Popolo

Enciclopedia delle scienze sociali (1996)

Popolo

Mario Caravale; Claudio Cesa

di Mario Caravale e Claudio Cesa

POPOLO

Antichità e Medioevo di Mario Caravale

Età antica

a) Il demos greco

La storiografia ha da tempo sottolineato la pluralità di significati attribuiti dalle fonti greche al termine demos. Probabilmente derivante dalla radice da(i)=dividere, demos (o damos) indica nella più antica società micenea sia "un insieme, un gruppo di uomini non schiavi, dediti all'agricoltura e all'allevamento" (v. Cagnazzi, 1980, p. 304), sia la terra da costoro posseduta e lavorata in comune (v. Donland, 1970, pp. 382 s.). Tale duplice significato si ritrova in Omero, affiancato, peraltro, ad altre due accezioni: quella di esercito composto dall'intera comunità - e quindi non più somma di singole famiglie in armi -, con una possibile identificazione tra i termini damos e laos (=popolo in armi) che potrebbero essere due forme della medesima parola differenziate dalla variazione d/l; quella di popolo separato, o comunque distinto, dal re o da chi lo guidava (v. Cagnazzi, 1980, p. 307).

Quest'ultimo significato conobbe importanti sviluppi in epoca successiva, quando venne confermato l'uso del termine per individuare non già l'intera popolazione, ma solo la parte più numerosa di essa, esclusa dalla gestione del potere e quindi contrapposta a chi governava. In questo senso la parola risulta usata in Solone, in Erodoto e in Tucidide (v. Cagnazzi, 1980, p. 308). Si conservò, peraltro, anche la valenza geografica del termine, che acquistò nel mondo ateniese una precisazione maggiore rispetto al passato, venendo a segnare già in Solone "i villaggi che compongono l'Attica" (ibid., p. 309). Tale accezione risulta enfatizzata all'interno delle riforme introdotte da Clistene ad Atene negli anni 508-507. Egli intese ridurre l'autorità delle tribù gentilizie, liberando i cittadini dai tradizionali vincoli di sangue che li legavano alla famiglia e alla stirpe: a questo fine stabilì che l'iscrizione a una tribù non dipendeva più dall'appartenenza a una famiglia, bensì dal luogo di residenza, dal villaggio in cui ciascun cittadino viveva. Il termine demos indicò tale villaggio, che nel nuovo assetto istituzionale assumeva il ruolo di cellula fondamentale della società (in proposito v. Musti, 1989, pp. 273-276; 1995, pp. 155-164; sull'organizzazione istituzionale del demos v. De Francisci, 1948, vol. II, pp. 228 ss.).

Nel corso del V secolo, poi, la parola conobbe un'interessante evoluzione semantica nel linguaggio politico ateniese. L'uso antico di demos come insieme della comunità cittadina è a fondamento della duplice valenza assunta dalla parola nel quadro del regime di Pericle: assemblea generale della città da un canto, generalità della popolazione che proprio attraverso tale assemblea partecipava al governo, e quindi esercitava la demokratia, dall'altro. L'assemblea era il supremo organo giudiziario e allo stesso tempo deliberativo: la partecipazione a essa di tutti i cittadini, in quanto componenti del demos, consentiva a ciascuno di loro di difendere direttamente - senza intermediazioni - i propri diritti e di contribuire, in maniera altrettanto immediata, alle decisioni generali che coinvolgevano tutta la collettività. Ed è proprio in questa partecipazione a un'assemblea investita di grande autorità, non già nell'abolizione dei privilegi e nell'introduzione dell'uguaglianza giuridica dei cittadini, che si sostanziò, come ha sottolineato Musti (v., 1989, pp. 342 ss.; 1995, pp. 162-173), la demokratia ateniese sotto Pericle.

L'identificazione del demos con la comunità intera e quindi con la polis si ritrova anche nel linguaggio degli oratori attici del IV secolo, dove, peraltro, si intreccia con un'accezione più ristretta che si riallaccia al significato, già documentato in passato, di popolazione contrapposta ai detentori del potere (re o oligarchi), e con esso il termine passa a designare la 'parte democratica'. Tale seconda accezione trova un'enfasi particolare nei discorsi rivolti all'assemblea dagli oratori per suscitarne l'entusiasmo nei momenti più decisivi della lotta politica (v. Cagnazzi, 1980, pp. 309-312).

Nel sottolineare la molteplicità degli usi di demos nelle fonti greche, la storiografia ha peraltro precisato che il termine non risulta mai corrispondere a una specifica 'classe' sociale nel senso definito dalla storiografia materialista (v. Finley, 1977; tr. it., pp. 117 ss.): una precisazione, questa, generalmente accettata anche dagli storici che in anni non lontani hanno ritenuto legittimo e corretto l'uso del concetto di classe per le società antiche. Minor accordo tra gli studiosi si rinviene, invece, sulla possibilità di assegnare alla parola demos il significato di popolo sovrano: secondo alcuni tale accezione si rinviene nel linguaggio politico degli oratori attici del IV secolo (v. Cagnazzi, 1980, p. 311), mentre per altri la demokratia ateniese non avrebbe comportato la pretesa popolare del monopolio del potere, bensì la mera richiesta di partecipazione di tutti alle istituzioni preposte alla tutela dei singoli e dei loro diritti, diritti che preesistevano alle istituzioni medesime e a esse non erano sottoposti (v. Musti, 1989, pp. 342 ss.). Né, infine, è stata ritenuta applicabile al mondo greco quell'astrazione giuridica che, secondo una consistente corrente storiografica, sarebbe stata elaborata dalla dottrina romana per configurare il popolo come una persona giuridica del tutto distinta dalla molteplicità dei cittadini che lo componevano, una persona giuridica nella sostanza uguale allo Stato a noi contemporaneo: i Greci - si dice - non fecero molti passi sulla via della costruzione teorica dello Stato, di modo che il demos rimase sempre l'insieme dei suoi componenti, senza mai ascendere a persona giuridica a sé (v. Coli, 1951, pp. 3 ss.; v. Gaudemet, 1965, p. 148).

b) Il populus romano nell'età arcaica

Questioni analoghe a quelle riguardanti il demos greco sorgono a proposito del populus romano, tema che è stato esaminato con particolare attenzione dagli storici del diritto e della società. I principali problemi esaminati riguardano il significato del populus in età arcaica, la possibilità di individuare per l'epoca repubblicana una concezione astratta del popolo che lo configuri come persona giuridica distinta dai singoli componenti e assimilabile allo Stato della società odierna, il ruolo del populus nel quadro istituzionale di Roma repubblicana, l'esistenza dell'idea di sovranità popolare, la condizione del populus nell'ordinamento del principato (per un quadro complessivo dei problemi affrontati dalla storiografia giuridica fino alla metà del nostro secolo, v. Lübtow, 1955).

Per quanto riguarda il primo problema le difficoltà di interpretazione nascono soprattutto dalla mancanza di testimonianze coeve e dalla necessità di rifarsi a fonti di età repubblicana che usano per il periodo delle origini di Roma una terminologia e una concezione politico-giuridica maturate soltanto nella loro epoca. Incerta è l'etimologia del termine, che potrebbe derivare da una radice indoeuropea usata per individuare l'insieme di una comunità, oppure da una radice mediterranea, più in particolare latina e osco-umbra (poplo-) che limiterebbe l'indicazione alla sola comunità in armi e, di conseguenza, ai soli maschi adulti (v. Peppe, 1985). Anche se l'etimologia della parola resta ignota (v. Magdelain, 1990, p. 473), la storiografia prevalente sembra convinta dell'identità nella Roma arcaica tra populus ed esercito: una tesi che, sostenuta dal Mommsen (v., 1886), ha trovato ampie e autorevoli adesioni presso gli storici successivi, in particolare da parte di Pietro De Francisci (v., 1948, vol. III, pp. 96 ss.) e Arnaldo Momigliano (v., 1963, 1967, 1969 e 1986), i quali hanno sottolineato come il termine presenti la medesima radice del verbo populo, -as, -are o populor, -aris, -ari che significa devastare, distruggere, lasciar devastato, ed è quindi legato all'idea della guerra condotta da una forza militare organizzata (v. Gaudemet, 1965, p. 148; v. Mitchell, 1990, p. 155), mentre altri hanno rilevato una possibile derivazione etimologica dell'aggettivo di populus, cioè publicus, da pubes e quindi da adulto atto alle armi (v. Gaudemet, 1965, p. 148).

L'identificazione del populus della Roma arcaica con l'esercito fa sorgere innanzitutto il problema della sua composizione. Nel secolo scorso ha prevalso la tesi che giudicava l'esercito formato dai soli patrizi e di conseguenza escludeva la plebs dal populus originario. In particolare tale idea venne approfondita all'inizio dell'Ottocento da Niebuhr, il quale affermò che nei primi tempi di Roma la città era abitata dai patres e dai loro clienti, mentre la plebs risiedeva in campagna: in origine l'esercito sarebbe stato composto dai soli patres, mentre a partire da Servio Tullio la necessità di rafforzare le milizie avrebbe indotto i patres a concedere la cittadinanza ai loro clienti; la plebs, che abitava fuori della città e non rientrava nella clientela delle famiglie patrizie, sarebbe invece rimasta al di fuori dell'esercito e, quindi, del populus (v. Niebuhr, 1811-1812).

Tale interpretazione venne messa in dubbio alla fine del secolo da J.G. Cuno, il quale sostenne che populus e plebs non sono due termini antitetici, bensì parole derivanti da due lingue diverse che esprimono il medesimo concetto: populus avrebbe una radice etrusca (la stessa che si riscontra in nomi di località, come Populonia), mentre plebs deriverebbe da radici comuni a varie lingue italiche. Secondo Cuno plebs indicherebbe non già la popolazione della campagna, bensì quella originaria del territorio urbano assoggettata da invasori sabini o etruschi (v. Cuno, 1878-1888). In tempi recenti la contrapposizione tra populus e plebs è stata ripresa dal Momigliano (v., 1967; in proposito v. anche Mitchell, 1990, pp. 155 ss.) il quale ha ritenuto che alle origini di Roma la plebs non faceva parte dell'esercito. Ma oggi sembra prevalere la tesi opposta, quella - cioè - che considera la plebe parte integrante del populus, in quanto inserita stabilmente nell'esercito e partecipe delle vicende politiche della città.

In particolare alcuni autori affermano che il termine plebs non è nato agli albori dell'Urbe, ma cominciò a essere usato in età repubblicana quando la parte della popolazione fino ad allora esclusa dal governo conquistò la parità di diritti con i patres e volle trovare un termine che rendesse visibile la propria presenza all'interno del popolo. Plebs e populus, allora, coinciderebbero e l'espressione populus plebesque, attestata in tante fonti di età repubblicana, non starebbe a indicare due gruppi contrapposti, bensì l'articolazione della comunità cittadina, come sarebbe testimoniato dall'altra espressione, Senatus Populusque Romanus, che non intendeva mostrare due gruppi contrapposti, dato che i patres facevano certamente parte del populus (v. Mitchell, 1990, pp. 156 ss.). E in effetti nelle ricostruzioni della Roma di Romolo autori greci - come Polibio e Plutarco - e latini - come Tito Livio - usano indifferentemente i termini populus, plebs, pléthos, multitudo per indicare l'insieme della popolazione cittadina, cioè il popolo nel suo complesso (v. Richard, 1978, pp. 92 ss.; v. Magdelain, 1990, p. 473).

Oggi, dunque, la storiografia sembra convinta che "il termine populus non si sia mai riferito al solo patriziato" (v. Richard, 1978, p. 132) e che, di conseguenza, anche i plebei facevano parte dell'esercito e della cittadinanza (v. Mitchell, 1990, p. 157). Peraltro la critica all'interpretazione ottocentesca è andata anche più in là: una parte della storiografia recente ritiene, infatti, legittimo dedurre dalle ricostruzioni della Roma arcaica rinvenibili in Plutarco, in Dionigi di Alicarnasso e in Tito Livio una distinzione tra populus come moltitudine degli uomini comuni e patres, i capi delle grandi famiglie. Il populus, allora, si contrapporrebbe non già alla plebs, ma ai patres (v. Magdelain, 1990, pp. 473 ss.). Lo starebbe a testimoniare sia la dichiarazione di Plutarco per cui Romolo "plebem in triginta curia distribuit", dove la coincidenza tra popolo e plebe risulta evidente, sia la denominazione delle curie medesime derivante o da toponimi - come Veliensis da Velia o Foriensis da Forum - o da una gens plebea, mai da un nome patrizio (ibid., pp. 475 ss.). Secondo questa lettura, nella Roma arcaica ci sarebbe stata una netta separazione topografica tra gli abitanti dell'Urbe e quelli dell'ager: solo i primi avrebbero fatto parte delle tribù cittadine create da Servio Tullio e, di conseguenza, avrebbero formato il populus, mentre i secondi erano costituiti dai clienti dei patres; tra la fine della monarchia e l'inizio della repubblica i patres avrebbero concesso in modo crescente ai loro clientes la cittadinanza romana, facendoli in tal modo entrare a far parte del populus; gli abitanti originari di Roma avrebbero allora affidato al termine plebs la visibilità del loro gruppo, dato che ormai il termine populus aveva finito con il comprendere anche i patres e i loro clientes. In conclusione, in età monarchica populus avrebbe designato solo una parte della popolazione cittadina, quella distinta dai patres, mentre in età repubblicana avrebbe indicato l'intera comunità urbana (ibid., pp. 478-480).

L'interpretazione ora esaminata presenta altri due aspetti interessanti. Da un canto essa propone per il periodo arcaico una distinzione non solo tra populus e patres, ma anche tra populus e rex (ibid., p. 473), riproponendo un'opinione già in precedenza formulata da una parte degli studiosi (v. Coli, 1951, pp. 11 ss. e 53-56) e individuando nella Roma monarchica le radici dell'articolazione in magistrati, Senato, popolo che caratterizza il periodo repubblicano, con la sola variante del re in luogo dei magistrati. Dall'altro finisce con lo spezzare il nesso populus-esercito postulato da tanti studiosi, dato che fa risalire all'istituzione sotto Romolo delle trenta curie quella definizione del popolo come insieme di cittadini, e non già di soldati, che gli altri studiosi datano in epoca posteriore, poiché la fanno coincidere con l'introduzione del censo sotto Servio Tullio (v. Mitchell, 1990, pp. 157 ss.): la formula Populus Romanus Quirites, che la lettura in esame colloca alle origini di Roma, starebbe appunto a evidenziare il significato civile, contrapposto a quello militare, dei componenti la comunità romana, dato che i Quirites sono i co-vires, cioè tutti i componenti della comunità al di là del loro impiego nell'esercito (v. Magdelain, 1990, p. 474).

c) Il populus romano come comunità dei cives romani o come persona giuridica

Ancora più complesso risulta, poi, il secondo dei problemi prima ricordati. Nel secolo scorso una parte consistente della storiografia giuridica, influenzata da un canto dall'entusiasmo culturale per la costruzione della personalità giuridica dello Stato cui la dottrina occidentale era pervenuta, dall'altro dalla limpidezza della visione teorica unitaria del diritto offerta dalla scuola pandettistica, iniziò ad applicare il modello dello Stato ottocentesco alle società precedenti, intendendolo come canone interpretativo iniversalmente valido per comprendere correttamente l'ordinamento istituzionale di ogni società. Per quanto riguarda, in particolare, la Roma repubblicana, sin dall'inizio del secolo scorso è prevalsa tra gli studiosi l'opinione che il populus aveva costituito un soggetto di diritto a sé, distinto dalle persone fisiche dei suoi componenti, una persona giuridica che, titolare di diritti privati e di diritti pubblici, aveva natura sostanzialmente identica a quella dello Stato ottocentesco: "Populus Romanus als Staat" (la tesi, formulata già da Rubino - v., 1839, pp. 233-240 - e successivamente ribadita - v., 1893 - è stata, poi, approfondita da Mommsen - v., 1886, pp. 824-832 - e ripresa dagli studiosi aderenti all'indirizzo pandettistico. Su questa corrente di pensiero rinviamo a Orestano - v., 1968, pp. 196-201 -, a Catalano - v., 1974, pp. 41-49 - e a Di Porto - v., 1994, pp. 498-503). L'idea gode anche oggi di vasto consenso (v. Coli, 1951, pp. 2-14; v. Nocera, 1956, pp. 565-567; v. Talamanca, 1990, p. 177; v. Crifò, 1994, pp. 123 ss.), ma è stata oggetto di critiche sin dal secolo scorso, a cominciare da Rudolf von Jhering (v., 1852-1865 e 1877-1883) il quale sottolineò l'impossibilità di applicare al mondo romano l'astrazione operata dalla dottrina ottocentesca che aveva costruito la persona giuridica Stato: a suo parere il populus non era mai stato visto come soggetto giuridico a sé, ma sempre come insieme di persone fisiche titolari di diritti. La sua impostazione ha trovato vasto seguito nella successiva storiografia - in particolare tra gli studiosi italiani (v. Fadda, 1894; v. Orestano, 1968; v. Catalano, 1974; v. Di Porto, 1994) e quelli di lingua inglese (v. Kunkel, 1966, p. 9; v. Brunt, 1988, p. 299) - al punto che di recente l'assenza di una nozione romana di Stato "nel moderno senso astratto" e la realtà del popolo romano come "collettività di cittadini" sono state presentate come idee ormai comunemente accettate dall'odierna storiografia (v. Cornell, 1991, p. 63). Ma l'accordo tra gli storici appare ben lontano dall'essere stato raggiunto. Qualche anno fa Leo Peppe, uno degli studiosi più attenti al tema del populus Romanus, ha sollecitato un riesame di ciascuna testimonianza delle fonti nel quadro della specifica fase storica cui la stessa si riferisce (v. Peppe, 1990, pp. 314 ss.).

In realtà le formule con cui nelle fonti più antiche era designato il popolo romano sembrano evidenziarne la pluralità dei componenti, senza mai denotare un tentativo di astrazione diretto a costruire un soggetto giuridico a sé, distinto dalle persone fisiche. Nelle formule di diritto divino l'espressione più ricorrente, come ha rilevato il Catalano, è quella di Populus Romanus Quirites, nella quale il termine unificante (Populus Romanus) è legato strettamente all'altro che individua la molteplicità dei componenti (Quirites), con il risultato di esprimere l'idea di "una pluralità di individui 'riuniti' o 'uniti"' (v. Catalano, 1974, pp. 105).

La medesima funzione risulta svolta, inoltre, da parole ed espressioni che Orestano ha segnalato in fonti del III-II secolo a.C. Innanzitutto il termine res che, a suo giudizio, viene usato per indicare una comunità di persone abitanti in una città o in una regione: res Romana, res Latina, res Albana, ecc. non indicherebbero, perciò, i beni materiali appartenenti alla collettività, ma la comunità medesima, esprimendo "una sintesi di elementi personali e reali" ed evidenziando al contempo la pluralità dei suoi componenti (v. Orestano, 1968, p. 113). In particolare per quanto riguarda Roma, le fonti userebbero insieme con l'espressione res Romana, anche l'altra res publica, sempre con valore del tutto equivalente a quello di populus Romanus (ibid.). Tesi, questa, su cui sostanzialmente conviene anche Gaudemet (v., 1965, pp. 149 ss.) a parere del quale "Res publica designa la collettività presa nella sua individualità", ne sottolinea la forma organizzativa e quindi esprime "l'organizzazione giuridica del populus". Orestano aggiunge, poi, che accanto a res le fonti usano un altro termine collettivo, nomen, il quale, seguito dall'aggettivo di una popolazione, indicherebbe il complesso delle situazioni giuridiche e materiali relative a quanto e a quanti erano designati con l'aggettivo medesimo: nomen Romanum esprimerebbe l'insieme di persone e di cose cui si riferiva la qualifica di romano, al pari delle espressioni nomen Etruscum, nomen Vulscum, ecc., rispettivamente per tutto ciò che era riferito agli Etruschi e ai Volsci (v. Orestano, 1968, pp. 114-119).

Secondo questa tesi, dunque, l'esperienza giuridica più antica avrebbe forgiato termini collettivi per designare "situazioni unificate" (ibid., p. 119) senza astrarre dalla concretezza dei componenti: e tale esperienza non si sarebbe limitata alla designazione dell'intera collettività - indicata con i termini populus, res, nomen -, ma avrebbe riguardato anche unità minori per le quali furono usati i nomi collettivi di familia, gens, tribus, exercitus, senatus, ecc. (ibid.). E di tale esperienza viene trovata conferma sia in giuristi della fine della repubblica - come Alfeno Varo, che in un passo riportato in D.5.1.76 indica il popolo tra le res che non si modificano con il cambiamento dei singoli componenti - sia in autori più tardi, come Pomponio (vissuto verso la metà del II secolo d.C.) che in D.41.3.30.pr. distingue tre categorie di corpora - quelli formati "uno spiritu" come l'uomo, la trave, la pietra, quelli che derivano dall'unione di più elementi, come l'edificio, la nave e l'armadio, e infine quelli che sono formati "ex distantibus", cioè da elementi che non si dissolvono nel corpus, ma sono unificati dal solo nomen - e inserisce il popolo tra questi ultimi, sottolineando da un canto la funzione del nome collettivo, dall'altro la persistente individualità dei componenti del popolo. Una tesi, questa di Pomponio, che trova le sue radici nel pensiero di Seneca - secondo il quale (Epistulae, 102, 6) "Quaedam [...] corpora [...] ex distantibus [...] tamquam exercitus, populus, senatus, illi enim, per quos ista corpora efficiuntur, iure aut officio cohaerent, natura diducti et singuli sunt" (v. Peppe, 1985, p. 327) - e ben si collega con quella dell'altro grande giurista del II secolo, Gaio, il quale affermava (Inst., 1.3) che "populi appellatione universi cives significantur" (ibid., p. 326).

Le fonti ora esaminate sembrano dunque legittimare la tesi che vede nel populus Romanus il termine collettivo con cui era designata la comunità dei cives Romani - di quanti, cioè, godevano della cittadinanza di Roma - e, quindi, del tutto equivalente all'espressione "tutti i cittadini". È la tesi che nega per il periodo repubblicano la possibilità di vedere nel populus "un'entità astratta, distinta, cioè, dai cives che la compongono" (v. Di Porto, 1994, p. 489) e che consente di cogliere in maniera diretta la particolare natura degli interdetti popolari, quelle azioni che ciascun cittadino era legittimato a promuovere in tutela delle res in usu publico - i luoghi destinati al pubblico, le vie, i fiumi, le rive, le cloache -, beni su cui ciascun cittadino, appunto, aveva diritto di godimento in quanto componente del populus (ibid., pp. 506-519).

Più controversa risulta, poi, l'interpretazione di due passi del De re publica di Cicerone che sono correntemente giudicati testi fondamentali per la comprensione del significato di populus in età repubblicana. In De re publica 1.25.39 si legge "'Est igitur', inquit Africanus, 'res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus"'. Secondo la corrente pandettistica il passo attesterebbe l'esistenza di una concezione del populus come persona giuridica distinta dalle persone dei cittadini. Coli, ad esempio, coglie nel brano "un arcaico processo di personificazione", in quanto Cicerone avrebbe configurato la res publica - equiparata a res populi - come "complesso dei rapporti e degli interessi dello Stato in antitesi ai rapporti e agli interessi dei singoli (res privata)" e, di conseguenza, avrebbe concepito il populus come "subbietto di diritti" con "un'individualità propria [...] che rispecchia l'unità organica dello Stato" (v. Coli, 1951, p. 3; v. Crifò, 1994, p. 123). Di opinione diametralmente opposta è, invece, Orestano (v., 1968, pp. 112 ss.), secondo il quale il passo fornirebbe la definizione di populus come comunità dei cittadini componenti l'ordinamento giuridico romano e quindi offrirebbe chiara testimonianza dell'equivalenza tra i termini populus e res publica, in quanto entrambi nomi collettivi usati per indicare la pluralità dei cives.

L'analisi esegetica del passo in esame, mettendo in luce altri aspetti dell'idea ciceroniana, ha fornito nuovi dati per approfondire la questione. È stato così rilevato che a parere di Cicerone il popolo è realtà diversa dalla moltitudine degli abitanti di una località: da essa si distingue per due elementi, il consensus iuris - variamente interpretato (v. Cancelli, 1973, p. 215, nota 3) come "un dato volontaristico o addirittura contrattualistico" (v. Peppe, 1985, p. 319) - e la communio utilitatis, che lo rendono comunità di persone non già occasionalmente riunite, ma volontariamente associate da ragioni giuridiche e politiche. Cicerone, secondo Peppe, avrebbe evidenziato la "necessità della partecipazione di tutti i cittadini alla res publica", una partecipazione, comunque, che - al pari di quanto accadeva nel mondo greco e per diretta influenza di questo - non comportava "uguaglianza di volontà", ma doveva esprimersi nel rispetto delle regole - prima di tutte quella del censo - e nelle forme istituzionali previste dall'ordinamento (v. Peppe, 1990, pp. 316 ss.). In quest'ottica il populus Romanus si presenterebbe come comunità di uomini "organizzata sulla base del census" e troverebbe la sua espressione istituzionale nelle varie assemblee popolari (v. Peppe, 1985, p. 322), in particolare, alla fine della repubblica, nei comitia centuriata e nei comitati tributa (v. Nicolet, 1976; tr. it., pp. 278-289). Di modo che nella descrizione ciceroniana populus non sarebbe "una nozione teorica", bensì una "espressione della parte della società romana prevalente nella storia reale e nelle elaborazioni intellettuali" (v. Peppe, 1985, p. 322).

Tale interpretazione, che rifiuta le conclusioni della linea pandettistica e al contempo fa coincidere la nozione di populus nella Roma repubblicana con le forme istituzionali in cui lo stesso trovava espressione ("Populus Romanus als Volksversammlung", lo definisce Peppe), sembrerebbe trovare conferma in un altro passo del testo ciceroniano (1.26.41) dove si legge "omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem exposui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam regenda est, ut diuturna sit". Qui il populus viene presentato come distinto dalla civitas e "concettualmente precedente" (v. Peppe, 1985, p. 319) a questa, di modo che, ove anche si ammettesse per la repubblica romana la concezione astratta di Stato nel senso odierno, tale nozione dovrebbe essere riferita all'ordinamento istituzionale, alla civitas, non già al populus.

Il medesimo passo, però, è stato utilizzato a sostegno della tesi pandettistica. Nicolet, ad esempio, ha messo in particolare evidenza il richiamo al consilium da cui la res publica è retta - e che a detta di Cicerone può essere esercitato da una sola persona, da una minoranza scelta, dall'intera moltitudine - per sostenere che nell'ottica dell'autore il popolo, alla fine della repubblica, aveva bisogno di magistrati che, da lui distinti, ne promuovessero l'azione e ne integrassero la volontà. A suo parere "il popolo romano [...]esiste [...] come entità indipendentemente dall'esistenza di ciascuno dei suoi componenti: ma esiste di un'esistenza [...] analoga a quella di un minore di cui un curatore o un tutore deve rappresentare i diritti" (v. Nicolet, 1976; tr. it., pp. 273 ss.). Il popolo romano della tarda età repubblicana, dunque, anche se con limitata capacità d'agire, sarebbe stato comunque teorizzato come persona giuridica.

Il problema della nozione astratta di popolo come Stato viene così a collegarsi con quello del ruolo politico e istituzionale da esso svolto nel periodo repubblicano. Ma prima di passare all'esame di tale questione appare necessario soffermare l'attenzione sul significato della formula "maiestas populi Romani" che viene presentata dai sostenitori dell'indirizzo pandettistico come chiara espressione dell'idea del popolo romano quale persona giuridica titolare del potere statale superiore ai singoli cittadini (v. Coli, 1951, p. 2). In proposito Hellegouarc'h ha chiarito che il termine maiestas esprime un'idea di superiorità non già sociale, ma religiosa: esso, infatti, viene riferito innanzitutto agli dei e successivamente a quanti erano ritenuti possedere un carattere sacro che li collegava agli dei, come il pater familias, i patrizi - e di conseguenza il Senato -, il popolo romano in quanto popolo eletto degli dei, infine i magistrati come designati dal popolo romano (v. Hellegouarc'h, 1963, pp. 319 ss.). Tale contenuto religioso spiega l'uso dell'espressione in riferimento alle due materie per la quale soltanto è attestato, il foedus iniquum e il crimen laesae maiestatis. Nel primo caso le fonti parlano di maiestas populi Romani per sottolineare la superiorità, voluta dagli dei, del popolo romano su ogni altro e, quindi, la legittimità dei trattati che sancivano detta superiorità; nel secondo l'espressione appare nelle numerose leggi che nel II e soprattutto nel I secolo a.C. intesero reprimere ogni azione diretta a turbare la pace e l'ordine della società, l'armonia - cioè - voluta dagli dei per il popolo romano (ibid., pp. 314-320). La maiestas populi Romani, allora, nulla avrebbe a che vedere con la superiorità pubblica del popolo-Stato.

d) Il populus romano nel quadro dell'ordinamento repubblicano

Abbiamo visto prima come per alcuni studiosi il problema della nozione giuridica del popolo romano si leghi con quello del ruolo istituzionale e politico da esso svolto nel periodo repubblicano.

In merito a questo ruolo viene richiamata la testimonianza di Polibio, che nel VI libro delle sue Storie descrive l'ordinamento istituzionale romano del suo tempo (verso la metà del II secolo a.C.) individuandone un'articolazione in tre parti - i magistrati, in primo luogo i consoli, il Senato e il popolo - tra loro strettamente connesse e reciprocamente integrate al punto da conferire alla costituzione dell'Urbe un carattere del tutto originale, difficilmente incasellabile nelle forme di governo monarchico, aristocratico o democratico (v. Gaudemet, 1965, pp. 155 ss.; v. Nicolet, 1983 e 1976, tr. it., pp. 266-270). Gli storici odierni concordano nell'affermare che il ruolo istituzionale del popolo in età repubblicana si esprimeva nelle assemblee e riguardava tre campi, l'elettorale, il legislativo e il giudiziario (v. Gaudemet, 1965, p. 156; v. Nicolet, 1976, tr. it., p. 278). L'assemblea più antica era quella delle curie, i comitia curiata, che riunivano le trenta curie in cui le tre tribù originarie si articolavano: alla fine della repubblica erano loro rimaste poche funzioni che riguardavano, in particolare, la materia religiosa, il diritto delle genti e la votazione della lex de imperio dei magistrati maggiori e minori (con l'eccezione dei censori). Maggior importanza rivestivano, nel periodo finale della repubblica, i comitia centuriata che riunivano tutto il popolo dividendolo per età e per censo e avevano tre compiti principali: il voto sui progetti di legge presentati dai magistrati, l'intervento nell'elezione dei magistrati superiori come i consoli, i pretori e i censori, e la decisione sulla provocatio ad populum, l'appello rivolto loro contro la sentenza del magistrato dai condannati alla pena capitale. Nell'ultima fase della repubblica le assemblee popolari più attive e più frequentemente convocate erano, poi, i comitia tributa che avevano funzioni del tutto analoghe a quelle dei comizi centuriati: eleggevano i magistrati, intervenendo in merito alle cariche meno elevate (questori, edili, tribuni militari), ai tribuni della plebe, ai magistrati straordinari; votavano le leggi presentate dai tribuni della plebe; giudicavano sulla provocatio ad populum contro le coercitiones dei magistrati e sulle altre azioni popolari (v. Gaudemet, 1965, pp. 166-169; v. Nicolet, 1976, tr. it., p. 287).

Gli studiosi sottolineano che tali assemblee non coincidevano con la totalità del popolo romano, dato che non ne facevano parte né le donne, né i minori, né quanti erano esclusi dai censori in seguito alla revisione delle liste delle centurie e delle tribù da loro operata ogni cinque anni (v. Gaudemet, 1965, pp. 175-177; v. Peppe, 1985, pp. 323-326; 1990, pp. 327 ss.). Pertanto all'interno della corrente interpretativa che nega la nozione astratta di popolo romano equivalente a quella dello Stato odierno, alcuni autori individuano un duplice significato giuridico del termine: il populus Romanus come assemblee con funzioni elettive, giudiziarie e legislative, da un canto, come comunità di tutti i cittadini, dall'altro. E aggiungono che anche nel secondo significato il popolo in età repubblicana svolgeva un ruolo istituzionale di rilievo: esprimeva volontà normativa nei mores - alla cui formazione partecipavano tutti i cives, anche le donne e i minori (v. Peppe, 1984, p. 87; 1990, pp. 327 ss.) -, era - come dice Orestano (v., 1968, pp. 210-213 e 283-298) - "centro d'imputazione" di rapporti religiosi (le fonti parlano di auspicia populi Romani), in campo finanziario (l'aerarium populi Romani era in età repubblicana l'unica cassa generale di Roma), in campo militare (l'esercito è indicato come exercitus populi Romani e la guerra è definita bellum populi Romani), in campo patrimoniale (al popolo, in quanto comunità di tutti i cittadini erano attribuiti importanti e consistenti beni: le fonti parlano di agri, vectigalia publica patrimonium, bona publica, populi Romani).

Alla questione del ruolo istituzionale e politico del popolo romano si lega, peraltro, anche il quarto dei problemi prima segnalati, quello dell'esistenza di una nozione di sovranità popolare per l'età repubblicana. Secondo Orestano (v., 1968, pp. 209 ss.) le fonti configurerebbero il popolo come "fonte del potere dei magistrati" e quindi spiegherebbero la funzione di costoro con i "concetti di procuratio o di gestio", mentre presenterebbero la lex "come atto che scaturiva da uno iussum del popolo". A detta di Peppe accanto alla duplice accezione del termine populus Romanus - come insieme di tutti i cittadini e come assemblee con specifici compiti istituzionali - si sarebbe sviluppata una terza nozione che avrebbe inteso il popolo "come collettività organizzata nell'assemblea popolare titolare della sovranità", una nozione che sarebbe stata decisamente minoritaria, ma che avrebbe trovato chiara espressione nei provvedimenti sociali del periodo gracchiano (v. Peppe, 1985, p. 322; 1990, pp. 322 ss.).

La lettura di Orestano non sembra aver trovato consensi tra gli studiosi successivi, i quali hanno continuato a vedere nell'ordinamento istituzionale repubblicano l'incontro delle tre parti indicate da Polibio - magistrati, Senato e popolo - e a considerare ciascuna di loro come fondata su una propria legittimazione, senza riportarle a un'unica fonte, quella del popolo sovrano. La tesi di Peppe, dal canto suo, si connette con l'altro problema storiografico, quello dell'interpretazione delle lotte tra populares e optimates che caratterizzarono la storia di Roma dai Gracchi alla dittatura di Cesare.

Un problema storiografico, quest'ultimo, che ha attirato sin dal secolo scorso l'attenzione degli studiosi e che si caratterizza per l'interesse delle tesi proposte, a cominciare da quella liberale - che vi vedeva un precedente del coevo bipartitismo britannico - per proseguire con l'indirizzo prosopografico - che riduceva lo scontro politico a una lotta tra gruppi e fazioni tutte appartenenti alla nobiltà - per concludersi con la storiografia di impostazione marxista, che vi ha letto un esempio di lotta di classe (per un quadro della storiografia sulle lotte tra ottimati e popolari v. Perelli, 1982, pp. 7-12). Oggi gli studiosi sembrano concordare su un punto che in questa sede appare importante sottolineare: l'obiettivo dei populares non era quello di rivoluzionare gli assetti istituzionali repubblicani imponendo il popolo come unico titolare dell'autorità pubblica, bensì quello di accrescere la sfera di competenza che spettava al popolo nella tripartizione del potere, assegnando maggiori funzioni alle assemblee, limitando il ruolo del Senato, accentuando il controllo popolare sui magistrati, ampliando le garanzie giuridiche dei cittadini e offrendo maggior tutela agli interessi dei cittadini meno abbienti (ibid., pp. 13-20; v. anche Serrao, 1974). I popolari avrebbero, dunque, rispettato la tripartizione tradizionale, limitandosi ad assegnare all'interno di questa un ruolo più significativo alle assemblee.

Tali conclusioni appaiono sostanzialmente condivise da Peppe, il quale ammette le difficoltà di usare per l'età romana la nozione moderna di sovranità popolare, anche se continua a ritenere che l'obiettivo dei popolari era non soltanto quello di ampliare il ruolo istituzionale del "populus-assemblea", ma anche quello di fare del popolo "l'unico soggetto del potere" (v. Peppe, 1990, p. 324).

e) Il populus romano nel quadro dell'ordinamento imperiale

Infine, in merito all'ultimo problema, quello del ruolo politico e istituzionale del populus nel quadro dell'ordinamento imperiale, gli studiosi appaiono sostanzialmente concordi nel segnalare un capovolgimento della situazione affermatasi durante la repubblica. La tesi di McIlwain, secondo la quale il popolo sarebbe rimasto fonte ultima dell'autorità imperiale (v. McIlwain, 1940; tr. it., p. 56), non è stata accolta dagli studiosi successivi, i quali hanno negato che il principe possa essere considerato come un magistratus populi Romani (v. Orestano, 1968, p. 219), hanno sottolineato che dopo la repubblica il perno dell'ordinamento divenne esclusivamente l'imperatore (v. De Martino, 1974, pp. 658 ss.) e hanno sostenuto che il popolo da protagonista si trasformò in "nozione tecnicizzata e (apparentemente) neutra di insieme di cives, in realtà di cives subiecti" (v. Peppe, 1985, p. 328), in "mera comparsa" o "gregge di sudditi" (v. Di Porto, 1994, p. 519). Tuttavia, mentre da alcuni studiosi la scomparsa del ruolo politico e istituzionale del popolo sembra esser vista come conseguenza immediata dell'avvento del governo imperiale, da altri viene giudicata frutto di un lungo processo iniziato con l'ascesa di Augusto e protrattosi almeno per tutto il I secolo d.C. Così Orestano ha rilevato che in questo periodo si ebbe un graduale passaggio di competenze dal populus all'imperatore, ma il primo rimase centro di imputazione politica significativa: continuò a essere visto come titolare di maiestas, di provinciae (accanto alle provinciae principis sussistevano le provinciae populi Romani), come autore di leges, come destinatario della provocatio. Solo con la fine della dinastia Flavia l'imperatore avrebbe acquisito il monopolio dell'autorità e il popolo avrebbe perso ogni significato sostanziale (v. Orestano, 1968, pp. 221-224 e 270-275).

Età medievale

a) Il populus nell'alto Medioevo

La ricchezza dell'analisi e l'approfondimento dei problemi che caratterizzano gli studi sul popolo della Roma repubblicana non si ritrovano, invece, nelle indagini riguardanti il tema del popolo nella società occidentale dell'alto Medioevo. L'eterogeneità delle fonti e l'assenza di precisione giuridica frequentemente riscontrabile nel linguaggio usato hanno certamente ostacolato ricerche approfondite dei numerosi aspetti della vicenda del populus in un arco di tempo tanto dilatato.In verità il tema del popolo non è assente dalle analisi relative alla società europea dell'alto Medioevo, anzi risulta addirittura al centro degli interessi di molti studiosi sin dalle prime espressioni della grande storiografia del secolo scorso. Si deve, però, rilevare che gli storici ottocenteschi hanno per lo più trasferito al passato l'idea di popolo forgiata dall'ideologia del loro tempo, e così facendo si sono avvalsi di quel termine per designare la collettività di persone residenti in una regione, unite da comuni tradizioni, dalla stessa lingua, dalla medesima cultura e dalla medesima religione. In questa ottica il popolo finiva col coincidere con la nazione, era presentato come soggetto principale del divenire storico e la società contemporanea era vista come erede di un lungo processo che aveva riguardato il medesimo soggetto ed era iniziato con il primo Medioevo. Conseguenza diretta di tale impostazione, che troviamo innanzitutto in Savigny (v., 1840-1849; tr. it., vol. I, pp. 45-48), fu lo scarso interesse per la ricostruzione dell'esatto significato del termine populus nelle fonti altomedievali. Né l'uso del moderno concetto di popolo e la moderata attenzione per il significato attribuito alla parola dalle testimonianze dell'età di mezzo caratterizzano soltanto la grande ricerca idealistica del secolo scorso: li ritroviamo entrambi in gran parte degli studi successivi che hanno ricostruito l'organizzazione istituzionale delle comunità, la vita quotidiana dei ceti medio-bassi, i conflitti sociali, le concezioni politiche democratiche, ricercando nel mondo altomedievale precedenti dei problemi sociali e istituzionali del nostro tempo.

Se, invece, rivolgiamo la nostra attenzione alle fonti altomedievali, senza caricare le loro espressioni di significati moderni, ci accorgiamo che il termine populus è usato in accezioni per più aspetti diverse da quelle spesso attribuitegli dalla storiografia. Al riguardo appare opportuno prendere le mosse dalla definizione offerta da Isidoro di Siviglia, secondo il quale "Populus est humanae multitudinis, iuris consensu et concordi communione sociatus. Populus autem eo distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus civitatis. (Plebs autem reliquum vulgus sine senioribus civitatis). Populus ergo tota civitas est; vulgus vero plebs est" (Etymologiarum sive originum libri XX, a cura di W.M. Lindsay, vol. I, Oxonii 1911, l. IX, 4,5). Se la definizione isidoriana riecheggia da un canto quella ciceroniana - al pari della quale vede nel popolo una comunità legata da vincoli giuridici e di concordia politica -, dall'altro riprende la distinzione tra popolo e plebe proposta dalle Istituzioni di Giustiniano, indicando, come qui si faceva, nel primo la comunità intera dei cittadini, nella seconda soltanto la sua componente medio-bassa, cioè il popolo senza gli ottimati.Isidoro vede, dunque, nel populus l'insieme di persone legate dalla comune volontà della coesistenza e da vincoli di diritto: un diritto, peraltro, sulla cui natura nulla precisa. Vede anche nel popolo l'intera comunità, escludendo che il termine possa limitarsi a indicare una sola porzione di questa. Le fonti altomedievali confermano solo in parte tale duplice significato.

Per il primo dei due valori di populus è possibile trovare qualche conferma. In realtà per indicare l'insieme di persone legate dai vincoli giuridici più cogenti secondo la cultura degli invasori germanici - cioè quelli di sangue, della tradizione comune, degli usi della vita quotidiana - le fonti altomedievali sembrano preferire i sostantivi gens e natio. Significativo al riguardo è l'esempio offerto dall'Editto longobardo, che indica ciascuno dei re come "rex" o "gubernator" "gentis Langobardorum" (Edictus Langobardorum, in Monumenta Germaniae Historica, Leges, vol. IV, Hannoverae 1868, pp. 1, 91, 169, 171, 195) e usa il nome collettivo di gens o il plurale Langobardi per indicare la comunità etnica dei conquistatori. Per tale comunità l'Editto non sembra mai utilizzare il termine populus. A quest'ultimo, invece, ricorre il re longobardo Astolfo - il quale peraltro continuava a dichiararsi "rex gentis Langobardorum" - per designare gli abitanti della "Romania" - la regione, cioè, dell'esarcato e della pentapoli bizantina - da lui conquistata: tale collettività egli chiama, infatti, "populum Romanorum" e definisce lo stesso "traditum nobis a Domino" (in proposito v. Crosara, 1952; v. Santini, 1985, p. 333).Accanto a questo significato ben definito, populus risulta averne un altro molto più sfumato e generico, non registrato da Isidoro. Lo testimonia, ad esempio, il passo del Liber Papiensis che commenta i capitoli emanati da Pipino, figlio di Carlo Magno e re d'Italia, dicendo "Decrevit divus populo laudante Pipinus" (Edictus Longobardorum, in Monumenta Germaniae Historica, Leges, vol. IV, Hannoverae 1868, p. 514): qui populus è la moltitudine di persone accorsa ad assistere alla promulgazione dei capitoli e indicata come tale, non già come comunità omogenea, come ordinamento giuridico unitario. Inoltre alle due accezioni - quella più specifica e quella più generica - se ne aggiunge una terza, in qualche misura intermedia, quella di insieme di persone unite da un elemento comune. Elemento che può essere la fede religiosa - l'espressione populus Dei o populus fidelium appare usata correntemente dalle fonti per indicare l'insieme dei credenti in Cristo - o l'appartenenza alla generale comunità che, pur articolata in tanti ordinamenti - etnici, territoriali, fondiari, personali - faceva capo a un re. Così nel cap. 7 (8) di Pipino, re d'Italia, si legge: "De universali quidem populo, qui ubicumque iustitiam quaesierit, suscipiat tam a comitibus suis, quam etiam a gastaldis seu a sculdascis vel locipositis iuxta ipsorum lege [...] Et si comes Francus distulerit iuxtitiam faciendam [...] subiaceat sicut Francorum est consuetudo. Et de Langobardis comitibus, si quis ex ipsis neglectum posuerit ad iustitiam faciendam, sicut ipsorum lex est ita componat" (ibid., p. 515): dove "populus" sta a indicare l'insieme delle comunità etniche del regno, le quali vengono successivamente distinte con chiarezza tra loro in base alla natio. Populus, inoltre, indica l'insieme delle persone legate tra loro dalla comune residenza nel medesimo territorio: Liutprando da Cremona nel X secolo parla di "populus Italiensis", mentre documenti coevi individuano le comunità residenti in una valle o in una pieve con la parola populus, oltre che con l'altra universitas (v. Santini, 1985, pp. 333 ss.).

Quest'ultimo significato sembra potersi adattare anche al populus della città il quale, però, è correntemente visto dalle fonti come comunità unificata non solo dallo stanziamento nel medesimo luogo, ma anche da vincoli di natura giuridica - forse meno cogenti rispetto a quelli di sangue - e da comuni intendimenti. L'appartenenza al popolo della città era titolo per vantare alcuni diritti: in particolare, ai componenti di detto popolo la Chiesa attribuiva la potestà di eleggere il vescovo insieme con il clero. L'intervento nell'elezione episcopale è il problema relativo al populus dell'alto Medioevo che maggiormente ha attirato l'attenzione degli studiosi. In questa sede appare interessante esaminare due aspetti del problema, quello del rapporto tra populus e plebs, e quello della concreta potestà elettiva riconosciuta al populus.

Per quanto riguarda il primo, si deve sottolineare che le fonti della tarda età antica e del primo Medioevo riguardanti la partecipazione popolare all'elezione episcopale usano indifferentemente i due termini, attribuendo loro il medesimo significato. Così verso la metà del III secolo si esprimeva, ad esempio, Cipriano vescovo di Cartagine: "Coram omni synagoga iubet Deus constitui sacerdotem [...] ostendit ordinationes sacerdotales non nisi sub populi adsistentis conscientia fieri oportere, ut plebe praesente vel detergantur malorum crimina vel bonorum merita praedicentur" (Epistulae, a cura di L. Bayard, in Collection des Universités de France, Paris 1925, ep. 67; v. Hinschius, 1878, vol. II, p. 512, nota 2; v. Gaudemet, 1979, pp. 14 ss.). Nel V secolo papa Celestino I scriveva: "Nullus invitis detur episcopus. Cleri, plebis et ordinis consensus ac desiderium requirantur" (Epistulae, in Migne, Patr. Lat., 50, col. 434), e san Leone Magno ribadiva: "Nulla ratio sinit ut inter episcopos habeantur qui nec a clericis sunt electi, nec a plebibus sunt expetiti, nec a provincialibus episcopis cum metropolitani judicio consecrati" (ibid., 54, col. 1203; in proposito v. Ganzer, 1971, p. 23). La coincidenza tra populus e plebs non appare, peraltro, casuale: numerose testimonianze relative all'elezione del pontefice mostrano che già nei primi tempi dell'evo di mezzo veniva operata una distinzione tra le famiglie preminenti e il resto della popolazione romana. Così nella Vita Gregorii Magni Giovanni Diacono ricorda che "clerus, senatus populusque Romanus" avevano eletto il pontefice (v. Hinschius, 1869, vol. I, p. 220, nota 2) e nel Liber diurnus Romanorum Pontificum si afferma che il papa era eletto "cunctis sacerdotibus ac proceribus ecclesiae et universo clero atque optimatibus et universa militari praesentia seu civibus honestis et cuncta generalitate populi istius a Deo servatae Romanae urbis" (v. Foerster, 1958, c. 2). E la cittadinanza romana risulta ulteriormente articolata nel resoconto dell'elezione di Stefano III, nel 768, formulato da Anastasio Bibliotecario: il primicerio - racconta Anastasio - aveva convocato "sacerdotes ac primates cleri et optimates militiae atque universum exercitum et cives honestos omnisque populi Romani coetum" (v. Hinschius, 1869, vol. I, p. 228, nota 6). In questi passi populus Romanus non indica l'intera comunità dei Romani, ma solo la massa dei cittadini senza gli ottimati: populus appare, allora, sinonimo di plebs, con buona pace di Isidoro di Siviglia.

Si può dunque affermare che in riferimento alle comunità cittadine populus è usato dalle fonti altomedievali nella duplice accezione di insieme degli abitanti, da un canto, e di plebe - cioè della comunità dei cittadini senza gli ottimati - dall'altro. Nel corso del tempo, tuttavia, il secondo significato sembra prevalere sul primo. Lo attestano, ad esempio, i Libelli de lite imperatorum et pontificum apparsi tra l'XI e il XII secolo nel corso della lunga lotta delle investiture. Così, sulla metà dell'XI secolo Umberto da Silvacandida affermava che "episcopus, secundum decretales sanctorum regulas, prius est a clero eligendus, deinde a plebe expetendus, tandemque a comprovincialibus episcopis cum metropolitani iudicio consecrandus" (Monumenta Germaniae Historica, Libelli de lite, vol. I, Hannoverae 1891, p. 108). Verso la fine del secolo Manegoldo di Lautenbach ricordava le norme tradizionali secondo le quali "nulla sinit ratio, ut inter episcopos habeantur qui nec a clericis sunt electi, nec a plebis expediti, nec a comprovincialibus episcopis cum metropolitani iudicio consecrati" e per l'elezione episcopale "cleri, plebis et ordinis consensus et desiderium requiratur" (ibid., pp. 400 ss.). E il contemporaneo Guido di Osnabruck riferiva che "clerus et populus, proceres etiam et Romanae miliciae exercitus in prenominati Sergii electionem unanimiter convenissent" (ibid., p. 465), operando una chiara distinzione tra il populus e i proceres romani.

I passi ora ricordati dei Libelli de lite appaiono interessanti anche sotto un altro profilo: essi ci fanno conoscere il pensiero dei polemisti della lotta delle investiture in merito alla funzione spettante al popolo nel quadro dell'elezione episcopale. Si è visto prima come sulla metà del V secolo san Leone Magno articolasse tale elezione in tre fasi, assegnando al clero il compito di "eligere" il vescovo, al popolo quello di "expetere" l'eletto e ai vescovi della medesima provincia, col consenso del metropolita, quello di consacrarlo. Le fonti successive sembrano trascurare tale articolazione, la quale, al contrario, viene ripresa dai polemisti in esame.

Se, allora, mettiamo a confronto la definizione di Isidoro di Siviglia con la testimonianza delle fonti successive rileviamo non poche differenze - le seconde usano il termine in accezioni non registrate da Isidoro e spesso attribuiscono alla parola il medesimo significato di plebs - insieme con la conferma della mancata definizione della natura giuridica dei vincoli posti a fondamento dell'unità del popolo, tanto che il termine viene da loro riferito a comunità tra loro differenti, analoghe solo perché in grado di dar vita a un ordinamento (v. Caravale, 1994).Quest'ultimo significato viene confermato dalle fonti che definiscono con il termine populus il variegato insieme di abitanti di un territorio che fa capo a un re, un insieme diviso nei numerosi ordinamenti particolari ivi vigenti, ma accomunato dalla protezione e dalla tutela giuridica che riceveva dal monarca. In particolare, sono ancora i Libelli de lite a offrire spunti interessanti. Così l'Anonimo normanno affermava che i sovrani, in seguito al sacramento dell'unzione, assumevano natura sacerdotale e diventavano, di conseguenza, "inter Deum et Populum mediatores" (Monumenta Germaniae Historica, Libelli de lite, vol. III, Hannoverae 1892, p. 669), mentre Ugo di Fleury indicava il "legitimi regis officium" nella funzione di "populum in iustitia et aequitate gubernare et aecclesiam sanctam totis viribus defendere" (vol. II, p. 473) e il Tractatus Eboracense de consecratione pontificum et regum dichiarava che il sovrano veniva consacrato "ut [...] populum christianum sibi commissum cum pace propitiationis feliciter regat" (vol. III, p. 677). Gli autori ora ricordati individuavano, dunque, la ragione d'essere del re nella funzione di tutela delle persone e dei diritti delle comunità residenti in un territorio: l'insieme di dette comunità essi chiamavano populus. A quest'ultimo veniva riconosciuto un ruolo attivo nel rapporto con il sovrano, non soltanto al momento della scelta del titolare della dignità regia, ma anche nel concreto esercizio della potestà monarchica. Così Gerhoh di Reichersberg affermava: "Nam neque episcopi reges creant vel ordinant, sed principum ac populi electione et acclamatione creatis [...] episcopi benedicunt" (vol. III, p. 345) e Manegoldo di Lautenbach riteneva che il re "qui pro coercendis pravis, probis defendendis eligitur, pravitatem in se fovere, bonos continere, tyrannidem, quam debuit propulsare, in subiectis ceperit ipse crudelissime excercere, norme clarum est, merito illum a concessa dignitate cadere, populum ab eius dominio et subiectione liberum existere, cum pactum, pro quo constitutus est, constet illum prius irripuisse" (vol. I, p. 365). Una testimonianza, quest'ultima, particolarmente interessante, perché documenta come alla fine dell'XI secolo si pensasse all'esistenza di un vero e proprio pactum tra il popolo e il re che lo doveva proteggere.

b) Il populus nel basso Medioevo

"Populus est collectio multorum ad iure vivendum, quae nisi iure vivat, non est populus": così nella prima metà del XII secolo l'operetta De verbis quibusdam legalibus (a cura di F. Patetta, in Bibliotheca iuridica. Medii Aevii, vol. II, Bononiae 1892, p. 131) ribadiva la natura giuridica del vincolo grazie al quale la multitudo si faceva populus. Rispetto alla definizione ciceroniana la forza unificante del diritto risulta qui accentuata, dato che nessun altro fattore coesivo a essa veniva aggiunto (v. Calasso, 1953, p. 273): la scienza giuridica rinnovata a Bologna accoglieva ed enfatizzava l'insegnamento dei Romani. La natura di detto diritto, dalla piena capacità unificante, continuava, comunque, a essere imprecisata: nella definizione, allora, poteva riconoscersi qualsiasi forma di ordinamento giuridico.Il popolo, dunque, restava insieme di soggetti unificati dal diritto e titolari, in quanto componenti della comunità, di diritti. Dei tanti profili che questa realtà presentava nel basso Medioevo l'interesse della storiografia sembra essersi soprattutto diretto all'analisi del ruolo del populus nell'elezione episcopale e allo studio della sua funzione nell'ordinamento unitario facente capo a un principe.

c) Il ruolo del populus nell'elezione episcopale

Per quanto riguarda il primo problema si deve ricordare che la riforma gregoriana introdusse un cambiamento nella disciplina precedente, poiché intese ridurre l'ambito di intervento laico e accrescere quello riservato alla gerarchia ecclesiastica. Punto di partenza del nuovo corso appare il decreto di Niccolò II del 1059 sull'elezione pontifica (v. Hägermann, 1970; v. Ullmann, 1982) che assegnava la potestà elettiva ai soli cardinali e aggiungeva che "reliquus clerus et populus ad consensum novae electionis accedant", rendendo definitiva la marginalità, già da tempo affermatasi nella prassi, del ruolo del popolo romano nella scelta del papa e al contempo riducendo l'intervento del clero romano a vantaggio delle massime dignità gerarchiche della Chiesa. Il medesimo obiettivo di lotta contro l'intervento potenzialmente simoniaco degli ottimati laici (v. Benson, 1968, p. 33) si ritrova nella disciplina dell'elezione episcopale introdotta da Gregorio VII e diretta a conciliare la tradizione con i nuovi obiettivi della Chiesa riformata. Il pontefice conservò, infatti, al clero e al popolo della diocesi la potestà elettiva, ma dispose che la stessa doveva esprimersi sul nome - o sui nomi - proposti dal visitatore apostolico, inviato dal pontefice o dal vescovo metropolita.

Nel secolo XII, poi, venne introdotta una chiara distinzione tra l'intervento del clero e quello del popolo. Graziano nella Expositio alla distinctio LXII ricordava l'antica regola per la quale "electio clericorum est, expetitio plebis" (v. Ganzer, 1971, p. 33) e pochi anni dopo Alessandro III precisava che "electio est per canonicos ecclesiae cathedralis et religiosos viros, qui in civitate sunt et diocesi, celebranda" (v. Ganzer, 1972, p. 169), escludendo così il popolo da un ruolo attivo nell'elezione episcopale. Tale attenuazione del significato del popolo sembra trovare conferma nella prassi elettorale esaminata dal Ganzer in riferimento a due grandi diocesi tedesche, quelle di Treviri e di Colonia: a partire dalla metà del XII secolo l'intervento del popolo non risulta più ricordato nei resoconti di elezioni episcopali offerti dalle cronache delle due città (ibid., pp. 172-190).I decretisti, comunque, furono unanimi nel ricordare la partecipazione del popolo all'elezione episcopale e a individuare la sua funzione specifica nel consenso all'eletto (v. Ganzer, 1971, pp. 38-58). Essi, però, si differenziarono tra loro nel giudicare la necessità di tale intervento: alcuni, come Alano e Giovanni Teutonico, lo ritennero parte essenziale della procedura (ibid., p. 55, nota 147, e p. 59, nota 167), mentre altri, come Lorenzo Ispano, lo considerarono superfluo (ibid., p. 57). Varia risulta anche l'opinione dei giuristi in merito agli effetti del mancato consenso popolare: per chi riteneva quest'ultimo non indispensabile, l'eletto che non avesse ottenuto l'assenso "non est deponendus" (ibid., p. 57), mentre i sostenitori della necessità dell'intervento popolare erano divisi tra quelli, come Alano, per i quali l'eletto doveva comunque essere consacrato e rimanere in carica, e altri, come Giovanni Teutonico, secondo i quali "cassanda sit eleccio vel consecracio" (ibid., p. 55, nota 147, e p. 59, nota 167). Con i decretalisti, infine, l'emarginazione dell'assenso popolare si fece definitiva, all'interno di una nuova disciplina dell'elezione episcopale che riduceva anche la partecipazione del clero e affidava l'elezione a un ristretto collegio. Tale nuovo indirizzo si può cogliere, ad esempio, in Goffredo da Trani il quale affermava: "Hoc igitur est regulare, ut ad collegium cuiuslibet ecclesiae spectet electio, licet plerumque ex consuetudine vel ex privilegio alieni vocentur [...] vocantur aliquando religiosi ex honestate non ex debito [...] vocatur populus non ad eligendum sed ad consentiendum" (ibid., p. 78, nota 257).

d) Il ruolo del populus negli ordinamenti unitari facenti capo a un principe

Accanto al tema dell'elezione episcopale, la storiografia ha esaminato con particolare attenzione quello del ruolo del popolo negli ordinamenti unitari facenti capo a un principe, soprattutto sotto il duplice profilo del suo rapporto con il sovrano e della sua partecipazione alla formazione del diritto.Per quanto riguarda il primo aspetto la storiografia giuridica sostiene da tempo che le fonti medievali testimoniano due diverse idee sull'origine dell'autorità del principe, una che la faceva derivare da Dio, l'altra che l'attribuiva alla volontà del popolo, e rileva, di conseguenza, che il ruolo del popolo era considerato nell'una passivo e nell'altra attivo (la tesi dell'esistenza di tale duplice indirizzo è stata sostenuta da Ullmann: v., 1961). Espressione chiara del primo indirizzo è considerata la formula dell'unzione regia recitata dal sacerdote, che si rivolgeva al principe con le parole "ut sis benedictus et constitutus rex in regno isto super populum istum, quem Dominus Deus tuus dedit tibi ad regendum et gubernandum" (ibid., p. 129). E la medesima impostazione viene indicata nella dottrina, ampiamente diffusa nei glossatori civilisti e canonisti e nei commentatori, che riconosceva il principe titolare di una plenitudo potestatis da esercitare al di fuori di ogni condizionamento da parte del popolo (v. Pennington, 1993). Il secondo indirizzo, poi, è stato colto nelle tesi dei giuristi che da Accursio a Cino presentano il popolo come causa proxima dell'autorità imperiale - causa proxima che si affiancava, quale fattore indispensabile, alla causa remota costituita da Dio (v. Cortese, 1964, pp. 198-203) -, nella dottrina che vedeva nell'imperatore il "vicarius populi" (ibid., pp. 131, 174 ss.), nell'idea elaborata da Tommaso d'Aquino, per cui "ad populum pertinet electio principum" (v. Ullmann, 1961, p. 255), e soprattutto nella teoria di Marsilio da Padova che assegnava all'universitas civium, coincidente con il populus (v. Kölmer, 1979), l'intera potestà di governo. La storiografia, inoltre, segnala la presenza di entrambi gli indirizzi nella dottrina riguardante la produzione normativa.

Per il primo, il principe sarebbe titolare esclusivo della potestà legislativa: a lui si applicava, secondo un'opinione costante che va dai glossatori ai grandi commentatori, la regola ulpianea per la quale "quod principi placuit legis habet vigorem" purché tale volontà si esprimesse in una norma generale; a lui solo i giuristi riconoscevano la funzione di eliminare, per il tramite della legge, consuetudini inique e quindi di tradurre in diritto positivo i principî superiori dell'aequitas (v. Caravale, 1994, pp. 524-544). Per il secondo indirizzo la funzione normativa del popolo non sarebbe secondaria. Gli spettava, innanzitutto, la produzione delle consuetudini: a detta di Bartolo "usus et mores sunt causa consuetudinis: dico causa remota, nam proxima causa est tacitus consensus populi" (In Primam Digesti Veteris Partem, Venetiis 1615, f. D. 1.3.23). Gli spettava, poi, la potestà di deliberare norme vincolanti per la comunità: "quando populus habet omnem jurisdictionem, potest facere statutum" affermava ancora Bartolo (ibid., f. D. 1.1.9), aggiungendo che l'assemblea era la sede in cui tale produzione normativa doveva accadere (v. Ullmann, 1962, pp. 716-733); e la sua tesi fu ripresa e approfondita da Marsilio da Padova (v. Rubinstein, 1979). Tale corrente avrebbe, infine, trovato il suo esponente più avanzato in Baldo, a detta del quale il popolo stesso, in quanto tale, è diritto: "Populi sunt de iure gentium, ergo regimen populi est de iure gentium: sed regimen non potest esse sine legibus et statutis, ergo eo ipso quod populus habet esse, habet per consequens regimen in suo esse, sicut omne animal regitur a suo proprio spiritu et anima" (In Primam Digesti Veteris Partem Commentaria, Venetiis 1599, D.1.1.7, f. 12 vb, n. 4).

In proposito appare opportuno formulare alcune osservazioni. In primo luogo è fin troppo ovvio sottolineare la necessità di leggere le fonti documentarie e dottrinali sopra ricordate alla luce delle idee politiche e giuridiche coeve. In una tale ottica la potestas riconosciuta al principe appare sostanzialmente e decisamente differente dall'odierna sovranità statale, poiché nasceva dal bisogno di una tutela coordinata e omogenea avvertito dagli ordinamenti particolari - quelli delle comunità dei liberi, quello ecclesiastico, quello feudale, il municipale, il signorile, il territoriale, ecc. - vigenti nel territorio del regno, ordinamenti che precedevano la potestas del principe, non derivavano da questa e si evolvevano spontaneamente, al di fuori del suo intervento. La dignità regia era, dunque, avvertita come utile - e quindi implicitamente richiesta - da tali ordinamenti, indicati dalle fonti con il termine onnicomprensivo di populus; e al contempo era vista come voluta da Dio proprio per la sua funzione di tutela del diritto e, quindi, di garante della pace. Pertanto le testimonianze medievali che indicano la fonte della potestas del principe in Dio e quelle che invece l'assegnano al popolo non necessariamente devono essere lette come espressione di due opposte ideologie: potrebbero, al contrario, essere intese come attestanti due profili della medesima dottrina, una dottrina che potrebbe essere riassunta dalla tesi, prima ricordata, secondo la quale la potestà regia avrebbe avuto in Dio la sua causa remota e nel popolo la sua causa prossima (v. Caravale, 1994).

Per quanto, poi, riguarda la legislazione del principe si deve tener presente che mentre oggi la legge è la fonte primaria del diritto, nel Medioevo era fonte decisamente secondaria rispetto alla consuetudine, alla giurisprudenza delle corti e alla dottrina dei giuristi. Essa nasceva all'interno della funzione di giustizia del principe come strumento per eliminare consuetudini inique e sostituirle con norme ispirate al superiore principio dell'aequitas. Pertanto il problema della partecipazione del populus alla produzione normativa non può essere limitato per il Medioevo al tema della legislazione, ma deve riguardare innanzitutto la formazione degli usi e delle consuetudini: e in questo campo, come abbiamo visto, il ruolo decisivo del populus non veniva messo in discussione.

Si deve aggiungere che l'ordinamento facente capo a un principe non era l'unico ordinamento unitario: lo era anche, tra gli altri, quello comunale che riuniva ordinamenti particolari costituiti dalle famiglie, dalle organizzazioni di vicinato, dalle consorterie, dalle corporazioni di mestiere, dalle associazioni, ecc. E nel Comune la funzione di tutela e di giustizia unitaria spettava ai cittadini stessi, al populus: era questo il titolare unico della jurisdictio di cui faceva parte anche la potestà legislativa. Le fonti che evidenziano detto potere del popolo del Comune, allora, non sembrano proporsi la difesa di ideologie contrastanti con la dottrina dell'autorità regia, bensì solo la descrizione di una delle tante realtà istituzionali vigenti nel mondo occidentale. In proposito si può ricordare che nel XV secolo il giurista inglese John Fortescue teorizzò l'esistenza di due forme di governo, il dominium regale e il dominium politicum, distinti tra loro perché nel primo il principe esercitava da solo la jurisdictio unitaria, mentre nel secondo tale compito era svolto dal popolo al quale solo spettava la scelta dei governanti, ma al contempo precisava che in entrambi i casi la potestà giurisdizionale era identica, di modo che la differenza tra i due tipi di governo risiedeva esclusivamente nei titolari della stessa e nei modi del suo esercizio (v. Caravale, 1994, pp. 633-639).

Né, infine, si può sottovalutare il problema del significato attribuito dalle diverse fonti al termine populus. Così, ad esempio, è stato precisato da Cortese che i glossatori, nel discutere in merito alla potestà legislativa del populus, prendevano in considerazione non già le comunità cittadine o dei castri o quelle, variamente articolate, residenti nel territorio di un regno, bensì solo il populus Romanus, l'unico di cui le norme giustinianee si occupavano: "sic hic nomine 'populus', per se prolato, intelligitur romanus", dichiarava Piacentino (v. Cortese, 1964, pp. 129 ss. e nota 63, pp. 177-180). Pertanto la definizione delle funzioni del populus da loro proposta non potrebbe essere estesa a qualsiasi comunità definita dalle fonti come populus. Un diverso significato, anch'esso riferito a una specifica realtà comunitaria, ma diversa da quella dell'antico popolo romano, sembra poi avere il termine nella celebre formula di Baldo prima ricordata. L'additio posta a completamento dell'opera precisava, infatti, "appellatio populi refertur ad populum unius civitatis" (In Primam Digesti Veteris Partem Commentaria, f. 15 rb), come se volesse limitare l'uso del termine alla sola comunità che dava vita a un Comune ed escludere, di conseguenza, ogni generalizzazione della teoria, formulata da Baldo, per la quale il popolo era di per sé ordinamento giuridico.Un'accezione più generale presenta, invece, il termine nella formula dell'unzione regia, dove indica l'intera comunità degli abitanti del regno, una comunità articolata in tante realtà istituzionali e giuridiche e legata insieme dal solo vincolo - certamente più tenue di quelli del mondo particolare - dell'unità facente capo al monarca. E numerose fonti usano il termine in questo significato generale di comunità che compone un ordinamento unitario, costituito da un regno, da una signoria, da un Comune. Un significato che trova conferma sia nell'uso della parola 'popolo' da parte di Dante (v. Lanci, 1973, pp. 594 ss.), sia nella definizione di Tommaso d'Aquino per cui populus era "multitudo hominum sub aliquo ordine sociatus" (Summa Theologiae, I, q. 31) dove si ribadiva ancora una volta l'idea del diritto come fondamento del popolo, continuando a lasciare imprecisata la natura di questo (anche Antony Black - v., 1992, p. 18 - ritiene che la maggior parte delle fonti medievali riferisca il termine populus - al pari di universitas, communitas e commune - "alla comunità politica, in qualunque forma essa venisse percepita come esistente dai contemporanei").

Peraltro, anche questo significato appare bisognoso di qualche precisazione. Se torniamo a esaminare, ad esempio, la dottrina di Bartolo, troviamo che il termine, pur nella sua accezione più estesa, presenta una duplice valenza: da un canto indica la comunità nella sua interezza - e perciò comprendente tutti i componenti maschi adulti, le donne e i minori -fonte di norme consuetudinarie, dall'altro restringe la comunità ai soli partecipanti alle assemblee cittadine - quelle che approvavano leggi e statuti -, eliminando, di conseguenza, non solo i minori e le donne, ma anche i maschi adulti appartenenti ai gruppi esclusi dalle magistrature municipali. Si tratta - come si può facilmente notare - di due significati tra loro non omogenei.La lettura delle fonti documentarie e dottrinarie sopra ricordate risulta, dunque, ben più complessa e incerta di quanto appaia a prima vista e deve necessariamente tener presente il quadro istituzionale e culturale dell'epoca, nonché la specifica realtà giuridica cui la singola testimonianza si riferisce, senza cedere alla tentazione di proporre facili generalizzazioni o soluzioni più familiari alla cultura odierna.

e) Gli altri significati di populus nel basso Medioevo

Il termine populus, peraltro, non presenta nel basso Medioevo soltanto questi significati: altri se ne aggiungono cui la storiografia ha rivolto particolare attenzione.

È certamente mancato negli studiosi qualsiasi serio tentativo di attribuire al termine l'accezione di Stato nel significato moderno: le proposte avanzate in questo senso a proposito dell'universitas civium teorizzata da Marsilio da Padova - e corrispondente, come sappiamo, al populus - sono state fermamente respinte. È invece correntemente riconosciuto che il termine ha recuperato nel basso medioevo il significato geografico che aveva nell'antichità: in molti Comuni italiani esso designa sia la comunità di fedeli sia il distretto di una parrocchia, e in Spagna indica gli abitanti di un villaggio e il villaggio stesso.

Varie interpretazioni, poi, hanno riguardato la composizione del populus che nei Comuni dell'Italia centro-settentrionale si contrappose all'aristocrazia. Al riguardo si deve ricordare che nella maggior parte dei municipi tra la fine del XII secolo e gli inizi del successivo i cittadini che godevano dei diritti di libertà e di proprietà piena, ma erano esclusi dalle magistrature, monopolio delle famiglie fondatrici del Comune, cominciarono a contestare tale forma istituzionale: in una prima fase si dettero un'organizzazione distinta da quella comunale, mentre dalla metà del XIII secolo si proposero di appropriarsi del governo cittadino, sottraendolo ai tradizionali detentori. Tale componente della cittadinanza comunale viene indicata dalle fonti con il termine di populus, termine che finisce così per avere nelle fonti comunali il duplice significato di comunità urbana e di parte non aristocratica della stessa.

La storiografia ha a lungo dibattuto sulla composizione del populus municipale che si opponeva alla nobiltà urbana. La prima ricostruzione approfondita delle vicende di un 'popolo' municipale riguarda la città di Milano e venne attuata nel secolo XVIII da Giorgio Giulini (v., 1760-1774), mentre nel secolo successivo Augusto Gaudenzi (v., 1889 e 1899), avvalendosi di una ricca documentazione inedita, portò un contributo decisivo alle conoscenze della realtà bolognese. Il 'popolo' veniva presentato come composto da mercanti e artigiani organizzati nelle corporazioni di mestiere in difesa dei loro interessi legati allo sviluppo manifatturiero e commerciale della città. Ma è sul 'popolo' di Firenze che si è soprattutto accentrata la discussione storiografica. A inaugurarla fu, alla fine del secolo scorso, Gaetano Salvemini (v., 1899) il quale vide nel popolo la borghesia mercantile e manifatturiera in naturale conflitto di classe con l'aristocrazia nobile e terriera dei magnati. Qualche anno dopo, però, Robert Davidsohn (v., 1908) chiarì che il popolo, almeno nei primi tempi del suo impegno politico, non risultava composto dai soli iscritti alle corporazioni di mestiere, ma comprendeva anche proprietari fondiari. La tesi venne approfondita da Nicola Ottokar (v., 1926) il quale contestò l'interpretazione di Salvemini, sottolineando la complessa composizione del 'popolo' fiorentino, che risultava formato anche da signori fondiari, e la molteplicità degli interessi economici dei grandi mercanti e artigiani i quali erano anche proprietari di vasti patrimoni: a suo vedere, allora, il conflitto politico che caratterizzò per lungo tempo la storia fiorentina non opponeva due precise classi sociali, bensì gruppi appartenenti alla medesima élite.

L'impostazione di Ottokar ha finito col prevalere nella storiografia successiva, che ha messo in evidenza con De Vergottini (v., 1931, 1934, 1943, Arti... e Note...) la molteplice natura delle organizzazioni popolari - che non si esauriscono nelle sole corporazioni, ma comprendono anche le associazioni di vicinato, o vicinia -, ha sottolineato con Heers (v., 1974) il ruolo dominante svolto nei Comuni dall'ordinamento familiare e l'importanza dei suoi legami con gli altri gruppi dinastici, legami per i quali la distinzione tra popolo e aristocrazia risulta irrilevante, ha fornito con Koenig (v., 1986) una ricostruzione attenta e puntuale delle associazioni e delle istituzioni cui il popolo dette vita, ha approfondito con Artifoni (v., 1990) le forme di governo da quello create.

Oggi la storiografia sembra convinta che il 'popolo' dei municipi italiani aveva una composizione variegata ed era costituito da famiglie estranee al gruppo dei fondatori del Comune. Ne facevano, perciò, parte signori fondiari, mercanti, artigiani; le loro organizzazioni erano non solo le arti, o corporazioni di mestiere, ma anche le vicinie e le associazioni di natura diversa, come le milanesi Credenza di S. Ambrogio e Motta e la veronese comunanza (v. Caravale, 1994, pp. 479 ss.). L'eterogeneità dei componenti del 'popolo' impediva una unicità di interessi al suo interno: la distinzione tra popolo grasso e popolo minuto che a Firenze separava i membri delle arti maggiori da quelli delle arti minori (ibid., p. 483), costituisce un esempio evidente di tale realtà.

Per quanto, poi, concerne le istituzioni popolari si deve ricordare che nella prima metà del XIII secolo, accanto alle organizzazioni prima ricordate, in molti municipi nacquero Comuni di popolo, che avevano propri statuti e propri magistrati - innanzitutto il capitano del popolo - e si distinguevano, pertanto, dal Comune cittadino nel cui territorio operavano. La scissione, comunque, non durò a lungo: dalla metà del secolo il popolo cominciò a contendere alla nobiltà il governo del Comune cittadino, dando inizio a una fase di duri contrasti politici. Quasi ovunque vincitore, il popolo dette al governo comunale nuove forme istituzionali, incentrate, per lo più, sulla magistratura degli Anziani e sulla presenza di più consigli cittadini. Inoltre finì in genere per accogliere nelle sue fila molte famiglie dell'antica nobiltà e per accentuare la gerarchia sociale al suo interno. L'incontro tra famiglie di ceto diverso ebbe la conseguenza di appannare la valenza antinobiliare del popolo e di favorire la formazione di una nuova oligarchia composta da dinastie di estrazione diversa. Tale oligarchia assunse il governo di molti Comuni e costituì anche la classe politica di molti regimi signorili. Il fenomeno trovò a Venezia una definizione formale: la Serrata del Maggior Consiglio del 1297 e i successivi provvedimenti della prima metà del Trecento riservarono il diritto di far parte delle magistrature cittadine a un ristretto patriziato, composto da famiglie di origine sia nobiliare sia popolare affermatesi alla guida del Comune, escludendone tutti gli altri cittadini.

(V. anche Democrazia; Politica).

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Età moderna e contemporanea di Claudio Cesa

1. Introduzione

Il termine 'popolo' nell'età moderna è stato usato in tutta una serie di significati, alcuni dei quali neutri (popolazione, gruppo etnico, gente) altri, invece, carichi di implicazioni politiche, spesso molto differenti. Ciò ha indotto, più di una volta, a ritenerlo talmente equivoco da risultare inservibile "per ogni indagine realmente esatta" (Weber) o "per una teoria della democrazia" (Sartori), o addirittura ad espungerlo dai lessici politici, salvo poi inserirlo in unione ad altri concetti (per esempio popolo-nazione). Tuttavia 'popolo' è stato usato quasi sempre pensando anche ad altre entità - repubblica, impero, Stato, patria - sicché il termine designa ora una realtà esistente, ora una aspirazione o addirittura un 'mito' (A. Pessin), una forza ora di resistenza ora di progresso, ed è stato invocato dai conservatori e dai rivoluzionari, ciascuno dei quali riteneva di interpretarne le tendenze profonde proponendo un modello ideale, descrittivo e prescrittivo.

A seconda che il popolo esistente fosse o no conforme a quel modello, si ritenne che esso potesse esercitare direttamente la sovranità, ovvero che dovesse essere educato ad esercitarla da nuclei selezionati (le leghe e le sette all'epoca dei conflitti di religione, poi le società popolari e i clubs, più tardi ancora i partiti, i sindacati, le milizie). Nell'uso politico dell'età moderna 'popolo' designa, insomma, sia la fonte della sovranità, sia coloro sui quali il potere, derivante dalla sovranità, si esercita. Questo carattere bifronte era ben presente a Hobbes, che si sforzò di esorcizzarne le conseguenze introducendo una distinzione, che ha avuto molta fortuna, tra popolo inteso come "un certo numero di uomini" che vivono in un'area geografica (il popolo d'Inghilterra e il popolo di Francia) e popolo come portatore presunto o 'virtuale' della sovranità, lasciando impregiudicate le forme, o le persone, con le quali quest'ultima viene esercitata. È ovvio che la 'moltitudine' obbedisce a pochi, e questa constatazione apre la strada ad un'altra definizione di popolo, come insieme dei governati di cui però, propriamente parlando, non fanno parte coloro che si distinguono per rango e per ricchezza. Anche questa distinzione ha una lunga tradizione, da Machiavelli sin almeno alla fine dell'Ottocento; Tocqueville, per esempio, separa le 'classi alte' (i grandi proprietari terrieri, ma anche 'i ricchi e i colti': in Germania si diceva Besitz und Bildung) dal popolo, che sarebbe quella parte della società costretta "ad occuparsi delle cure materiali della vita". Da questa definizione era tratta, già prima di Tocqueville, una conclusione 'rivoluzionaria' secondo cui è ingiusto che il popolo, cioè "l'insieme dei cittadini che lavorano" (Blanqui) venga governato da chi non lavora. Non sorprende che chi combatteva la rivoluzione negasse anzitutto la definizione; è nota una dichiarazione di Bismarck: "al popolo apparteniamo tutti; anch'io ho i diritti del popolo, del popolo fa parte anche sua maestà l'imperatore, noi tutti siamo il popolo", in cui la distinzione hobbesiana da cui siamo partiti pare completamente accantonata.

Nella formula bismarckiana, malgrado il tono polemico, si scorge l'idea della "nazionalizzazione delle masse" (Mosse), cioè dell'amalgama, nello Stato moderno, di tutti i gruppi della popolazione. Eppure 'popolo' continua a mantenere il suo significato bivalente: nei testi costituzionali esso compare come il detentore della sovranità (art. 1 della Costituzione italiana; art. 20 del Grundgesetz tedesco; preambolo alla Costituzione francese del 1958), ma viene presentato, anche, come colui cui è impedito, o almeno reso difficile, di esercitare davvero quella prerogativa. Rassemblement du peuple français si chiamò il movimento costituito nel 1947 in sostegno del generale de Gaulle, dopo che questi si era dimesso dal governo; ma anche il più lucido avversario di de Gaulle, P. Mendès-France, che pure riconosceva alla Assemblea nazionale di essere "la depositaria della sovranità", deplorava che la "volontà popolare non avesse mai potuto dare ordini e ottenere soddisfazione". In questi usi del concetto di popolo è implicita l'idea di una forza che non trova il modo di manifestarsi costruttivamente.

2. Da Machiavelli alla Rivoluzione inglese

Negli scritti di Machiavelli il termine 'popolo' ricorre con estrema frequenza, ma non designa mai una forza direttamente attiva (salvo che nelle insurrezioni e nei tumulti), bensì un corpo senza la collaborazione del quale non è possibile né la sicurezza del governo né la durata dello Stato. Il popolo è anzitutto distinto dai grandi, dai gentiluomini, ma anche dai cittadini (e si intende quelli autorevoli, che sono ascoltati nelle assemblee), il suo interesse è di non essere offeso. Tuttavia un principe è obbligato "a vivere sempre con quello medesimo populo", per cui gli è necessario averlo devoto, "altrimenti non ha, nelle avversità, remedio". Nell'alternativa, se sia meglio avere fortezze o l'appoggio del popolo, la scelta è, senza esitazioni, per il secondo corno del dilemma. Tanto più che un principe, per essere sicuro, deve avere "armi proprie", esercitando nella milizia una parte dei sudditi. Non bisogna credere che questo non esiga, da parte del principe, qualche contropartita: quando Machiavelli consiglia, a chi voglia tenere una città "consueta a vivere libera", di "abitarvi", non si riferisce ad una residenza anagrafica, o ad una diretta sorveglianza poliziesca, bensì raccomanda di fare di quei cittadini i collaboratori e gli strumenti della sua potenza.

Il rapporto dinamico tra governati (popolo) e governanti (principe o legislatore) emerge in maniera nettissima nella celebre analisi della corruzione, che si diffonde quando il popolo ha perduto la pratica della libertà e delle armi e si lascia ingannare dai potenti, e accecare da chi (Cesare) si atteggia a tutore dei suoi diritti. Si apre, a questo punto, una fase di convulsioni interne e di rovesci esterni che possono offrire l'occasione per l'intervento ordinatore di un capo. Ma quando la "corruzione di materia" è troppo avanzata è quasi impossibile che quegli interventi abbiano successo, mentre qualche speranza c'è se il popolo non ha perduto ogni ricordo della passata virtù e degli antichi ordini. Ricordando che i popoli stanno molti secoli in una opinione, Machiavelli raccomanda a chi li vuol riformare di "ritenere l'ombra almanco dei modi antichi"; e non si tratta di semplice apparenza, essendo una legge generale che, onde la salute dei popoli non si guasti definitivamente, questi vengano periodicamente ridotti "verso e' principî suoi", "i quali conviene che abbiano in sé qualche bontà". L'artifizio del legislatore deve incontrarsi, cioè, con l'essenza dell'ordinamento che ha costituito il carattere di quel popolo, e soltanto a questa condizione può avere successo: un semplice inganno non farebbe che aggravare il male. Si può ben dire, con G. Sasso, che almeno nel I libro dei Discorsi il popolo è "il protagonista della vita profonda dello Stato".

Pochi decenni dopo la morte di Machiavelli, l'esplodere, in buona parte d'Europa, delle guerre di religione cambiava i termini del problema: non si trattava più di ricostituire un popolo, bensì di stabilire a chi spettasse, in esso, la sovranità, e quali fossero sia il fondamento che gli strumenti del diritto di resistenza. Una lunga tradizione storiografica indica in alcune correnti protestanti le fonti del liberalismo; ma si tratta di un rapporto tutt'altro che diretto. Per circa un secolo coloro che rivendicavano la libertà dell'individuo di professare pubblicamente le proprie convinzioni furono nettamente minoritari, e spesso proprio costoro restano volontariamente ai margini dello scontro armato. Per quelli, invece, che vi si impegnavano il popolo fu una importante figura teorica: il 'popolo di Dio', esemplato sull'antica Israele, la comunità dei credenti cui Dio ha affidato la sua legge, e che ne è la custode anche di fronte ai sovrani. In un testo famoso, e di incerta attribuzione, le Vindiciae contra tyrannos (1579) si legge che "le città non consistono in un mucchio di pietre, ma in quello che chiamiamo popolo", il vero "proprietario" dello Stato, intendendo con ciò non l'intera popolazione, "quella bestia da un milione di teste", bensì i magistrati intermedi (cioè i notabili, ma anche i signori, purché, beninteso, seguaci della vera fede) che "rappresentano l'intero corpo del popolo". Non si tratta di un artificio volto a cattivarsi l'appoggio dei ceti alti (è noto il ruolo essenziale esercitato dalla nobiltà, grande e piccola, nelle guerre di religione) bensì della applicazione di una teoria che vede il popolo costituito soltanto quando è strutturato in comunità (vicus, pagus, oppidum), rette da autorità cui egli ha dato il consenso. Questa tesi trovò una sistematica elaborazione nella Politica methodice digesta (1603) di J. Althusius.

Ma non c'era il rischio che, in nome della delega, si spogliasse il popolo della prerogativa che pure gli era riconosciuta? Fu quanto sostennero, verso la metà del Seicento, molti pubblicisti radicali inglesi (per esempio G. Winstanley e H. Vane), che tentarono di correggerla con la breve durata, e la non immediata rinnovabilità, del mandato rappresentativo. Sotto queste proposte, di per sé tutt'altro che originali (basta pensare all'ordinamento di tanti Comuni italiani), affiorava la concezione che una autorità esercitata permanentemente dai notabili avrebbe conservato il sistema politico nato dalla conquista normanna. È qui adombrata l'idea di una differenza etnica tra il popolo e il gruppo dirigente che ricomparirà in Francia alla vigilia della Rivoluzione, e insieme quella di una continuità del popolo, e dei suoi diritti, anche qualora di questi si fosse impedito a lungo l'esercizio. Le tesi dei pubblicisti potevano richiamarsi all'autorità di Grozio (De jure belli ac pacis, 1625), il quale illustrava quanto fosse relativamente raro il caso della cessazione di un popolo, che si aveva soltanto quando esso fosse stato distrutto, ovvero completamente inglobato nella struttura statale di un altro popolo. Ora , anche per Grozio, era impensabile un popolo senza "summum imperium"; la sua definizione suona: "populus est ex eo corporum genere quod ex distantibus constat, unique nomini subjectum est, quod habet [...] spiritum unum": si tratta di un 'corpo artificiale', che, a somiglianza di quello naturale, ha bisogno di uno 'spirito vitale' (l'autorità) che lo muova. L'analogia organicistica verrà ripresa, anche più energicamente, nel Sistema di politica (circa 1660) di J. Harrington: "il corpo di un popolo, se non è mosso dall'anima del governo, è qualcosa che continua a vivere tra patimenti e miserie".

La 'grande realtà'

Come ha osservato C. Hill, nel corso della Rivoluzione inglese ci si accorse della differenza tra il 'popolo di Dio' e il popolo d'Inghilterra, tra un'idea e la "scervellata moltitudine" che, abbandonata a se stessa, avrebbe distrutto la sua pace e la sua salvezza, tanto che secondo Milton (1660) è preferibile che "un numero ristretto spinga un numero più vasto a conservare la sua libertà" piuttosto che il contrario. Sembra, con un secolo di anticipo, il famoso detto di Rousseau che bisogna costringere ad essere liberi, ma malgrado questa ed altre analogie, con Rousseau il quadro teorico cambia radicalmente, tanto che si è potuto dire (Groethuysen) che soltanto con lui il popolo diventa "la grande realtà". E non perché il ginevrino non distingua talvolta peuple da populace, o neghi l'accettabilità di gerarchie naturali, quanto perché egli intese il popolo (la gente comune, distinta dai potenti e dagli intellettuali) come il 'genere umano': "ciò che non è popolo è una entità così modesta che non val la pena di tenerne conto". Il rapporto tra governanti e governati diventa così una questione interna al popolo.

È notissima la figura del contratto che costituisce la società, e che opera il passaggio dalle comunità naturali allo 'Stato civile', e si deve tenerla presente, sia perché è la volontà dei singoli che costituisce la repubblica, e che può scioglierla, sia perché l'idea del contratto è la griglia teorica con la quale valutare se la legislazione vada nella direzione giusta. Ciò peraltro non autorizza a concludere che per Rousseau la società sia soltanto "mutua assicurazione" (come intese Mazzini), o ad avvicinarlo a quei suoi contemporanei che paragonavano lo Stato ad una società per azioni, cosa che è agli antipodi del suo pensiero. Tra l'altro, l'atto di volontà con cui ci si associa è di uomini che si sono già "aggregati" per superare gli ostacoli della natura; ma una aggregazione non è una associazione, ed è soltanto quest'ultima a costituire un popolo come corpo politico, "corpo morale e collettivo". Gli associati "prendono collettivamente il nome di popolo, e sono, uno per uno, cittadini in quanto partecipano dell'autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato". Rousseau osserva, inoltre, che si verificano quotidianamente révolutions des empires, ma non si formano più popoli; è dunque con un materiale storicamente e fisicamente già dato che si confronta colui che "osa accingersi ad istituire un popolo", il che vuol dire che egli lo trova già strutturato in ceti: contadini, artigiani, pescatori, ma anche i patrizi di Berna o la piccola nobiltà polacca. Ora, il segno della sanità di un popolo è che esso sia affezionato alle proprie usanze e alle proprie istituzioni, che coltivi la memoria dei buoni cittadini, che sia fiero delle sue imprese militari. È stato osservato da molti che Rousseau è come ossessionato dai Romani, "questo modello di tutti i popoli liberi" (i Romani, e non gli Indiani d'America, come, per satireggiarlo, disse Hegel); e il frutto della loro esperienza è che si sia patrioti "per inclinazione, per passione, per necessità" - che si viva, insomma, in funzione di un corpo che si senta proprio. Ciò avviene quando le leggi sono diventate costumi (moeurs), dei quali il popolo è giudice infallibile; ed è per garantire questo abito mentale che Rousseau si leva contro il cosmopolitismo, non volendo che il dirsi "europei" sia un pretesto per disinteressarsi del bene pubblico, cioè del bene dello Stato di cui si fa parte; bisogna rafforzare la "fisionomia nazionale" per avere buoni cittadini: la legislazione è buona se è appropriata al popolo, se vi è un rapporto diretto tra le leggi e ciò che esso vuole, in modo che le prime siano davvero opera sua, ed esso vi veda l'espressione della sua identità.

Un popolo, insomma, non è tale senza essere indipendente dagli altri, e senza tutelare la propria fisionomia. Si è voluto precisare (Fetscher) che questo concetto di popolo è politico e non etnico, il che è esatto, tanto più se si ricorda che Rousseau è quasi del tutto estraneo alla moda, corrente ai suoi tempi, delle caratterizzazioni antropologiche delle nazioni. Occorre però aggiungere che la storia di un popolo incomincia prima che esso sia tale in senso politico: il momento giusto per istituirlo è quando esso è "giovane", ma più vicino alla maturità che alla fanciullezza; situazione ottimale sarebbe quella in cui fossero riunite "la solidità di un antico popolo" e la "docilità di un popolo nuovo". Non sarebbe corretto voler ricavare troppo da queste formule, ma è difficile contestare che, a caratterizzare il popolo, ci sia anche una memoria collettiva.Qualche cosa di simile accade anche nel Nordamerica, ove l'esigenza di allargare le prerogative politiche dei coloni si faceva forte dei 'diritti' della tradizione britannica. In un territorio in cui l'espansione demografica era condizione di sviluppo, anzi, di sopravvivenza, 'popolo' è spesso sinonimo di popolazione; così in B. Franklin (1751), per il quale dovere del governo era assicurare l'aumento rapido dei bianchi di stirpe inglese.

Tra i principali motivi della ribellione ci fu la consapevolezza che il governo di Londra non operava in questa direzione; e, riprendendo temi del pensiero whig e delle Chiese non conformiste, si portò all'estremo la contrapposizione tra 'potere' o 'dominio' da una parte, e 'popolo' dall'altra; il popolo "nella sua maggioranza" ha sempre "aspirazioni e opinioni giuste"; che esso abusi della libertà è inconcepibile: "un dispotismo democratico è una contraddizione in termini" (J. Adams, 1776). Queste idee non erano nuove, ma lo era la radicalità con cui erano enunciate, e messe in pratica. Già nel periodo coloniale i notabili, nelle elezioni locali, avevano dovuto fare i conti con la 'moltitudine', e durante la Rivoluzione operarono come soggetti politici un gran numero di comitati che trasformarono la fisionomia della classe dirigente. Di ciò c'era del resto consapevolezza: un governo al quale il popolo partecipa, disse R. Price, "non restringe la libertà, ma la istituisce". Uno storico recente ha scritto che "il contributo fondamentale della Rivoluzione americana alla tradizione politica occidentale è stato fare del popolo il potere costituente" (R. Ryerson).

Accanto a 'popolo', Rousseau usava assai frequentemente 'nazione', concetto che nel Settecento europeo aveva una maggior rispettabilità in quanto implicava un vincolo culturale e adombrava diritti politici. La distinzione, beninteso, è tutt'altro che rigida, ma chi preferisce 'popolo' lo fa per prendere le distanze dalla cultura alta, degli intellettuali e delle corti, e per evocare una realtà che ha una propria naturale consistenza. È questo il caso di J.G. Herder, che deve del resto molto a Rousseau, e per il quale il popolo è "la parte più numerosa, più utile e più rispettabile degli uomini" e sinonimo di umanità. Al plurale, però, il termine designa le individualità nelle quali il genere umano si è articolato, che non sono 'razze', bensì formazioni organiche: "un popolo è una pianta, come lo è la famiglia; l'unica differenza è che ha più rami". La forza umana si è confrontata e adattata alle diverse condizioni geografiche e storiche, si è acculturata, e la cultura è diventata natura ereditaria; questo carattere potrà attenuarsi, ma mai sparire del tutto, tanto più che la separazione dei popoli è anche una garanzia contro il dispotismo. Herder sa bene, e lo dice, che tutti i popoli hanno, almeno una volta, cambiato sede, e che si sono mescolati e sopraffatti "come le onde del mare". Una delle sue idee fondamentali è che ogni popolo sia 'momento' dello svolgimento dell'umanità. Eppure questa prospettiva universalistica non toglie che, finché un popolo conservi linguaggio, religione e tradizione (questo concetto, di origine teologica, viene da lui dilatato a connotare ogni continuità culturale) esso mantenga la sua natura. Quest'ultima è tanto più ricca quanto meno è regolamentata: meglio ordinamenti imperfetti, rissosità e disordine che la 'macchina' dello Stato dispotico. Sono stati popoli 'giovani' quelli che periodicamente hanno rinnovato il mondo: i Germani nei primi secoli dell'era cristiana, e, ai suoi tempi, gli Slavi; Herder dapprima profetizzò che l'Ucraina sarebbe diventata una nuova Grecia ("da tanti piccoli popoli turbolenti, quali del resto erano i Greci, nascerà una nazione civile") e più tardi auspicò che il pacifico popolo slavo il quale, benché tante volte soggiogato dai suoi bellicosi vicini, aveva conservato la sua "antica impronta", potesse risvegliarsi dal suo lungo sonno.

Non sarebbe giusto dire che Herder preferiva la barbarie alla civiltà, ma certo egli negò che fosse un vantaggio la omogeneizzazione culturale auspicata dagli illuministi, segno di decadenza più che di progresso, e in contrasto con le forze attive nella natura. Questa non era una opinione isolata, ma riaffiorava ovunque, con le più diverse motivazioni. Diderot raccomandava di non perdere di vista i "selvaggi" (con l'argomento che non erano stati ancora sottoposti a leggi politiche) e non c'è quasi gruppo etnico soggiogato - dagli Scozzesi ai Croati - che non abbia i suoi estimatori; 'popolo' è ciò che non è logorato dalla civilizzazione, o che ha, almeno implicitamente, capacità di rinnovamento.

È questa mentalità diffusa a riflettersi nell'uso del termine durante la Rivoluzione francese. All'inizio di essa Luigi XVI parlava ancora dei "suoi popoli", ma prestissimo Mirabeau propose che i deputati si chiamassero "rappresentanti del popolo francese", e la formula è ripresa nella Dichiarazione dei diritti dell'agosto 1789. 'Popolo' designa tutti coloro che non sono 'privilegiati', la stessa contrapposizione si ritrova in Sieyès, che pure usa prevalentemente 'nazione'. Negli anni successivi la parola è impiegata con tutta una gamma di significati, che si possono esemplificare facendo riferimento agli scritti di Saint-Just. Egli si dice consapevole della corruzione nella quale l'antico regime ha ridotto il popolo, eppure esso, "eterno fanciullo", ha una sua fierezza; i suoi membri sono "anime nuove, incolte, violente", che hanno però una sensibilità immediata per la giustizia (è il trasferimento, al popolo insorto, delle caratteristiche dei popoli non civilizzati) tanto che, a riconoscerne la maestà, esso può diventare "il principio della virtù". E non manca un interessante accenno ai popoli: "un popolo, in quanto corpo (perché esistono dei popoli) forma una forza politica contro la conquista". La Costituzione giacobina del 1793 collocava nel popolo la sovranità. Ed anche Napoleone si richiamò più volte a questa fonte di legittimità: nel luglio 1802 fu eletto Console a vita con un plebiscito ("il popolo francese sarà consultato [...]"); l'esercito venne da lui definito "l'avanguardia del grande popolo", e durante i 'cento giorni' in nessuno dei suoi proclami la parola manca. A Sant'Elena egli ricordò più volte i suoi progetti di agglomerare i popoli geografici che aveva trovato dissolti: "Avrei voluto fare di ciascuno di questi popoli un solo corpo nazionale".

Per lo Stato nazionale

Nei paesi confinanti con la Francia i richiami al popolo si diffusero in un primo tempo all'unisono con quelli francesi, di cui sono quasi sempre una copia (ma qualche volta una anticipazione: in Italia, nel 1797, si loda il generale Bonaparte "che d'un popolo di servi ne fece una rispettabile nazione"). La vera rielaborazione di queste stesse formule venne fatta però, in funzione antifrancese, in Germania, nei primi decenni del nuovo secolo. E qui di 'popolo' vennero delineandosi due accezioni, spesso confuse, ma in realtà assai differenti. La prima, nella quale, in qualche caso, si sente l'influenza della polemica antirivoluzionaria di Burke, intende il popolo come una continuità ininterrotta di stirpi, unite dalla comunità di linguaggio, di costumi e di "reggenti" (con questo termine si intendono tutte le gerarchie, dal padre di famiglia al principe). È questo il caso di A. Müller (1809) il quale non esita a riconoscere la sovranità "dell'idea di quella grande alleanza" che è "l'eterno popolo"; la continuità esclude le fratture, e quelle che hanno avuto luogo in passato sono considerate riassorbite. Analoga, anche se con fondamenti culturali ben diversi, è l'ideologia della scuola storica del diritto, che affermò (Savigny, 1814) la "dipendenza del diritto dalla vita generale del popolo"; il popolo è una "unità naturale" che ha sempre una qualche forma di Stato - il quale ultimo è, della vita comune, non il principio, ma il garante. Un altro esponente della scuola storica, G.F. Puchta, distinse tra il popolo come entità naturale che elabora "costumi" e il popolo "ordinato" che sviluppa leggi.

Negli autori menzionati, per differenti che siano le loro posizioni politiche, c'è l'idea che i bisogni del popolo vadano interpretati dai governanti o dai giuristi, i quali hanno lo stretto dovere di non sovrapporre le esigenze livellatrici dell'amministrazione alla molteplicità dei diritti particolari e dei costumi; d'altra parte, lo "spirito del popolo" non va confuso con lo "spirito del tempo", o, peggio, con "l'opinione pubblica".

Tutt'altra accezione ha il termine in quegli scrittori i quali sono convinti che l'unificazione politica sia il bene più alto, e che essa debba venir ottenuta attraverso l'impegno diretto delle masse popolari. Anche da parte di costoro ci si appella ad una continuità di stirpe, di lingua, di costumi, ma si sostiene che questo valore è stato messo in pericolo, oltre che dalle periodiche aggressioni francesi (e, più indietro, dalle intrusioni latine: la Chiesa romana e il diritto romano) dai signori territoriali, che hanno privato il popolo della sua libertà, e dai ceti colti, accecati dal cosmopolitismo. (Questa contrapposizione tra governanti e colti da una parte, e popolo dall'altra, sarà ripresa, molti decenni dopo, nel 1882, da F. Tönnies, in Comunità e società). La moltitudine, divisa ed oppressa, ha però difeso tenacemente il suo carattere nazionale: "soltanto il popolo è rimasto fedele a se stesso" (Görres); "i popoli sono più antichi e durevoli degli Stati" (Jahn). La "conformità al popolo" diventa un dovere: E.M. Arndt pone, come premessa della riscossa, "la fede nella virtù e nel popolo". C'è, in questi pubblicisti ferocemente antifrancesi, uno spirito di rivalsa popolana che valse loro l'accusa di giacobinismo. Taluno di essi (per esempio Arndt) non rinunzia a riaffermare il significato positivo di 'democrazia', che denota "quel grande e quell'universale che vien detto popolo; i migliori re e imperatori, e tutti gli uomini non volgari, hanno sempre riconosciuto di esercitare le loro funzioni per il popolo, e di governare per il popolo e con il popolo". La mobilitazione contro i Francesi è considerata l'occasione storica per invertire il corso della storia tedesca, per una rigenerazione che fosse un ritorno alle origini; è qui la radice del teutonismo che venne allora ridicolizzato, e più tardi accusato di essere uno dei segni del dissidio spirituale della Germania con l'Europa.

Dei grandi filosofi dell'epoca, molto vicino a queste posizioni è Fichte, il quale definì i tedeschi "popolo originario", e pose popolo e patria molto più in alto dello Stato. Assai diverso l'atteggiamento di Hegel, soprattutto negli scritti della maturità; a suo avviso un popolo senza Stato (cioè senza istituzioni politiche, e la relativa gerarchia) sarebbe un "aggregato", una "forza selvaggia e cieca" votata all'autodistruzione. Persino il termine, se non altrimenti specificato, non è che un "astratto indeterminato", e non ha senso parlare di sovranità del popolo. Questi enunciati così recisi non esauriscono però la questione, in quanto i popoli hanno pure una "esistenza naturale", e un principio, lo "spirito del popolo" che ciascuno di essi si sforza di realizzare. Tale principio è presente allo stato germinale anche prima che i popoli si diano forma politica ed entrino nella storia e non implica affatto una qualche unità politica (né i Greci né i Germani la hanno mai avuta). Questo aspetto del concetto hegeliano di popolo, che egli aveva verosimilmente ripreso da Herder, è così vago che lo stesso Hegel finì con l'abbandonarlo quando passò ad occuparsi di storia moderna: qui le partizioni sono di paesi e nazioni, non di popoli.

Anche nella mentalità politica italiana del XIX secolo l'idea di popolo ebbe gran peso; la fede nell'esistenza di un solo popolo era del resto la premessa per negare la legittimità del frazionamento territoriale e del sistema politico che lo reggeva. La lunga tradizione di una lingua letteraria sembrava non permettere dubbi sull'unità culturale della nazione ma, sull'altro piatto della bilancia, pesavano i costanti conflitti che avevano portato alla perdita della libertà italiana, la passività dei secoli successivi, l'avversione di larghi strati ai nuovi ordinamenti introdotti dai Francesi, senza peraltro che ci fosse stato nulla di simile alle sollevazioni antinapoleoniche spagnole e tedesche.

Mazzini, come è noto, fece del popolo il 'dogma' della sua azione politica. 'Popolo', per lui, è "l'universalità degli uomini componenti nazione", e in esso sono comprese tutte le classi. Ma è facile rendersi conto che egli intende soprattutto la moltitudine dominata, che pure è distratta, "giacente", inerte. Soltanto in essa, infatti, si trovano gli elementi motori del progresso: a) l'istinto di "unità morale" (presente in tutti i popoli) che è la premessa dell'unità politica; b) la "vita latente che freme nella tradizione"; c) "l'istinto d'azione e l'immensa forza": è dal popolo che procede "l'iniziativa materiale", è esso "la sola vera forza rivoluzionaria". Tutte queste espressioni hanno corrispettivi in autori che si sono citati prima, che non è però obbligatorio considerare fonti di Mazzini. Le analogie risalgono semmai al modo stesso di impostare il problema in termini di un rinnovamento non di individui, bensì di corpi collettivi, giustificato dalla storia, ma non indotto necessariamente da essa. Il protagonista doveva essere quella moltitudine che, non avendo potuto esprimersi direttamente nelle istituzioni, era immune dalle colpe imputate ai gruppi dirigenti. La sua istintualità era la garanzia che essa non era stata intellettualmente corrotta: conclusione, questa, quasi ovvia per chi non accettava l'idea di una caduta da cui il genere umano dovesse redimersi e che era invece invocata, dalla parte opposta, come legittimazione dell'autorità. Certo, occorreva lavorare su questa base prerazionale, e portarla alla coscienza per rigenerare i popoli, non già per crearli, che sarebbe stata pretesa vana. Tale rigenerazione sarebbe avvenuta attraverso l'insurrezione, definita, più di una volta, 'l'intuizione' di un popolo. Non è troppo azzardato suggerire che essa ha un ruolo analogo alla deliberazione costituente di cui aveva parlato Rousseau, in quanto rappresenta il momento nel quale il popolo opera in prima persona, e si sente libero. Ma l'insurrezione non sarebbe che ribellione, cioè rivendicazione di diritti individuali, se non avesse alla base una continuità di generazioni che parlano la stessa lingua, che abitano nella stessa area geografica (meglio se ben delimitata da confini naturali), e che, in Italia, dura da trenta secoli, dai Sabini ed Etruschi sino al presente; è questa che dà al popolo il senso della sua missione, nella prospettiva della alleanza dei popoli che sarà l'umanità futura.

Idee molto simili vennero espresse in Francia, soprattutto tra il 1830 e il 1848, da storici e pubblicisti di gran nome: E. Quinet (il traduttore di Herder), F. de Lamennais, autore di Le livre du peuple (1837) e J. Michelet, che, già prima di pubblicare Le peuple (1846), aveva ripreso originalmente il tema dei caratteri delle nazioni. Egli fu uno dei primi (1831) a mettere in circolazione la fortunata formula secondo cui "la Francia non è una razza come la Germania; è una nazione", in virtù di un principio spirituale (l''anima', il 'genio') che aveva amalgamato i diversi gruppi etnici e aveva adattato all'uomo il territorio incarnandosi in milioni di "eroi senza nome proprio", il popolo, appunto. E 'popolo' sono essenzialmente gli "uomini del lavoro" - contadini, e poi operai - in cui domina 'l'istinto', che è già quasi 'azione': "Le classi che diciamo inferiori sono sempre pronte ad agire". Gli intellettuali, più che dirigerle, devono farsene portavoce per scongiurare la scissione del popolo in due popoli, la peggior sciagura possibile.

Questa fede perde rapidamente terreno nella seconda metà del secolo. Già il primo svilupparsi di una scienza della società imponeva di guardare al popolo in tutt'altra prospettiva e basta sfogliare Die Naturgeschichte des Volkes als Grundlage einer deutschen Sozialpolitik ((1851-1869) di W.H. Riehl, e confrontarla col libro di Michelet (di cui paradossalmente, è una sorta di corrispettivo tedesco), per rendersi conto del cambiamento di mentalità, che portava a chiedersi, addirittura, se il 'popolo' fosse stato davvero una forza di progresso. Per rendersi conto del carattere della discussione basta scorrere due opere contemporanee, la Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis, e il Dello svolgimento della letteratura nazionale di G. Carducci. Nell'opera del De Sanctis il popolo non compare quasi mai, o è coinvolto nel giudizio generale sulla scarsa 'serietà' italiana; e anche quando riprende una immagine mazziniana, del popolo come nuova forza sorgente sulle rovine del Papato e dell'Impero, il De Sanctis specifica che si tratta della "nuova classe, la borghesia", "il medio ceto"; anche il Carducci menziona la borghesia come il ceto emergente nell'età moderna; ma prima si sofferma a lungo sul popolo ("nome nella storia d'Italia eternamente memorando"), la cui storia incomincia nell'XI secolo, ma che è la confluenza dell'elemento romano e di quello italico; e come Michelet per la Francia, in questo popolo, e non nell'opera lunga di una monarchia, Carducci indicava il principio dell'unità d'Italia.

Tra nazionalismo e socialismo

Ad indebolire il concetto di popolo contribuì anche la diffusione del socialismo scientifico. Sia Marx che Engels avevano esordito come democratici, e si erano serviti ampiamente del termine 'popolo', il quale sopravvisse, nell'uso pubblicistico, anche dopo la pubblicazione del Manifesto (1848). All'inizio della rivoluzione del 1848 essi chiedevano che il parlamento di Francoforte proclamasse la "sovranità del popolo tedesco", erano per la sovranità (nel senso di indipendenza) dei popoli, distinguevano il "popolo rivoluzionario" dai "lazzaroni", ovvero dal Lumpenproletariat (nel commento ai fatti di Napoli del maggio 1848). Ma bastarono poche settimane perché l'insurrezione operaia di Parigi (giugno 1848) imponesse un altro linguaggio: popolo è sinonimo di proletari, o di operai, e nello stesso tempo si registra che la Francia si è divisa in due campi, o in due nazioni, proletariato e borghesia; parlando dei contadini francesi (e tedeschi) Engels li definisce "barbari", esempi di "ostinata stupidità". Il concetto di popolo ha perso la sua unitarietà: occorre distinguere sempre tra "le diverse classi del popolo" e questo termine, comunque, non serve più come nome collettivo. In occasione della Comune, e della adesione di piccoli e medi borghesi ad una rivoluzione proletaria, Marx dirà che ad essa era riuscito di farsi rappresentante "di tutti gli elementi sani della società francese"; ed Engels nel 1895 scriverà popolo tra virgolette.

Eppure rimaneva il problema di designare chi è escluso dal potere, ma pure costituisce la base della comunità nazionale. Sono soprattutto scrittori conservatori (ma avversari feroci dei conservatori ufficiali) ad accusare l'economia e le scienze di essere estranee ed ostili agli istinti naturali. È uno scenario non molto dissimile da quello di un secolo prima; soltanto che adesso, data l'accentuata mobilità sociale, è più difficile parlare semplicemente di popolo. Si addita ancora nei ceti rurali (Langbehn e Lagarde in Germania, Renan in Francia) il nucleo resistente, che va mantenuto ed incrementato con la colonizzazione, ma si cerca di introdurre altri concetti, uno 'spirituale', quello di Volkstum, l'altro 'naturale', quello di razza, che sembravano più idonei ad indicare la zona profonda dei valori e delle disposizioni permanenti. Assai significativa in proposito è la seguente esclamazione di Barrès: "Non c'è, ohimé, una razza francese, bensì un popolo francese, una nazione francese, cioè una collettività di formazione politica". Le connotazioni più positive della razza non sono biologiche. Per Péguy essa è "il muro del silenzio", "l'enorme anonimato", nel quale, pure, si vuole "sprofondare con gioia". È alla razza che vengono trasferite molte delle caratterizzazioni che prima erano del popolo, termine che si trova, adesso, a venir usato come sinonimo debole ora di masse proletarie, ora di razza, a seconda dell'occasione e del contesto.

È con la prima guerra mondiale che la tendenza si inverte. Nella celebre dichiarazione con la quale motivò il suo voto contro i crediti di guerra, K. Liebknecht accusò i governi di utilizzare "gli istinti più nobili, le speranze e le tradizioni rivoluzionarie" dei 'popoli' per spingere questi l'uno contro l'altro. Lo stesso linguaggio usava, per scopi opposti, Mussolini, che nella sua campagna interventista si appellò al popolo, esortandolo ad aprirsi, attraverso la guerra, la strada al potere. 'Popolo' è da lui contrapposto a tutto ciò che è istituzionale: la monarchia, i ministri, la "mandra parlamentare"; con la guerra "il Popolo che era stato da cinquant'anni assente, rientra nel corpo vivo della Storia d'Italia": "un popolo paganeggiante che ami la vita, la lotta, il progresso". Una volta stabilizzato il regime, le parole forti diventano invece nazione, e soprattutto Stato; basta sfogliare La dottrina del fascismo (1932), redatta da G. Gentile e riveduta da Mussolini, dove è lo Stato che "interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo". Non c'è soltanto il mutamento di prospettiva di un antico agitatore divenuto capo del governo; è che il popolo adesso è organizzato in tutta una serie di strutture che rendono inutile, salvo che in circostanze oratorie solenni, considerarlo l'attore. È piuttosto negli ultimi anni del regime che, nei tentativi di definire cosa fosse lo Stato totalitario, si ventilò l'idea di un rapporto più diretto tra il 'Capo' e il 'Popolo' il quale ultimo "interviene con una forza che, per non essere sistemata nell'ordinamento giuridico, non ha però minore forza né minore realtà" ed emerse il malcontento contro la gestione burocratica del potere: occorreva uno 'Stato di popolo' di cui l'aristocrazia doveva essere il partito.

In queste tesi operavano evidentemente suggestioni di derivazione germanica. I nazionalisti, e poi i nazionalsocialisti, tedeschi erano sempre stati critici verso la statolatria italiana: "Lo Stato è un mezzo in vista di un fine", aveva scritto Hitler. Anche coloro che, prima del 1918, avevano considerato il primato dello Stato come una lodevole specificità tedesca avevano ricavato, dal crollo repentino dell'Impero, la lezione che l'amministrazione non poteva sostituire la politica (lo aveva riconosciuto, del resto, anche Weber) e nella lotta contro l'ordinamento di Weimar sostennero che esso, invece di conciliare la scissione tra Stato e popolo, la aveva radicalizzata, tanto che ormai questi si fronteggiavano come "nemici mortali". Mentre i Völkische continuavano ad adoperare un linguaggio misticheggiante ("Il popolo è una idea vivente, nella quale il sovrasensibile è penetrato nel sensibile"), Carl Schmitt proponeva una trilogia - Stato, movimento, popolo - nella quale l'ultimo compare come il "lato apolitico" della totalità politica (nel gergo hegeliano, si sarebbe detto la società civile) "crescente sotto la protezione e all'ombra" delle due altre entità, 'politiche'. Per segnare la distanza rispetto alla concezione atomistica di popolo, si preferisce spesso parlare di Volksgemeinschaft ('comunità di popolo', o 'popolo costituito in comunità'). Come rilevarono già osservatori contemporanei, restava oscuro come, da quest'ultimo, si potessero selezionare i capi ("nature di combattenti" li definiva Hitler), che sembra emergano da soli. Intanto però il vincolo effettivo tra base e vertice era quello plebiscitario, della delega piena al Führer, che creava il diritto e guidava il popolo.

Quella che R. Bendix ha chiamato "la contraddizione onnipresente tra elitismo e populismo" si nota anche nel movimento comunista. Per Lenin 'popolo' era sinonimo della "massa degli sfruttati", e nei soviet egli vedeva lo strumento dell'iniziativa "del popolo, degli operai, dei soldati e dei contadini". Il popolo, peraltro, andava 'educato': tema questo che ritorna di continuo nel primo ventennio dell'Unione Sovietica, coinvolgendo anche i membri del partito mano a mano che il loro numero aumentava. Il termine popolo ha però un uso sempre più ridotto: si parla, in suo luogo, di masse. Ci volle l'avvento di Hitler al potere perché, nel 1935, il Comintern proponesse "la formazione di un fronte comune del popolo", presentato come alleanza dei 'lavoratori' di varie tendenze ideologiche, ma che, in realtà, era l'alleanza con alcuni partiti borghesi, come si vide nei fronti popolari spagnolo e francese. Nel 1936 il Partito comunista lanciò un appello per una "riconciliazione del popolo italiano". È inutile porre qui la questione di quanto fossero strumentali queste formule; esse esprimevano comunque il riconoscimento del fatto che non era opportuno lasciare agli avversari un termine che poteva avere ancora un certo richiamo, e implicavano l'idea che l'essere antifascisti desse legittimità a partiti sino a quel momento combattuti. Fu questa la strada seguita, dopo la seconda guerra mondiale, in tutti i paesi del blocco orientale ('democrazie popolari', appunto) e anche, dopo il 1949, in Cina. Questa soluzione non era però priva di tensioni, anzitutto perché considerata fase di trapasso, sino al pieno realizzarsi della società senza classi, e poi perché il suo stesso principio poteva essere messo in dubbio, data la teoria dell'inasprirsi della lotta di classe quanto più ci si avvicinava al comunismo. Il posto che era stato dell'antifascismo venne così preso dal socialismo: "nella presente fase di costruzione del socialismo tutte quelle classi, strati e gruppi sociali che approvano la causa della costruzione del socialismo, che la sostengono e lavorano per essa, appartengono alla categoria popolo" affermava Mao Zedong nel 1957, il quale definiva altresì il partito come "il nucleo dirigente del popolo cinese" (Statuto del 1969).

Conclusioni

Si sono ricordate, all'inizio, le riserve sulla funzionalità del concetto di popolo ad una analisi dei fenomeni politici. Quanto a concepirlo come attore, ci sono lucide notazioni di C. Schmitt, nella Verfassungslehre (1928) sulla 'inesauribilità' della forza vitale di un popolo, ma insieme sulla assenza di forme costanti di manifestazione di essa. Il popolo non è una 'istanza' suscettibile di un "funzionamento quotidiano e normale" e per questo "è così facile ignorare, fraintendere o falsificare le manifestazioni della sua volontà".

La rassegna di teorie, o ideologie, sul popolo che si è esposta, conferma che 'popolo' designa una base prepolitica in procinto di, o che dovrebbe, diventare politica; ma anche che esso è un corpo che aspetta di ricevere forma, di essere compreso, riconosciuto, rigenerato. Nel significato di popolo come idea-forza sono compresi almeno tre connotati: a) la partecipazione; b) la forza; c) la permanenza, non sempre necessariamente presenti con la stessa intensità, né con le stesse sfumature. Anzi, ciascuno di essi è integrato con elementi tratti da altri paradigmi politici: per esempio la partecipazione può essere intesa, in chiave giusnaturalistica, come l'esercizio di un diritto originario dell'individuo a dare il proprio assenso alle leggi che lo governano, e a designare coloro che lo guidano; la forza segnala che vengono dal popolo gli uomini delle guerre e delle rivoluzioni, ma anche quelli del lavoro; la permanenza, a sua volta, può essere spiegata in base alla geografia (sono la natura e la disposizione del suolo a plasmare il carattere di chi vi risiede durevolmente, a prescindere dalle sue origini etniche), alla razza (ivi compresa la capacità di essa di assimilare i nuovi arrivati), alla tradizione culturale, di cui espressione fondamentale è il linguaggio. Questi connotati conducono quasi sempre a due valori: l'unità del popolo e l'eguaglianza in dignità dei membri di esso. Il primo è evidente, ma è ben chiaro anche il secondo, persino in quei teorici, e non sono molti, che difendevano l'antica società strutturata per ceti: ciascuno di questi, infatti, è naturale e integra e limita gli altri. Comunque la diversità, all'interno del popolo, è un carattere positivo, in quanto consente ad ogni singolo di dare il meglio di sé, ma anche di vivere a proprio talento, senza la costrizione delle regole, artificiali, di uno Stato burocratico. C'è, in quasi tutte le ideologie popolari, anche in quelle che non predicano la rivoluzione, e magari la combattono, una forte carica antiautoritaria (se ne resero conto immediatamente i governanti che, in Germania e in Russia, non accettarono la collaborazione dei profeti del Volkstum e del narodnost); ma c'è, insieme, una altrettanto forte carica cesaristica, nel senso che chi si appella al popolo lo fa per contestare una oligarchia governante (nobiliare, proprietaria, burocratica, parlamentare) che ne usurperebbe i diritti, prospettando, in alternativa, un rapporto più diretto tra base e vertice, che economizzi, per così dire, sul costo e sui tempi della intermediazione.L'ideologia popolare è alternativa al regime rappresentativo, anche se non sempre si osa dirlo apertamente. L'egualitarismo recalcitra all'idea di corpi intermedi autorinnovantisi, mentre il capo è il simbolo vivente dell'unità, legittimato dalla democrazia plebiscitaria, nella quale il popolo esercita, ogni volta, un ruolo costituente, che lo colloca sopra le leggi. Già Weber notava che "ogni democrazia ha questa inclinazione"; e non è un caso che molti avversari delle dittature del XX secolo abbiano rimpianto la legittimità andata in frantumi nel corso delle rivoluzioni, o abbiano proposto un 'ordine' senza popolo.

(V. anche Nazione, idea di).

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