PREDICAZIONE

Enciclopedia Italiana (1935)

PREDICAZIONE

Giuseppe De Luca

. Il cristianesimo primitivo fu tutto una predicazione e, com'è noto, la parola stessa "vangelo" val quanto "annunzio". Della predicazione di Gesù Cristo basti ricordare i caratteri più salienti: essa era lo scopo della sua venuta (ideo missus sum; Luca, IV, 43); era nel nome e per autorità di Dio; era non soltanto la verità, ma la vita e la via alla salvezza; non ammetteva renitenza, il rifiutarla equivalendo a essere condannati (v. gesù cristo). Il contenuto della sua predicazione, secondo la teologia cattolica, è passato per intero ed esclusivamente nella "tradizione", custodita dalla Chiesa e da essa difesa e diffusa. Secondo la critica liberale, quel contenuto non si riescirebbe ancora a delimitare e discernere con precisione, né avrebbe molto da vedere con la Chiesa successiva, e tanto meno con l'ulteriore sviluppo di questa nei secoli. Nel primo tempo cristiano la predicazione era per gli apostoli l'ufficio principalissimo, tanto che lasciavano l'amministrazione dei sacramenti anche ad altri per esser liberi di predicare. La vocazione loro, sia dei primi sia di S. Paolo, fu essenzialmente vocazione a predicare; S. Paolo (Romani, X) vede nella predicazione l'imprescindibile mezzo di apostolato cristiano, e lo scrivere fu allora cosa occasionale, né mai troppo calcolata, sia nei secoli più vicini a Cristo sia dopo. S. Tommaso (Summa Theologica, p. III, q. 42, a. 4) studierà poi le ragioni per cui né Cristo scrisse né la Chiesa, ordinariamente, si affida allo scritto; si pensi, infatti, che anche la definizione e proclamazione del domma ex cathedra, nella sua forma più consueta, è orale. Il contenuto della prima predicazione cristiana è riassunto dal Harnack (Mission und Ausbreitung des Christentums, I, 4ª ed., Lipsia 1924, p. 111 segg.) le cui conclusioni sono state sostanzialmente accolte da studiosi di ogni tendenza.

La predicazione, non tanto qua e là nei singoli predicatori quanto nel suo complesso, rientra in parte nel magistero ordinario e universale della Chiesa. Il Concilio Vaticano (Const. Dei Filius, cap. III) impone ai fedeli l'obbligo di "credere fide divina et catholica tutto ciò che si contiene nella parola di Dio sia scritta sia tramandata, e che dalla Chiesa, o con giudizio solenne o attraverso il magistero ordinario e universale, è proposto a credersi come rivelato da Dio". Nei "giudizî solenni" i teologi riconoscono le definizioni dei romani pontefici e dei concilî specialmente ecumenici; nel "magistero" ordinario e universale" vedono l'azione, per dir così, quotidiana, che dappertutto svolge l'episcopato cattolico, con a capo il papa, per la tutela, la diffusione e l'osservanza pratica della fede cristiana. "Tuttavia (codesto magistero ordinario) non si manifesta esclusivamente attraverso la voce del corpo episcopale. Tutti coloro che hanno ricevuto dal papa e dai vescovi la missione o la permissione d'insegnare la religione di Gesù Cristo, e principalmente i curati e i teologi, concorrono a questo insegnamento, in qualità di echi e ministri del papa e dei vescovi" (I.-M.-A. Vacant). Lo stesso teologo, illustrando la dottrina e la portata del concilio medesimo, afferma non essere codesto magistero ordinario altra cosa "se non quello di cui tutta la Chiesa ci offre continuamente lo spettacolo, allorché la vediamo parlare..., mettersi a disposizione di tutti"; afferma che c'è sempre stato allo stesso modo; che sempre se n'è riconosciuta l'autorità infallibile; che risponde alla categorica ingiunzione di Cristo (cfr. Matteo, XXVIII, 19-20); che ha. preceduto le definizioni solenni, trovandosi a essere "la prima regola di fede di cui i Padri abbiano invocato l'autorità" (cfr. Ignazio, Ad Ephes., nn. 3-4, 6; Ireneo, Adv. Haer., III, 3; ecc.). Ora, fra le diverse attribuzioni di siffatto magistero (dottrinarie, legislative, giudiziarie), la predicazione non ha l'ultimo posto. Si comprende, in conseguenza, la cura e la cautela con la quale la Chiesa la dirige e regola.

Sicché il predicatore cattolico è, in questo compito, subordinato al vescovo, partecipando all'ufficio o dovere che il vescovo ha in proposito, non però al suo diritto, o autorità di giudice; ed è organo vivo o, meglio, officiale esecutore del corpo insegnante. Come Cristo, il predicatore non offre nulla di suo, ma trasmette la parola che inizialmente è da Dio, e sempre è di Dio. I passi giovannei, per il Cristo, sono chiarissimi (Giovanni, VII, 16; XIV, 10), e concordano con parole ancora più decisive di S. Paolo: "pro Christo legatione fungimur, tamquam Deo exhortante per nos" (II Cor., V, 20, e cfr. XIII, 3); e "accepistis illud non ut verbum hominum sed... Dei" (Galati, IV, 14). Che è la dottrina attuale della Chiesa.

Per la prassi e la parte giuridica della predicazione, bisogna tener presente che il magistero ecclesiastico si ritiene custode esclusivo, autorevole e infallibile della tradizione, e quindi della predicazione; questo è uno dei cardini della costituzione ecclesiastica. Di qui la distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente; di qui le lotte, spesso rinate nella Chiesa a distanza di secoli, per fare della predicazione un diritto personale di tutti i cristiani e non soltanto la prerogativa del sacerdozio. Il diritto attuale della Chiesa è questo: il ministero della predicazione è commesso precipuamente al romano pontefice per tutta la Chiesa, ai vescovi per le loro diocesi (Codex iuris canonici, can. 1327, §1); altri non possono esercitarlo senza una missione canonica (ivi, can. 1328; e cfr. can. 529, 1337, 1338, per coloro che possono concederla; e can. 1342, 1340, §1, 1339, per coloro che possono ottenerla).

Il Concilio di Trento, sess. V, c. 2, fa della predicazione "praecipuum episcoporum munus", come S. Tommaso l'aveva detto "officium principalissimum" degli Apostoli (Summa theol., p. III, q. 67, a. 2, ad 1). Lo stesso Concilio, sess. XXIII, c.1, afferma che la predicazione è precetto divino per coloro che hanno cura d'anime; e il Codex iur. can., can. 1344, prescrive al parroco la "consueta omilia" nelle domeniche e feste, durante la messa principale; seguendo in ciò una tradizione molto antica nella Chiesa. Tale prescrizione è gravissima: S. Alfonso nella sua Morale (III, n. 269) non esita a ritener colpevole di peccato mortale il parroco che o per tutto intero un mese, o discontinuamente per tre mesi, abbia trascurato questo dovere. E ciò indipendentemente dall'istruzione catechistica, che è altra obbligazione, sebbene analoga.

Circa il contenuto della predicazione cristiana, cfr. Codex iur. ca7i., can. 1347, dove è detto essere "ciò che i fedeli debbono credere e fare per salvarsi"; ivi inoltre si raccomanda di schivare "profani e astrusi argomenti", come pure il "profano apparato e lenocinio d'un'eloquenza vana e ambiziosa". Tra le norme promulgate dalla Sacra Congregazione concistoriale, in data 28 giugno 1917, l'art. 20 prescrive che "gli argomenti delle prediche devono essere essenzialmente sacri. Se un predicatore volesse trattare altri argomenti non strettamente sacri, sempre tuttavia convenienti alla casa di Dio, occorre licenza dell'Ordinario. A tutti i predicatori, comunque, è assolutamente e affatto proibito trattare di politica in chiesa". E l'art. 21 prescrive inoltre che il permesso del vescovo è richiesto anche per i cosiddetti elogi funebri.

Le fonti della predicazione cristiana sono la Sacra Scrittura; la Liturgia; i Ss. Padri e Dottori; le decisioni della S. Sede, dei concilî e dei sinodi diocesani o provinciali; l'insegnamento teologico. Ma dell'insegnamento teologico bisogna dare non le opinioni controverse e le dispute scolastiche, ma ciò che è indiscutibile e universalmente certo; ciò che è insomma dommatico. Ottima fonte è anche la storia della Chiesa, particolarmente dei suoi santi, incominciando dalla vita storica di Gesù, e con particolare preferenza alla Vergine e al mistero della sua maternità divina e umana. Inoltre, tanto il Sacrificio quanto i Sacramenti debbono essere di continuo presenti e trattati nella predicazione, che non deve trascurare le particolari condizioni intellettuali e morali degli ascoltatori.

Varie sono le forme pratiche della predicazione cristiana; molte provengono dall'antica retorica o dall'antica scuola, come, per es., il panegirico e il catechismo. Quest'ultimo è nettamente una istruzione, oggi divenuta elementare perché rivolta ormai a bambini; ma in antico, appunto perché rivolta ad adulti, era anche una forma superiore di predicazione. Le varie forme o generi della predicazione seguono le varie circostanze: omilia (v.) è, di regola, del vescovo o dei parroci nella spiegazione del Vangelo; meditazione ha carattere riflessivo e privato; riforma, carattere moralistico e ascetico; fervorino è un breve e caldo incitamento, di solito prima della Comunione. Di recente, ha fatto il suo ingresso nell'oratoria sacra lȧ conferenza. I periodi in cui la Chiesa vuole che più si predichi sono la Quaresima e l'Avvento (Codex iur. can., can. 1346): sono perciò sorti i corsi di predicazione tenuti in tali tempi, e che hanno il nome di quaresimali e di avventi. La devozione privata per talune ricorrenze ha creato altre serie: i tridui, i novenarî, gli ottavarî, i mesi; e così molte predicazioni restano concluse sotto codesti termini. Particolare menzione meritano le predicazioni chiuse degli Esercizî spirituali o Ritiri; o si facciano per la prima Comunione, o per obbligo di vita sacerdotale e religiosa, o per devozione. Né si dimentichino talune predicazioni, come quella delle "tre ore d'agonia" nel Venerdì Santo, reliquie d'antichi riti e rappresentazioni. Così la via crucis predicata, per esempio. Recentissimi sono i tentativi di predicazione per radio. La predicazione è di tipo vario: dogmatica, quando illustra ed enuclea le verità di fede; apologetica, quando le difende e propugna; morale, quando espone e inculca i precetti di Dio e della Chiesa; esegetica, quando commenta la Sacra Scrittura; oppure, come abbiamo veduto, si adatta alle varie circostanze liturgiche, sociali e anche individuali; e le interpreta. Le leggi che governano la predicazione sono variamente state dette e ridette in tutti i secoli; in realtà, si riducono all'effato antico: ut veritas christiana pateat, placeat, moveat. Qualora non sia chiara, o dispiaccia o non porti gli uditori alla pratica, vien meno ai suoi fini.

Non è da trascurare un altro aspetto della predicazione, cioè quello missionario, intendendo per missione non soltanto la predicazione agl'infedeli in terre lontane, ma anche quelle particolari forme, più solenni e periodiche, di predicazione che si tengono in un paese o in una parrocchia, con speciali segni di penitenza e straordinario apparato esteriore. Grandi congregazioni religiose (come, per es., i gesuiti e i redentoristi) sono sorte, tra i secoli XVI-XIX, con questo scopo; e come nel sec. XIII si ebbe l'ordine dei domenicani (v.), detto anche dei "predicatori", che agì contro l'eresia, così nel sec. XIV e più nel XV si ebbero grandi predicatori tra i frati minori, che percorrevano i paesi cristiani per risollevare lo spirito cristiano tra i popoli. Una forma caratteristica, specialmente usata in queste missioni, è il dialogo tra il dotto e l'ignorante; altra forma, la predica coronata da atti di penitenza del predicatore (in antico, anche del popolo), oggi caduta pressoché in disuso.

I difetti della predicazione cristiana nei varî secoli non furono pochi: fin dai primissimi tempi non è difficile incontrarsi in condanne di falsi e tendenziosi predicatori, sia per la sostanza sia per la forma. Ne è nata tutta una letteratura, non soltanto ecclesiastica, sopra le regole della buona predicazione. S. Gregorio Nazianzeno, nel discorso 27 (e cfr., inoltre, il 20 e il 32); S. Giovanni Crisostomo nel trattato Sul sacerdozio (libri IV e V); S. Agostino nel De doctrina christiana (libro IV, che è dell'anno 427) e nel De catechizandis rudibus; S. Gregorio Magno, nel 3° libro della Regula pastoralis, sono i più antichi e autorevoli maestri. Una buona messe di notizie antiche a tal riguardo è raccolta in Patrologia Latina, CCXXI, coll. 10-70; negli ultimi tempi poi è intervenuta la Chiesa, a dare ordini e direttive molto precisamente: cfr., a tal proposito, Fontes iuris can., relativi ai canoni citati.

Se nell'antichità cristiana la predicazione spesso si trovò legata e anche racchiusa nella liturgia, nel Medioevo invece e nell'età moderna ne è quasi del tutto fuori: solamente brani d'antiche omilie sono restate nell'ufficio (v. breviario). Tuttavia ci sono tempi, nel rito, in cui la predica è in genere o suggerita o inclusa: classico esempio è nei giorni festivi o quaresimali la "spiegazione del Vangelo" o omilia durante la Messa, dopo la lettura del Vangelo e prima della recita del Credo.

Dell'antica predicazione cristiana ci restano formule piuttosto d'istruzione che non di predicazione vera e propria, ad es., la Didachè (v. apostolo, III, 710), prescindendo dalle reliquie della predicazione di Gesù nei Vangeli (notevoli il discorso della montagna in Matteo, dell'ultima Cena in Giovanni) e da quelle di Pietro, di Stefano e di Paolo (per es., all'areopago), negli Atti. È noto, peraltro, che i Vangeli stessi raccolgono la prima predicazione apostolica, e ne sono compendî e ricordi. Nel Pastore di Erma il lato omiletico è scarso: negli apologisti si possono raccogliere echi della predicazione, ma indirettamente: più ricca messe offrono gli apocrifi, tra i quali insigni i frammenti del Κήρυγηα Πέτρου (v. apocrifi). Le lettere degli apostoli, com'è noto, si leggevano alla comunità, costituendo anch'esse un mezzo della predicazione; e qualcuno ha veduto, nelle lettere di Paolo, lo specchio della sua predicazione orale. Quali siano i rapporti di questa primitiva predicazione con il culto giudaico nelle sinagoghe, non ancora è sufficientemente studiato, mentre si sono fatti varî tentativi, sulle tracce del Norden e del Blass, di riaccostamenti alle tradizioni classiche, tanto greche quanto romane, della prosa d'arte. Uno dei primi esempî di predica è la II Corinzi di Clemente Romano, che si suol assegnare alla metà del sec. II. Con Origene si hanno forme già adulte di omilia esegetica, e di disputatio o διάλεξις. Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo ci dànno una predicazione teologica più che esegetica; e Giovanni Crisostomo, nella sua predicazione, accoglie e porta alla perfezione questa forma oratoria, piuttosto sul lato morale. In Occidente, da Novaziano a S. Ambrogio, in genere si imita l'Oriente; con S. Girolamo (nelle prediche ritrovate dal Morin), e più assai con S. Agostino, si hanno voci spontanee. Questo per la predicazione esegetica: per quella a tipo retorico, le testimonianze antiche sono più frequenti, sia tra i Greci sia tra i Latini; ma anche qui la perfezione fu toccata nel sec. IV e dagli stessi oratori citati per l'esegesi. La predicazione a tipo ascetico, che tanto sviluppo doveva conseguire più tardi, è attestata per gli ambienti del primo monachismo da frammenti di Pacomio (v.), da prediche di Macario Egiziano (morto circa il 391) e altro. Presso i Siri Afraate il "Sapiente Persiano" ed Efrem furono i migliori; notevoli le prediche metriche di Giacobbe di Sarūg (v.).

Dopo il crollo del mondo romano, nel primo Medioevo sia bizantino sia latino nuove forme oratorie non sorgono; e soltanto viene lentamente modificandosi il contenuto: dalla teologia si passa insensibilmente alla devozione, dalla controversia alle effusioni mistiche, e, più tardi, dalla liturgia alle devozioni private. Ricordare gli oratori del Medioevo sarebbe lungo; basterà dire che l'oratoria seguì anche allora la retorica del tempo: e quindi indulse alla prosa rimata e persino metrica, agli exempla e alle regole delle artes dicendi o dictaminis. Col rifiorire della Scolastica, si introdussero le analisi dei concetti e le divisioni dialettiche o semplicemente mnemoniche; più tardi, vi entrarono gli umori delle varie scuole. Lungo il Duecento, per l'inerzia del clero e i moti mistici propagatisi tra le plebi, sorsero predicatori popolari: e S. Franceseo, pur con l'ossequio massimo alla gerarchia, fu di questi. I domenicani (predicator") invece mirarono piuttosto alla scuola. Nel Rinascimento, a parte i grandi oratori domenicani (S. Vincenzo Ferreri) e francescani (S. Bernardino da Siena, S. Giovanni da Capistrano, S. Giacomo della Marca, B. Bernardino da Feltre, ecc.), l'oratoria soggiacque a contaminazioni umanistiche: sono note in proposito le irrisioni di Erasmo. Ma il latino aveva già quasi perduto terreno, e ormai dappertutto, e non solo al popolo, si parlava nelle lingue romanze e volgari. L'oratoria, da allora, è divenuta un "genere" nelle diverse letterature. È necessario tener presente che la Chiesa docente, pur ritenendosi esclusiva depositaria del "munus praedicandi", più d'una volta permise nei tempi antichi che lo esercitassero anche i laici.

V. anche oratoria.

Bibl.: E. Norden, Die antike Kunstprosa, voll. 2, 4ª ed., Lipsia 1923 (tutto il 2° volume); id., Agnostos Theos: Untersuchungen zur Formengeschichte religiöser Rede, 2ª ed., Lipsia 1929; F. Probst, Lehre und Gebet, Tubinga 1871 (specie i §L§ 52-69); in particolare per l'Italia, A. Galletti, L'Eloquenza, Milano s. a.; e, dopo il concilio di Trento, E. Santini, L'eloquenza italiana dal Conc. Tridentino ai nostri giorni, II, Palermo 1923. Per le norme, le teorie e relativa bibliografia, cfr. A. Meyenberg, Studi omiletici, vers. ital., Roma 1909.