POTERI

Enciclopedia Italiana (1935)

POTERI

Donato DONATI
Francesco ROVELLI
Giovanni SALEMI
Guido ZANOBINI

Divisione dei poteri. - Distinta dalla dottrina puramente giuridica e teorica della classificazione delle funzioni dello stato nelle tre attività legislativa, esecutiva e giurisdizionale, la teoria della divisione dei poteri ha un contenuto prevalentemente politico e pratico: essa vuole indicare il principio fondamentale che dovrebbe essere a base di ogni stato sanamente ordinato. Nella distribuzione delle tre funzionì in tre poteri, o gruppi di organi, diversi e fra loro indipendenti, consisterebbe la massima garanzia per le libertà e per i diritti dei cittadini. Sebbene la prima formulazione di questa dottrina si faccia da alcuni risalire ad Aristotele, tuttavia la sua origine è molto più recente: Aristotele distinse, è vero, nello stato l'assemblea cui incombeva di deliberare intorno agli affari più importanti, i funzionarî per il disbrigo degli affari ordinarî, e infine, i giudici: si trattava in tale distinzione di una constatazione di fatto e non dell'affermazione di un principio; e la competenza di ciascuno dei tre organi neppure era determinata secondo la natura intrinseca degli atti, ma solo in base all'ordinamento positivo dello stato ateniese. Le prime affermazioni della necessità della separazione istituzionale delle funzioni in organi diversi, si trovano negli scrittori inglesi dei secoli XVI e XVII, massime nel Buchanan e nel Locke. Verso la metà del secolo successivo, C. de Montesquieu doveva in Francia dare della dottrina della divisione dei poteri la più precisa e suggestiva formulazione, tanto che la dottrina stessa restò in seguito legata indissolubilmente al suo nome e sotto il suo nome è oggi conosciuta in ogni letteratura. Secondo le parole del Montesquieu, in un buon ordinamento politico è necessario che il potere attribuito a un'autorità trovi un limite in quello di un'altra autorità, in modo che l'un potere arresti l'altro. "Quando nella stessa persona o nel medesimo corpo di magistratura, la potestà legislativa è unita alla potestà esecutiva, non c'è libertà, perché c'è da temere che il medesimo monarca o il medesimo senato faccia leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Ancora non c'è libertà se la potestà di giudicare non è separata da quella legislativa o dalla potestà esecutiva. Se fosse congiunta alla potestà. legislativa, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, perché il giudice sarebbe legislatore. Se essa fosse congiunta alla potestà esecutiva, il giudice avrebbe la forza di un oppressore. Tutto poi sarebbe perduto, se il medesimo uomo o il medesimo corpo di nobili o del popolo esercitasse tutte e tre le funzioni".

Propagata in un tempo in cui grave e doloroso era diventato l'assolutismo regio, forti e vive le aspirazioni verso forme più libere di governo, non può meravigliare la grande fortuna acquistata in Francia e fuori dalla dottrina dei tre poteri. Desunta, almeno secondo l'autore, da quello che allora si stimava il modello di ogni perfezione politica, la costituzione inglese, essa fu posta a base delle nuove costituzioni delle colonie americane del nord (Massachusetts, 1780), le quali, emancipate allora dalla soggezione della madrepatria, volevano far rivivere nelle loro autonomie, le secolari istituzioni di essa. Successivamente, in Francia, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, pure ispirandosi in prevalenza alle teorie giusnaturalistiche del Rousseau, faceva della dottrina del Montesquieu il presupposto di ogni costituzione politica: "toute societé, dans laquelle la garantie des droits n'est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs determinée, n'a pas de constitution" (art. 16). Proposizione errata senza dubbio, perché ogni stato in quanto tale, cioè giuridicamente ordinato, ha la sua costituzione e ha un proprio diritto costituzionale. Ma essa prova l'importanza che fin da allora avevano conseguito i principî ricordati e vale forse a spiegare il titolo di "stato costituzionale", riservato più tardi e oggi stesso a quella forma di stato in cui quei principî si trovano attuati. In seguito, poi, tutte le carte che si succedettero in Francia durante e dopo la rivoluzione, tutte quelle che fuori vennero emanate nel secolo XIX, non escluso lo statuto italiano, e quelle ancora con cui, dopo la guerra mondiale, si ordinarono nuovi stati e alcuni degli antichi si rinnovarono, tutte hanno accolto più o meno palesemente, con maggiori o minori temperamenti, questa dottrina; onde si comprende quale sia l'importanza che assume la dottrina stessa nel diritto pubblico moderno d'ogni paese civile. A tanta fortuna pratica non si può dire invece che abbia corrisposto un eguale favore da parte della scienza giuridica. La stessa letteratura francese, che pure ha in genere parole di grande ammirazione ed esaltazione per la dottrina del Montesquieu, presenta non poche voci dissenzienti e talora scettiche addirittura (vedi sopra tutti F. Moreau e L. Duguit, nelle opere citate in bibl.). Contraria quasi in ogni tempo si è dimostrata poi la dottrina tedesca; in parte contraria quella italiana (basti il severo giudizio di V. E. Orlando) e quella americana (W. Wilson).

Accenniamo ai pregi e ai difetti che più concordemente vengono attribuiti alla dottrina in esame. Il pregio fondamentale, che non può essere da nessuno negato, consiste nella sua efficacia giuridica di garanzia. I diritti subiettivi dei cittadini verso lo stato non sono garantiti, e quindi non esistono come diritti, se non in forza della discriminazione formale degli atti in cui si concreta la volontà dello stato; e tale discriminazione formale non si è mai realizzata in modo più perfetto che con la divisione subiettiva delle competenze. La dottrina tedesca, che pure ha tanto combattuto la divisione dei poteri, ha tuttavia costruito su di essa la sua teoria dello "stato giuridico", ossia dello stato che agisce nei limiti del diritto al pari degli altri soggetti che vivono nel suo ordinamento.

Le critiche che, nonostante questo decisivo valore, sono state rivolte contro la dottrina, hanno contenuto in parte giuridico, in parte politico. Dal punto di vista giuridico, si è detto principalmente: 1. che la divisione dei poteri, importando la coesistenza nello stato di tre poteri eguali fra loro, separati e indipendenti, contraddice all'unità organica dello stato e praticamente la distrugge; 2. che il principio è inconciliabile con l'esistenza di una quantità di atti di carattere misto o indefinito, che la dottrina delle funzioni dello stato non può classificare in nessuna delle tre categorie; 3. che ragioni pratiche esigono spesso che atti per natura appartenenti a una funzione siano affidati a organi di un potere diverso da quello, a cui per tale appartenenza spetterebbero. Così a quest'ultimo proposito, si fa l'esempio del bilancio, che è atto amministrativo e che pure è opportuno sottoporre all'approvazione del potere legislativo; di alcune norme giuridiche di contenuto prevalentemente tecnico, che, meglio che dal potere legislativo, vengono elaborate dall'esecutivo; di alcuni giudizî i quali, perché non sia compromessa l'indipendenza del potere esecutivo, debbono essere sottratti al potere giudiziario e attribuiti a speciali tribunali amministrativi.

Non si può negare che la dottrina della divisione dei poteri, così come fu originariamente formulata, nella sua rigidità meccacanica, giustifichi queste critiche.

Ciò nonostante è noto che la dottrina è stata attuata in tutti gli ordinamenti (meno forse in quello degli Stati Uniti) con una serie di temperamenti e di adattamenti, i quali, senza distruggere l'essenza del principio, ne hanno fortemente attenuato gli accennati difetti. A proposito dei tre punti di critica riferiti, si può pertanto rilevare, che, se pure è vero che il principio potrebbe essere in sé contrario all'unità dello stato, tale inconveniente resta eliminato dalla esistenza istituzionale di un'autorità di collegamento e di coordinazione organica, comune ai tre poteri. Quest'autorità è, per lo statuto italiano, il re. Infatti, egli partecipa del potere legislativo (stat., art. 3); è capo del potere esecutivo (art. 5) e presiede alla giustizia, che è dai giudici amministrata in suo nome (art. 68). Il re è quindi il centro dell'organizzazione statale, quello in cui i tre poteri convergono: e, se si tiene conto che ogni attività del re è anche attività del suo governo (stat. art. 67; legge 24 dicembre 1925, n. 2263, art.1) si vede: 1. come questa funzione di collegamento non sia soltanto formale, né soltanto propria di un organo per la sua posizione irresponsabile; 2. che, quanto alle figure miste, il problema cui esse dànno luogo si risolve praticamente attribuendo la relativa attività a quello fra i poteri, alle cui funzioni più direttamente si avvicina o per la sua natura o per il principio di accessorietà (così le leggi che sono anche atti amministrativi si attribuiscono di preferenza al potere legislativo; la polizia giudiziaria sarà bene attribuita quando sia posta alla dipendenza di organi dell'ordine giudiziario, ecc.); 3. che se poi si dimostri l'opportunità di veri e proprî spostamenti di competenza dall'uno all'altro potere, questi possono essere stabiliti dalla costituzione, purché conservino il carattere di eccezioni, senza distruggere l'essenza e il fine supremo del principio. Perciò, è da ritenere che questo non sia venuto meno anche se, come avviene in tutti gli ordinamenti moderni, i bilanci e i conti dello stato debbono essere approvati dal potere legislativo (stat., art. 10); mentre viceversa una quantità dì norme giuridiche (regolamenti) vengono emanate dal potere esecutivo (art. 6) e organi giurisdizionali sono costituiti eccezionalmente in seno al potere legislativo e all'esecutivo (stat., art. 36, 47; legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, art. 12; testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, art. 26 segg., ecc.). Il principio è rimasto sostanzialmente salvo anche dopo la legge 31 gennaio 1926, n. 100, con la quale, oltre a darsi maggiore estensione alla facoltà regolamentare dell'esecutivo (art.1), è stata ad esso riconosciuta la facoltà di emanare atti aventi forza di legge formale, nel caso di delega del parlamento e in quello di urgente necessità (art. 3). L'eccezionalità di tale competenza e le condizioni a cui l'esercizio di essa è subordinato, fanno ritenere in vigore il principio che la funzione legislativa spetti come regola al potere legislativo.

Più gravi, perché più sostanziali, sono le critiche mosse alla dottrina in esame dal punto di vista politico, sebbene alcune restino attenuate dai temperamenti pratici accennati. È stato specialmente rimproverato alla dottrina di avere diminuito il senso di responsabilità degli organi dello stato, moltiplicando le autorità supreme e quindi indipendenti e irresponsabili. In secondo luogo, si è detto che essa ha contribuito a indebolire l'autorità dello stato, dividendo quelle forze che sono la sorgente di tale autorità; mentre, d'altra parte, ha reso lenta e densa di difficoltà formalistiche qualunque azione delle autorità stesse. Sempre dal punto di vista politico, il principio della divisione doveva condurre fatalmente al regime parlamentare, con tutte le sue conseguenze. Lo stesso Montesquieu aveva preveduto che l'equilibrio perpetuo fra i tre poteri non sarebbe stato possibile, perché presto o tardi uno dei tre avrebbe finito per prendere il sopravvento sugli altri: e questo sarebbe stato il potere legislativo, sia per la natura dei suoi atti, sia per l'origine popolare della sua formazione. Tutti gli stati costituzionali, con la comune degenerazione nel parlamentarismo e nel dispotismo delle rappresentanze politiche, hanno dimostrato come le previsioni fossero da questo lato meno gravi di quello che è stata la realtà.

Lo stato fascista non ha abolito il principio, ma piuttosto, da un lato, ne ha spostato le basi politiche di funzionamento, allo scopo di eliminarne, fin dove possibile, gli originali pericoli; dall'altro ne ha maggiormente assicurata l'attuazione con la creazione di un nuovo organo costituzionale. Hanno avuto il primo scopo specialmente: la legge 24 dicembre 1925, n. 2263, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, che ha assicurato in modo istituzionale l'indipendenza del potere esecutivo da quello legislativo e la sua preminenza nell'ordinamento costituzionale italiano; e la legge 17 maggio 1928, n. 1019, per la riforma della rappresentanza politica, che ha dato alla camera elettiva una base prevalentemente economica sindacale, in luogo di quella esclusivamente politica dei precedenti regimi. Siccome, poi, l'attuazione del principio implica il moltiplicarsi del numero degli organi costituzionali e quindi delle distinzioni formali fra gli atti della sovranità, rappresenta un progresso in tale attuazione la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, sul Gran Consiglio del fascismo. Un nuovo organo costituzionale con essa è stato aggiunto ai quattro tradizionali; una nuova distinzione è stata introdotta negli atti legislativi, fra leggi ordinarie, nelle quali non interviene il Gran Consiglio, e leggi costituzionali, nelle quali, tale intervento, sebbene in maniera solo consultiva, è richiesto. Con ciò è stata creata non solo la garanzia della costituzionalità intrinseca delle leggi, ma anche la garanzia di tutte le competenze e le prerogative dei singoli poteri dello stato.

Potere legislativo. - L'espressione "potere legislativo" viene usata a indicare, da un lato la competenza a esercitare funzione legislativa (cfr. stat., art. 3), dall'altro il complesso degli organi ai quali la funzione stessa è affidata in via normale. Sul potere legislativo nel primo senso v. legge. Qui si ha riguardo al potere legislativo nel secondo senso.

Nella costituzione italiana il potere legislativo è composto di tre organi costituzionali: il re, il senato e la camera dei deputati (stat., art. 3). Inoltre ad esso partecipano a titolo accessorio: il corpo elettorale, in quanto procede all'elezione della camera dei deputati ed è rappresentato dalla medesima; i ministri, in quanto collaborano agli atti del re come organo legislativo e lo rappresentano in tale qualità; il Gran Consiglio del fascismo, in quanto pronuncia pareri obbligatorî sulle proposte di legge aventi carattere costituzionale (art. 12 legge 9 dicembre 1928, n. 2693). Al re è assegnata la posizione di capo del potere legislativo. In tale veste egli ha attribuzioni particolari rispetto agli organi e rispetto all'attività del potere legislativo. Rispetto agli organi, appartiene al re convocare annualmente le camere, aprire, prorogare, chiudere le sessioni delle medesime, sciogliere la camera dei deputati e convocare il corpo elettorale per l'elezione di una nuova camera (stat., art. 9). Rispetto all'attività legislativa il re promulga le leggi (stat., art. 7), approva a mezzo del primo ministro l'ordine del giorno delle camere e può richiedere con lo stesso mezzo che una proposta di legge rigettata da una camera sia nuovamente messa in votazione dopo almeno tre mesi oppure venga ugualmente trasmessa all'altra camera (art. 6, legge 24 dicembre 1925, n. 2263).

La competenza del potere legislativo è determinata in conformità al principio della divisione dei poteri. Essa comprende di regola la funzione legislativa in generale, la quale è in via normale ad essa assegnata (stat., art. 3). Per eccezione la competenza del potere legislativo si estende a determinati atti delle altre due funzioni fondamentali dello stato e reciprocamente da essa restano esclusi determinati atti di funzione legislativa, attribuiti agli altri due poteri fondamentali. Con particolare riguardo alla funzione legislativa, questa è attribuita in generale al potere legislativo nelle due specie di funzione legislativa costituzionale e funzione legislativa ordinaria, ché a esse non corrisponde nel nostro ordinamento la suddistinzione organica fra potere costituente e potere legislativo ordinario.

Quanto al procedimento per l'esercizio da parte del potere legislativo delle proprie attribuzioni, basta rilevare che in ordine alle medesime i tre organi del potere legislativo si trovano di massima in una posizione di assoluta uguaglianza (stat., art. 3). A tale principio sono eccezioni l'iniziativa riservata al re in talune materie e la precedenza attribuita alla camera dei deputati nell'approvazione delle proposte di legge di carattere finanziario (stat., art. 10). Su questi due punti, per gli altri momenti del procedimento legislativo e in ispecie per le differenze di questo rispetto alle leggi costituzionali e ordinarie, v. legge.

Nelle costituzioni straniere l'ordinamento del potere legislativo presenta notevoli varietà nell'ambito dei principî fondamentali comuni. Limitandoci ad alcuni punti di maggior rilievo, è anzitutto da notare che molte costituzioni sanciscono la suddistinzione organica fra potere costituente e potere legislativo ordinario. Riguardo al primo, v. costituente; costituzione. Riguardo al secondo o all'unico potere legislativo, è principio comune a tutte le costituzioni moderne che di esso faccia parte una camera eletta dal corpo popolare e rappresentativa del medesimo (principio del governo rappresentativo). Nelle costituzioni repubblicane la camera rappresentativa del corpo popolare è talora organo unico del potere legislativo (sistema unicamerale: es., costituzione francese del 1848 e attualmente stati baltici). Più spesso, e anzi normalmente, sia nelle costituzioni repubblicane sia in quelle monarchiche, alla camera rappresentativa del corpo popolare si aggiunge una seconda camera (sistema bicamerale), che può essere a sua volta un'assemblea del pari rappresentativa o dello stesso corpo popolare o, più di frequente, di enti diversi, per es., nelle costituzioni federali degli stati particolari (senato nordamericano, consiglio degli stati svizzero), oppure può essere un'assemblea non rappresentativa (camera dei lord). Inoltre nelle costituzioni monarchiche fa di solito parte del potere legislativo anche il re, che è a un tempo capo del potere esecutivo (Inghilterra, Belgio), laddove nelle costituzioni repubblicane, ispirate più rigidamente al principio della divisione dei poteri, al presidente, capo del potere esecutivo, è al più riconosciuta soltanto una facoltà negativa di veto rispetto alle deliberazioni del potere legislativo (Stati Uniti, Germania).

Potere esecutivo. - Secondo l'originaria formulazione della dottrina della divisione dei poteri, all'esecutivo dovrebbe appartenere soltanto la funzione, tipicamente subordinata e vincolata, di portare a esecuzione la volontà dello stato, quale viene formata e manifestata dal potere legislativo. La realtà costituzionale di tutti gli stati moderni, compresi quelli nei quali la divisione dei poteri ha trovato più completa attuazione, dimostra che ben più decisivo e più elevato è il compito del potere esecutivo, il quale costituisce la vita reale ed effettiva dello stato, la forza e l'attività destinate a realizzare, da un lato, l'ordine e la pace sociale, dall'altro, il benessere e il progresso materiale e morale dello stato, la sua indipendenza politica, l'espansione della sua potenza e della sua civiltà nel mondo. La funzione esecutiva viene, perciò, definita come l'attività pratica per mezzo della quale lo stato cura il conseguimento dei suoi fini concreti. Il rapporto, che intercede fra la funzione legislativa e l'esecutiva, consiste in ciò: che i fini che lo stato si propone, e spesso anche i mezzi per il loro conseguimento, sono determinati dallo stato stesso nella funzione legislativa: il potere esecutivo deve realizzare soltanto i fini in tal modo determinati e deve, inoltre, nella sua azione osservare i limiti, che derivano alla sua libertà, come a quella di qualunque altro soggetto, dall'intero ordinamento giuridico. Nell'adempimento del compito di attuare i fini voluti dal diritto, il potere esecutivo, dispone, tuttavia, di una larga libertà di scelta e di apprezzamento, la quale costituisce il suo potere discrezionale. Questo potere si presenta più o meno ampio, secondo che l'azione esecutiva ha per oggetto la direzione generale e suprema della vita dello stato considerato nella sua unità, oppure il semplice mantenimento dell'ordine pubblico e la cura dei bisogni fisici, economici e morali dei singoli. La prima costituisce la cosiddetta attività politica o di governo, è affidata quasi interamente agli organi costituzionali del potere esecutivo ed è sottratta ad ogni sindacato giurisdizionale; la seconda costituisce la comune attività amministrativa, esercitata così dagli organi supremi come da quelli subordinati e sempre sindacabile, almeno dal punto di vista della sua legittimità, dagli organi della giurisdizione ordinaria, o, secondo i casi, da quelli delle giurisdizioni speciali amministrative. Le costituzioni più recenti e in Italia la legge 31 gennaio 1926, n. 100, attribuiscono al potere esecutivo la facoltà di emanare norme giuridiche in alcuni casì aventi forza di legge; per questa competenza eccezionale v. decreto; delegazione; legge.

Secondo l'art. 5 dello statuto fondamentale del regno, "al re solo appartiene il potere esecutivo": la formula ha lo scopo di escludere da tale potere la partecipazione delle camere parlamentari, che invece è stabilita in modo espresso, per la funzione legislativa dal precedente art. 3. D'altra parte, che la funzione esecutiva non possa esaurirsi nell'opera del solo capo dello stato, risulta, oltreché dall'impossibilità logica e pratica, anche da espresse disposizioni legislative. Secondo l'articolo 67 dello stesso statuto, "le leggi e gli atti del governo non sono validi, se non recano la firma di un ministro; più recentemente, l'art. 1 della legge 24 dicembre 1925, n. 2265, ha precisato: "il re esercita il potere esecutivo per mezzo del suo governo. Il governo del re è formato dal primo ministro segretario di stato e dai ministri segretarî di stato". Inoltre, accanto al re e al governo, è organo costituzionale del potere esecutivo il Gran Consiglio del fascismo, ordinato con funzioni prevalentemente consultive mediante la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, presieduto di diritto dal capo del governo e da lui convocato quando lo crede necessario. Gli organi non costituzionali dello stesso potere esecutivo sono: i Ministeri, istituzioni complesse, formate da funzionarî burocratici e poste alla diretta dipendenza dei singoli ministri per coadiuvarli nell'esplicamento delle loro attività amministrative; il Consiglio di stato, massimo organo dell'amministrazione consultiva e della giurisdizione amministrativa: la Corte dei conti, organo di controllo sull'attività, specialmente finanziaria dei ministri. Oltre queste autorità centrali, il potere esecutivo risulta costituito da un complesso vastissimo di autorità, di funzionarî e di agenti, distribuiti su tutto il territorio dello stato e anche fuori di esso, ovunque siano fini dello stato da raggiungere o da curare. Ciascuna di tali autorità ha una competenza circoscritta entro una parte determinata del territorio dello stato: onde la qualifica, che loro è propria, di organi locali. Essi esplicano la loro attività sotto la dipendenza gerarchica di un determinato ministero, dalla cui azione direttiva viene limitato il relativo potere discrezionale. Fra queste autorità locali ha una posizione di particolare preminenza il prefetto, dichiarato dalla legge la più alta autorità dello stato nella provincia e il più diretto rappresentante del potere esecutivo (testo unico 3 marzo 1934, n. 383, art. 19). Il prefetto (v.), sebbene dipendente gerarchico del ministro dell'Interno, rappresenta l'autorità del governo nel suo complesso unitario e nelle sue potestà fondamentali: egli ha la vigilanza su tutti i servizî locali, da qualunque organo esercitati, tutela l'ordine pubblico, può emanare ordinanze di urgenza, ed eccezionalmente anche provvedimenti di carattere politico (art. 19, 20 del testo citato; art. 2, 214, 216 della legge di pubblica sicurezza, 18 giugno 1931, n. 1177).

Potere giudiziario. - Al terzo potere dello stato compete l'attuazione e la conservazione dell'ordine giuridico, attraverso l'interpretazione e l'applicazione ai singoli casi della volontà generale e astratta della legge. La funzione giurisdizionale è, perciò, attività concreta al pari di quella esecutiva: si distingue, tuttavia, da questa, perché non provvede al conseguimento di fini particolari, ma all'attuazione di quell'ordinamento che è un presupposto dei fini stessi, in quanto costituisce l'essenza e la condizione di vita dello stato. Si distingue, inoltre, ulteriormente da ambedue le altre funzioni, perché, mentre queste si concretano in atti di volontà, ora interamente liberi, ora parzialmente vincolati, la giurisdizione si estrinseca in atti logici di giudizio, in quanto si limita a dedurre dalla norma giuridica generale ciò che deve essere diritto per il caso concreto. Non avendo fini proprî da conseguire, la funzione giurisdizionale manca di propria iniziativa e spontaneità: essa agisce sempre in seguito a richiesta di altri soggetti, che dall'attuazione del diritto si propongono di conseguire la tutela o la realizzazione di proprî fini e interessi.

Le autorità, alle quali la funzione giurisdizionale è affidata come competenza generale e normale, costituiscono nel loro complesso il potere giudiziario. Secondo l'articolo 1 dell'ordinamento 30 dicembre 1923, n. 2786, esse sono: i conciliatori, i pretori, i tribunali civili e penali, le corti d'appello, le corti d'assise, la corte di cassazione del regno. Tutti questi organi comprendono, oltre le autorità, individuali o collegiali, alle quali è commesso il compito di giudicare, anche una serie di uffici ausiliarî, quali quello del pubblico ministero, rappresentante del potere esecutivo presso l'autorità giudiziaria e incaricato di far valere quegl'interessi pubblici che non sono rappresentati da una specifica amministrazione; gli uffici di cancelleria con funzioni prevalentemente certificative; e quelli degli ufficiali giudiziarî, incaricati della notificazione degli atti. Le autorità del potere giudiziario amministrano la giustizia in nome del re, dal quale essa emana e dal quale i giudici vengono istituiti, secondo la formula dell'art. 68 dello statuto. Questo principio non significa che al re spetti la funzione giurisdizionale, in modo che essa venga dai giudici esercitata in forza di una delegazione: siffatto concetto, proprio degli ordinamenti assoluti, sarebbe incompatibile coi principî costituzionali dello stato moderno. La formula ricordata ha lo scopo di dichiarare il carattere completamente statale della funzione giurisdizionale, escludendo che essa possa essere esercitata, come avveniva nei secoli passati, da altre organizzazioni diverse dallo stato o da persone che non agivano in qualità di organi suoi. Se tale principio comporta qualche eccezione (la giurisdizione arbitrale in forza di compromesso; la giurisdizione ecclesiastica sui matrimonî concordatarî), questa non può essere stabilita che per legge. Essendo la giurisdizione esercitata dai giudici per competenza propria, sarebbe illegittima così l'avocazione del suo esercizio da parte del re come qualunque altra deroga all'ordinamento giudiziario. Ciò è espresso dallo statuto stesso con l'art. 71: "nessuno può essere distolto dai suoi giudici naturali", cioè da quelli che sono competenti secondo l'ordinamento generale in vigore.

Con tutto ciò, l'autonomia del potere giudiziario non è così evidente come quella degli altri poteri dello stato: nessun organo costituzionale di esso fa parte e i suoi componentì sono nominati dal re col concorso del ministro di Grazia e Giustizia, al quale spetta anche di esercitare, in concorrenza con le stesse autorità giudiziarie superiori, la vigilanza sulla magistratura e di proporre i provvedimenti relativi alla carriera dei magistrati. Questi partecipano sostanzialmente dello stato giuridico degl'impiegati civili, dal quale tuttavia la loro condizione si distingue per una serie di guarentigie, stabilite in parte dallo statuto, in parte dalla legislazione successiva. Tale legislazione raggiunse la sua ultima sistemazione nel citato ordinamento giudiziario del 30 diembre 1923. Le condizioni di nomina e di carriera dei magistrati e il relativo stato giuridico ed economico non possono essere regolati se non per legge (art. 70 dello statuto; art.1, n. 3 della legge 31 gennaio 1926, n. 100). I giudici, nominati dal re, dopo tre anni di esercizio sono inamovibili, non possono cioè essere privati della loro carica o del loro stipendio, né senza il loro consenso posti in disponibilità, in aspettativa o a riposo, oppure trasferiti in altra sede, se non per cause ammesse dalla legge e secondo il provvedimento da essa prescritto (art. 69 dello statuto; art. 170 dell'ord. giud.). L'applicazione di qualunque pena disciplinare è fatta con procedimento giurisdizionale che si svolge, per i magistrati di grado non superiore al giudice, avanti un consiglio di disciplina, costituito presso ciascuna corte d'appello, e per i magistrati di grado superiore, avanti alla suprema corte disciplinare, costituita presso il Ministero di grazia e giustizia. I consigli di disciplina sono formati esclusivamente di magistrati (il presidente della corte d'appello, due presidenti di sezione, il presidente del tribunale e un consigliere d'appello); la suprema corte è formata di sei magistrati (fra cui il presidente della corte di cassazione e tre presidenti di sezione della medesima) e da sei senatori nominati con decreto reale previa deliberazione del Consiglio dei ministri. La suprema corte diciplinare ha anche la funzione di giudice d'appello per le sentenze emesse dai consigli di disciplina (art. 186 segg. dell'ord. giud.).

Bibl.: Aristotele, Politica, VI, 11; G. Buchanan, De iure regni apud Schotos, 1579, in Opera omnia, Edimburgo 1715; J. Locke, Two treatises on government, 1690; C. de Montesquieu, De l'esprit des lois, XI, 6, Parigi 1748; F. Heemskerk, Specimen inauguralis de Montesquivio, Amsterdam 1839; A. Malgarini, La divisione dei poteri nello stato attuale della dottrina e della legislazione, Palermo 1886; E. V. Orlando, Introduzione al trattato di dir. amministrtivo, da lui diretto, Milano 1897, pp. 23-32; H. Rehm, Allg. Staatslehre, Friburgo 1899, p. 215 segg.; L. Gumplovicz, Geschichte der Staatstheorien, Innsbruck 1905, p. 51 segg.; G. Solazzi, Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, Torino 1907; O. Ranelletti, Principii di dir. amm., Napoli 1912, pp. 281-310; W. Wilson, Congressional government, 3ª ed., Boston 1914, pp. 309 segg., 318 segg.; R. Carré de Malberg, Contributions à la théorie générale de l'État, II, Parigi 1922, pp. 1-142; H. Knust, Montesquieu u. d. Verfassungen d. Vereinigten Staaten, Monaco 1922: L. Duguit, Traité de dr. const., 2ª ed., Parigi 1923, pp. 514-542; F. Moreau, Precis élem. de dr. const., 10ª ed., Parigi 1928, p. 357 segg.

Pieni poteri.

Voce usata con riferimento ai rapporti di mandato e di rappresentanza, per indicare la massima ampiezza delle facoltà, che possono essere conferite dal mandante al mandatario. Se tale mandato riguarda la trattazione di un solo affare, i pieni poteri conferiscono al mandatario le stesse facoltà deliberative e impegnative, che sarebbero proprie del mandante ove agisse direttamente: tale significato ha l'espressione nei rapporti internazionali, nei quali si parla d'inviati straordinarî investiti di pieni poteri (da non confondere con i ministri plenipotenziarî, per i quali il richiamo alla pienezza dei poteri non ha contenuto giuridico). In altri campi, e particolarmente in quello dei rapporti fra il potere legislativo e l'esecutivo, siccome la delegazione già importa per sé stessa che il delegato agisca coi poteri del delegante, l'espressione serve a indicare una particolare ampiezza quantitativa degli affari, a cui la delega si riferisce: legge di pieni poteri è quella che conferisce all'esecutivo una delega generale a emanare atti aventi forza di legge per un determinato periodo di tempo.

Parlando dei pieni poteri in quest'ultimo significato, è da rilevare che la delega che essi importano, per quanto ampia e generale. non è mai illimitata: se tale fosse, si risolverebbe nello spogliare il potere legislativo delle sue naturali attribuzioni, e sarebbe, perciò contraria ai principî generali e alle disposizioni costituzionali di ogni ordinamento. I limiti devono essere, oltreché di tempo, di contenuto, in quanto tutte le leggi, che saranno emanate dal governo, dovranno essere dirette al conseguimento di un determinato fine: quello di provvedere alle necessità di una guerra, al riordinamento dei pubblici servizî, del sistema tributario e simili.

Gli esempî più notevoli di leggi di pieni poteri si sono avuti in Italia in occasione delle quattro guerre d'indipendenza. Con la legge 2 agosto 1848 fu disposto: "Il governo del re è investito, durante la guerra d'indipendenza, di tutti i poteri legislativi ed esecutivi, e potrà quindi per semplici decreti reali e sotto la responsabilità ministeriale, salvo le istituzioni costituzionali, fare tutti gli atti che saranno necessarî per la difesa della patria e delle nostre istituzioni". Formula sostanzialmente identica fu usata nella successiva legge 25 aprile 1859 e non molto dissimili furono quelle delle varie leggi di delega emanate in occasione della guerra del 1866. Interessante, per la sua ampiezza, è il testo dell'ultima legge 22 maggio 1915: "il governo del re ha facoltà, in caso di guerra e durante la guerra medesima, di emanare disposizioni aventi valore di legge per quanto sia richiesto dalla difesa dello stato, dalla tutela dell'ordine pubblico e da urgenti e straordinarî bisogni dell'economia nazionale. Il governo del re ha facoltà di ordinare le spese necessarie e di provvedere con mezzi straordinarî ai bisogni del tesoro". Tale formula rappresenta la massima latitudine assunta dalle delegazioni legislative nella nostra storia costituzionale. Al di fuori dello stato di guerra, i pieni poteri furono usati assai raramente: può, però, ricordarsi come causa di essi, la necessità di realizzare in breve spazio di tempo un largo programma di riforme politiche o amministrative. Un esempio importantissimo è la legge 3 dicembre 1922, con la quale, immediatamente dopo l'avvento del regime fascista, il governo del re fu investito, fino al 31 dicembre 1923, della facoltà di emanare disposizioni aventi valore di legge "per riordinare il sistema tributario, allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte, per ridurre le funzioni dello stato, riorganizzare i pubblici uffici e istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese". Tale ampia riforme nel campo tributario e amministrativo, ivi compresa la materia delle istituzioni comunali e provinciali, della pubblica beneficenza, della sanità pubblica, della giustizia amministrativa, della contabilità di stato e del funzionamento della Corte dei conti.

Sebbene le delegazioni generali siano, come abbiamo detto, limitate, in pratica l'osservanza di tali limiti offre grandi difficoltà e sono frequenti i casi di abuso e di straripamento da parte dell'autorità delegata. La questione della sindacabilità di tali abusi da parte degli organi del potere giudiziario, sebbene molto discussa, viene risolta generalmente in senso negativo. Altra questione riguarda l'ammissibilità di subdelegazioni dal potere esecutivo ad altri organi subordinati: tale facoltà sembra doversi escludere e sembra che gli stessi tribunali debbano negare applicazione a una norma emanata da un'autorità diversa dal governo o in forma diversa da quella stabilita nell'atto di delegazione.

L'uso dei pieni poteri è comune a tutti gli ordinamenti moderni. Durante la guerra mondiale, a tale mezzo di legislazione ricorsero quasi tutti gli stati belligeranti: il Belgio (legge 9 agosto 1914), l'Inghilterra (leggi 8 e 28 agosto, 27 novembre 1914), la Germania (legge 4 agosto 1914), l'Austria (legge 10 luglio 1917), gli Stati Uniti (leggi 10 agosto 1917 e 20 maggio 1918). Una legge di pieni poteri mancò in Francia, non essendo stato approvato un progetto all'uopo presentato nel 1916. Anche la necessità della ricostruzione finanziaria e del riordinamento amministrativo, che fu avvertita in ogni paese nel periodo del dopoguerra, diede luogo a numerose leggi di delegazione generale: quelle austriache (26 novembre e 3 dicembre 1922), quella germanica (18 dicembre 1923), quelle francesi (spec. 20 marzo 1924), quella belga (16 luglio 1926).

Bibl.: V. Miceli, I pieni poteri, in Riforma sociale, 1894; J. Tudebery, Prerogative in time of war, in The law quarterly review, 1916; G. Jèze, L'executif en temps de guerre, Parigi 1917; V. Galgano, I pieni poteri nel secolo scorso in Italia, in Riv. internaz. di scienze sociali, 1920; A. Carre, Delegated legislation, Cambridge 1921; M. Vauthier, La loi du 16 juillet 1926 et les pleins pouvoirs, in Flambeau, 1926; G. Capizzi-Giangreco, La delegazione parlamentare e i pieni poteri nella scienza e nella politica, in Riv. di dir. pubbl., 1924; H. Tingstén, Les pleins pouvoirs (trad. dallo svedese di E. Söderlindh), Parigi 1934.

Potere discrezionale.

Il principio della sovranità della legge, che è fondamentale nell'ordinamento giuridico statale moderno, esige che lo stato stesso nella sua organizzazione e nella sua attività sia regolato dal diritto oggettivo. Ciò vuol dire che lo stato è sottoposto al diritto non solo quanto all'esercizio della sua attività privata, che è l'attività che lo stato esplica nel campo dei rapporti patrimoniali in modo analogo a quello con cui agisce ogni privata persona, ma anche quanto all'esercizio della sua attività pubblica e del suo potere.

L'esercizio del potere statale è regolato dal diritto per un doppio ordine di ragioni: anzitutto, per garantire che l'esercizio del potere non venga sviato verso fini diversi da quelli che l'ordinamento pone allo stato; inoltre per garantire quegl'interessi soggettivi dei cittadini, che l'ordinamento vuole rispettati anche di fronte all'attività pubblica dello stato. È evidente, però, che l'esercizio del potere statale non può essere in ogni sua esplicazione limitato e vincolato dal diritto. La legge, per sua natura, è un imperativo generale e astratto, e le esigenze, alle quali lo stato deve provvedere, sono così varie e complesse, che non è possibile che la legge possa prevedere sempre esattamente tutti i casi concreti, in cui lo stato deve intervenire col suo potere, né tanto meno il modo con cui deve intervenire in ogni caso concreto. La subordinazione del potere statale al diritto deve, quindi, necessariamente attuarsi non solo mediante norme, che segnano il modo con cui il potere deve essere esercitato, ma anche mediante norme, che segnano soltanto i limiti entro i quali il potere stesso deve essere esplicato. Entro questi limiti il potere si esercita liberamente. Il potere liberamente esercitato entro i limiti segnati dal diritto è detto potere discrezionale in contrapposizione al potere vincolato, cioè esercitato non più entro limiti, ma secondo le norme poste dal diritto.

Anche nell'attività privata, sia dei singoli sia dello stato, v'è un campo di attività libera entro il quale il soggetto può agire e non è limitato da norme di diritto. Ma quest'attività privata, libera da imperativi giuridici, non è attività discrezionale. È attività come si suol dire, interna, che il soggetto esplica senza entrare in rapporti con altri, e, come tale, è attività giuridicamente irrilevante. Invece, il potere discrezionale è bensì attività non vincolata da norme di diritto, ma è attività esterna, che produce effetti giuridici. La sfera di attività discrezionale non corrisponde alla sfera di attività libera del privato.

Il potere dello stato, quantunque sia considerato come potere unico, si manifesta in tre funzioni (che si dicono anche poteri) di natura diversa: legislativa, giurisdizionale e amministrativa. In ciascuna di queste funzioni (o poteri) vi può essere potere discrezionale. Anzi, il potere legislativo è per sua natura interamente discrezionale. Non vi sono norme giuridiche, che vincolino l'esercizio del potere legislativo così che il legislatore sia obbligato a legiferare o a legiferare in un dato senso. Il legislatore è obbligato a porre leggi secondo le esigenze del bene pubblico, ma questo è un obbligo morale e politico, non giuridico. Non mancano, però, casi in cui il potere di fare le leggi è giuridicamente limitato. Un trattato internazionale limita il potere del legislatore, che pone leggi per l'esecuzione del trattato stesso. Negli stati nei quali è preveduto un organo costituente superiore all'organo legislativo ordinario, il potere del legislatore, che pone leggi ordinarie, è limitato dalle leggi costituzionali. Lo stesso si deve dire per gli stati federali, nei quali il potere legislativo degli stati federati è limitato dalle norme poste dallo stato federale. Ma, prescindendo da questi pochi casi particolari, si deve dire che il potere legislativo è un potere interamente discrezionale. È per questo che, riguardo al potere legislativo, non si fa la distinzione fra potere vincolato e potere discrezionale.

La distinzione, invece, si fa riguardo all'attività di giurisdizione e all'attività di amministrazione. Ambedue queste attività sono per principio sottoposte al diritto; ma, in dati casi, tanto l'attività del giudice quanto quella dell'autorità amministrativa non devono essere esercitate secondo precise norme giuridiche, ma possono esercitarsi liberamente entro i limiti segnati dal diritto stesso, e si dicono allora attività o poteri discrezionali. Riguardo al potere discrezionale, tanto il giudice civile o amministrativo, quanto il giudice penale si dice che hanno facoltà discrezionali; ma, quando si parla di potere discrezionale del giudice, s'intende più comunemente il potere discrezionale del giudice penale. È detto, per esempio, potere discrezionale la facoltà che ha il giudice di applicare la pena entro il limite massimo e minimo fissato dalla legge (art. 132, cod. pen.), la facoltà che ha il presidente o il pretore di ordinare, in dati casi, l'unione dei giudizî quando ne riconosca la convenienza (art. 413, cod. proc. pen.), o di disporre che il dibattimento o alcuni atti di esso abbiano luogo a porte chiuse (art. 423, cod. proc. pen.), e, in genere e sotto certe condizioni, di prendere i provvedimenti, che secondo le esigenze del caso siano ritenuti convenienti o necessarî per lo svolgimento del dibattimento.

Ma l'attività statale, nella quale ha particolare importanza il potere discrezionale, è l'attività amministrativa. La distinzione tra atti vincolati e atti discrezionali è una distinzione che la dottrina ha formato per gli atti amministrativi, sebbene la distinzione sia applicabile anche agli atti emanati dal giudice. In un atto amministrativo si considerano parecchi elementi: l'autorità competente a emanarlo, la forma, il termine per l'emanazione, il contenuto, le circostanze o condizioni nel concorso delle quali viene emanato. Questi elementi dell'atto possono essere tutti oggettivamente determinati dal diritto, così che l'amministrazione per agire non ha che da seguire la legge; e allora l'atto è detto vincolato. Ma qualcuno o parecchi di questi elementi possono essere lasciati all'apprezzamento soggettivo dell'autorità amministrativa, e allora l'atto è discrezionale. La discrezionalità di un atto può, quindi, essere maggiore o minore; e in generale si può dire che è discrezionale l'atto di cui qualcuno degli elementi dipende da un apprezzamento soggettivo dell'autorità che lo emana, non da una determinazione oggettiva della legge. Una promozione per sola anzianità può essere un atto vincolato; una promozione per anzianità congiunta a merito è atto discrezionale.

La discrezionalità viene distinta in discrezionalità amministrativa o pura e in discrezionalità tecnica. Molti, però, negano valore, o, almeno, importanza pratica a questa distinzione. L'atto è discrezionale quando è emanato in base a un apprezzamento soggettivo dell'autorità; è vincolato quando il diritto fissa oggettivamente gli elementi dell'atto. Ma per accertare un elemento fissato dal diritto può essere sufficiente una cognizione comune, quale può aversi dall'ordinaria esperienza, e possono essere, invece, necessarie cognizioni tecniche, scientificamente più elevate, quali possono aversi da periti ed esperti. Quando l'atto amministrativo viene emanato in base a un giudizio tecnico, l'atto sarebbe discrezionale, ma la discrezionalità sarebbe tecnica, non amministrativa. Questa si avrebbe invece, quando l'atto viene emanato in base a un giudizio di convenienza amministrativa. Orbene, la distinzione tra cognizione comune e cognizione tecnica, ossia fra giudizio semplice e giudizio complesso, risponde a verità; ma la necessità di un giudizio complesso o tecnico, invece di un giudizio semplice, per accertare un elemento dell'atto, non muta l'atto da vincolato in discrezionale. L'elemento dell'atto è sempre oggettivamente fissato dalla legge sia che, per accertarlo, basti la cognizione comune e un giudizio semplice, sia che si richieda invece una cognizione tecnica o un giudizio complesso. E quando l'elemento è oggettivamente fissato, l'amministrazione, per questo lato, non è libera. Libera è solo in quanto può emanare l'atto in base a un suo apprezzamento soggettivo sulla convenienza di esso; e l'atto è discrezionale solo in quanto dipende, e nella misura in cui dipende da un apprezzamento soggettivo dell'autorità che lo emana. Per questo, buona parte della dottrina non dà alla distinzione tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa grande importanza.

In materia nella quale l'amministrazione può agire con potere discrezionale il cittadino non può vantare diritto soggettivo perfetto di fronte all'amministrazione. Se il diritto soggettivo è un interesse soggettivo direttamente tutelato dal diritto, il cittadino può vantare diritto soggettivo di fronte all'amministrazione solo quando questa sia vincolata dal diritto; ma un atto discrezionale è, per definizione, un atto libero da vincolo giuridico; quindi di fronte al potere discrezionale non possono esistere diritti soggettivi. Ma il potere discrezionale, pur essendo potere libero da vincolo giuridico, non è potere arbitrario. L'amministrazione è libera di decidere in un dato senso, ma deve decidere giudicando correttamente e per i fini per i quali ha facoltà di agire, non arbitrariamente. L'atto discrezionale, pertanto, precisamente in quanto tale, può essere sindacato per accertare se l'apprezzamento soggettivo in base al quale venne emanato sia corretto, e se quindi esso non sia arbitrario; ossia, l'atto discrezionale può essere sottoposto a sindacato di legittimità. Questa conclusione, che fu per lungo tempo oggetto di viva controversia, è ormai pacifica.

Bibl.: F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano s. a., n. 60, p. 128 segg.; O. Ranelletti, Principî di diritto amministrativo, Napoli 1912, p. 350 segg.; S. Romano, Principî di diritto amministrativo italiano, Milano 1912, p. 51 segg.; C. Vitta, Diritto amministrativo, Torino 1933, I, n. 72, p. 269 segg.

Eccesso e sviamento di potere.

La figura giuridica dell'eccesso di potere trova la sua prima formulazione positiva nell'art. 27 della costituzione francese 3 settembre 1791 e nell'art. 262 della costituzione 5 fruttidoro dell'anno III, a riguardo degli atti incostituzionali del giudice, lesivi cioè del principio della separazione dei poteri. Si ritrova più tardi nell'art. 80 della legge 27 ventoso dell'anno VIII a riguardo degli stessi atti, nonché negli articoli 77 e 88 della medesima legge, epperò a riguardo degli atti, vere e proprie sentenze del giudice, per i quali, secondo l'estensiva interpretazione della cassazione francese del tempo, il vizio dell'eccesso di potere si riconduce o all'usurpazione di un potere interdetto all'autorità giudiziaria, o all'usurpazione di un potere appartenente a un'autorità giudiziaria di natura diversa o di ordine più elevato, ovvero alla violazione delle regole sostanziali che assicurano la validità dei giudizî.

Col primitivo significato, ossia come attività svolta, attraverso la sentenza, a danno di altri poteri costituzionali, passo nelle legislazione dello stato sardo, e precisamente nel codice di procedura civile del 1859, che all'art. 588, a proposito del ricorso per cassazione contro la sentenza pronunciata in ultima istanza, specificò in varî numeri la formale violazione di legge, distinguendo il caso dell'incompetenza ("quando un'autorità giudiziaria pronuncia in causa, la cui cognizione spetta a un'altra autorità giudiziaria") dal caso dell'eccesso di potere ("quando l'autorità giudiziaria conosce di causa la cui cognizione non è attribuita all'autorità giudiziaria, o dà provvedimenti che eccedono la facoltà di cui è investita l'autoritȧ medesima").

In seguito, e con la stessa portata, entrò nella legislazione del regno d'Italia, dapprima, attraverso la legge 14 agosto 1862 n. 800 sulla Corte dei conti, che all'art. 43 ammise il ricorso al Consiglio di stato contro le sentenze della corte viziate dì eccesso di potere o d'incompetenza per ragione di materia; poi, attraverso la legge 31 marzo 1877 n. 3761 sui conflitti di attribuzioni, che all'art. 3 n. 3 assegnò alle sezioni unite della Corte di cassazione i giudizî sulla nullità delle sentenze delle giurisdizioni speciali per incompetenza o eccesso di potere.

Oggi, con la medesima estensione, si riscontra nel codice di procedura penale del 1930, per il quale la corte di cassazione pronuncia l'annullamento senza rinvio, se il provvedimento impugnato contiene disposizioni che eccedono i poteri della giurisdizione (art. 539 n. 3), ossia implica l'esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi (art. 524 n. 2).

Risulta dall'anzidetto che il significato originario dell'eccesso di potere arriva a noi dopo quasi un secolo e mezzo di tradizioni. Epperò si deve al tempo stesso osservare che la tradizione non è priva, nella giurisprudenza e nella dottrina, di gravi incertezze e di contraddizioni. Spesse volte l'eccesso di potere viene equiparato all'incompetenza, per la considerazione che anch'esso rivela l'usurpazione dell'altrui potere, ovvero lo sconfinamento dai limiti di un potere. Per definirlo si aggiunge la qualifica di assoluta o aggravata all'incompetenza, ovvero s'indica (come fa l'art. 524 n. 2 del codice italiano di procedura penale) l'esercizio di una potestà "non consentita ai pubblici poteri". L'incompetenza del giudice, invece, è caratterizzata dalla mancanza di potere giurisdizionale nel caso specifico; il che rende incapace l'organo al procedimento e al giudizio, e l'atto, per tale vizio, illegittimo.

L'eccesso di potere, d'altra parte, mostra nel giudice la capacità, l'esistenza del potere giurisdizionale, ma al tempo stesso un difetto di giudizio, in quanto che, in luogo di provvedere all'accertamento del diritto oggettivo e alla tutela del diritto soggettivo, il giudice devia dalla sua funzione, o meglio dal suo fine, e pone il diritto nuovo, o si sostituisce agli organi pubblici che dovrebbero amministrare. L'incompetenza è un vizio di capacità; l'eccesso di potere un vizio di attività, che si manifesta attraverso il giudizio, e più precisamente nella causa della sentenza. Pertanto, si differenzia pure dalla violazione di legge, sebbene da un punto di vista generale, essendo anche il potere fissato dalla legge, ogni eccesso di potere (v. l'art. 588 del citato codice di procedura civile del 1859) è violazione di legge; e nonostante che qualche scrittore (F. Carnelutti) lo faccia consistere in un errore di giudizio o d'interpretazione così grave da non poter essere ritenuto involontario; e infine, non ostante che una sentenza della Cassazione dell'11 aprile 1927 (cfr. Rivista di dir. commerciale, 1927, II, 570) lo attribuisca al giudice che, male interpretando la norma giuridica, applica la medesima a casi e situazioni dalla stessa non contemplati, l'eccesso non deriva dall'interpretazione, né dall'applicazione della norma, se no, si riduce a violazione o a falsa applicazione della legge.

Riguardo agli atti amministrativi il concetto di eccesso di potere viene pure dalla Francia, dove, in un primo tempo e nella mancanza di testi legislativi, acquista, a mezzo della giurisprudenza del Consiglio di stato, un contenuto analogo all'eccesso dì potere nell'atto giurisdizionale. Significa, cioè, attentato alla separazione dei poteri, ovvero usurpazione della funzione di un altro organo dello stesso ordine, ovvero violazione delle forme sostanziali.

In un secondo tempo, e a differenza di quanto avviene per l'eccesso di potere nel campo giudiziario, rimasto immutabile nel suo contenuto originario, l'eccesso di potere nel campo amministrativo si estende a tutte le specie di illegalità degli atti amministrativi, compresa la violazione di legge. Non solo; si estende pure agli atti amministrativi discrezionali che, non potendo, per la speciale indole propria, essere viziati per violazione di legge, si mostrano tuttavia illegittimi, in quanto diretti a uno scopo diverso da quello in vista del quale il potere è conferito; diverso, cioè, dalla cura dell'interesse pubblico. Il potere dell'organo amministrativo è allora sviato dalla propria destinazione legale, e l'atto è illegittimo per lo sviamento di potere.

Con questo largo significato devono interpretarsi il decr. 2 novembre 1864 (la prima fonte del diritto francese che espressamente menzioni l'eccesso di potere nell'atto amministrativo, distinguendolo dall'incompetenza) e la legge 24 maggio 1872 che all'art. 9, benché indichi l'annullamento solo per eccesso di potere, comprende in questo l'incompetenza assoluta e relativa, la violazione di legge e lo sviamento di potere.

Nel diritto italiano l'eccesso di potere, vizio dell'atto amministrativo, non si presenta in forma esplicita, bensì come rientrante nell'ampia figura della illegittimità dell'atto amministrativo, indicata, dapprima, nell'art. 15 n. 4. della legge sarda 30 ottobre 1859 sul Consiglio di stato e poi nell'art. 9 n. 4 della legge 20 marzo 1865 allegato D, a proposito dei ricorsi straordinari al re. Il significato suo primitivo è di straripamento di potere, che, in seguito, si riduce a sviamento di potere, distinguendosi dall'incompetenza e dalla violazione di legge. Sotto quest'ultimo profilo è accolto specificatamente nell'art. 3 della legge 31 marzo 1889 n. 5992 creativa della IV sezione del Consiglio di stato, e sottoposto, da tale epoca, a un'elaborazione minuziosa da parte della giurisprudenza e della dottrina. Per le quali lo sviamento di potere, ossia la deviazione dai fini imposti dalla legge o dalla natura dell'atto pubblico, viene rilevato, ora in modo diretto, ora attraverso speciali sintomi, come: l'inosservanza dei limiti fissati dall'amministrazione al proprio potere discrezionale, la violazione della parità di trattamento, l'ingiustizia o iniquità manifeste. In processo di tempo, a questi sintomi se ne aggiungono degli altri, quali il travisamento dei fatti, il difetto di motivi che dà luogo a sospetto di arbitrio, l'illogicità, la contraddittorietà del provvedimento; di modo che l'eccesso di potere acquista un aspetto poliedrico, diverso a seconda dei casi particolari in cui si manifesta. Ma nella sostanza, o meglio ancora, nella natura giuridica, rimane sempre lo stesso, imperocché i sintomi innanzi specificati denunciano una medesima malattia, il vizio cioè nella causa dell'atto amministrativo (F. Cammeo, F. Carnelutti, U. Borsi).

Invero, la causa può mancare, e l'atto allora è privo di un elemento necessario per la sua esistenza come atto dell'amministrazione; può essere falsa, ovvero illecita, e l'atto allora manca di un elemento per la validità.

Secondo alcuni (O. Ranelletti), l'eccesso di potere consiste in un vizio della volontà, essendo che, egli dice, "il vizio della causa dell'atto produce necessariamente un vizio nella volontà dell'atto", secondo altri (C. Vitta) consiste talora in un vizio della volontà, talaltra in un vizio della causa. Epperò è da notare che la volontà viziata è la manifestazione esterna di un vizio più intimo, quello della causa, e cioè dell'elemento che, a differenza della volontà, serve a caratterizzare l'atto amministrativo.

Ciò detto, viene spontaneo raccostare la sentenza all'atto amministrativo, perché in entrambi l'eccesso di potere, concepito come straripamento o usurpazione di poteri, ovvero come sviamento, si configura sempre come vizio della causa. La sentenza che usurpa i poteri degli organi legislativi o amministrativi, è senza causa, non rispondendo al fine giurisdizionale cui dovrebbe mirare; così come l'atto amministrativo manca di causa, ovvero ne ha una falsa o illecita, se, pur emanato dell'organo competente senza alcuna violazione di legge, devia dalla suprema sua finalità di ordine amministrativo.

Bibl.: E. Laferrière, Traité de la juridiction administrative et des recours contentieux, 2ª ed., Parigi 1896, II; A. Codacci-Pisanelli, L'eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in Scritti di diritto pubblico, Città di Castello 1900, p. 251 segg.; M. Hauriou e de Bezin, La déclaration de volonté dans le droit administratif français, in Revue trimestrielle de droit civil, Parigi 1903, p. 543 segg.; F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova 1914, p. 1332; F. Carnelutti, Eccesso di potere, in Rivista di diritto processuale civile, I (1924), p. 33 segg.; J. Appleton, Traité élémentaire du contentieux administratif, Parigi 1927, pag. 525 segg.; M. D'Amelio, L'eccesso di potere definito dal legislatore, in Riv. di dir. pubblico, 1930, I, p. 577; Pappalardo, L'eccesso di poter "amministrativo" secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Il Consiglio di Stato, Studi in occasione del centenario, II, Roma 1932, p. 429 segg.; C. Vitta, Diritto amministrativo, I, Torino 1933, p. 378; U. Borsi, La giustizia amministrativa, 4ª ed., Padova 1934, pp. 42 segg., 308 segg.; O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, 4ª ed., Milano 1934, p. 96 segg.; S. Romano, I giudizi sui conflitti delle competenze amministrative, in Tratt. di dir. amm. diretto da V. E. Orlando, III, Milano 1907, p. 1352 segg.