Processo amministrativo 1. Il modello

Diritto on line (2016)

Franco Gaetano Scoca

Abstract

Viene descritto il modello del processo amministrativo come processo su interessi legittimi, sottolineandone la differenza essenziale rispetto al processo su diritti soggettivi, e vengono commentate le disposizioni costituzionali che lo concernono. Sono valutati criticamente alcuni caratteri tralatizi del modello: il criterio di riparto della giurisdizione, le diverse forme della giurisdizione amministrativa.

La genesi e il modello

Il processo amministrativo nasce con la riforma crispina del 1889 (l. 31.3.1889, n. 5992, poi coordinata con l’Allegato D, alla legge 20.3.1865, n. 2248 nel t.u. 2.6.1889, n. 6166).

La legge istitutiva lo disciplinava come procedimento amministrativo contenzioso, sia pure con garanzia di contraddittorio e affidato ad una Sezione di nuova costituzione (la Quarta Sezione, detta «per la giustizia amministrativa») del Consiglio di Stato; organo che, benché inserito nella struttura organizzativa dell’amministrazione statale, assicurava indipendenza di giudizio e sostanziale terzietà nella soluzione delle controversie tra i privati cittadini e l’amministrazione pubblica.

Fu, com’è noto, opera delle Sezioni Unite della Cassazione romana la trasformazione, negli anni novanta del diciannovesimo secolo, del procedimento amministrativo contenzioso in processo di carattere giurisdizionale (Cass., S.U., 24.6.1891, caso Laurens; confermata da Cass., S.U., 24.6.1897, caso Trezza).

Tale carattere fu poi sancito con legge (l. 7.3.1907, n. 62).

Il nuovo strumento fu introdotto per riempire una vistosa lacuna nel sistema delle tutele del cittadino, conseguente alla legge del 1865; che, consentendo di rivolgersi al giudice (allora unico) solo in caso di violazione da parte dell’amministrazione di diritti soggettivi, lasciava prive di tutela giurisdizionale (o di tutela affidata ad un organo indipendente) le controversie non relative a diritti soggettivi: le controversie, cioè, che l’art. 3 della legge del 1865 denominava «affari», e che si differenziavano dalle «cause (…) nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico» (formula inserita nell’art. 2 dell’All. E, alla legge n. 2248 del 1865).

Si veniva in tal modo a delineare il complessivo sistema delle tutele nei confronti dell’azione dell’amministrazione, articolato su due ordini (o corpi) giudiziari, sulla base della distinzione tra le due diverse situazioni giuridiche private, diritto soggettivo e interesse legittimo: il sistema c.d. dualistico, che permane tuttora.

Il modello del nuovo processo era chiaramente delineato dalla disposizione, secondo la quale la Quarta Sezione era chiamata a «decidere i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria» (art. 3 della legge Crispi del 1889, poi trasfuso nell’art. 24 del t.u. del 1889).

Il modello si caratterizzava come processo da ricorso, avente ad oggetto la verifica della legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione che fossero lesivi di interessi (dei cittadini) diversi dai diritti soggettivi. Quindi si trattava di un processo che assicurava tutela solo successiva all’adozione dei provvedimenti ritenuti lesivi, secondo la regola che i francesi chiama(va)no della décision préalable.

Il processo impugnatorio era finalizzato all’annullamento (art. 38 del t.u. del 1889) dei provvedimenti, se illegittimi e lesivi di «interessi» privati non riconosciuti come diritti soggettivi. La dottrina, nella sua maggioranza, e la giurisprudenza, interpretando il termine “interessi” come situazioni giuridiche soggettive (e non come interessi processuali, rapportabili alla nozione di interesse ad agire), qualificarono il processo amministrativo come processo di diritto soggettivo, inteso alla tutela, appunto, di “interessi” privati, che saranno poi denominati interessi legittimi.

Il carattere soggettivo del processo amministrativo, salvo alcuni profili marginali (Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5, punti 7.3, 8.3 e 9.3 della motivazione), non è stato più messo in dubbio dalla dottrina e la giurisprudenza lo ha anche recentemente più volte riaffermato (Cons. St., A.P. 2011, n. 4; 2013, n. 7; 2014, n. 9; 2015, nn. 4 e 5). Profili probabilmente di diritto oggettivo sono presenti, ad esempio, nel processo relativo alle procedure di affidamento di contratti pubblici.

Il processo amministrativo, disciplinato ora dal Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104) si presenta, quindi, come processo dispositivo, di parti, nel quale vigono i principi della domanda, della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e, con lieve correzione, il principio dell’onere della prova.

Si applicano le regole derivanti dal modello del giusto processo (art. 2, c.p.a.) e, in particolare, la regola regina della parità delle armi, che «comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte» (C. cost., 26.1.2012, n. 15, punto 3.3 della motivazione in diritto; in senso conforme, CEDU, 7 giugno 2011, Agrati c/ Italia; Cons. St., A.P., 25.2.2014, n. 9, punto 8.3.1 della motivazione).

La disciplina costituzionale

La Costituzione del 1948 dedica alla giustizia amministrativa poche ma significative disposizioni: l’art. 103, co. 1, riconoscendo la giurisdizione dei giudici amministrativi per la tutela degli interessi legittimi, perpetua il sistema dualistico; l’art. 113, con i suoi due commi, rende tale tutela generale e (tendenzialmente) piena; l’art. 125 dispone la istituzione di «organi di giustizia amministrativa di primo grado».

Saranno conseguentemente istituiti, con legge del 1971 (l. 6.12.1971, n. 1034), i Tribunali regionali amministrativi, con sede nei capoluoghi di Regione e Sezioni staccate nelle città sedi di Corti di appello. L’entrata in funzione effettiva dei Tribunali amministrativi regionali risale al 1974. Qualche modifica all’articolazione geografica delle Sedi staccate è stata apportata con l’art. 18, co. 2, d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. nella l. 11.8.2014, n. 114.

L’architettura della giustizia amministrativa è così definitivamente disegnata con giudici di primo grado, i Tribunali amministrativi, e giudici di secondo grado: il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, cui fanno capo quattro Sezioni (la Terza, la Quarta, la Quinta e la Sesta) e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Sicilia, avente sede a Palermo e nella cui composizione rientrano esperti di nomina regionale.

Una particolare composizione è prevista per il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento e, ancor più, per la Sezione autonoma di Bolzano.

La funzione nomofilattica è affidata all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (art. 99 c.p.a.).

Durante i lavori dell’Assemblea costituente era stato fortemente sostenuto il superamento del sistema dualistico, con la riconduzione dei giudici amministrativi all’unico ordine giudiziario, mediante la creazione, presso gli organi giudiziari ordinari, di Sezioni specializzate per i giudizi già appartenenti alla giurisdizione amministrativa.

La tesi, proposta e strenuamente difesa da Piero Calamandrei, fu avversata da Costantino Mortati, Meuccio Ruini, Aldo Bozzi e Giovanni Leone.

La tesi non passò, ma essa viene periodicamente ripresa, soprattutto in sede di valutazione di istituti o di tratti disciplinari che sono (o sono ritenuti) contrari alla indipendenza dei Consiglieri di Stato: la nomina governativa di un quarto dei Consiglieri, la compresenza di più funzioni (consultiva, oltre che giurisdizionale), la nomina governativa del Presidente del Consiglio di Stato, gli incarichi extragiudiziari dei magistrati amministrativi (anche dei Tar): da ultimo, Ferrara, L., Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni: annotazioni brevi, in Dir. pubbl., 2014, 561 ss.. I sostenitori della soluzione monistica sono numerosi, e non solo tra gli amministrativisti: tra i più convinti, Proto Pisani, A., Verso il superamento della giurisdizione amministrativa, in Foro ital., 2001, V, 21 ss.; Proto Pisani, A., L’art. 113, 3° comma, Cost.: una norma, troppo spesso dimenticata, fondamentale per la tutela effettiva del cittadino contro atti della pubblica amministrazione, in Foro it., 2015, V, 186 ss.

Si tratta, peraltro, di problemi diversi: la indipendenza e la terzietà dei giudici, sia ordinari sia speciali, va perseguita con ogni rigore, talché gli aspetti appena rammentati, attinenti al reclutamento anomalo dei magistrati (ritenuto peraltro legittimo da C. cost., 19.12. 1973, n. 177) e agli incarichi extragiudiziari, soprattutto presso i ministeri o altri organi amministrativi, andrebbero definitivamente aboliti.

Opinioni tra loro diverse riguardano invece l’attribuzione di compiti consultivi a Sezioni, diverse da quelle giurisdizionali, e all’Adunanza generale del Consiglio di Stato: secondo alcuni, considerando che la consulenza riguarda esclusivamente profili di legittimità e viene resa in modo obiettivo, potrebbe non mettere a rischio la terzietà dei giudici, ai quali comunque si applicano le disposizioni generali sull’astensione e ricusazione. Altri la pensano in modo differente.

Indipendente dalle posizioni che si possono avere sui profili appena rammentati è il tema della devoluzione dell’intero contenzioso amministrativo al giudice ordinario: ove anche si prescinda da prevedibili e non facili problemi organizzativi, la unificazione potrebbe appiattire le differenze di fondo che esistono (ed hanno una ragion d’essere) tra giudizio ordinario, su diritti soggettivi, e giudizio amministrativo, su interessi legittimi.

La differenza tra i due processi sta principalmente nell’oggetto del giudizio: nel giudizio su diritti esso consiste nella verifica della titolarità del diritto e della sua avvenuta violazione (il suum cuique tribuere); nel giudizio su interessi legittimi consiste nella verifica della legittimità del modo in cui il potere (amministrativo) è stato esercitato e, se si tiene conto del cd. effetto conformativo della sentenza, anche del modo in cui il potere dovrà essere ri-esercitato, in relazione all’interesse del ricorrente.

Sottolinea le «peculiari modalità di erogazione della tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo attraverso il controllo necessario sull’esercizio (o il mancato esercizio) della funzione pubblica», Cons. St., A.P., 27.4. 2015, n. 5 (punto 7.2 della motivazione).

La differenza incide sulla struttura e sulla disciplina del processo, dato che, nel giudizio su interessi legittimi, la tutela giurisdizionale può essere (normalmente) solo successiva alla conclusione del procedimento nel quale il potere viene esercitato. L’art. 34, co. 2, c.p.a. stabilisce, infatti, che «in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati». Inoltre, anche se il ventaglio delle azioni esperibili a tutela degli interessi legittimi è ampio, l’azione principale resta, per ciò che si è appena detto, l’azione demolitoria; e la materia del contendere non attiene a ciò che all’attore spetta ma a ciò che il convenuto ha fatto (come ha operato). Con conseguenze anche sul piano probatorio e della struttura soggettiva del processo (le parti necessarie, le forme di intervento, e così via).

Si tratta di processi diversi, in cui conta anche l’esperienza culturale del giudice: si pensi, in positivo, alla sensibilità del giudice amministrativo rispetto all’eccesso di potere, e, in negativo, alle remore nel condannare l’amministrazione al risarcimento del danno o nel sindacare in modo approfondito le scelte puramente tecniche (non propriamente discrezionali) dell’amministrazione.

Per lasciare al processo amministrativo ciò che gli è proprio, occorrerebbe, in caso di riunificazione della giurisdizione, creare Sezioni specializzate presso gli organi giudiziari ordinari; ma in tal caso l’unificazione sarebbe solo di carattere organizzativo. Inciderebbe di certo sullo status dei giudici amministrativi, ma a questo si potrebbe provvedere anche senza ipotizzare l’unificazione dei corpi giudiziari.

Il carattere generale della tutela degli interessi legittimi (art. 24 Cost.), affidata al giudice amministrativo, e la sua copertura costituzionale, rendono incongrua la qualificazione della giurisdizione amministrativa come giurisdizione speciale. Anzi, secondo Verde, G., Obsolescenza di norme processuali: la disciplina della giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2014, 842, «la funzione giurisdizionale è frazionata fra giudici forniti di pari legittimazione, così che neppure ha più senso di parlare di una magistratura «ordinaria» in contrapposizione alle magistrature «speciali»».

L’obiettivo della giurisdizione unica non sarebbe, d’altronde, raggiunto, ove si eliminasse soltanto il giudice amministrativo: resterebbero il giudice tributario, il giudice contabile, il giudice militare, perfino i giudici parlamentari.

In una prospettiva (lontana, e bisognosa di modifiche costituzionali), si potrebbe ipotizzare, a somiglianza del sistema tedesco, un complesso unitario di magistrati, con unico status, articolato in vari corpi separati; così superando la differenza tra giudici ordinari e giudici speciali, mantenendo tuttavia le differenze tra i processi che dinanzi ad ogni corpo si celebrano.

Ferma l’unità funzionale della giurisdizione (di cui nessuno dubita), l’unità organizzativa, auspicabile o meno che sia, non sembra essere un obiettivo di breve o medio termine.

Sistema dualistico e regola di riparto

Il sistema dualistico comporta che vi sia una regola per il riparto della giurisdizione tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo.

La regola basata sulle situazioni giuridiche soggettive private si è venuta determinando per effetto dei due episodi di riforma, del 1865 e del 1889, sopra richiamati, dato che la prima riguardava solo i diritti soggettivi, e la seconda gli interessi-non-diritti, come qualcuno al tempo si esprimeva; e si è consolidata per la prevalenza, in giurisprudenza, del criterio della causa petendi su quello del petitum: decisiva risulta(va) la ragione in base alla quale si adisce il giudice (lesione di diritti o di interessi legittimi) piuttosto che il provvedimento che si chiede al giudice di emanare (annullamento o risarcimento del danno).

La Costituzione ha recepito tale regola di riparto, che al tempo dei lavori costituenti era (o sembrava) consolidata.

Nel diritto vivente tale regola era invece, già allora, in via di definitivo superamento.

Fin dagli anni trenta la Corte regolatrice della giurisdizione aveva introdotto l’istituto, teoricamente incomprensibile ma praticamente decisivo, della degradazione (o affievolimento) dei diritti soggettivi: a fronte dell’esercizio del potere amministrativo, il diritto soggettivo si muterebbe in interesse legittimo. É ovvio che così non possa essere, dato che il diritto soggettivo, proprio nel momento in cui viene colpito, invece di consentire la reazione che gli è propria, si renderebbe irrilevante.

La cd. degradazione va intesa in modo del tutto diverso. Essa comporta la consapevole sostituzione della tecnica di tutela propria dell’interesse legittimo a quella propria del diritto soggettivo; con la conseguenza che, avverso i provvedimenti incidenti (sfavorevolmente) su diritti soggettivi, la tutela viene positivamente disciplinata come tutela di interessi legittimi.

In altri termini, il diritto viene estinto (o ridotto) dal provvedimento, e la illegittimità di quest’ultimo, riguardando il modo in cui il potere è stato esercitato, comporta la violazione dell’interesse legittimo (riconosce l’importanza della «rivoluzione» indotta dall’istituto della degradazione sul riparto della giurisdizione, Proto Pisani, A., Verso il superamento, cit., 23).

La degradazione incise effettivamente in modo determinante sulla regola di riparto, riducendo drasticamente l’ambito della giurisdizione del giudice ordinario ed ampliando l’ambito di quella del giudice amministrativo. La ragione della scelta, operata dalla Cassazione, fu di consentire l’annullamento in sede giudiziale dei provvedimenti amministrativi che incidevano sfavorevolmente su diritti soggettivi; annullamento che era inibito al giudice ordinario. Si trattò, quindi, di attribuire ai titolari di diritti soggettivi una tutela ritenuta più efficiente, dato che al giudice ordinario poteva essere chiesto unicamente il risarcimento del danno.

Con la degradazione risultava superata la distinzione delle situazioni soggettive private e, ai fini del riparto, si attribuiva valore determinante all’esercizio del potere dell’amministrazione.

Tale diversa regola fu poi espressamente riaffermata dalla Cassazione l’anno successivo alla entrata in vigore della Costituzione: la giurisdizione si stabilisce a seconda che la controversia riguardi la carenza o il cattivo esercizio del potere amministrativo. Per Cass., S.U., 4.7.1949, n. 1657: «la discriminazione tra la competenza giudiziaria e quella del giudice amministrativo si precisa così: se il cittadino nega che potere siffatto sia conferito all’autorità amministrativa, la competenza a conoscere di tale controversia spetta all’autorità giudiziaria perché si tratta di accertare se il diritto suriettivo sia tale anche di fronte alla pubblica amministrazione. Se invece la controversia abbia per suo oggetto l’esercizio, che si pretende scorretto, del potere discrezionale conferito, sotto l’aspetto della competenza, della forma o del contenuto, specie in relazione all’eccesso di potere in tutte le sue manifestazioni, la competenza a conoscerne è del giudice amministrativo».

La regola di riparto richiamata in Costituzione risultava, quindi, formalmente ancora vigente ma sostanzialmente superata. Agli inizi di questo secolo la Corte costituzionale ha preso atto definitivamente che la regola di riparto si fonda sull’esistenza (e sul carattere discrezionale) del potere dell’amministrazione: la tesi era già chiara in Corte cost., 6.7.2004, n. 204, che peraltro riguardava la giurisdizione esclusiva; ma divenne evidente con la successiva sent. 11.5.2006, n. 191, con la quale si riconosceva che anche i comportamenti (oltre i provvedimenti) rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo, se «collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere». Anche la tutela dei diritti costituzionalmente protetti spetta al giudice amministrativo, se rispetto ad essi (sussiste e) viene esercitato dall’amministrazione un potere previsto dalla legge (C. cost. 27.4. 2007, n. 140).

La formula usata dal c.p.a. per definire la giurisdizione del giudice amministrativo risulta viceversa inutilmente complessa, ed anzi finisce per essere ambigua, dato che fa contemporaneamente riferimento al potere dell’amministrazione e alle situazioni soggettive del cittadino (art. 7, co. 1, c.p.a.). Per la storia della disposizione, e per i problemi che essa può creare, mi permetto di rinviare al mio Cenni sulla (nuova) disciplina della giurisdizione, in Il nuovo processo amministrativo, in Atti del Convegno organizzato dal Consiglio di Stato il 21 ottobre 2010, pubbl. in Quaderni del Consiglio Nazionale Forense, 2013, 31 ss.

Le forme di giurisdizione

Secondo il c.p.a., che sul punto ripete istituti risalenti nel tempo, al giudice amministrativo spettano tre forme di giurisdizione: la giurisdizione generale di legittimità, e due giurisdizioni speciali (ossia limitate a materie tassativamente elencate): la giurisdizione di (o estesa al) merito e la giurisdizione esclusiva (art. 7, co. 3, c.p.a.. Alla giurisdizione esclusiva è dedicato il successivo co. 5, nonché l’art. 133 c.p.a.; alla giurisdizione di merito è dedicato il co. 6 dell’art. 7 c.p.a., e l’art. 134 c.p.a.).

Il tema merita qualche osservazione. Conviene prendere le mosse dal significato, anzi dai significati, del termine «giurisdizione», quali precisati dalla Cassazione: da un lato esso designa l’attribuzione del potere giurisdizionale ad un corpo giudiziario (l’ambito della giurisdizione), dall’altro determina il contenuto del potere attribuito al giudice, «stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si esplica»: il contenuto della giurisdizione (Cass., S.U., 23.12. 2008, n. 30254). Altro e diverso problema è se la Cassazione, in sede di ricorso ex art. 111 Cost., possa utilizzare i due concetti di giurisdizione o debba limitarsi al primo (sul punto si vedano le condivisibili osservazioni di Villata, R., Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 285 ss., spec. 293 ss.).

La giurisdizione esclusiva è speciale in relazione all’ambito; la giurisdizione di merito lo è (o lo sarebbe) in relazione al contenuto, alle forme della tutela che sono positivamente previste. La prima, espressamente prevista dall’art. 103 Cost., estende la giurisdizione anche alle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi; la seconda, che risale all’assetto originario delle tutele, amplia (o ampliava) i poteri di cognizione e di decisione del giudice amministrativo.

La giurisdizione esclusiva può riguardare soltanto «particolari materie», in quanto comporta la deroga al criterio generale di riparto della giurisdizione, come fissato in Costituzione.

La Corte costituzionale ha stabilito che le materie che il legislatore può deferire al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva devono essere caratterizzate da un intreccio di diritti e interessi, che rende difficile «individuare i connotati identificativi delle singole situazioni soggettive» (sent. 5.2.2010, n. 35); di talché, in assenza della giurisdizione esclusiva, «contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità» (sent. 6.7.2004, n. 204, punto 3.2 della motivazione in diritto). Il criterio è confermato dalle sentt. n. 191 del 2006 e n. 140 del 2007.

Eccezionalmente (ma non troppo), secondo la Corte, la giurisdizione esclusiva può estendersi a materie in cui siano presenti solo diritti soggettivi (sentt. 19.10.2009, n. 259; 5.2.2010, n. 35). Ciò dimostra che l’esigenza di superare l’“intreccio” delle situazioni giuridiche soggettive non è (sempre) la ragione giustificatrice della giurisdizione esclusiva.

Sulla giurisdizione esclusiva

La stessa nozione di giurisdizione esclusiva sarebbe tuttavia da ripensare: essa nasce nel 1923 (l. 30.12.1923, n. 2840) per superare, al fine di individuare il giudice avente giurisdizione, le difficoltà di stabilire la natura delle situazioni soggettive private presenti (e tra loro intrecciate) in alcune materie (ad es., il pubblico impiego); era, quindi, e resta, legata alla regola di riparto della giurisdizione basata sulle situazioni soggettive private. É opportuno riportare che, secondo Verde, G., É ancora in vita l’art. 103, 1° comma, Cost., in Foro ital., 2008, I, 436 ss., «con progressivi aggiustamenti la Corte costituzionale ha sostanzialmente svuotato di contenuto l’art. 103, 1° comma, Cost.».

Cambiata, come si è detto, la regola di riparto, probabilmente la giurisdizione esclusiva non ha più ragione di essere conservata, ovvero andrebbe comunque riferita a materie in cui i diritti soggettivi conservano la tecnica di tutela che è loro propria, nonostante l’esistenza e l’esercizio, nei loro confronti, del potere dell’amministrazione.

Per un certo periodo questa caratteristica veniva riconosciuta dalla Cassazione ai diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti: venivano ritenuti non soggetti alla degradazione: tale orientamento risale alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Ma la Corte costituzionale ha ritenuto recentemente che non vi siano ragioni per trattare diversamente questi dagli altri diritti, in presenza di poteri amministrativi (sent., 27.4.2007, n. 140). Ne deriva che anche ai diritti fondamentali, ove incisi dall’esercizio di poteri pubblici, si applica, in conseguenza del passaggio della giurisdizione al giudice amministrativo, la tecnica di tutela propria degli interessi legittimi. La Cassazione si è prontamente adeguata all’orientamento del giudice delle leggi (Cass., S.U., 28.12.2007, n. 27187; per un caso recente v. Cass.,S.U., 25.11.2014, n. 25011).

In via generale, ed almeno in teoria, i diritti soggettivi possono «resistere» all’esercizio del potere amministrativo, solo se tale potere risulta totalmente vincolato. Ma occorre darsi carico di due controversi problemi: cosa deve intendersi per potere totalmente vincolato? Di fronte al potere vincolato possono sussistere solo diritti soggettivi o, eventualmente, anche interessi legittimi?

In ordine al primo problema sembra opportuno rilevare che, secondo il diritto positivo, il potere vincolato (nel senso di potere il cui esercizio non contempla alcun aspetto di discrezionalità in senso proprio) può comportare comunque la necessità di accertamenti di fatti complessi o di valutazioni tecniche, che siano affidati all’amministrazione; ovvero, ancora, l’esercizio del potere (vincolato) può essere condizionato da fattori esterni, ad esempio, organizzativi o, in determinati casi, da limiti di spesa.

In questi casi, pur avendo il potere natura vincolata, la tutela della controparte privata può positivamente essere costruita come tutela di interessi legittimi e la giurisdizione può spettare al giudice amministrativo, a prescindere dalla giurisdizione esclusiva.

Sempre in via generale, a fronte di poteri totalmente vincolati, possono concepirsi diritti soggettivi solo se il titolare del diritto può conseguire l’effetto, fisiologicamente prodotto dal provvedimento dell’amministrazione, attraverso l’opera del giudice. In altri termini, oltre il c.d. potere determinante, deve difettare anche il c.d. potere costitutivo.

Il secondo problema comporta la considerazione della differenza tra piano teorico e piano del diritto positivo: il legislatore può trattare come interessi legittimi situazioni che, teoricamente, sono (sarebbero) diritti soggettivi.

Il caso di maggior rilievo può rintracciarsi a proposito dei tributi: non può dubitarsi della natura debito/credito del rapporto tributario; eppure la tutela del contribuente, affidata a giudici speciali, è parametrata sul processo amministrativo ed ha ad oggetto il modo in cui l’amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo. Si tratta della tecnica di tutela tipica dell’interesse legittimo.

Questo succede anche in campi squisitamente amministrativi. Sussistono da sempre materie in cui sono presenti soltanto diritti soggettivi che, positivamente, sono affidate al giudice amministrativo: conclamata è la materia elettorale (C. cost. 19.10.2009, n. 259), ma si possono aggiungere, quanto meno, la materia delle sanzioni amministrative, anche se applicate da autorità indipendenti, e quella dei contratti pubblici, nella formazione dei quali, prima della stipula, si qualificano come interessi legittimi le situazioni soggettive dei contraenti, solo per il loro trattamento di diritto positivo, sostanziale e processuale.

Le considerazioni appena svolte possono anche spiegare perché non sia mai stato costruito, né dal legislatore né dal giudice, un processo di giurisdizione esclusiva, diverso dal processo amministrativo «ordinario». Il codice, d’altronde, non contiene, oltre l’art. 118 (riguardante il decreto ingiuntivo, non certo un istituto idoneo a caratterizzare in senso differenziale il processo), alcuna disposizione speciale per il processo in sede di giurisdizione esclusiva (nello stesso ordine di idee si muove, sembra, Ramajoli, M., Le forme della giurisdizione: legittimità,esclusiva, merito, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, a cura di B. Sassani e R. Villata, Torino, 2012, 143).

Sulla giurisdizione di merito

La giurisdizione estesa al merito pone problemi diversi, ma anch’essi di rilievo, tanto che si può dubitare della sua stessa sussistenza.

In primo luogo occorre tener conto delle materie che le sono attribuite: prescindendo dal giudizio di ottemperanza, che merita un discorso a parte, le altre materie o non comportano alcuna cognizione estesa al merito, trattandosi di materie nelle quali sono concepibili diritti soggettivi, o, se si preferisce, poteri totalmente vincolati dell’amministrazione, e non essendoci quindi alcuna valutazione amministrativa di cui valutare l’opportunità (la materia elettorale, quella delle sanzioni pecuniarie e quella dei confini degli enti territoriali, rispettivamente elencate alle lett. b), c) e d) del primo comma dell’art. 134 c.p.a.); ovvero hanno un rilievo del tutto marginale, e comunque non necessitano della cognizione dei c.d. vizi di merito (il diniego del nulla osta cinematografico, di cui alla lett. e, del medesimo comma).

In definitiva la giurisdizione non è mai effettivamente estesa al merito, alla valutazione, cioè, della opportunità delle scelte discrezionali dell’amministrazione: la cognizione del giudice amministrativo si limita ai profili di legittimità (questa era già la convinzione di Amorth, A., Il merito dell’atto amministrativo, Milano, 1939, 117 ss.).

Quanto alla estensione dei poteri di cognizione, pertanto, la giurisdizione di merito non si distingue da quella di legittimità. In origine non era così: la giurisdizione di merito, e non quella generale di legittimità, comportava la conoscenza effettiva ed autonoma dei fatti di causa da parte del giudice amministrativo. Allora sì che la giurisdizione di merito aveva senso. Altrettanto può dirsi dei poteri istruttori: la disciplina originaria era profondamente diversa per la giurisdizione di merito e per quella di legittimità, ma il codice, a questo proposito (artt. 63 ss.), non fa alcuna distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito.

Il codice, in ordine alla giurisdizione di merito, stabilisce soltanto che, «nell’esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione»; con riferimento, quindi, ai poteri di decisione, che sembrerebbero più ampi di quelli propri della giurisdizione di legittimità.

Tuttavia il potere del giudice di sostituirsi all’amministrazione, ove sia collegato con l’accertamento della illegittimità (e non della inopportunità) del provvedimento impugnato, e con il suo annullamento, rientra, a mio modo di vedere, nella nozione di tutela piena ed effettiva della parte vittoriosa; pertanto dovrebbe attenere, e, a mio avviso, già attiene, se si interpretano le disposizioni vigenti per quello che esse significano, anche ai poteri che il giudice esprime nella giurisdizione di legittimità. Si sottolinea che l’art. 1, c.p.a., recita: «la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo»: il successivo art. 34, co. 1, c.p.a. consente, e quindi impone, al giudice della legittimità di condannare l’amministrazione «all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (lett. c); nonché a disporre «le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato (…), compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione» (lett. e).

Secondo il codice, la sostituzione comporta che al giudice è dato di adottare un nuovo atto o di modificare o riformare quello impugnato (art. 34, co. 1, lett. d, c.p.a.). In sede di legittimità, sia nel giudizio di annullamento, sia nel giudizio di nullità, sia nel giudizio sul silenzio, il giudice stabilisce ciò che l’amministrazione deve fare, a seguito della demolizione del provvedimento impugnato o dell’accertamento dell’obbligo di provvedere, stabilendo termini ed eventualmente nominando un commissario ad acta; in sede di merito può fare egli stesso ciò che dovrebbe fare l’amministrazione.

La differenza, già in teoria, non sembra enorme e la effettività della tutela comporta che il giudice, anche in sede di legittimità, si sostituisca all’amministrazione, «quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità» (arg. ex art. 31, co. 3, c.p.a.). Nella pratica la sostituzione non avviene quasi mai, nemmeno in sede di giudizio di ottemperanza.

In ogni caso la giurisdizione di merito non sembra avere attualmente una ragionevole ragione di sopravvivere: le ragioni originarie, legate soprattutto ai diversi e più ampi poteri di cognizione (dei fatti) ed istruttori, sono totalmente superate (considera la giurisdizione di merito un «residuo storico», Police, A., La giurisdizione di merito del giudice amministrativo, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Padova, 2014, 103).

Si aggiunga che le considerazioni svolte sulla scarsissima consistenza della giurisdizione di merito la mettono al riparo da problemi di costituzionalità, eliminando o riducendo il suo contrasto, che altrimenti sarebbe consistente, con il principio costituzionale della separazione delle funzioni.

Si può ritenere che la giurisdizione di merito sopravviva per semplice omaggio alla tradizione. Sopprimendola si avrebbe, a mio avviso, un quadro più semplice della giurisdizione amministrativa, e il giudice amministrativo potrebbe più facilmente utilizzare a pieno i poteri che la legge gli offre anche in sede di legittimità.

A chiusura del breve discorso si può affermare che la evoluzione del processo amministrativo è stata, nel tempo, continua ed intensa, in particolare sotto la spinta della Costituzione e per gli apporti della dottrina e, soprattutto, della giurisprudenza. Il legislatore non ha influito granché: si è quasi sempre limitato a prendere atto di modifiche già affermatesi nel diritto vivente o fortemente da lungo tempo auspicate.

Il codice del 2010 non fa eccezione a questa regola; tuttavia ha raccolto molti suggerimenti per migliorare la disciplina del processo, adeguandola ai principi del giusto processo, e rendendola idonea a «soddisfare la pretesa della parte vittoriosa», come indicato dalla legge di delega (art. 44, l. 18.6.2009, n. 69).

Si può dire che il modello abbia raggiunto la maturità e che l’opera dell’Adunanza Plenaria continua a perfezionarlo.

Fonti normative

Artt. 24, 103, 111, 113, 125, Cost.; l. 31.3.1889, n. 5992; l. 7.3.1907, n. 62; l. 30.12.1923, n. 2840; l. 6.12.1971, n. 1034; d.lgs. 2.7.2010, n. 104; art. 18, d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. nella l. 11.8.2014, n. 114.

Bibliografia essenziale

Amorth, A., Il merito dell’atto amministrativo, Milano, 1939, 117 ss.; Ferrara, L., Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni: annotazioni brevi, in Dir. pubbl., 2014, 561 ss.; Police A., La giurisdizione di merito del giudice amministrativo, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Padova, 2014, 103; Proto Pisani, A., Verso il superamento della giurisdizione amministrativa, in Foro ital., 2001, V, 21 ss.; Proto Pisani, A., L’art. 113, 3° comma, Cost.: una norma, troppo spesso dimenticata, fondamentale per la tutela effettiva del cittadino contro atti della pubblica amministrazione, in Foro it., 2015, V, 186 ss.; Ramajoli, M., Le forme della giurisdizione: legittimità,esclusiva, merito, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, a cura di B. Sassani e R. Villata, Torino, 2012, 143; Scoca, F.G., Parte 1 e Parte 3, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2014, risp. 3 ss., 149 ss.; Scoca, F.G., Cenni sulla (nuova) disciplina della giurisdizione, in Il nuovo processo amministrativo, Atti del Convegno organizzato dal Consiglio di Stato il 21 ottobre 2010, pubbl. in Quaderni del Consiglio Nazionale Forense, 2013, 31 ss.; Scoca, F.G., Sopravvivrà la giurisdizione esclusiva?, in Giur. cost., 2004, 2209 ss.; Scoca, F.G., Riflessioni sulla giurisdizione esclusiva (nota alla sent. C. cost. 5.2.2010, n. 35), in Giur. cost. 2010, 439 ss.; Scoca, F.G., Il contributo della giurisprudenza costituzionale sulla fisionomia e sulla fisiologia della giustizia amministrativa, in Dir. proc. amm., 2012, 371 ss.; Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2014; Verde, G., É ancora in vita l’art. 103, 1° comma, Cost., in Foro ital., 2008, I, 436 ss.; Verde, G., Obsolescenza di norme processuali: la disciplina della giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2014, 842; Villata, R., Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 285 ss., spec. 293 ss.

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