Popoli e culture dell'Italia preromana. Gli Etruschi

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

Popoli e culture dell'Italia preromana. Gli Etruschi

Mauro Cristofani

Gli etruschi

Popolo dell’Italia antica (gr. Τυρσηνοί, Τυρρηνοί; lat. EtrusciTusci) noto alla tradizione greca dalla fine dell’VIII sec. a.C. (Hes., Theog., 1011 ss.), sul quale si ampliarono in seguito le conoscenze geografiche, in particolare fra gli etnografi ionici (ad es., Hecat., s.v. Aithale, fr. 67N). Sulle loro origini si forma, nel V sec. a.C., una duplice tradizione che individua nei Pelasgi, mitica gente pregreca (Ellanico in Dion. Hal., I, 28, 3), o nei Lidi guidati dall’eponimo Tirreno (Hdt., I, 94) i loro progenitori, giunti alla foce del Po e di qui scesi nell’Italia centrale per fondare la Tirrenia. La prima tradizione, che aveva radici più antiche e veniva propagandata da città come Caere (Cerveteri) e Pisa o da insediamenti con vocazione emporica, oltre che dalla più recente Spina, ebbe maggiore fortuna della seconda; questa riemerge nell’Ellenismo, confluendo nella tradizione di Timeo, quando all’eponimo Tirreno, originario della Lidia, viene aggiunto, forse per contaminazione con la mitistoria locale, il fratello Tarchon, fondatore di Tarquinia, e l’estensione del loro dominio giunge fino all’Umbria e forse alle Alpi (Lyc., Alex., 1355-61).

La tradizione antiquaria romana aveva infatti consapevolezza che, rispetto alla effettiva regione originaria (quella che la riforma augustea dell’Italia riconobbe nella regio VII), delimitata dal mare chiamato per l’appunto Tirreno, dalla riva destra del Tevere e dalla valle dell’Arno, la presenza etrusca si era estesa anche in Italia settentrionale, nella Padania, dove la colonizzazione avrebbe portato alla fondazione di Felsina (Bologna) giungendo fino a Mantova e dove si era creato, come in Etruria propria, il modello federativo della dodecapoli (Liv., V, 33), e in Italia meridionale, nella Campania, dove lo stesso modello faceva perno fra l’altro su Capua e Nola (Pol., II, 17, 1; Strab., V, 4, 3; Liv., IV, 37, 1; Vell., I, 7, 2): ciò giustifica l’asserzione di Catone (Serv., Aen., XI, 567) a proposito dell’ampiezza del dominio etrusco in Italia prima della conquista romana. Sembra più tarda la pretesa autoctonia degli Etruschi in Italia dichiarata da Dionigi di Alicarnasso (I, 26- 30), storico greco di età augustea, nella cui visione etnografica l’individuazione di una specificità culturale e linguistica degli Etruschi si accompagnava a un giudizio riduttivo nei confronti di genti che non vantassero origini ellenizzanti.

Le evidenze archeologiche permettono di individuare come inizio della civiltà etrusca il IX sec. a.C., quando dalle forme di popolamento sparso, tipiche dell’età del Bronzo Finale, si passò a forti concentrazioni di gruppi umani (di ca. un migliaio di individui) in siti difesi naturalmente posti sulla costa, su pianori tufacei o su alture finitime, estesi dai 100 ai 180 ha in media; nell’interno, lungo i fiumi compresi nel bacino idrografico orientale del Tevere, le antiche forme aggregative ebbero più lunga durata, anche se alcuni poli demici di maggiore estensione (20-30 ha) dovettero costituire centri primari. La strategia insediamentale obbedisce a costanti comuni, quali disponibilità di suoli coltivabili, abbondanza di acque e prossimità alle vie di comunicazione, marittime e terrestri. Il successivo sviluppo fu favorito da queste scelte ecologiche ottimali e dalle risorse minerarie progressivamente sfruttate, in specie rame e ferro, i cui giacimenti si trovavano nei Monti della Tolfa, nella zona delle Colline Metallifere del Grossetano e nell’Isola d’Elba, prodotti sottoposti a un primo raffinamento che dobbiamo supporre circolanti fra le comunità, avendo come terminale i centri più meridionali.

Gli inizi, documentati da necropoli con sepolture a pozzetto contenenti un’urna per i resti combusti del defunto, la cui disposizione ricorda gli Urnenfelder hallstattiani, coincidono con l’occupazione di siti quali Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Vetulonia e Populonia, disposti a distanze diverse sul litorale, di Volsinii (Orvieto), Chiusi e Volterra all’interno, nonché di zone oltrappenniniche quali il comprensorio di Bologna, la valle del Marecchia, con epicentro a Verucchio, e la Campania meridionale, nella regione fra il fiume Picentino e il Sele, con perno nell’insediamento di pianura di Pontecagnano dal quale presumibilmente si diffusero gruppi fino al Sele e, probabilmente, verso il Vallo di Diano (ad es., a Sala Consilina). Discussa, al contrario, è l’etruscità del gruppo stanziato a Fermo, destinato a esaurirsi ben presto, e controversa è anche, per lo meno per gli inizi delle culture dell’età del Ferro, l’appartenenza etnica al ceppo etrusco dei gruppi che si distribuiscono nella Campania interna, fra Capua e Nola.

L’estensione della cultura villanoviana, caratterizzata da insediamenti costituiti da capanne disposte a gruppi in uno stesso comprensorio e da forme artigianali gestite all’interno dei nuclei familiari (solo la lavorazione dei metalli era attività specializzata, condotta forse da maestranze vaganti), viene considerata segno di mobilità terrestre, ma anche marittima degli Etruschi, in contatto con le genti della Sardegna e dell’Italia meridionale, come documentano reperti di queste aree rinvenuti nelle necropoli dell’Etruria costiera, reperti che precedono cronologicamente la frequentazione greca delle coste tirreniche (secondo quarto dell’VIII sec. a.C.), che prelude allo stanziamento euboico di Pithecusa e alla fondazione della colonia di Cuma. Il contatto successivo con i Greci, che incontrarono fra gli Etruschi comunità politicamente strutturate e quindi resistenti al tipo di colonizzazione violenta attuato proprio a Cuma, dovette comportare forme di scambio sistematico polarizzate sull’approvvigionamento dei metalli, che favorirono, da parte etrusca, la recezione di tecnologie più avanzate sia nel settore dell’agricoltura che in quello dell’artigianato e di strumenti di cultura come la scrittura.

Tale contatto comportò all’interno delle comunità villanoviane, apparentemente organizzate in regimi patriarcali, forme di accumulo della ricchezza e, di conseguenza, un rapido mutamento socio-economico con i vertici della gerarchia sociale impegnati in processi redistributivi propri di una struttura di tipo gentilizio. Dalla fine dell’VIII sec. a.C. gli insediamenti primari che abbiamo ricordato divengono centri dai quali si irradia una progressiva occupazione delle regioni interne, per organizzare più ampi stati territoriali, diretta emanazione delle recenti aristocrazie, che razionalizzano anche le strutture degli scali sulla costa. Le tombe delle regioni tirreniche, nelle quali al rito incineratorio si sostituisce via via quello inumatorio, ci restituiscono l’immagine di una società polarizzata attorno a figure di capi-guerrieri, detentori del surplus economico determinato dallo sfruttamento delle terre e delle ricchezze minerarie e circondati da clienti e schiavi: tale immagine è evocata in specie dai tumuli funerari che occupano spazi adiacenti agli insediamenti o sparsi nel territorio.

Il contatto con i Greci non fu del tutto pacifico se armi villanoviane di tardo VIII sec. a.C., forse prede di guerra o doni, vengono dedicate nei santuari greci di Dodona, Olimpia e Samo, ma le comunità etrusche sembrano disponibili a ricevere stranieri, Greci o Fenici che fossero, in particolare mercanti e artigiani in grado di accogliere una nuova e diffusa domanda interna: tutta la storia del commercio greco e levantino in Occidente del VII sec. a.C. è dominata dalle esportazioni di beni di lusso e di consumo, di produzione vicino-orientale o greca, in specie verso l’Etruria. Questo fenomeno di interazione è documentato da prestiti lessicali, attinenti per lo più alla sfera della tecnologia e dei prodotti agricoli (ad es., l’olio). L’introduzione della scrittura alfabetica greca adattata alla lingua locale, diffusasi rapidamente nel corso del VII sec. a.C. in tutta la regione, ma anche oltre l’Appennino, fino a Bologna e Rubiera (Reggio Emilia), e solo successivamente in Campania, attesta l’estensione dei territori in cui le classi litterate parlavano etrusco, e ci consente di individuare nei brevi testi del VII sec. a.C. nomi di origine straniera (latini, italici, ma anche greci), con cui vengono designati membri di compagini alfabetizzate, inserite nella classe sociale dominante.

La prevalenza di gruppi egemoni dotati di una notevole forza economica permise d’altro canto l’assorbimento di modelli culturali propri della “città” greca, organismo socio-politico che si proietta fisicamente nello spazio civico. Un riflesso di quanto accadde in Etruria, dove gli scavi nelle aree urbane sono ancora in fase iniziale, ci viene offerto dall’esempio di Roma, divenuta “città” organizzata urbanisticamente, con strade, edifici riservati ai culti e allo svolgimento delle attività politiche sotto la dinastia dei Tarquini, di origine etrusca, dominanti per tutto il VI sec. a.C. L’evidenza archeologica permette tuttavia di isolare produzioni che attestano una progressiva divisione del lavoro, indirizzata verso attività artigianali organizzate nei settori dell’edilizia e dell’artigianato specializzato in genere, come quello della fabbricazione di ceramiche fini da mensa (ad es., il bucchero) oltre che di contenitori da trasporto (ad es., anfore) e della lavorazione di metalli e materiali anche preziosi, i cui procedimenti tecnologici vengono assorbiti da maestranze levantine o greche.

L’espansione verso Roma di gruppi originariamente etruschi trasmessa dalla tradizione annalistica a proposito di Tarquinio Prisco (Cic., Rep., II, 20; Liv., I, 34; Dion. Hal., III, 47) si inquadra in un periodo di intensa mobilità, terrestre ma soprattutto marittima, che non aveva certo solo scopi mercantili. Le coste tirreniche, da Caere fino a Pisa, rafforzano gli insediamenti a carattere portuale, che assumono una struttura stabile, come quella che emerge dalle tracce rilevate a Pyrgi, dai quali partono spedizioni commerciali ma anche militari. In tali centri, come dimostrano le scoperte di Gravisca, scalo di Tarquinia, vengono creati “porti di traffico” aperti agli stranieri, cui è consentito di risiedere temporaneamente e di praticare i propri culti. Il processo di ellenizzazione, già avviato, diviene così sempre più intenso, al punto da incidere non solo nelle esperienze figurative (che accolgono, fin dalla prima metà del VII sec. a.C., immagini del mito e dell’epos greco), ma nella cultura più in generale: le forme di culto locali integrano nel Pantheon divinità greche anche nel nome (così, ad es., Apollo, Artemide ed Eracle) o reinterpretano in senso greco, tramite l’apporto dei mercanti corinzi prima e ionici poi, le divinità native.

I traffici nel Tirreno, d’altro canto, vedono, accanto alla componente greca (attestata ora dalla scoperta del relitto nelle acque dell’Isola del Giglio, risalente al primo quarto del VI sec. a.C.), anche quella etrusca, riconoscibile archeologicamente dai relitti di navi onerarie di VI sec. a.C. scoperti nel Tirreno, ma anche nelle acque antistanti le coste della Provenza, cariche di anfore da trasporto come di vasellame da mensa di bucchero. I partners commerciali dovevano essere, oltre ai Greci di Focea che avevano occupato la regione abitata da genti celto-liguri, anche i Fenici che, a loro volta, si erano spinti da Cartagine fin sulle coste della Sicilia occidentale e della Sardegna. Lo stanziamento successivo (550 a.C. ca.), sulle coste tirreniche della Corsica, di Focei che fuggivano l’invasione persiana, legati sicuramente al gruppo che due generazioni prima aveva fondato Marsiglia, e le loro successive azioni di pirateria costrinsero Etruschi e Cartaginesi alleati (Hdt., I, 166) ad affrontarli in una battaglia navale (540 a.C. ca.) dopo la quale gli Etruschi occuparono l’isola, fondando colonie fra le quali emerge archeologicamente Aleria.

Le relazioni con i Cartaginesi, iniziate sistematicamente a partire dal 630 a.C., furono regolate da norme politico-commerciali, come risulta da un passo di Aristotele (Pol., III, 9, 36-37), riferibile anche a tempi più antichi, che comportarono reciproche possibilità di navigazione, residenza e commercio, evocati da testi rinvenuti sia a Cartagine, sia a Pyrgi, porto di Caere. A questa mobilità marittima arcaica si deve anche la presenza sempre più intensa di Etruschi nel Golfo di Napoli, dove si forma una fitta rete di scali mercantili legati in parte alla produttività agricola della valle del Sarno (Stabia, Pompei), in parte alla navigazione di cabotaggio (Vico Equense, Sorrento) diretta verso la più meridionale Pontecagnano: la presenza di Etruschi in tali centri, documentata da iscrizioni, comporta nuove forme di collegamento con le più antiche comunità dell’interno, da Capua a Nola, e fenomeni di vera e propria urbanizzazione come a Pompei. L’aristocrazia greca di Cuma, che doveva avere legami con quella etrusca di Capua, subisce nel 525 a.C. (Dion. Hal., VII, 3-4, che attinge da fonti locali) l’assedio di Etruschi provenienti dalla Padania congiunti con Umbri e Dauni.

La riguadagnata supremazia sul Tirreno comporta uno sviluppo crescente delle città costiere e un più generale consolidamento degli stati territoriali. Negli insediamenti si isolano le aree riservate ai culti da quelle residenziali o artigianali, mentre l’architettura templare assume forme e decorazioni fittili derivate dalle tradizioni artigianali ellenizzanti, già attive per le residenze signorili, documentate soprattutto nei centri secondari dell’interno, ad Acquarossa, presso Viterbo, e a Murlo, a sud di Siena. A una classe aristocratica urbana, committente di apparati tombali, a volte dipinti all’interno con scene commemorative del rango e della celebrazione della morte (soprattutto Tarquinia), risponde, nei distretti del Chiana e dell’Arno, un’attardata classe di principi che controlla vasti territori e itinerari, diretti anche verso le zone oltrappenniniche, titolari di residenze come quella ricordata di Murlo o di imponenti tombe costruite, le quali, dopo gli esempi a tholos della media valle dell’Arno (ad es., Quinto Fiorentino), tendono ad assumere forme più regolari nei grandiosi tumuli di Cortona, Asciano, Castellina in Chianti.

Nella zona tiberina emerge in particolare la comunità di Volsinii (Orvieto), che la tradizione romana vuole sede di una sorta di lega politico-religiosa dell’ethnos organizzato in 12 populi rappresentanti i singoli stati (verosimilmente Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona, Arezzo e Volterra) associati in feste periodiche che si svolgevano presso il santuario del dio Voltumna. L’assetto monumentale attribuito nella seconda metà del VI sec. a.C. alla necropoli di questo centro, frutto di una pianificazione, consente di isolare un ampio ceto urbano, antitetico ai gruppi aristocratici, la cui azione politica sfocia nel progressivo spopolamento dei territori interni a favore di una coagulazione demografica nei centri primari o in forme di migrazione verso la Padania, meno urbanizzata. Qui si assiste a una nuova organizzazione del territorio, con città di tipo carovaniero pianificate urbanisticamente (Marzabotto), centri agricoli situati nella campagna modenese e reggiana, centri di smistamento delle merci verso i territori d’oltralpe (ad es., Mantova, alla confluenza del Mincio con il Po), porti di commercio situati nelle zone alla foce del Po (Adria, Spina): un’ampia regione che gravitava sul grande insediamento di Bologna, sede di antiche aristocrazie, e che si sviluppò particolarmente nel V sec. a.C., quando divenne il serbatoio di rifornimenti granari per molte poleis della Grecia propria, in specie Atene.

L’emergenza di classi urbane che costituiscono un ceto intermedio interessa successivamente anche le città tirreniche costiere, alcune delle quali ristrutturate secondo modelli urbanistici regolari (come viene affiorando dai recenti scavi di Caere), e favorisce l’ascesa politica di personaggi che assumono connotati “tirannici” e, più in generale, forme di politica aggressiva nei confronti di altre genti interessate ai traffici marittimi. Imprese a carattere militare vengono rivolte verso la Sicilia, in particolare verso l’isola di Lipari, dove erano stanziati coloni greci di Cnido, assediata e forse occupata temporaneamente (Strab., VI, 2, 10; Diod. Sic., V, 9, 4-5; Paus., X, 16, 7), e verso lo stretto (Strab., VI, 1, 5). Furono probabilmente queste spedizioni, che dovevano usufruire delle basi marittime in Campania, condotte con il sistema della guerra corsara, che alimentarono quella tradizione, viva nella storiografia greca, in particolare siracusana, che rappresenta gli Etruschi come “pirati” (ad es., Eforo in Strab., VI, 2, 2), o come “dominatori dei mari” (Diod. Sic., V, 13, 4).

Nel santuario di Apollo a Delfi, dove i Ceriti (Strab., V, 2, 3) e, successivamente, gli Spineti (Strab., V, 1, 7) avevano un proprio thesauròs (Strab., V, 2, 3), in quello di Zeus a Olimpia, dove non mancavano doni di re etruschi (Paus., III, 12, 5), in quello di Aphaia a Egina, dove è stata di recente segnalata una dedica iscritta in etrusco del 525 a.C. circa, si susseguono, nel primo trentennio del V sec. a.C., donari offerti dai Liparesi e successivamente dal tiranno di Siracusa Gerone, come ex voto per le vittorie conseguite sugli Etruschi, in particolare dopo la battaglia navale del 474 a.C. a Cuma (Pind., Pyth., I, 72 ss.; Diod. Sic., XI, 51). Si tratta di basi che dovevano sostenere statue a Delfi, dove è stato trovato anche un cippo con iscrizione in greco che sorreggeva un tripode dedicato da Tirreni, o di elmi di bronzo offerti come prede di guerra a Olimpia. La sconfitta provocò una sorta di chiusura dei porti etruschi del Tirreno, come dovrebbe indicare il deciso decremento di importazioni di ceramica greca, in specie attica. Il commercio, una volta fiorente, dovette interessare soprattutto il distretto minerario con l’Isola d’Elba e le colonie della Corsica, intensificando il contatto con il territorio costiero della Francia meridionale dominato da Marsiglia, abitato nell’entroterra da genti celto-liguri e iberiche, come testimonia una “lettera” commerciale del secondo quarto del V sec. a.C. iscritta su piombo scoperta a Pech Maho (Aude).

Dopo la vittoria di Cuma la politica siracusana sembra interessata a inserirsi nel cuore del Tirreno centrale, con attacchi ai centri del distretto minerario (ad es., nel 453 a.C.: Diod. Sic., XI, 88, 4-5), cui alcune città etrusche rispondono alleandosi con Atene (Thuc., VI, 88, 6 e 103, 2) nel corso dello sfortunato assedio di Siracusa (415-413 a.C.). In Campania Capua, centro dello stato etrusco formatosi nel corso del secolo precedente, cade in mano dei nativi e dei Sanniti scesi dall’Appennino che si fondono nell’ethnos dei Campani (438/7 a.C.: Diod. Sic., XII, 3, 1). Al Nord la pressione dei Galli, che avevano occupato ampie zone della Lombardia, già abitata da genti di lingua celtica, interessa la regione etrusca della Pianura Padana. Da qui partono le invasioni che nel 390 a.C. mettono in pericolo anche Roma la quale, da allora, stringe patti d’alleanza con Caere (Pol., II, 14 ss.; Liv., V, 40, 9 e 41). È in questo stesso torno di tempo che il tiranno di Siracusa Dionisio rinnova i suoi tentativi di inserimento sia nel Tirreno (Diod. Sic., XV, 14, 4), sia nell’Adriatico (Diod. Sic., XV, 13, 1 e 11; Strab., V, 4, 2).

Ridotti entro i limiti del territorio definito poi dalla divisione augustea, gli Etruschi trovano ormai come unico interlocutore politico la nascente forza di Roma, di cui Veio è la prima vittima se fu distrutta nel 396 a.C. (Liv., V, 22, 8) e il suo territorio fu annesso allo stato romano. Mentre i gruppi di Etruschi rimasti in Campania e nella Pianura Padana attivarono una pirateria marittima, ultima forma di compensazione a un declino inarrestabile, le città dell’Etruria propria tentarono una riorganizzazione dei territori, abbandonati nel corso del V sec. a.C. Le fonti letterarie latine indicano sempre più funzionante la lega politico-religiosa con sede a Volsinii, mentre le evidenze epigrafiche ci prospettano relazioni fra classi dirigenti delle diverse comunità. Si assiste, così, a una notevole ripresa edilizia nelle città, che interessa soprattutto i santuari nel corso del IV sec. a.C., ricostruiti a Tarquinia, Volsinii, Falerii Veteres (Civita Castellana), nonché a una rivitalizzazione del territorio interno, dipendente da Tarquinia e Vulci, gestito da un’aristocrazia fondiaria la cui immagine è evocata da gruppi di tombe ipogee con sarcofagi, tipologicamente affini a quelle delle città maggiori, o da facciate rupestri con finte architetture (Castel d’Asso, Blera, Norchia, San Giuliano, Sovana).

Il fenomeno si ripete anche al Nord, in specie nei distretti di Chiusi, Perugia e Volterra, dove il popolamento si dispone lungo le valli fluviali (del Chiana, dell’Arno, dell’Elsa e dell’Era). Questa ritrovata solidarietà nazionale non fu sufficiente, comunque, a contrastare la superiore esperienza militare guadagnata da Roma durante le guerre combattute in Italia meridionale nel corso del IV sec. a.C., quando le città etrusche potevano garantirsi un periodo pacifico grazie ad accordi di tregua (Liv., VII, 23, 6). La prima fase delle guerre fra Roma e l’Etruria, fra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., fu caratterizzata da saccheggi e rapine condotti in profondità contro le città che gravitavano nelle valli del Tevere e del Chiana (Diod. Sic., V, 20, 35, 1-5, e 44, 8-9), piuttosto che da occupazioni stabili della regione. Gli Etruschi stabilirono di conseguenza forme di alleanza con genti confinanti come gli Umbri e i Galli, o addirittura con i Sanniti: si trattò di episodi che, nel primo ventennio del III sec. a.C., si risolsero in perdite e sconfitte da cui generarono trattati particolarmente gravosi per le città etrusche del Meridione, costrette, in qualità di alleate, a rifornire sia militarmente che alimentarmente l’esercito di Roma e a perdere parte del loro territorio, divenuto possedimento dello Stato romano.

Ciò accadde a Vulci come alla stessa Caere, alleata di Roma. Nel corso di un ventennio, a partire dal 273 a.C., i Romani fondarono una serie di colonie marittime lungo la costa tirrenica a Cosa, Castrum Novum, Pyrgi e Fregene che accolsero famiglie di veterani e che funsero nel corso delle guerre puniche da fortezze nei confronti di assalti dal mare. Volsinii, tormentata da lotte sociali interne, fu distrutta definitivamente nel 264 a.C. (Zonar., VIII, 7) e i suoi abitanti trasferiti in un nuovo insediamento (Bolsena); nel 241 a.C. un’altra città sul Tevere, tradizionalmente alleata degli Etruschi, Falerii, subì la stessa sorte (Zonar., VIII, 18). Soprattutto nel primo caso è possibile ipotizzare un trasferimento di intere famiglie verso la più spopolata campagna attraversata dal Tevere e dal Chiana, fenomeno che è alla base del successivo sviluppo di questi territori. Come il resto dell’Italia, infatti, l’Etruria dovette subire il contraccolpo dell’invasione di Annibale nel corso della seconda guerra punica, durante la quale città autonome o alleate si mantennero fedeli al punto da contribuire, spontaneamente, alla spedizione che Scipione organizzò contro Cartagine (Liv., XXVIII, 45).

D’altro canto il fenomeno di ripresa economica che caratterizzò l’Italia dopo questo periodo coinvolse le città settentrionali piuttosto che quelle meridionali, circondate ormai da una campagna improduttiva, dominata dalle grandi proprietà dei latifondisti romani che si erano annesse le precedenti assegnazioni coloniarie. Al Nord, invece, in specie a Chiusi e a Perugia, ma anche a Volterra, la conduzione agricola promossa dai proprietari permise un ripopolamento delle campagne, effettuato anche attraverso ceti dipendenti che godevano forse di diritti di possesso sulla terra, attestato da diversi tipi di emergenze archeologiche. Ristrutturazioni urbane interessano Chiusi, Perugia e Volterra, cinte da imponenti cerchia di mura, mentre necropoli cittadine e rurali si caratterizzano per la diffusione di cinerari a forma di urna con fronte scolpita a basso rilievo. I vincoli con Roma si rivelano progressivamente più intensi, al punto che risultò molto scarsa la partecipazione degli Etruschi alla grande rivolta delle genti italiche contro l’Urbe, nel 90 a.C., tesa a rivendicare la cittadinanza romana.

La concessione di tali diritti, anzi, avviò un rapido processo di romanizzazione: istituzioni, costumi e perfino la lingua originaria caddero presto in disuso, con una integrazione fin troppo rapida, permessa dalle stesse classi dirigenti etrusche in parte entrate nel rango senatorio di Roma. Nella modesta ripresa edilizia di età giulio-claudia attestata in specie nelle città dell’antica lega (ad es., a Caere, Tarquinia, Roselle, Arezzo, Volterra) l’antico passato “nazionale” diviene solo un motivo di propaganda affidato a monumenti celebrativi o a cariche magistratuali che ripetevano nel titolo le antiche forme unitarie.

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