999 nr. 491). Si tratta di interventi indiscutibilmente significativi che potrebbero fornire utili risultati, ma è evidente che soltanto se in sede legislativa - in primo luogo all'atto dell'approvazione della legge di attuazione dei principi del giusto processo (contrasti sono insorti già in relazione alle disposizioni transitorie introdotte dal d.l. 7 genn. 2000 nr. 2, convertito in l. 25 febbr. 2000 nr. 35) - e in sede giudiziaria, nell'applicazione delle nuove norme, si individueranno nel rispetto dei principi costituzionali soluzioni equilibrate rispondenti anche alla necessità di un modello processuale idoneo a consentire la formazione della prova al dibattimento in modo più snello ed efficace e più aderente alla richiesta di una giustizia certa e immediata proveniente dalla collettività, potranno superarsi i contrasti di fondo e le laceranti tensioni che nel periodo più recente hanno contribuito a ostacolare la già difficile attuazione del codice.

bibliografia

G. Conti, A. Macchia, Il nuovo processo penale. Lineamenti della riforma, Roma 1990.

P. Bruno, Processo penale, in Digesto penale, 10° vol., Torino 1995, p.120.

G. Conso, Il codice di procedura penale, Milano 1995.

C. Taormina, Diritto processuale penale, Torino 1995.

Giudice unico di primo grado. Commento al d. lgs. n. 51 del 1998, a cura di C. Riviezzo, Milano 1998.

A. Nappi, Guida al codice di procedura penale, Milano 2000⁷.

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