PANDONE, Porcelio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PANDONE, Porcelio

Guido Cappelli

PANDONE (Pandoni), Porcelio (Porcellio). – Nacque a Napoli, probabilmente qualche anno prima del 1407, poiché Lorenzo Valla – un fratello del quale fu allievo di Pandone – nell’Antidotum IV in Poggium lo dice più anziano di lui.

Nulla si sa della famiglia d’origine; anche se Pandone (o Pandoni) era il cognome di una famiglia appartenente al seggio napoletano di Capuana, tra i documenti a esso riferiti non vi è traccia di un Porcelio.

Quanto al nome di battesimo, così lo si ritrova nell’intestazione di molteplici sue opere (compaiono anche le forme Porcellus, Porcellius). Qualche biografo ha pensato che si trattasse di un soprannome indicante la sua omosessualità, dato che però non presenta alcun appoggio documentario. In realtà, si tratta di un nome non infrequente all’epoca in area centromeridionale. Il nome Giannantonio gli fu attribuito senza fondamento da Georg Voigt (1888, p. 490).

Dovette recarsi molto giovane a Roma, dove fu al servizio del cardinale Ottone Colonna, poi papa Martino V – cui è dedicato il poemetto allegorico Bos prodigiosus – e aprì una scuola. Verosimilmente nel 1423-25 si sposò; nel carme, De abitu ab urbe et patria Parthenope, fa cenno anche a quattro figliolette.

Intorno al 1432, come si ricava da indizi cronologici interni, compose il Bellum Thebanorum cum Telebois, poemetto epico di 139 versi sulla guerra tra Anfitrione, duce tebano, e Ptelera, re dei Teleboi, dove esibisce già buone qualità versificatorie e una sicura padronanza della poesia epica, anche se lo spunto iniziale deriva dall’Amphitruo di Plauto. Nell’autunno del 1433 compose un’orazione per l’imperatore Sigismondo, a Roma per farsi incoronare. In quegli anni dovette conoscere anche il cardinale Giuliano Cesarini, con cui intrattenne relazioni epistolari e al quale dedicò carmi.

Durante la rivolta romana del 1434 svolse l’incarico di cancelliere del Comune, per conto del quale fu inviato a Basilea, dove era riunito il Concilio, a spiegare ai cardinali le ragioni della ribellione. Ciò gli costò il carcere, una volta ristabilita l’autorità del pontefice. Sulla durata della prigionia si sono avanzati pareri assai diversi, ma è molto probabile che non superasse i tre anni (1434-37).

Nel 1437 diversi indizi lo collocano al servizio di Francesco Sforza, cui restò poi sempre legato. Probabilmente proprio al seguito di Sforza andò a Firenze. Durante il soggiorno fiorentino ebbe modo di intrecciare relazioni con il mondo umanistico lì presente, soprattutto in occasione del Concilio di unione con la Chiesa orientale (1439). Conobbe Maffeo Vegio, Biondo Flavio, Aurispa e altri curiali del papa che risiedeva a Firenze, nonché Cosimo de’ Medici, cui dedicò diversi componimenti. Grazie alla protezione del potente cardinale Ludovico Scarampi, poté anche rientrare per un breve periodo a Roma.

Successivamente fu al servizio del condottiero Niccolò Piccinino, probabilmente negli anni 1440-43, ai quali si può ricondurre un carme in lode del condottiero, allora alleato del re di Napoli Alfonso il Magnanimo.

A quell’epoca risale il Triumphus Alfonsi Regis, che celebra l’entrata trionfale di Alfonso in Napoli avvenuta nel febbraio 1443. Si tratta di un breve poema in tre canti, per un totale di 718 versi. Il primo canto evoca le imprese compiute dal sovrano prima del suo ingresso a Napoli; il secondo descrive il trionfo; il terzo è una laus del sovrano aragonese. Metà del poemetto è occupata dalla dettagliata descrizione del trionfo alfonsino. Lo stile è improntato a un classicismo estremo: le chiese di Napoli sono raffigurate come templi antichi, Partenope si rivolge direttamente al sovrano e questi è ritratto come un eroe classico.

Nel 1444, a Ferrara, Pandone conobbe Pisanello (che peraltro potrebbe anche aver incontrato a Napoli, dove questi soggiornò dal 1449), che gli fece un ritratto, mentre il poeta dedicò a Leonello d’Este il libro IV degli Epigrammata. Negli anni 1447-48 visse a Siena, dove il Comune gli affidò la cattedra di retorica e poesia, coadiuvato da due ripetitori di grammatica, con i quali ebbe anche qualche controversia economica.

Il 1º agosto 1450 una cedola della tesoreria aragonese rivela che si trovava a Napoli e che il suo stipendio per l’incarico di segretario regio era di «ducatos trecentos». Pandone rinsaldò i suoi contatti con funzionari e intellettuali di corte: Mateu Malferit, Joan Olzina e soprattutto Iacopo Curlo, il filologo e bibliotecario aragonese cui rivolse un affettuoso componimento. In questo periodo lesse un’orazione solenne davanti all’imperatore Federico III, in visita alla capitale nel 1452, ciò che gli valse la laurea poetica, il 9 aprile; e soprattutto fu inviato come osservatore, con salvacondotto reale, alla guerra tra Venezia, le cui truppe erano capeggiate da Jacopo Piccinino, presso il quale soggiornò, e Milano, al comando di Francesco Sforza.

Frutto di questa sorta di corrispondenza di guerra è l’opera in prosa più rilevante di Pandone, i Commentarii de gestis Scipionis(Jacobi) Piccinini, una cronaca della guerra che – pur travestendo i protagonisti da personaggi classici, Annibale nel caso dello Sforza, Scipione in quello di Piccinino – si vale di testimonianze dirette, come dispacci o missive (Pandone poté persino godere di un salvacondotto per osservare le operazioni dal campo milanese) e fa uso di uno stile agile e decoroso.

Il citato carme De abitu ab urbe et patria Parthenope dà conto delle circostanze del suo allontanamento da Napoli: in primo luogo l’inimicizia del Panormita e poi, a dire del poeta, lo stato di decadenza della città.

Pandone si era anche trovato coinvolto nella polemica che, nei primi anni Quaranta, aveva visto fronteggiarsi Panormita e Bartolomeo Facio, da un lato, e Lorenzo Valla, dall’altro, intorno al testo delle Decadi di Tito Livio e, più in generale, al ruolo dello storico di corte. Pandone aveva preso le parti di Valla, riuscendo a procurarsi il manoscritto in cui Facio ne denunciava i presunti errori e passandolo al collega, il quale infatti ricordava di averlo potuto leggere «Porcelii beneficio» (Antidotum in Facium, I, IV, 22).

Da Napoli Pandone si spostò probabilmente a Roma. Nel 1455 si trovava certamente a Rimini, alla corte di Sigismondo Pandolfo Malatesta, dove compose 12 elegie raccolte nel De amore Iovis in Isottam e, il 27 ottobre, sostenne una disputa con il poeta Basinio da Parma a proposito dell’utilità della conoscenza del greco, che questi asseriva e Pandone, insieme a Tommaso Seneca da Camerino, negava. Pandone ne informò con una missiva Poggio Bracciolini al quale inviò, a Firenze, anche le elegie isottee.

Il De amore Iovis in Isottam – uno scambio di lettere di tono tra il cortese e l’elegiaco tra Giove innamorato e Isotta che ne declina le profferte in nome del suo amore per Sigismondo – risente sia dei modelli classici sia della poesia amorosa volgare, non senza spunti celebrativi di Malatesta. Frutto del soggiorno riminese e della polemica con Basinio fu anche il trattatello De praestantia linguae latinae.

Nel 1456 Pandone lasciò Rimini per Milano. Qui poté godere dell’amicizia di due personaggi di spicco: l’umanista Francesco Filelfo, che lo accolse a casa sua (dove Pandone strinse legami anche con il figlio Gian Mario) e il segretario ducale Cicco Simonetta. In quel tempo compose anche – caso unico a nostra conoscenza – una poesia in volgare. Forse a causa dell’inimicizia dei Filelfo con l’altro grande umanista milanese, Pier Candido Decembrio, Pandone attaccò costui in una serie di carmi di contenuto prevalentemente osceno. Tuttavia i rapporti si guastarono anche con Filelfo, che in una lettera irata gli chiese la restituzione di certi prestiti e poi gli scagliò contro i soliti epigrammi denigratori. Della fama equivoca diffusasi a Milano intorno a Porcelio è testimonianza una novella di Matteo Bandello.

A Milano – confortato da un buon trattamento economico – diede vita a una cospicua produzione letteraria. A Simonetta indirizzò il trattato De talento et sestertio, sull’origine e l’uso della moneta nell’antichità (unica opera sua stampata nel Quattrocento).

Pandone si distinse in effetti anche per i suoi interessi antiquari e bibliografici. Fu suo il celebre codice Terenzio bembino (Vat. Lat. 3226, del sec. V, così detto perché appartenuto poi a Pietro Bembo); e un Prisciano del sec. XII (Vat. Barb. Lat. 89).

Nel 1459, forse dopo una breve sosta a Siena per incontrarvi Pio II, Pandone tornò a Roma, raccomandato al papa dall’ambasciatore veneziano Ludovico Foscarini. Qui tenne scuola privata e partecipò del clima di fervore per la crociata contro i turchi. Nel frattempo attendeva, su commissione di Federico da Montefeltro, a un poema sulle gesta di questi intitolato Feltria. Negli anni, in particolare tra il 1456 e il 1460, aveva stretto cordiali rapporti con la corte urbinate, dove soggiornò per brevi periodi. In contatto con Ottaviano Ubaldini della Carda, fratello del duca e suo braccio destro, scrisse, tra altri testi, due consolatorie a Federico per la morte, nel 1472, della moglie, la giovane e carismatica Battista Sforza. Si conosce una lettera di quell’anno indirizzata dal duca al poeta.

Il Feltria, o De laudibus et rebus gestis Federici Montefeltrii sive Feltriae libri IX, che Pandone definisce il suo «maius opus», è un poema epico di nove libri (nell’ultima redazione), composto tra il 1464 e il 1475, che narra le campagne belliche del Montefeltro dall’intervento nella guerra civile napoletana a fianco di Ferrante d’Aragona fino al 1474, anno del conferimento dell’incarico di gonfaloniere della Chiesa. L’opera si inserisce nel filone dei testi propagandistici sorti intorno al ducato di Federico, come la Volterrais di Naldo Naldi, e si caratterizza per le ambizioni storiche (Pandone chiedeva documentazione a Federico in persona), escludendo i più triti espedienti epici (portenti, digressioni mitologiche) e servendosi di diverse fonti coeve, tra cui i Commentarii di Pio II. Tra i passi di maggior qualità letteraria, la descrizione del celebre Palazzo ducale.

Tuttavia, Porcelio continuava a lamentarsi per la sua situazione economica, come appare da una lettera del 5 aprile 1464 a Foscarini, in cui chiede una raccomandazione per il posto di abbreviatore apostolico, rivendicando di aver composto «octo volumina de felicitate suorum [scil. Pii II] temporum», cioè la raccolta De felicitate temporum divi Pii II pontificis maximi, straordinaria galleria di personaggi della Curia e dello Studium dell’epoca. Alla morte di Pio II, che Pandone aveva accompagnato, secondo una sua elegia, nelle Marche, dove avrebbe dovuto imbarcarsi per la crociata, la situazione del poeta a Roma si fece difficile, tanto più che anche qui continuava la polemica sulla lingua greca, questa volta con Gaspare da Verona. Cosicché si risolse a tornare a Napoli, dove Ferrante d’Aragona nel 1465 riaprì lo Studium: qui fu assunto con il dignitoso stipendio di 200 ducati l’anno.

Anche se il soggiorno napoletano non dovette andare oltre l’anno accademico, a Napoli il poeta, in occasione delle nozze del giovane duca di Calabria Alfonso con Ippolita Sforza, compose due operette che lo collocano in pieno nel clima ideologico e intellettuale della Napoli aragonese: il De proelio apud Troiam Apuliae urbem confecto a divo Ferdinando rege Siciliae, un poema epico di 789 esametri che narra l’importante vittoria degli aragonesi a Troia nel 1462, durante la guerra dei baroni; e il De vita servanda a regum liberis, una institutio principis in metro elegiaco intessuta di preziosi richiami classici.

Dopo il 1466 per alcuni anni si perdono le tracce di Pandone. È probabile che, grazie alla protezione di Pietro Riario, nipote di papa Sisto IV e cardinale dal 1471, fosse rientrato a Roma, dove da un documento del gennaio 1473 si ricava che insegnava all’Università: «Eximio viro D. Porcelio poetae in Studio Almae Urbis legenti»; un altro documento, del 1476, lo indica come «notaro» della dogana.

Non è noto l’anno di morte: certo sopravvisse a Sisto IV (morto nel 1484), dal momento che un suo carme, in occasione del 1º gennaio 1485, invita a celebrarne la memoria. La mancanza di ulteriori menzioni, l’età assai avanzata e la podagra che da tempo lo tormentava invitano a pensare che non dovette vivere ancora a lungo.

La tradizione delle opere di Pandone – in buona parte inedite – è estremamente intricata, dal momento che egli procedeva per accumulazioni successive di testi e aveva l’abitudine di reimpiegarli per adattarli alle diverse circostanze e a nuovi dedicatari. In generale, per la produzione fino al 1450 possediamo un’ampia silloge quattrocentesca manoscritta: la cosiddetta Raccolta Cerretani, Firenze, Conv. Soppr. J. IX 10, copiato da Bartolomeo Cerretani da Siena, contenente il Triumphus Alfonsi regis (ff. 17-35), il Bellum Thebanorum (ff. 35v-38v), un gruppo di Carmina heroica e gli Epigrammata o Laureae, in sei libri. Importante anche il cod. Berlin, Staatsbibliothek, Lat. qu. 390, autografo, contenente un’ampia raccolta di epigrammi dedicati a Francesco Sforza; doveva trattarsi in origine di una copia di dedica, che il poeta trasformò poi in copia di lavoro apportandovi numerose correzioni e aggiunte. Opere complete edite sono: Commentarii, in Rer. Ital. Script., XX, Milano 1731, coll. 69-154; Commentarii secundi anni, in Rer. Ital. Script., XXV, 1, Milano 1751, coll. 1-66; De talento, Roma, E. Silber, 1488 (in calce al Tractatus de syllabis di Paolo Pompilio); Triumphus Alfonsi Regis, in V. Nociti, Il trionfo di Alfonso I d’Aragona cantato da Porcellio, Rossano 1895. Carmi sparsi sono stati editi a partire dal Cinquecento; le due principali raccolte sono: Trium poetarum elegantissimorum Porcelii, Basinii et Trebani Opuscula, Parisiis, apud Simonem Colinaeum, 1539; Carmina illustrium poetarum italorum, tomo VII, Florentiae 1720, pp. 497-519.

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