PRISCILLIANO

Enciclopedia Italiana (1935)

PRISCILLIANO


. È il più significativo rappresentante di un movimento ascetico sorto in Spagna verso la fine del sec. IV e che diede luogo a un clamoroso processo conclusosi con la condanna a morte dei principali aderenti della setta. Già verso il 375-380 si ha notizia che in seno alle chiese della Spagna settentrionale e dell'Aquitania una parte dei fedeli, votatasi alla vita ascetica e continente, si andava sempre più differenziando dalla gran massa dei fedeli spagnoli. Questi asceti appartenevano in generale alle classi ricche e colte del laicato, affermavano di essere gli eletti e i santi della Chiesa, sostenevano che il battesimo doveva significare evasione da tutti i valori di questo mondo; pertanto vendevano i proprî beni a beneficio dei poveri, si astenevano anche dai rapporti coniugali e si davano a interpretare la Scrittura avvalendosi di quello speciale dono d'intelligenza spirituale che essi (i "dottori", come amavano qualificarsi) dicevano di possedere in virtù della loro elezione. Essi si prescrivevano digiuni straordinarî, oltre a quelli in uso in tutta la comunità; per la preparazione alle feste liturgiche, soprattutto la Pasqua e l'Epifania, si separavano dal resto dei fedeli; in chiesa ricevevano dalle mani del sacerdote il pane eucaristico, ma lo portavano a casa e lo inghiottivano in occasione di quelle adunanze particolari nelle quali si raccoglievano per pregare e profetizzare. Fra questi asceti si segnalavano tre vescovi: Instanzio, Salviano, Simposio, e un laico: Priscilliano. Di famiglia nobile, ricco, pronto alla discusione e alla disputa, P. era però, a detta di Sulpicio Severo che ce ne ha lasciato questo ritratto, eccessivamente vano e tronfio più del giusto per la sua perizia nelle scienze profane. Sempre secondo Sulpicio Severo (Hist. Eccl., II, capp. 46-51), P. educato da una donna, Agape, e dal retore Elpidio, uditori di un leggendario Marco Egiziano venuto in Spagna da Menfi, riuscì presto ad attrarre intorno a sé molti nobili e anche gente del popolo e, soprattutto, a schiere (catervatim dice Sulpicio), donne dalla fede ondeggiante. Presto tre vescovi: Igino di Cordova, che poi si lascerà convertire alle idee della setta, Itacio di Ossonuba e Idacio di Merida, ebbero dei gravi sospetti sull'ortodossia dei priscillianisti. Un sinodo tenuto a Saragozza nell'ottobre 380 condannò alcune pratiche degli asceti, ma sembra che non emanasse sentenze personali: comunque sia di ciò, gli asceti mostrarono di non sentirsi colpiti dalle sentenze ed elevarono Priscilliano all'episcopato di Ávila. Nacquero anche dei disordini e Idacio e Itacio pensarono bene di ricorrere all'autorità civile: un decreto di Graziano cacciò i vescovi priscillianisti dalle loro sedi, qualificandoli come pseudoepiscopi e manichei. Instanzio, Salviano e Priscilliano si recarono allora in Italia, ma non trovarono ascolto né presso papa Damaso, a Roma, né presso Sant'Ambrogio, a Milano. Qui, però, riuscirono a corrompere, a quanto afferma Sulpicio Severo, il magister officiorum imperiale, Macedonio, e ad ottenere da lui un rescritto che li reintegrava nel governo delle loro chiese. Tornati in Spagna, i vescovi priscillianisti (Salviano era morto a Roma) si conquistarono il favore anche del proconsole Volvenzio e indussero questo a incriminare Itacio quale perturbatore della pace delle chiese. Itacio, a scanso di peggio, fu costretto a fuggire. Si recò in Gallia, a Treviri, e qui, speculando sulla sua amicizia per quel vescovo e sul fatto che la Spagna era allora governata dal prefetto delle Gallie, Gregorio, riuscì a indurre questo a procedere contro i priscillianisti. Gregorio emanò un ordine di arresto e deferì la causa al tribunale imperiale. Ma gli asceti spagnoli, forti dell'appoggio di Macedonio, ottennero che la cognizione della causa fosse affidata al vicario della Spagna e che il loro avversario, Itacio, fosse egli pure incriminato. Le cose erano a questo punto, quando si verificò il colpo di stato che diede il governo delle Gallie in mano all'usurpatore Massimo. Questi, quando Itacio venne a supplicarlo, a Treviri, d'interessarsi della faccenda, fu ben lieto di ordinare che tutti i vescovi priscillianisti e gli esponenti principali della setta fossero condotti al giudizio di un concilio. Questo si tenne a Bordeaux. Instanzio non riuscì a provare la sua innocenza e fu deposto: Priscilliano, forse temendo la stessa sorte, appellò all'imperatore. In conseguenza di ciò tutti gl'imputati furono trasferiti a Treviri per essere giudicati davanti a un tribunale secolare. Idacio e Itacio si assunsero la parte di accusatori, nella quale furono sostituiti, durante la seconda fase del processo, dal patrono del fisco imperiale. A nulla valse il coraggioso intervento di San Martino di Tours, che invano supplicò Massimo di astenersi da gravi condanne, e quello anche più autorevole di Sant'Ambrogio, allora a Treviri quale legato di Valentiniano II. P., Felicissimo, Armenio, Latroniano, Eucrozia, Asarivo e Aurelio furono condannati a morte e decapitati; Instanzio, Tiberiano, Igino, Tertullo, Potamio e Giovanni furono condannati alla deportazione o all'esilio; i beni dei condannati furono confiscati. Il fatto destò enorme scandalo in tutta la cristianità; Massimo si vide costretto a giustificare il suo operato di fronte a papa Siricio; Teodosio, debellato Massimo, si affrettò, secondo quanto è lecito dedurre dal panegirico di Teodosio recitato dal retore Pacato Drepanio, a riabilitare la memoria dei priscillianisti spagnoli. D'altra parte i seguaci di P. trassero dall'episodio cruento un potente incentivo alla loro propaganda, e buona parte delle chiese del centro e del settentrione spagnolo sposarono la causa del "martire" P. Ne nacque uno scisma che, giovandosi anche dell'invasione vandalica, si trascinò, nonostante la condanna del concilio di Toledo (400), fino alla metà del sec. VI: il sinodo di Braga (563) si occupa ancora della questione.

Il giudizio che si può dare della dottrina priscillianista, legato fino a qualche decennio fa quasi esclusivamente alla tradizione eresiologica, che dipingeva i priscillianisti come maghi, gnostici e manichei, è stato dovuto rivedere in seguito alla scoperta di testi di diretta derivazione priscillianista. Ma i nuovi testi, lungi dal risolvere la questione, sembrano averla complicata e hanno comunque autorizzato le conclusioni più opposte: non è mancato chi ha sostenuto la perfetta ortodossia dei priscillianisti. Questi testi (11 trattatelli, alcuni dei quali di carattere apologetico e direttamente riguardanti la controversia), attribuiti da G. Schepss, loro primo editore (in Corpus Scriptorum ecclesiasticorum latinorum, XVIII, Vienna 1889), a P. in persona, furono. poi rivendicati da G. Morin a Instanzio. Ma la tesi del Morin è ancora sub iudice per le gravi obiezioni ad essa mosse da E. Buonaiuti e J. Martin. Il problema più interessante, però, riguarda il contributo che l'episodio priscillianista può dare alla storia dei rapporti fra potere secolare e potere ecclesiastico in un momento nel quale il diritto regolante questi rapporti era ancora in via di elaborazione.

Bibl.: Fondamentali: E.-Ch. Babut, Priscillien, Parigi 1909; K. Künstle, Antipriscilliana, Friburgo in B. 1905. La monografia più recente è quella di A. J. Davids, De Orosio et Sancto Augustino, priscillianistarum adversariis, L'Aia 1930, con amplissimi riferimenti testuali e bibliografici; ai quali si devono aggiungere: E. Buonaiuti, Instanzio o Priscilliano?, in Rivista di scienza delle religioni, I (1916), p. 41 segg.; Z. G. Villada, Hist. ecles. de España, i, ii, Madrid 1929, pp. 91-145, 357-361; M. Niccoli, Il delitto di eresia alla fine del sec. IV in relazione al processo di Priscilliano, in Communications présentées au VIIe Congrès des sciences historiques, I, Varsavia 1933, p. 239 segg.