Politeismo e 'monoteismo' pagano, culti misterici ed ermetismo. Il pluralismo religioso imperiale all'epoca di Costantino

Enciclopedia Costantiniana (2013)

Politeismo e ‘monoteismo’ pagano, culti misterici ed ermetismo

Il pluralismo religioso imperiale all’epoca di Costantino

Giovanni Filoramo

Oggi si tende a vedere il mondo religioso imperiale dei primi tre secoli dell’Impero come caratterizzato da un vivace pluralismo religioso. I culti civici tradizionali conservano un’importanza testimoniata in particolare dal materiale epigrafico e dai resti monumentali. Le numerose dediche private a divinità romane e locali nel complesso dell’Impero dimostrano la vitalità delle forme religiose private e locali. Gli oracoli continuano a svolgere la loro secolare funzione di collante pubblico e di risposta agli infiniti bisogni degli individui. Come confermano le numerose testimonianze di ex voto ‘per grazia ricevuta’, i santuari di divinità taumaturghe, quali Asclepio, continuano a essere meta di pellegrinaggi. Forme alternative di religiosità, come i culti misterici e i cosiddetti culti orientali, costituiscono un polo di attrazione per molti; a esse occorre aggiungere le testimonianze di una pietà religiosa sfuggente ma significativa come quella dei testi ermetici o degli Oracoli caldaici, in cui sembrano fondersi livelli di religiosità diversi, popolari e filosofici, magico-religiosi e spirituali, espressione di un mondo religioso umbratile e vivo, in cui interagiscono tradizioni religiose diversissime.

Come collante di questo variegato mondo religioso agisce il culto imperiale, che si articola e si struttura, a partire da Augusto, in forme sempre più complesse, espressione, da un lato, di un cerimoniale religioso favorito dalle élite locali come forma di promozione sociale, dall’altro del tentativo centralizzatore di promuovere una forma politico-religiosa unificante. Sotto i Severi, in particolare con Elagabalo, questa forma di religione politica ha trovato nuovo alimento nel culto del Sol Invictus, una sorta di religione di Stato imposta dagli stessi imperatori, che nel corso del III secolo acquista progressivamente importanza: in essa sembra essersi formato lo stesso Costantino.

Per denominare questa straordinaria varietà di forme religiose si tende in genere a ricorrere al termine ‘paganesimo’, denotandolo poi in modi diversi e attribuendogli un rigore e una sistematicità che la realtà religiosa in questione è lungi dal possedere. La cosa non è senza problemi. Si tratta di un termine di origine cristiana, risalente agli antichi polemisti che lottarono duramente contro i culti e le credenze tradizionali accusandoli di idolatria. La vittoria del cristianesimo ha caricato il termine di un valore negativo, a indicare, nel piano provvidenziale divino, uno stadio religioso precedente, destinato inevitabilmente a essere soppiantato dalla vittoria finale del cristianesimo. In assenza di una definizione migliore, il termine paganesimo va dunque usato con grande cautela per descrivere il mondo religioso imperiale prima di Costantino. Come, sotto il termine di cristianesimo, si cela in realtà una complessa fenomenologia di cristianesimi profondamente influenzati dalle culture con le quali si rapportano, del pari occorre tenere presente l’estrema complessità del paganesimo religioso dei primi secoli.

Il mondo religioso imperiale infatti, nonostante la spinta globalizzante conseguente alla formazione dell’Impero, come insegna la diffusione di culti locali quali quello di Iuppiter Dolichenus, ha conservato un carattere fondamentalmente locale. Si tratta di una religione contraddistinta da un politeismo che coesiste con forme di carattere più esclusivista attraverso cui il fedele privilegia, seppur temporaneamente, un singolo dio. È il caso dei culti relativi a Theos hypsistos, ma anche di altre forme di pietà personale per le quali si è proposto di parlare o di enoteismo (il fedele di quel dio lo eleva, seppur temporaneamente, al rango di suo unico dio) o anche di katenoteismo: questa forma di privilegiamento può passare (kata), col mutare delle circostanze, da un dio o dea a un altro dio o dea.

Questa situazione di complessità si accentuò nel corso del III secolo. Anche se alcuni storici hanno cercato di mettere in discussione il concetto di ‘crisi del III secolo’, essa non solo ci fu ma fu percepita come tale dai contemporanei, che si abituarono ben presto a rileggerla in chiave religiosa, rifacendosi al modello della crisi della Repubblica della prima metà del I secolo a.C. e al modo in cui Ottaviano Augusto, instaurando una nuova pax deorum su basi salde, aveva insegnato a superarla. Occorreva, di conseguenza, riguadagnare la misericordia degli dei che avevano mostrato in questo modo la loro ira: in questa direzione di restaurazione si mossero imperatori come Decio, Aureliano, lo stesso Diocleziano. Vi fu chi cercò di praticare con maggior cura gli antichi culti trascurati; chi accentuò le forme di pietà personale; chi seguì vie diverse, ispirandosi a forme di credenza alternative. Ma occorre anche tenere presente, per cogliere in modo adeguato la vitalità religiosa del III secolo, che, oltre al persistere della diaspora giudaica e all’affermarsi progressivo del cristianesimo, esso vide anche il sorgere di nuove religioni dal respiro universalistico come il manicheismo.

A rendere più complesso e variegato il quadro, vi è poi tutta una serie di tratti in comune che unisce, al di là di conflitti e polemiche, i vari protagonisti di questo scenario religioso. Pagani e cristiani, ad esempio, accettano l’importanza dei miracoli come segni dell’intervento divino; entrambi ammirano gli uomini divini; molti tra i pagani credono, come i cristiani, nell’esistenza dell’anima dopo la morte. Comune è poi l’idea secondo cui l’imperatore avrebbe la responsabilità del benessere dell’Impero, che necessita dunque dell’appoggio degli dei tradizionali, ma anche del Dio cristiano (e di quello giudaico).

Tra i vari elementi in comune va infine ricordata anche la presenza, presso certe élite colte pagane, di un tipo di monoteismo a sfondo filosofico-religioso. Si tratta in realtà, come si vedrà meglio in seguito, di una tendenza intellettuale più antica, ma che, nel particolare clima filosofico e religioso del III secolo, assume nuove e significative forme, influenzate ma anche in concorrenza con quelle tipiche del monoteismo giudaico-cristiano. Questa tendenza, di antica data, al monoteismo filosofico ha trovato nuovo alimento nella filosofia dell’Uno di Plotino da un lato, nel culto del Sol Invictus dall’altro. Ed è a questi due aspetti, distinti e al contempo collegati, che conviene volgere ora l’attenzione, cominciando dal secondo, che costituisce lo sfondo politico-religioso del primo. Preliminarmente, però, è necessario spendere qualche parola sulla questione metodologica che l’uso del termine monoteismo solleva se e quando applicato a un contesto religioso, tipicamente politeistico, come quello imperiale1.

Il problema del monoteismo pagano

In un saggio recente l’egittologo Jan Assmann – i cui lavori hanno contribuito in modo determinante in questi ultimi anni a ridestare l’attenzione intorno al tema del monoteismo – onde evitare pericolose confusioni e devianti anacronismi invita a distinguere chiaramente, nello studio del fenomeno, tre questioni che rimandano a tre distinte epoche storiche. Il presente, prima di tutto, in cui, soprattutto a partire dall’11 settembre 2001, il problema si è riproposto con drammatica attualità come nesso tra monoteismo e violenza. In secondo luogo, quel periodo dell’Età moderna, tra XVII e XVIII secolo, in cui si formano i concetti-chiave che fanno da sfondo all’attuale dibattito (oltre a monoteismo e politeismo, concetti come panteismo, ateismo, teismo e deismo). Infine, l’Antico, come luogo di proiezione e applicazione del nostro discorso articolato secondo i concetti elaborati durante l’Illuminismo2. Quel che emerge chiaramente da questo e da altri studi recenti è, insomma, l’esortazione a essere particolarmente attenti nell’utilizzo di termini come monoteismo, con il suo pesante bagaglio di giudizi di valore e condanne, per valutare mondi religiosi politeistici lontani nel tempo, valutazione che troppo spesso ha luogo secondo una logica evoluzionistica ed etica implicita o inconsapevole, che vede nel trionfo del monoteismo il trionfo necessario di una visione morale e religiosa superiore.

Il vivace dibattito intorno alla possibile esistenza di un ‘monoteismo pagano’ antico inaugurato nel 1999 dalla pubblicazione del libro a cura di Polymnia Athanassiadi e Michael Frede, Pagan Monotheism in Late Antiquity, se ha contribuito a mettere meglio in luce la complessità del problema storico soggiacente a questa espressione, lascia talora l’impressione di non avere tenuto abbastanza conto della necessità di distinguere attentamente questi tre livelli dell’analisi3. Il rapporto tra monoteismo e violenza tipico del mondo contemporaneo, che i lavori di Assmann hanno contribuito in modo determinante a mettere al centro della discussione, ha finito per proiettare la sua ombra, in termini talora devianti, sugli antichi conflitti tra cristiani e pagani relativi alla ‘vera’ natura della divinità, che riguardavano piuttosto la falsità degli dei come oggetti di culto. Quanto all’uso del termine ‘monoteismo’ per indicare la corrente filosofica che nella tradizione greco-romana – lasciando ora da parte analoghi tentativi compiuti nelle religioni del Vicino Oriente antico – fece oggetto di riflessione l’unità del principio alla base della molteplicità del mondo divino, il rischio soggiacente è duplice. Da un lato, il ricorso a questo termine mette in ombra o impedisce di comprendere la logica specifica dell’organizzazione tipica dei pantheon antichi, fortemente condizionati dai contesti locali; dall’altro, presupponendo una linea di sviluppo dal molteplice verso l’unità, attraverso processi di simbiosi e semplificazione, esso trascura un movimento di senso inverso che, almeno nella tradizione platonica, è inteso come derivazione di una molteplicità di ipostasi da un’Unità originaria. Ricorrere a definizioni come ‘enoteismo’ per designare questo fenomeno non risolve d’altro canto il problema, ma rischia soltanto di complicarlo: di che natura è l’Uno in questione? Per questo, nelle pagine che seguono, piuttosto che indicare alcune caratteristiche fondamentali della pratica e delle credenze religiose imperiali in epoca precostantiniana, si è preferito ricorrere, nonostante tutto, al termine ‘monoteismo’: con l’avvertenza però che si tratta di un monoteismo sui generis, di tipo gerarchico e potenzialmente inclusivista4.

Esiste un monoteismo pagano?

Un monoteismo gerarchico

Confrontato col monoteismo rigido ed esclusivista tipico della tradizione giudaica e cristiana, il mondo religioso pagano pare ignorare questo tipo peculiare di fede. Il discorso, però, si complica quando si guarda alla religione dei primi secoli dell’Impero. Ciò che la contraddistingue, infatti, è la tendenza a gerarchizzare il mondo degli dei tradizionali, sottomettendoli al comando di un dio supremo (summus deus, theos hypsistos) che, nella sua qualità di monarca assoluto, regna incontrastato sul mondo governandolo attraverso una burocrazia di potenze intermedie. Sul politeismo tradizionale di tipo orizzontale si innesta una dimensione verticale, caratterizzata da una concezione tendenzialmente unitaria del divino. Prescindendo ora dal problema delle lontane scaturigini di questa concezione, dai precorrimenti di Eschilo all’Inno a Zeus di Cleante, che esprimono con pathos religioso una tendenza filosofica all’unità già attestata nella religione greca classica, quel che preme sottolineare è che il peculiare politeismo del periodo imperiale precostantiniano, se non va confuso col monoteismo esclusivista ebraico e cristiano, ha assunto ormai forme particolari, che lo differenziano profondamente dal politeismo classico. Il nuovo tipo di politeismo che si afferma in periodo imperiale è stato favorito da fattori di lungo periodo, come la spinta all’unità soggiacente all’interpretatio Graeca e Romana delle divinità straniere o l’affermarsi in periodo ellenistico di una visione astronomica unitaria e gerarchica del cosmo, che porta al sorgere di una religione cosmica dominata da un deus summus che, al pari dei monarchi ellenistici, presiede all’armonia e all’ordine del cosmo visibile. Esso si contraddistingue per il suo carattere fortemente gerarchico, ma anche inclusivista. In quanto tradizione spirituale innestata nell’antico politeismo, la sua visione del divino si radica, infatti, in una dimensione tipicamente plurale dei poteri divini, sulla quale si innesta però la concezione di un’unità divina primordiale e di un principio finale di ordine e di valore per il cosmo sacro.

Si tratta di una concezione tendenzialmente elitaria, sovente priva di riscontri rituali, frutto, in genere, della riflessione di intellettuali e filosofi; ciò spiega il suo insuccesso di fronte alla sfida posta dal monoteismo cristiano. Ma si errerebbe a sottovalutarne l’importanza e la diffusione, favorite anche dal ruolo che essa recita nei discorsi di retori importanti come Dione di Prusa ed Elio Aristide. Si tratta, in realtà, di una koinè ideologica, rintracciabile, come ci si accinge a vedere, sotto conformazioni diverse, da forme enoteistiche individuali al monoteismo solare, dal monoteismo politico al monoteismo filosofico.

Il Dio sommo pagano

Intrecciate con espressioni della fede tradizionale politeistica, professioni di fede tendenzialmente monoteistica sono disseminate in numerosi documenti della religione imperiale. Un esempio significativo è offerto dal Discorso a Zeus del famoso retore Elio Aristide. La divinità somma vi appare come autopator, creatore di sé stesso ma nel contempo di tutti gli elementi del mondo (43,18-19). Egli si identifica con la provvidenza ed è signore del fato, legislatore, datore di salvezza e di civiltà, guida onnipotente del mondo: in lui tutto vive e si muove, mentre gli altri dei sono soltanto strumento della sua volontà. Si tratta, d’altro canto, di una tendenza all’adorazione e al privilegiamento di un’unica divinità al di sopra delle altre, cui fa da contraltare l’atteggiamento, altrettanto esclusivo, che in altre circostanze il retore dimostra di avere verso una divinità, Asclepio, che lo ha seguito e guidato nel suo difficile percorso interiore di guarigione.

Nella stessa direzione si muove un altro celebre oratore, Dione di Prusa. Nell’Oratio 12 o Discorso olimpico egli propone un’illustrazione della credenza umana sul divino al pubblico accorso a Olimpia (siamo nel 97 d.C.) per la celebrazione dei giochi tradizionali al cospetto della gigantesca statua fidiaca di Zeus:

Riguardo alla natura degli dei in generale e specialmente a quella del sovrano dell’universo, innanzitutto e in primo luogo si è fatta strada una credenza e una concezione comune a tutto il genere umano, dei greci e ugualmente dei barbari, una concezione necessaria e innata in ogni essere razionale, che insorge naturalmente senza alcun maestro mortale e scevra da inganno di mistagogo. Essa ha reso evidente l’affinità di natura di Dio con gli uomini e fornito molte prove della verità5.

La credenza nella somma divinità ha qui un fondamento razionale, a sfondo stoico, che dà un afflato universalistico all’affermazione del retore.

Sulla stessa linea si muove, a cavaliere tra I e II secolo d.C., un altro personaggio significativo, Plutarco di Cheronea. In un passo del suo trattato De Iside et Osiride, il filosofo platonico presenta una tipica concezione della divinità somma trascendente, in pari tempo attiva nel cosmo attraverso una molteplicità di potenze divine, entità identificate con gli dei del tradizionale pantheon politeistico. Pur designate con nomi diversi dai differenti popoli, queste divinità rimandano a una sostanziale unità del divino di cui sono manifestazione:

Né privo di mente, né privo di vita, né tanto meno soggetto agli uomini è il dio. Per questi motivi noi uomini abbiamo ritenuto dèi solo quegli esseri che possono usare a piacimento della realtà fisica e la donano a noi e la mantengono eterna e stabile: e non ci sono dèi diversi per popoli diversi, né dèi barbari e dèi greci, né tantomeno dèi settentrionali e dèi meridionali. Come il sole e la luna e il cielo e la terra e il mare sono di tutti, anche se prendono nomi diversi, così anche le religioni e i modi di chiamare le divinità sono diversi da popolo a popolo a seconda delle singole tradizioni, e però tutti si riferiscono a una sola Ragione prima, quella che ha dato ordine a questo mondo, e a una sola Provvidenza che lo dirige, e a forze subalterne che hanno il compito di presiedere a tutte le altre6.

Un caso interessante di pietà personale con forti venature monoteistiche è offerto dal filosofo medioplatonico Apuleio. Al suo tipico monoteismo filosofico, secondo cui esiste un unus deus al di sopra degli altri dei – i quali possono essere sia gli dei-astri della filosofia di tradizione peripatetica e accademica, sia gli dei della religione tradizionale –, fa da supporto, in quel romanzo a sfondo autobiografico che sono le Metamorfosi, la fede del protagonista, Lucio, nei confronti della dea, Iside, che alla fine lo salverà. In alcuni dei passi finali del romanzo, sulla falsariga delle aretalogie isiache che celebravano, dietro la molteplicità di nomi con cui la dea veniva invocata nei differenti contesti culturali, la sua realtà unica, emerge chiaramente, accanto all’unità, anche la unicità in fondo esclusiva della dea. Si veda in quest’ottica l’aretalogia con la quale ella si rivela a Lucio:

Eccomi, o Lucio, commossa dalle tue preghiere. Io sono la madre dell’universo, signora di tutti gli elementi, principio e generazione del tempo, la più grande dei numi, regina dei Mani, la prima fra i celesti, la forma singola che riunisce tutti gli dei e le dee. Sono io che governo col mio cenno le luminose vette del cielo, le salutari brezze marine, i lacrimati silenzi degli inferi. Tutto il mondo venera il mio nume, unico se pure sotto molte e diverse apparenze, con vario rito e differente nome7.

In un filosofo platonico come Apuleio questa professione di fede si sposa perfettamente con la sua concezione di una visione gerarchica del mondo divino, tesa a coniugare la trascendenza di un Dio sommo, indicibile e provvidenziale con la moltitudine delle presenze divine che da lui provengono:

e in verità la provvidenza superiore appartiene al più grande e al più eminente di tutti gli dei, lui che ha organizzato non solo la stirpe degli dei celesti, ripartendoli attraverso tutte le parti del mondo, per sorvegliarlo ed abbellirlo, ma che ha anche creato per tutta la durata dei tempi degli esseri mortali per natura, superiori per saggezza al resto degli esseri animati terrestri, lui che, dopo aver stabilito le leggi, affidò agli altri dei la cura di disporre e sorvegliare tutto ciò che deve necessariamente compiersi ogni giorno8.

Non sarebbe difficile moltiplicare gli esempi di questo tipo di fede, tipico di certe élite colte dell’Impero, nel fondamento infondato dell’universo, una realtà divina impersonale che sfugge alle rappresentazioni antropomorfiche tipiche del politeismo tradizionale. Essa si presenta con i caratteri tipici di un deismo filosofico, privo di culto e di riscontri rituali, un numen, un to theion, un caeleste numen, che certo si distingue profondamente dal Dio personale della tradizione giudeocristiana: una Potenza nascosta, una specie di Essere supremo che regge misteriosamente i destini del mondo e di cui occorre propiziarsi i favori. A differenza del Dio personale e creatore cristiano, questo deus summus exsuperantissimus non crea il mondo, che nella sua dimensione divina è eterno, ma è la forza misteriosa che lo sostiene, l’«invincibile cosmocratore» – come recita un’iscrizione delle terme di Caracalla del periodo dei Severi – che costituisce il fondamento infondato del cosmo9.

Oltre che nei testi ermetici e negli Oracoli caldaici, questa concezione trova espressione, nel mondo religioso imperiale, negli oracoli teologici. L’epigrafe di Enoanda è forse il testimone più rilevante di questa concezione cosmosofica di un divino trascendente nel suo fondamento inconoscibile, che si manifesta però come dio cosmico attraverso la gerarchia delle divinità che da lui promanano:

Esiste, al di sopra della volta iperurania, / una fiamma sterminata, mobile, Eternità infinita. / Esiste, fra i beati inconoscibile, purché il Sommo Padre / non decreti che il suo Sé si riveli alla vista. / Lassù non v’è etere che regga le stelle sfavillanti, / né vi si libra la Luna dal canoro fulgore, / non Lo incontra un dio sul cammino, e nemmeno io, / che connetto con i miei raggi, dilago roteando nell’etere. / Invece Dio è una smisurata traccia di fuoco, / che guizza a spirale, rombando; e di quel dio chi abbia / toccato il fuoco eterno, non può bruciarsi separandosene il cuore, / poiché non ha potere di ardere. In incessante travaglio, / l’Eterno si fonde con le Eternità, per opera di Dio vero. / Nato da sé stesso, dotato di scienza infusa, privo di madre, imperturbabile, / senza ammettere nome espresso in verbo, dimorante nel fuoco, / questo è Dio: noi siamo invece una minuscola particella di Dio, noi angeli messaggeri10.

Queste forme di devozione non dovettero, però, essere solo delle élite. A dimostrazione si possono portare le centinaia di iscrizioni relative al culto di Theos hypsistos, per lo più documentate nelle parti orientali dell’Impero, ma di cui si trovano attestazioni anche in Occidente e nella stessa Roma. I fedeli di questa divinità sembrano appartenere ai vari strati della società, da contadini che la pregano per ottenere buoni raccolti a uomini e donne di ogni strato sociale che si rivolgono a lei per chiedere successo o fertilità11. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un culto non enoteistico ma essenzialmente monoteistico, in cui i pagani si rivolgevano a questa divinità singola, remota e non antropomorfa, a differenza delle tradizionali figure del politeismo greco-romano.

Nonostante le differenze evidenti col monoteismo giudaico-cristiano, si errerebbe a voler scavare un abisso incolmabile tra queste due concezioni del divino – che certo si combattono e si escludono su punti decisivi, a cominciare dal problema della verità (e falsità) – perché ciò impedirebbe di vedere quanto, nonostante tutto, accomuna certe élite pagane e cristiane, e aiuta a comprendere le ibridazioni che avranno luogo nel IV secolo:

La fede in un dio unico, trascendente, eppure provvidenziale, dotato di qualità eccelse, simbolo e modello ideale per l’uomo, per la formazione di una vita secondo virtù, in breve, condizione essenziale per il miglioramento spirituale della natura umana, è un tratto caratteristico della cultura pagana e cristiana dei secoli secondo e terzo, fino a Costantino12.

Il monoteismo solare

La riforma di Elagabalo

Nella prima giornata dei Saturnali, Macrobio attribuisce a Vettio Pretestato la seguente professione di fede:

Non è vana superstizione quella che fa loro [scil. ai poeti] ricondurre al Sole tutti gli dei, o perlomeno quelli celesti, ma divina saggezza […]. Dobbiamo necessariamente considerare il Sole, in quanto governa i governatori del nostro destino, come origine di tutto ciò che accade intorno a noi […] [Di conseguenza], come le varie manifestazioni di un solo dio si devono considerare come altrettante divinità, così le diverse proprietà del sole diedero origine a nomi di dei13.

Si discute tra gli studiosi sulle origini, indigene o meno, del culto solare caratteristico del periodo imperiale, sfociato nel peculiare monoteismo solare del III secolo14. Secondo alcuni, infatti, la solarizzazione della religione imperiale coinciderebbe in generale con l’avvento dei Severi al trono e in particolare con la riforma religiosa di Elagabalo15. Secondo altri, invece, si tratta di un processo di lungo periodo già in atto nel corso del II secolo d.C., giunto a maturazione con i Severi e con l’importazione della teologia siriaca a Roma. A conferma di questa seconda interpretazione si può ricordare che il culto seppe sopravvivere alla fine di Elagabalo e della sua riforma, dimostrando di possedere radici non effimere. Si tratta, in effetti, di una forma di religiosità diffusa, non riducibile alla veste essenzialmente politica che le fecero indossare alcuni imperatori romani: il Sol Invictus di Emesa e degli imperatori romani del III secolo fino al primo Costantino, sovente identificato con Apollo, corre parallelo con il Sole dei manichei, ma anche per molti aspetti con il Mitra solare dei mitriasti. L’astro solare era talmente radicato nella fede di molti popoli dell’Impero che anche i cristiani, nel corso in particolare del IV secolo, dovettero venire a un compromesso con lui, come dimostra ad esempio la predicazione del Cristo come Sol Iustitiae16.

Il monoteismo solare inaugurato ufficialmente dai Severi costituisce, in realtà, la variante più significativa e gravida di conseguenze di una tendenza al monoteismo politico tipica del paganesimo imperiale. Si tratta di un’ideologia che esprime sul piano religioso il suo universalismo e nel contempo la sua rigida struttura gerarchica, che con l’imperatore ha al vertice della piramide un potere unico, il quale accentra ormai in sé i vari poteri: politico ma anche giuridico, economico ma anche religioso. L’universalismo politico inaugurato da Caracalla trova nel culto del Sol Invictus un simbolismo potente che rafforza e cementa il senso di appartenenza dei cittadini del vasto Impero. Da questo punto di vista, il decreto di Decio del 250, che scatena la prima persecuzione generale nei confronti dei cristiani, può anche essere visto come il tentativo non solo e non tanto di legittimare un homo novus, ma anche e soprattutto di attribuire una valenza universale a una religione pubblica romana tradizionalmente incentrata sulla città di Roma.

Di che natura è il monoteismo solare che Elagabalo, con la sua riforma, tenta di trasformare nella nuova religione del culto imperiale? Si tratta, in realtà, di un monoteismo sui generis, di tipo gerarchico, in cui l’esistenza di una divinità somma non esclude quella delle divinità poliadi tradizionali, a difesa delle differenti tradizioni religiose che l’Impero romano cerca di conservare, inglobandole e sottomettendole sotto la guida dell’unico monarca, l’imperatore, visto come il ‘sole’ politico da cui emanano, come raggi, le varie realtà politiche locali, che tutto vede e regolamenta, con la sua esistenza garantendo la pace e la sussistenza dell’Impero, in quanto tale incarnazione vivente (nomos empsychos) della Legge universale di cui egli è fondamento, rappresentante ed esecutore.

Secondo una fonte particolare – l’anonimo autore della Historia Augusta, che scrive in un periodo, il IV secolo, in cui ormai il monoteismo cristiano si avvia, grazie anche a Costantino, ad avere il sopravvento definitivo – Elagabalo avrebbe perseguito un intento di riforma monoteistica: egli avrebbe cercato non solo di eliminare definitivamente le forme tradizionali della religione romana, ma di affermare il culto di un unico dio, il Sole17: culto che però, come l’autore si affretta subito a precisare, non esclude l’esistenza degli dei inferiori, che, secondo un modello tradizionale, fungono da suoi ministri18. Si tratta evidentemente della ripresa di un modello di monoteismo gerarchico, in cui la presenza al sommo della piramide di un unico dio monarca universale non esclude l’esistenza, al di sotto della sfera trascendente in cui regna sovrano, di una serie di dei minori che agiscono, secondo una tipica immagine politica, come suoi ministri, mediatori della sua volontà suprema nei confronti delle varie realtà inferiori a Lui sottoposte.

Da Elagabalo ad Aureliano

Il fallimento del tentativo di Elagabalo non deve trarre in inganno: l’insuccesso è dovuto al modo, irrispettoso della tradizione, con cui esso fu condotto, non al fatto che esso andasse contro lo spirito dei tempi. Come documentano i reperti epigrafici e altre testimonianze monumentali della prima metà del III secolo, il culto del Sol Invictus ha continuato a godere di una discreta fortuna. I tentativi portati avanti da imperatori successivi, da Alessandro Severo a Filippo e a Gordiano, di sostituirlo con quello più tradizionale di Roma aeterna si rivelano fallimentari, poiché quest’operazione di restaurazione religiosa è evidentemente lontana dalla sensibilità religiosa e dalle esigenze dei cittadini del vasto Impero. La migliore conferma delle radici profonde che il culto del Sol Invictus ha ormai acquistato nella religiosità dell’Impero si ha nel successo conosciuto dalla riforma religiosa di Aureliano.

Dopo la vittoria nel 273 sul regno di Palmira che si era reso indipendente, l’imperatore stabilisce questo culto in Roma con un chiaro sfondo monoteistico. Viene costruito un magnifico tempio a lui consacrato, il templum Solis, e il collegio sacerdotale è ristrutturato con lo scopo di inserirvi in modo adeguato i sacerdoti del nuovo dio. È anche introdotto un agon Solis quadriennale. Nel suo tentativo di stabilire una monarchia assoluta di diritto divino, Aureliano ha visto nel culto del Sol Invictus il mezzo più adatto per fondare su basi nuove l’unità dell’Impero. Spogliato di quegli elementi orientali e allogeni che, nel caso di Elagabalo, avevano urtato la sensibilità tradizionale della classe senatoria romana, il culto si rivolge ora a una divinità unica posta al vertice di una struttura piramidale che tuttavia prevede, come mediatori e governatori religiosi delle molte province dell’Impero, la presenza degli dei del politeismo tradizionale: una concezione politica che corre parallela al tentativo, operato in quel torno di anni dal filosofo neoplatonico Porfirio, di far coesistere l’Uno ereditato dal maestro Plotino con la molteplicità degli dei del pantheon tradizionale. In questa rilettura, l’imperatore appare come il riflesso, il rappresentante, l’immagine del dio Sole, garante, come la divinità somma, del benessere e della pace dell’Impero. A differenza del parallelo culto solare caratteristico del mitraismo, con cui talora è stato confuso, si tratta di un culto ufficiale e pubblico, che riprende e rilegge struttura e funzioni del culto ufficiale, come dimostrano la costruzione di templi grandiosi al dio Sole, identificato in genere con Apollo, e il fatto che la più alta autorità religiosa, l’imperatore come pontifex maximus, come sommo sacerdote, coincide con la più alta autorità politica, incaricata di celebrare il culto di quella divinità solare che è in qualche modo la somma manifestazione del suo potere universale, il fondamento e l’alimento del corpo politico.

Il monoteismo politico

Il monoteismo solare costituisce una variante significativa di un fenomeno più generale: il monoteismo politico. Quest’ultimo è ben descritto in un passo del romanzo pseudoclementino in cui il dio dei pagani è presentato

come un imperatore che è unico, ma ha sotto di sé governatori (amministratori, eparchi, chiliarchi, ecantoarchi, decatarchi); nello stesso modo, essendo il grande dio, al pari dell’imperatore, unico, secondo la stessa logica delle potenze subordinate, sotto di lui vi sono gli dèi a lui sottomessi, ma che ci governano19.

Questo tipo di monoteismo ha dietro di sé una lunga storia, le cui tappe principali sono state ricostruite da Erik Peterson20 a partire dalla celebre conclusione del dodicesimo libro della Metafisica di Aristotele21, con il suo rimando a Iliade II 104: «Non è bene che molti comandino, sia uno il signore». Anche se il termine monarchia, a indicare il dio supremo e il suo governo del mondo, compare soltanto con Filone, di fatto il passo aristotelico è un’evidente allusione all’esistenza di un unico potere come sede e fondamento del governo del mondo.

Quel che in Aristotele è ancora concepito come il monarca cosmico che, nel conflitto dei poteri, emerge alla fine come signore unico, nel trattato pseudoaristotelico De mundo (398AB) si è ormai trasformato in un sovrano orientale che «rimane chiuso nelle stanze del suo palazzo, invisibile e nascosto, come l’animatore del teatro delle marionette»22. A essere visibile è la sua potenza, o dynamis, che agisce nel mondo attraverso la mediazione dei differenti governatori, mentre la forza originaria, di cui questa dynamis costituisce la manifestazione cosmica, permane invisibile e irraggiungibile.

Questa concezione conosce una notevole diffusione in periodo imperiale, sullo sfondo dell’affermarsi di quella monarchia assoluta che è diventata l’Impero. Basterà ricordare un passo del discorso di Macario Magnete, maschera di Porfirio, che polemizza con la posizione cristiana:

Tuttavia cercheremo di sapere in modo chiaro ciò che riguarda la monarchia del Dio unico e la poliarchia degli dei che vengono venerati, poiché non sai neanche esporre il significato della monarchia. Monarchia non è infatti colui che è solo, ma colui che regna da solo. Evidentemente egli governa sulle persone della sua stessa stirpe, sui [suoi] simili23.

Lo Ps.Onata, da parte sua, precisa, sempre in polemica con l’esclusivismo del Dio biblico, la natura di questa monarchia: «coloro che non ammettono altro che un solo Dio si ingannano, poiché non comprendono che ciò che eleva di più la trascendenza divina è il fatto di regnare e di avere il comando sui suoi pari, di essere il più forte e al di sopra degli altri»24.

Esemplificata sul modello della corte del gran re, tipico della monarchia persiana, con i suoi dignitari a lui subordinati, la concezione del monarca che, dall’alto del suo palazzo, regna governando attraverso i suoi fiduciari permette, una volta applicata al tradizionale pantheon politeistico e alle sue relazioni ed equilibri interni, di teorizzare la conciliabilità tra aspirazioni monoteistiche, tipiche del periodo, e tradizioni politeistiche. Interagendo con il culto dell’imperatore e alimentata da forme come il culto del Sol Invictus, questa forma di monoteismo politico, tra II e III secolo, si impone progressivamente come la rappresentazione ideologica sotto specie religiosa del tipo di potere dominante. In fondo, era nella logica delle cose che la monarchia di diritto divino soppiantasse a poco a poco il principato di origine popolare: un solo re, un solo dio, un solo impero. Da questo punto di vista, Costantino è l’erede di una tradizione ben più antica.

Il monoteismo filosofico

L’aspirazione a rapportarsi a un dio sommo, origine e fonte del mondo divino, percorre il pensiero filosofico dei primi secoli dell’Impero. Ne abbiamo già incontrato alcune attestazioni in pensatori medioplatonici come Apuleio o Plutarco. Un altro celebre rappresentante di questa aspirazione è Apollonio di Tiana. Eusebio ci riporta una formula teologica tipica, ripresa da Porfirio, secondo la quale Apollonio avrebbe ammonito di offrire al Dio supremo soltanto un sacrificio spirituale, «con un silenzio puro e con pensieri puri rivolti a lui». Infatti a questo dio sommo non può essere offerto nulla di sensibile: «né bruciando offerte né nominandolo: perché niente vi è di materiale che per l’essere immateriale non sia immediatamente impuro. Perciò a lui non è appropriata né la parola emessa con la voce né la parola interiore quando è insudiciata dalla passione dell’anima»25.

Sempre secondo Eusebio, Apollonio avrebbe difeso la sua concezione del sacrificio spirituale, probabilmente nel trattato per noi perduto Sui sacrifici, proclamando che «al Dio che noi chiamiamo primo, che è unico, separato da tutti gli altri, e dopo il quale bisogna situare tutti gli altri, non si offrirà assolutamente alcun sacrificio, non si accenderà del fuoco né lo si nominerà con parole sensibili»26. Questa tipica visione intellettuale trova naturalmente rispondenza in un filosofo come Porfirio, con la sua critica del sacrificio cruento fondata su una concezione tipicamente gerarchica del mondo divino. Essa contempla un Principio primo assolutamente trascendente, al di sotto del quale si pone il livello degli dei intelligibili, che da Lui derivano, e poi degli dei-astri: secondo l’insegnamento pitagorico cui il filosofo neoplatonico si richiama, per essi può essere acceso il fuoco del sacrificio, ma un fuoco immateriale corrispondente alla loro natura.

Pur privilegiando questa visione intellettuale del divino e pur guardando alle divinità tradizionali e locali e ai loro culti con malcelato disprezzo, Porfirio non intende però favorirne la scomparsa, finendo così per dare ragione all’avversario cristiano e alla sua critica demolitrice. Cercando di conciliare visione elitaria del divino a sfondo monoteistico e tradizionali pratiche politeistiche, nel suo trattato De abstinentia egli difende l’esistenza di una tipica visione gerarchica. In questa scala digradante, in cima vi è il Primo Dio, incorporeo immobile indivisibile, la cui assolutezza è espressa in termini di autosufficienza totale. Segue l’Anima del mondo, incorporea, estranea alle passioni, dotata di tre dimensioni e della facoltà di movimento, che essa utilizza per alimentare l’ordine e la bellezza del cosmo. Gli altri dei sono il cielo e i corpi astrali, gli dei visibili. Infine si pone la moltitudine degli esseri invisibili o daimones, l’oggetto dei culti tradizionali:

Di questi, alcuni hanno avuto dagli uomini un nome e ricevono dovunque onori pari agli dei e ogni altro culto, altri per la maggior parte non hanno avuto nessun nome, ma ricevono segretamente da alcune genti in villaggi o in alcune città nome e culto. Il resto della loro moltitudine è chiamato così comunemente con il nome di demoni e riguardo a tutti c’è tale convinzione, che in realtà recherebbero danno se si incollerissero per l’essere trascurati e il non ricevere il culto sancito dall’uso, e al contrario sarebbero benefici verso quelli che con preghiere, con suppliche, con sacrifici e con quel che ad essi si accompagna se li propiziano27.

In questo modo, Porfirio cerca di superare la tipica dissonanza cognitiva incontrata dagli intellettuali che si inseriscono in questa tradizione di monoteismo filosofico. La sua posizione esemplifica chiaramente, a cavaliere tra III e IV secolo e dunque nell’imminenza della svolta costantiniana, la presenza e l’importanza di una tradizione di monoteismo filosofico di cui non sarebbe difficile portare altre testimonianze precedenti di filosofi medioplatonici del II secolo come Apuleio, Massimo di Tiro, Celso, ma che in realtà caratterizzerà anche le élite pagane al tramonto, come conferma un’affermazione di Massimo di Madauro riportata da Agostino, in cui questo tema si fonde con quello del dio cosmico. Mentre osserva i templi disposti intorno al foro di Madauro, Massimo trova naturale considerare, secondo un’antica tradizione, i molti dei locali come aspetti di un dio universale, satrapi di un divino re dei re28. Egli inoltre osserva:

E poi, chi è così pazzo e dissennato da negare la certezza, cioè l’esistenza di un unico Dio sommo, ingenerato e senza prole, eppure padre grande e magnifico della natura? Le sue manifestazioni diffuse per il mondo creato noi invochiamo in molti modi, perché tutti ne ignoriamo evidentemente il vero nome. Dio è infatti appellativo comune ad ogni religione: accade perciò che, mentre ne inseguiamo per così dire le membra, separatamente, con riti diversi, in realtà lo adoriamo nella sua interezza29.

Élite intellettuali e forme religiose alternative

Alla ricerca di forme religiose alternative

L’affermazione di Massimo di Madauro può essere assunta come il punto di arrivo di una tradizione pagana a sfondo monoteistico, che si è voluta in alternativa al monoteismo giudaicocristiano. Essa costituisce una delle opzioni delle élite intellettuali in periodo imperiale. Già a Roma, verso la metà del I secolo a.C., in piena crisi della repubblica, uomini come l’antiquario Varrone e il suo amico Cicerone si sono posti il problema di rivitalizzare i culti tradizionali, fondamento di una pax deorum in crisi, nel contempo riflettendo sulla natura del mondo divino. Varrone in particolare, con la sua teologia tripartita, ha costruito uno schema interpretativo che permettesse di superare quella che oggi può apparire una tipica dissonanza cognitiva: come far coesistere la pratica rituale che egli deve compiere come cittadino, basata sul pantheon tradizionale degli dei antropomorfi che appare sempre più lontano e meno credibile, con la riflessione filosofica sulla natura sostanzialmente unitaria del divino? Non si tratta certo di una ipocrisia tipica delle élite, dal momento che questo atteggiamento accompagna la loro storia almeno fino al V secolo. Cicerone, in un passo del suo trattato sulla divinazione, fa coesistere senza difficoltà e infingimenti la pratica rituale che egli compie come politico responsabile, non solo con un atteggiamento critico verso le superstizioni, ma anche con la convinzione che la bellezza del mondo e la regolarità dei fenomeni celesti siano un segno dell’unica natura divina soggiacente30. Varrone, a sua volta, elabora una concezione strutturale del mondo divino, che deve servire a spiegare come una visione tendenzialmente unitaria del divino possa coesistere con il tradizionale politeismo di Stato. Ai suoi occhi, la teologia tripartita ha origini sacre, che affondano, da un lato, nelle capacità straordinarie di figure leggendarie come Numa, dall’altro nell’origine immemoriale del mos maiorum, dei patrioi nomoi. I poeti vi hanno apportato le loro rielaborazioni, invenzioni umane che stanno alla base della prima ripartizione, la teologia mitica, che conserva un’importante funzione pubblica soprattutto nelle rappresentazioni teatrali. A sua volta, attraverso l’analisi del linguaggio e l’interpretazione allegorica, la riflessione filosofica cerca, dietro questi racconti, di trovare un fondamento unitario divino: quel monoteismo pagano, nella sua complessa fenomenologia, di cui si è parlato nelle pagine precedenti. Mentre i primi due tipi di teologia si occupano del mondo divino da un punto di vista poetico e filosofico, la theologia civilis, che riguarda il culto, tocca il cuore della pratica religiosa, e cioè il culto pubblico incentrato sul sacrificio. Essa non è separata dalle due precedenti, poiché le ricomprende in una sintesi che cerca di venire incontro alle esigenze religiose dell’uomo comune, il soggetto dei culti pubblici. La dimensione teatrale, infatti, è profondamente intrecciata con quella religiosa, mentre la riflessione filosofica rende possibile un tipo di fede nel fondamento infondato del cosmo.

Queste élite della Roma tardorepubblicana sono attirate anche da forme di religiosità estranee o fuori della portata della gente comune. Riprendendo elementi di una religiosità che aveva recitato una parte non secondaria nelle città greche, esse allargano lo spettro delle scelte religiose, che ormai comprende culti esotici, astrologia, invenzioni arcaizzanti tipiche della restaurazione augustea, in modi che non entrino in conflitto con il culto pubblico e in particolare con il culto dell’imperatore.

A partire dal II secolo d.C., in parte per la concorrenza che viene da religioni rivelate come il giudaismo e il cristianesimo, in parte come risposta a profonde esigenze endogene, cresce il numero di profeti, sibille, uomini divini della parte orientale dell’Impero che entrano in contatto con il mondo romano. Nel contempo, cresce l’aspirazione verso forme di filosofia non più fondata sulla ricerca razionale, ma ancorata a rivelazioni ancestrali. Ciò favorisce la circolazione di tutta una letteratura di rivelazione, opere concernenti le sostanze, gli astri e gli dei, sotto il nome di Zoroastro, Ostanes e altri famosi magi, ma anche di divinità come Ermete Trismegisto, il tre volte potentissimo, che pretendono di svelare i segreti dei mondi materiali e celesti. Parallelamente, anche la tradizione orfica viene utilizzata in questo senso, mentre si diffonde una letteratura magico-religiosa che noi conosciamo soprattutto attraverso i cosiddetti Papiri greci magici, un documento fondamentale della religiosità imperiale.

Dietro questa ricerca talora affannosa di forme alternative di religiosità rispetto al culto pubblico vi sono il mutare dei modi di legittimare l’autorità religiosa e il crescere delle domande relative alle funzioni e alla coerenza della ‘religione’. Il problema centrale diviene come fondare una religione vera, etica e razionale, in grado di soddisfare le esigenze umane meglio della tradizionale religione pubblica. Su questo sfondo si spiegano sia il successo e la diffusione dei culti orientali sia la produzione di una letteratura di rivelazione come quella ermetica.

I nuovi culti

I cosiddetti culti orientali si diffondono a Roma proprio a partire dalla rivoluzione augustea, per conoscere poi una grande diffusione nell’Impero dei primi due secoli. Essi comprendono il culto di Cibele, proveniente dall’Asia Minore; quelli di Giove Dolicheno, Giove Eliopolitano e Atargatide, provenienti dalla Siria; quello di Iside, Serapide e divinità satelliti, provenienti dall’Egitto; e quello di Mitra, in origine persiano, anche se poi nell’Impero assunse una sua fisionomia particolare. Per il cittadino romano vi rientravano anche il giudaismo, nonostante le sue credenze e pratiche specifiche, e, quando imparò a distinguerlo chiaramente da quest’ultimo, anche il cristianesimo.

Questi culti differiscono vistosamente dal culto tradizionale delle città greco-romane: tutti serbano connotati evidenti della tradizione religiosa della loro zona d’origine. Il nucleo dei loro seguaci è di solito costituito da immigrati o membri di popolazioni in flusso temporaneo; hanno sacerdoti professionisti assunti dalla comunità e non dalla città, alcuni dei quali possono anche vivere in modo itinerante, come i galli della Grande Madre frigia. Nella maggior parte di questi culti, anche se non in tutti, una delle parti centrali del rito riproduce un evento mitico in modo teatralmente coinvolgente. Infine, lo scopo del culto sta più nel benessere del corpo e dell’anima del singolo seguace che nel successo della comunità politica nella quale egli vive.

La ricerca più recente ha cercato di decostruire la nozione, introdotta da Franz Cumont nel 1906, di ‘religioni orientali’. I motivi sono presto detti. Come ogni impero, anche quello romano deve la sua espansione e durata alla capacità di assimilare o far coesistere culture e tradizioni diverse. Secondo un’espressione felice di Elio Aristide in una sua orazione, ogni commercio portava a Roma come i raggi di una ruota confluiscono nel suo asse31. Roma integrava, se non tutti, molti, dai milioni di schiavi che costituivano la manodopera fondamentale dell’economia antica ai mercanti, gli artigiani e i viaggiatori, che erano facilitati nei loro spostamenti dallo straordinario sistema di comunicazione, che i romani avevano creato per scopi militari, ma che alla fine risultò uno dei fattori culturali decisivi per le fortune e la coesione dell’Impero. La loro identità veniva in sostanza rispettata, purché essa non confliggesse, come nel caso dei Baccanali del 186 a.C., con l’identità stessa della religione politica romana tradizionale e si mantenesse nei canoni stabiliti del lealismo politico, prima repubblicano e poi imperiale. In questo mondo di per sé mobile e cangiante, i cui confini culturali e religiosi sono continuamente rimessi in discussione, parlare di ‘religioni orientali’, e cioè di religioni o culti che presuppongono un Oriente, esotico e diverso, rispetto all’Occidente latino, fa oggi problema. Non è un caso che l’espressione stessa di ‘religioni orientali’ sia nata all’inizio del Novecento, in un’epoca di colonialismo dominante, recando con sé inevitabilmente la visione colonialista di un Oriente straniero e strano, affascinante, ma nel contempo inquietante: un Oriente che si oppone a una religione romana rappresentata come fredda e calcolatrice, dominata da uno spirito giuridico e contrattualistico, che nelle religioni orientali avrebbe dunque trovato un correttivo esotico di emozioni, sensazioni, eccitazioni. Un Oriente, infine, che in questo modo avrebbe aperto la strada a quella religione monoteistica, il cristianesimo, destinata alla fine a sbaragliare la concorrenza.

Oggi questa visione appare per molti aspetti non più accettabile. Basti pensare che non pochi culti orientali sono stati portati in Occidente non da indigeni, ma da occidentali; che, una volta acclimatati a Roma, sono stati poi esportati nei vari paesi dell’Impero – e dunque anche in Oriente – dando luogo a ibridazioni e forme le più diverse a seconda del colorito locale dei vari paesi che li accolsero. O al fatto che questi culti, più che costituire un’alternativa a una religione, quella romana, meno fredda, impersonale e in crisi di quello che si è soliti immaginare, hanno contribuito piuttosto a favorire un processo di differenziazione religiosa, a creare un ‘mercato’ più mobile e dinamico dei beni religiosi che circolavano nel vasto Impero. Il cittadino romano era abituato, dal punto di vista religioso, a possedere un’identità multipla e flessibile. Egli poteva dunque aggiungere al suo ‘portafoglio’ di beni religiosi l’iniziazione a qualche culto orientale, che vedeva praticato nella sua città da immigrati e schiavi in templi disseminati e numerosi come i mitrei a Roma o a Ostia, senza che ciò mettesse in discussione la sua identità pubblica.

Un aspetto problematico di questi culti, che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, è il loro rapporto con i misteri tradizionali del mondo greco, a partire da Eleusi, e cioè la loro dimensione iniziatica e misterica. Di fatto, con l’eccezione del mitraismo, in cui tutti i fedeli si sottopongono a un processo iniziatico, l’importanza dell’iniziazione varia di culto in culto e, all’interno dello stesso culto, come insegna il caso di Iside, a seconda del tempo e della collocazione geografica. A differenza, poi, di quanto avverrà col cristianesimo, l’interesse di questi culti non è unicamente concentrato sulla promessa di una salvezza individuale dopo la morte; e quando questa si dà, come nel caso del Lucio delle Metamorfosi di Apuleio, ciò non avviene con la concentrazione e l’ossessione riscontrabili nel caso dell’annuncio cristiano, che ha nella risurrezione dei corpi e nella felicità dopo la morte (la vera vita contrapposta a quella transeunte e caduca di quaggiù) il suo centro.

Per rendersi conto della particolare natura di queste ‘religioni’, per non pochi aspetti culti di immigrati che vi trovavano la possibilità di continuare a mantenere nella nuova patria un ricordo dell’antica – anche se questo, con il passare delle generazioni, diventava in realtà sempre più sbiadito e lontano – basti un esempio come quello rappresentato dal culto di Giove Dolicheno. Esso ha inizio come venerazione di una divinità locale della Commagene, che faceva parte della provincia romana di Siria, e più precisamente di Dolico, dove lo Zeus greco era stato da tempo assimilato al dio supremo degli ittiti, sopravvissuto in quel remoto angolo di terra. A Eliopoli in Fenicia (oggi Ba’albek) esisteva un grande tempio a lui dedicato. Macrobio, nei Saturnali, descrive con ricchezza di particolari la grande statua del dio, che a suo avviso proveniva dall’Eliopoli egizia:

La statua è d’oro, la figura imberbe, con la destra alzata che impugna la frusta come un auriga; la sinistra tiene il fulmine e le spighe; tutto ciò indica la potenza associata di Giove e del sole. In questo tempio il culto è dedicato prevalentemente alla divinazione, che rientra nei poteri di Apollo, che è lo stesso che è il sole. La statua del dio di Eliopoli viene trasportata su portantina, come si fa per le statue degli dei nella processione dei giochi del circo; la prendono in spalla per lo più le persone importanti della regione, a capo rasato, puri per lunga castità, e si muovono guidati dallo spirito divino, non secondo la loro volontà ma dove il dio li sospinge32.

Un bell’esempio di come, in realtà, dietro questi culti si mescolino tradizioni, pratiche e riti diversi, da culti ancestrali, che in questo modo possono continuare a rimanere vivi per chi è in grado di decifrarne la verità nascosta, a imprestiti, da culti solari a pratiche divinatorie. Gradualmente questa divinità è stata poi rappresentata nelle sembianze dell’imperatore romano e il suo culto si è diffuso tramite i soldati e le comunità di fedeli che si trovavano soprattutto nelle zone di frontiera o presso installazioni militari. I fedeli del dio finirono così per appartenere a una popolazione mobile composta da soldati, mercanti, schiavi, con un clero professionale. Come Giove Dolicheno, esso aveva a Roma due santuari: uno sull’Esquilino, l’altro sull’Aventino. In un’iscrizione di quest’ultimo, il dio è presentato come «Juppiter Optimus Maximus, Dolichenus, Aeternus»: un buon esempio della interpretatio romana che, come la interpretatio graeca, è portata a identificare la propria divinità con figure analoghe presenti in altre tradizioni religiose con cui entrava in contatto.

Abbiamo già incontrato il culto di Iside nel caso di Apuleio e del protagonista, Lucio, delle Metamorfosi. La sua diffusione nei primi secoli dell’Impero è notevole. Sembra che esso sia stato portato in Italia da mercanti che commerciavano tra Delo e i porti della Campania: un suo tempio era presente a Pozzuoli già nel 105 a.C. Da lì esso si radica in tutta la Campania, in modo socialmente trasversale, anche se in certe zone, come i porti di Aquileia e Ostia e la stessa Roma, la maggior parte dei seguaci sono liberti e schiavi. D’altro canto, poiché i liberti avevano numerose possibilità di scalata sociale, essi erano in grado di procurare mezzi e risorse per fondare templi e celebrare cerimonie. Da Roma il culto si diffuse, seguendo le strade principali, al Nord e poi in Gallia e in Spagna. Introdotto da immigrati, esso si radica perché accettato e favorito anche dalla popolazione locale, sebbene sia destinato a rimanere un fenomeno di minoranza.

Un discorso in parte diverso va fatto per il mitraismo, che per il suo successo e la sua diffusione nell’Impero, soprattutto tra II e III secolo, è stato da non pochi studiosi considerato come il reale concorrente del cristianesimo nel prendere il posto della religione politica di Roma. Al centro di questo culto vi è il dio Mitra, che possiede ascendenze persiane, essendo in qualche modo collegato con l’antico dio Mithra. I due culti sono, nella realtà, molto diversi. Il primo è radicato in un popolo e costituisce il culto pubblico della Persia; il secondo è il frutto di una scelta individuale e sue tracce sono presenti in tutto l’Impero. Quella persiana era una religione dualista, perché fondata sulla coesistenza e lotta del principio del Bene e di quello del Male, mentre nel culto romano il ruolo del dio malvagio è secondario e lo spirito del culto è profondamente ottimista. Quel che è più, il culto del Mitra romano presenta, nei suoi miti e riti, un forte carattere unitario e un’originalità tale che hanno fatto pensare a non pochi interpreti che esso sia l’invenzione di un qualche genio religioso.

Come l’isismo, anche il mitraismo possiede un mito di fondazione, a cui fanno riferimento le manifestazioni visibili del culto, dai mitrei all’iconografia. Secondo il modulo tipico del sacrificio cosmogonico, la creazione del mondo ne costituisce il cuore pulsante di vita. Stando a questi racconti, il Sole invia il suo messaggero, il corvo, a Mitra, ordinandogli di sacrificare il toro primordiale. Pur riluttante, Mitra esegue l’ordine. L’uccisione dà luogo a un evento straordinario: il toro si trasforma nella luna, il mantello di Mitra si trasforma nella volta celeste, dalla coda del toro fuoriescono le prime spighe e il suo sangue si trasforma in vino; infine, dai suoi genitali scorre il sacro seme che, raccolto in una coppa, feconderà la terra dando origine alla vegetazione. Il giorno e la notte iniziano la loro corsa alterna, con la luna e le stagioni. Ridestate alla luce improvvisa, le oscure creature della notte emergono dalla terra: un serpente lecca il sangue del toro, uno scorpione cerca di succhiare il sangue dei suoi genitali. Ha così inizio l’eterna lotta tra forze positive e negative del cosmo. Il corvo simboleggia l’aria, ma anche il percorso che l’anima deve compiere a ritroso per ritornare alla sua patria celeste; il serpente le forze primigenie della terra. Dopo il sacrificio, Mitra e il dio Sole banchettano insieme, mangiando pane e carne e bevendo vino. Mitra sale poi sul carro del Sole e, attraversando l’oceano, si dirige verso gli estremi confini del mondo.

I rituali si collegano a questo profondo simbolismo cosmico dei racconti mitici. A differenza di altri culti orientali, il mitraismo non contempla cerimonie pubbliche, ma riti esoterici e misterici, che mirano a inserire l’iniziando in una gerarchia sacerdotale. Essi vengono celebrati nei mitrei, disseminati in tutto il vasto Impero (solo a Ostia se ne contano una quindicina, un centinaio a Roma). Al pari delle cripte dei primi cristiani, a cui sono stati spesso confrontati, essi sono costruiti come caverne sotterranee, che rimandano alla grotta dove Mitra aveva compiuto il sacrificio primordiale. I mitriasti vi si riuniscono per riattualizzare il pasto sacro compiuto dal dio: per questo i mitrei hanno la struttura funzionale di una sala da pranzo, con due lunghi banchi per i convitati, che pranzano distesi con lo sguardo diretto verso il fondo della cripta dove risplende l’immagine dipinta o scolpita di Mitra che immola il toro. Per quanto variabili, le dimensioni dei mitrei non sono fatte per accogliervi numerose persone (circa una ventina): il mitraismo, infatti, è una religione di piccoli gruppi di persone, che si conoscono bene e i cui legami reciproci sono rinforzati dai pasti in comune e dalle cerimonie iniziatiche.

Queste ultime comprendono un’iniziazione attraverso sette livelli: il corvo, il fidanzato o giovane sposo (nymphus), il soldato, il leone, il persiano, il corriere del sole, infine il padre. A ciascuno di questi gradi corrisponde un pianeta protettore (nell’ordine: Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole, Saturno), secondo una corrispondenza astrologica all’epoca diffusa e che fa simbolicamente coincidere il passaggio complessivo attraverso i sette gradi dell’iniziazione con il viaggio astrale di ritorno dell’anima dell’iniziando attraverso le sette sfere planetarie, fino alla sua patria celeste.

Ottimista e dinamica, la religione mitraica è propria di gruppi sociali che confidano nel loro dio perché li preservi dai mali. In un’iscrizione latina ritrovata in un mitreo di Roma, un tal Proficienzo, sacerdote che guidava il rito, esprime bene questo spirito positivo:

Questo luogo è felice, sacro, benedetto, ben diretto, voluto da Mitra: fu egli a dare a Proficienzo, padre del rito, l’idea di costruire la caverna e di dedicargliela. Presidiando all’opera compiuta in breve tempo con grande piacere e sotto buoni auspici, ma con la preoccupazione che gli iniziati [syndexi: che congiungono la mano destra] possano felicemente celebrarvi i loro voti in ogni occasione, Proficienzo, molto degno pater di Mitra, ha composto questi piccoli versi33.

Mitra è un dio custode dei giuramenti e dei contratti stipulati per stretta di mano: in termini romani, un dio garante della fides. Questa è stata probabilmente una delle ragioni per cui il culto ha attratto soldati e pubblici funzionari delle province, uomini la cui vita era determinata dal concetto di lealtà verso i colleghi, i superiori e l’imperatore. Anche se il bacino d’attrazione non è solo militare (sono state ritrovate anche iscrizioni dedicate da donne), la sua diffusione è attestata in zone di frontiera come la Britannia, la Germania, i Balcani, oltre che in centri amministrativi e in colonie romane.

In conclusione, i culti orientali, più che un’alternativa alla religione politica romana – che nei secoli della loro diffusione gode di buona salute –, ne costituiscono un arricchimento. Solo a Lucio, per quanto ne sappiamo, la dea Iside richiede esplicitamente di consacrarsi, dopo la sua iniziazione, unicamente al suo culto34. I seguaci di Mitra, come gli altri seguaci dei culti orientali, accanto alle loro iniziazioni continuano a compiere naturalmente i loro doveri verso la religione degli avi. Soltanto l’annuncio cristiano avrà come conseguenza la messa in crisi di questo tipo di doppia appartenenza.

L’ermetismo

Ermetismo è un termine moderno con cui si definisce il complesso della letteratura che nei primi secoli dell’Impero circolava sotto il nome di Ermete Trismegisto. Per estensione designa poi il tipo particolare di religiosità che contraddistingue nel complesso questi testi, in particolare quelli di natura più filosofica. La straordinaria fortuna di tali testi in periodo medievale – anche grazie a una molteplicità di traduzioni – e in seguito la rinomanza che alcuni di essi conoscono in periodo umanistico grazie alla traduzione dei trattati del Corpus Hermeticum a opera di Marsilio Ficino hanno caricato il termine di un significato nuovo, inserendo l’ermetismo, a partire dal XVII secolo, nelle correnti principali che confluiscono nell’esoterismo moderno.

L’ermetismo antico è un fenomeno umbratile e per molti aspetti sfuggente, anche se esso costituisce una chiave di accesso privilegiata per cogliere il modo in cui certe élite del periodo precostantiniano cercarono vie religiose alternative a quelle tradizionali del culto pubblico. La letteratura ermetica è stata redatta, in genere in greco, a partire dall’età ellenistica, anche se la redazione degli scritti più interessanti dal punto di vista religioso appartiene ai primi secoli dell’Impero. Redatta probabilmente in Alessandria, essa riflette il tentativo di confronto, ibridazione e mediazione culturale fra tradizioni locali egizie e nuove forme culturali e religiose ellenistiche: la presenza, in alcuni trattati come il Poimandres, di elementi derivanti dalla traduzione in greco della Bibbia ebraica, è un elemento ulteriore a favore di Alessandria come luogo di produzione.

Il dio Ermete che, quale inventore della scrittura e signore della parola, nell’allegoresi del mito di matrice stoica era stato interpretato come il Logos, come effetto della interpretatio graeca in periodo ellenistico fu identificato con il dio egiziano Thoth, diventando così anche il garante della tradizione sapienziale egiziana che gli scritti, che si pretendevano rivelati da questo dio, veicolavano. Thoth è una divinità che si presenta come «signore della conoscenza» nel mito dell’occhio del Sole, un racconto scritto in demotico e diffuso in epoca ellenistica. Trismegisto, a sua volta, deriva dall’epiteto egiziano «grande, grande, grande», del quale, attorno alla metà del II secolo a.C., esisteva già probabilmente una traduzione in greco. Alla fine del I secolo d.C. un epigramma di Marziale35 dedicato a Ermete, il cui nome greco è ripetuto a ogni verso, lascia sospettare che l’epiteto fosse relativamente diffuso nell’Impero. Nella Kore Kosmou (Estratto 23,5) egli è colui che ha visto tutto, sa tutto e mette in forma scritta la rivelazione ricevuta, il mediatore nei confronti delle anime, l’archivista degli dei, infine uno dei sette pianeti dove risale dopo aver trasmesso al figlio Tat e ad Asclepio la dottrina celeste, che crea la natura degli uomini, mettendo a loro disposizione «Sapienza e Temperanza e Persuasione e Verità» e favorendo tutti gli uomini che nascono sotto il suo segno zodiacale (Estratto 23,6,29). Nel Poimandres36 egli è la voce che annuncia la vita immortale agli uomini disposti a convertirsi, colui che ha il compito di diffondere tra gli uomini la dottrina rivelatagli dal Nous, l’intelletto supremo, e cioè dio, sino a diventare egli stesso il Nous nel De ogdoade et Enneade (paragrafi 36 e 41). In conclusione, non diversamente dal ruolo assolto da Orfeo, nella letteratura di rivelazione ermetica il dio svolge la funzione di conferire autorità a testi in cui si riteneva fosse contenuto un sapere dai connotati esoterici e salvifici. Nello stesso tempo, egli appare come il profeta che rivela agli uomini che se ne rendono degni il segreto per conseguire la salvezza e la rinascita in dio, con il quale l’uomo diventa un’unità indissolubile.

Gli scritti ermetici a noi pervenuti sono quanto rimane di una letteratura pseudoepigrafica molto più vasta. Anche se ha un valore puramente classificatorio, conserva una sua utilità la distinzione proposta da André-Jean Festugière tra letteratura ermetica popolare e filosofica: la prima comprendente scritti che si occupano prevalentemente di astrologia, ma anche di magia e alchimia; la seconda comprendente scritti che riprendono temi e motivi tipici della koinè filosofica del periodo, utilizzandoli per costruire una via di salvezza religiosa. Si tratta di una distinzione di comodo, perché in realtà motivi magici e temi astrologici ritornano nei trattati filosofici, mentre non poche volte i testi appartenenti alla prima categoria riprendono e diffondono motivi filosofici caratteristici dell’ermetismo dotto.

L’ermetismo filosofico, che ora deve interessarci, perché sono i suoi scritti a veicolare un messaggio religioso di conoscenza e salvezza, comprende, oltre a una serie di testimonianze e frammenti lasciatici dai Padri, tre gruppi di scritti: il Corpus Hermeticum con i suoi diciassette trattati; la traduzione latina, denominata Asclepius, di un originale greco perduto, il Logos teleios o Discorso perfetto; infine, una trentina di estratti conservati nell’Anthologium di Stobeo (500 circa d.C.), di lunghezza variabile e di valore disuguale, di cui il più importante è la Kore Kosmou o Pupilla (secondo alcuni, Fanciulla) del mondo. A questi si possono aggiungere le Definizioni di Ermete Trismegisto ad Asclepio, composte in greco ma a noi pervenute in armeno e tre testi in copto ritrovati nella biblioteca di Nag Hammadi, di cui il più importante è il trattato De Ogdoade et Enneade.

I diciassette trattati del Corpus sono diversi tra loro non solo nella forma, ma soprattutto nel contenuto. In genere, sono inquadrati in una cornice letteraria di tipo sapienziale, che ricorda, piuttosto che i dialoghi platonici, gli scritti sapienziali egiziani, in cui un padre trasmette al figlio, che ne eredita così la funzione, una serie di insegnamenti. Il più famoso e significativo dal punto di vista filosofico-religioso è il primo, intitolato Poimandres, o pastore d’uomini, in cui si descrive la teofania del Nous, o Intelletto supremo, a partire dalla quale si sviluppa un ampio quadro cosmogonico in cui si colloca la creazione dell’Anthropos primordiale. Questo trattato veicola una concezione di dio tipica del monoteismo filosofico, secondo cui Dio è unico, ma nel contempo non è l’unico dio. Il testo narra come Nous appaia in visione al discepolo Ermete mostrandogli in una visione la genesi del mondo spirituale e di quello sensibile, rigorosamente distinti, cui segue l’emanazione dei due figli, Logos e Demiurgo, e infine dell’Anthropos, primo uomo celeste che, cadendo prigioniero delle lusinghe della Physis o Natura primordiale, da essa genera i primi sette uomini, come lui androgini. La visione si è intanto trasformata in un dialogo, che si conclude con una nuova visione, in cui a Ermete è rivelato il destino delle anime degli eletti. Alla fine il discepolo narra come, seguendo le ingiunzioni di Poimandres, egli inizi ad annunciare agli uomini la rivelazione della salvezza. Il trattato si chiude con un solenne inno di ringraziamento a Dio. Il Poimandres presenta così in modo sintetico i temi religiosi fondamentali dell’ermetismo. Altri trattati significativi sono il tredicesimo trattato del Corpus, che descrive un processo iniziatico di rigenerazione a sfondo panteistico, in parte ripreso nel trattato copto De Ogdoade et Enneade, e l’Asclepio, che predica l’eccellenza dell’uomo dio mortale e che si chiude con una tipica visione apocalittica. Gli altri trattati o si limitano invece a sviluppare uno specifico tema di scuola (II, V, VI, VIII, IX) o presentano una sintesi non originale di certi temi ermetici (X, XI, XII, XVI).

Anche dal punto di vista dottrinale, questi testi non si presentano coerenti, sicché diventa problematico ricostruire un presunto sistema ermetico. Alcuni trattati, infatti, sono incentrati sul tema ottimistico del dio cosmico: il mondo è penetrato dalla divinità fino a identificarsi con essa; soltanto grazie alla contemplazione dell’ordine divino e della bellezza che il cosmo riflette si può attingere il Dio invisibile, di cui esso è manifestazione. In altri trattati del Corpus Hermeticum, come I, IV, VII (dove il mondo è definito «pienezza di male»; ugualmente nella Kore Kosmou la caduta delle anime nella materia è considerata una punizione), XIII e il trattato in copto, emerge una prospettiva dualistica e pessimistica, di stampo platonico se non gnostico. In questa seconda corrente, il cosmo è considerato piuttosto nella sua dimensione terrestre e materiale; esso è opera del Demiurgo o comunque di un secondo dio.

Al di là e al di sotto di queste pur rilevanti differenze, l’ermetismo presenta alcuni tratti di fondo che ben si iscrivono nella religiosità elitaria del tempo. Soltanto pochi eletti, dotati di un’anima pura, hanno avuto in sorte di alzare il loro sguardo verso il cielo, e altrettanto pochi hanno avuto in sorte di venire illuminati dal raggio di dio attraverso il sole e di vedere così resi impotenti i loro demoni37. Questo gruppo ristretto di spiriti eletti deve perseguire la ricerca della conoscenza di Dio, fonte di salvezza e fine per cui l’uomo è stato generato. Questa conoscenza è tale da permettere di guadagnare la via verso l’immortalità, di rendersi conto che l’uomo è dio, così da perseguire il fine di diventare dio.

La conoscenza, o gnosis, che i testi ermetici trasmettono è di tipo particolare: essa deve essere congiunta con la pietà (eusebeia). Conosce Dio soltanto chi ha questo atteggiamento, soltanto chi – anticipando l’agostiniano credo ut intelligam – supera le aporie dell’intelletto appoggiandosi alle certezze della fede, che coniuga la pietà con la gnosi. Di qui l’atmosfera particolare di certi trattati ermetici, immersi in un’aura rarefatta che si apre e si conclude con una preghiera, mirando in questo modo a stimolare, insieme allo scopo di conoscere dio per ricuperare l’originaria dimensione divina, l’elevazione morale e spirituale.

Proprio la presenza di alcuni elementi liturgici mette in luce un altro aspetto di questa letteratura: il suo carattere esoterico e iniziatico, tipicamente misterico. Ma sono esistite veramente delle comunità ermetiche? Su questo punto l’opinione degli studiosi è divisa. Per alcuni si tratta di misteri letterari. L’ermetismo è, infatti, una tipica religione del libro, nel senso che queste conoscenze esoteriche, che forse potevano essere trasmesse oralmente ‘di padre in figlio’, hanno in realtà nel libro il veicolo privilegiato di trasmissione. Non solo Ermete è l’archivista degli dei (Estratto 23,32,44), ma gli stessi libri sono divini, dotati di una vita propria e destinati a nutrire le anime con la conoscenza misteriosa che trasmettono: per questo si afferma che sono stati redatti in caratteri geroglifici38. Come insegna in particolare il Poimandres, nel corso del suo apprendistato, una volta ammesso alla conoscenza dei libri composti da Ermete, l’adepto apprende una dottrina che si articola in una teologia, in una cosmologia e in un’antropologia, e nella quale sono comprese una psicologia (o dottrina dell’anima), un’escatologia e una soteriologia, nonché una demonologia fusa inevitabilmente con l’astrologia. Da questo punto di vista, l’ermetismo rientra in un fenomeno più generale dell’epoca, quello delle comunità religiose letterarie, cementate dalla lettura. Ma vi sono anche elementi che possono favorire l’ipotesi sociologica dell’esistenza di vere e proprie comunità esoteriche di ermetisti, cerchie in cui avrebbe avuto luogo una sorta di percorso iniziatico, sul modello dei misteri, un progresso spirituale favorito dai libri, ma che comprendeva anche una sua ritualità (il mistero della rigenerazione, sorta di battesimo spirituale). In certi testi ermetici, infatti, si possono riconoscere figure sacerdotali e oggetti di culto, forme di sacrificio incruento, la pura offerta sacrificale della parola, come vuole la polemica antisacrificale che caratterizza l’età imperiale, sacrificio da identificare con l’inno di lode rivolto alla divinità. Forse vi era anche un frugale banchetto di tipo vegetariano, un bacio o un abbraccio o un saluto rituale dai tratti liturgici. Il silenzio, infine, è lo strumento cultuale con cui si onora l’Uno indiviso ed è il solo mezzo concesso per nominare la divinità. In ogni caso, come si insiste più volte, e come avveniva nei misteri tradizionali, l’iniziato è vincolato con giuramento a non rivelarli.

Quello che appare evidente e che, comunque, caratterizza e unisce i vari testi è la dimensione spirituale di questo culto particolare. Si tratta di una religio mentis (Asclepius 25), di una pratica cultuale, cioè, che ha per soggetto, mezzo e oggetto l’intelletto, all’interno della quale l’uomo pio rende grazie alla volontà di Dio (Asclepius 14) rivolto a mezzogiorno oppure a oriente; un rendere grazie questo che si serve di preghiere, invocazioni ed elogi, dove non essere malvagio coincide con la stessa pratica di culto: religione ed etica si intrecciano profondamente. Per sfuggire al male presente nel mondo, infatti, occorre seguire uno stile di vita ermetico. È uno stile di vita frutto di una scelta, perché l’uomo è stato dotato del libero arbitrio. L’uomo che conosce sé stesso è in grado di salire a dio, superando la condizione umana in vista del ricongiungimento col Nous: se la morte si deve intendere soprattutto come ‘morte della mente’ e il vagare dell’uomo che non segue l’intelletto si svolge nella natura disordinata e caotica, l’intelletto si rivela lo strumento che permette all’uomo di liberarsi dalla sua condizione mortale39. Così, chi ha saputo scegliere, chi ha saputo diventare pio, poiché la pietà è conoscenza di dio40 – mentre l’empietà è la colpa più grave che egli possa commettere –, quest’uomo possiede gli strumenti per superare il presente e costruirsi il futuro, un futuro che coincide con il suo ingresso in dio, ovvero con il suo diventare dio.

Nella sua dimensione più elitaria, l’ermetismo si apparenta ad altre correnti religiose dell’epoca, dalla gnosi alla teurgia cara a certi filosofi neoplatonici. Secondo gli Oracula Chaldaica, infatti, la teurgia permette a chi la pratica di non mescolarsi «al gregge soggetto al destino»41. Per Porfirio, essa è una purgatio animae42; per Giamblico43, è possibile salire sino agli dei intelligibili. A differenza della teurgia telestica, che serve ad attirare il divino in questo mondo, animando ad esempio le statue, la teurgia ieratica insegna all’uomo a elevarsi fino agli intelligibili e ad avere la visione rivelatrice, ottenuta per mezzo di una temporanea legatura dei sensi. L’ermetista, che ha ottenuto la conoscenza attraverso la visione e l’illuminazione, per mezzo della teurgia ieratica riesce così a liberarsi dal corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio, guadagna la conoscenza, che è conoscenza di sé, diventando dio.

1 La bibliografia relativa agli argomenti trattati in questo capitolo è sterminata. Ci si limita a citare in ordine cronologico alcune opere particolarmente significative e lavori recenti di sintesi che contengono la bibliografia precedente. Sul monoteismo politico: E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem: ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Leipzig 1935 (rist. München 1951, trad. it. Brescia 1983), ora contenuto in Id., Ausgewählte Schriften, I, Theologische Traktate, Würzburg 1994, pp. 23-81; G. Fowden, Empire to Commonwealth. Consequences of Monotheism in Late Antiquity, Princeton 1993 (trad. it. Gli effetti del monoteismo nella tarda antichità: dall’impero al Commonwealth, Roma 1997). Sul monoteismo pagano: P. Athanassiadi, M. Frede, Pagan Monotheism in Late Antiquity, Oxford 1999; M.J. Edwards, Pagan and Christian Monotheism in the Age of Constantine, in Approaching Late Antiquity. The Transformation from Early to Late Empire, ed. by S. Swain, M.J. Edwards, Oxford 2004, pp. 211-234; One God: Pagan Monotheism in the Roman Empire, ed. by S. Mitchell, P. Van Nuffelen, Cambridge 2010; Monotheism between Pagans and Christians in Late Antiquity, ed. by S. Mitchell, P. Van Nuffelen, Leuven 2010; G. Sfameni Gasparro, Dio unico, pluralità e monarchia divina. Esperienze religiose e teologie nel mondo tardo-antico, Brescia 2010. Sul mondo religioso imperiale: R. Lane Fox, Pagans and Christians, London 1986 (trad. it. Pagani e cristiani, Roma-Bari 1991); Religioni in contatto nel mondo antico. Modalità di diffusione e processi di interferenza, Atti del III Colloquio su «Le religioni orientali nel mondo greco e romano» (Loveno di Menaggio 26-28 maggio 2006), a cura di C. Bonnet, S. Ribichini, D. Steuernagel, Pisa-Roma 2008; Die Religion des Imperium Romanum. Koine und Konfrontationen, hrsg. von H. Cancik, J. Rüpke, Tübingen 2009. Sul culto solare: M. Wallraff, Christus Verus Sol: Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike, Münster 2001; S. Berrens, Sonnenkult und Kaisertum von den Severen bis zu Constantin I. (193-337 n.Chr.), Stuttgart 2004. Sulle religioni misteriche W. Burkert, Ancient Mystery Cults, Cambridge (MA)-London 1987 (trad. it. Antichi culti misterici, Roma-Bari 1989); J. Alvar, Los misterios. Religiones “orientales” en el Imperio Romano, Barcelona 2001; P. Scarpi, Le religioni dei misteri, 2 voll.: I, Eleusi, Dionisismo, Orfismo; II, Samotracia, Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, Milano 2002. Sull’ermetismo: La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, a cura di P. Scarpi, 2 voll., Milano 2009-2011.

2 J. Assmann, Gottesbilder-Menschenbilder: anthropologische Konsequenzen des Monotheismus, in Gotterbilder, Gottesbilder, Weltbilder: Polytheismus und Monotheismus in der Welt der Antike, II, Griechenland und Rom, Judentum, Christentum und Islam, hrsg. von R.G. Kratz, H. Spieckermann, Tübingen 2006 (20092), pp. 313-329, in partic. 314.

3 Oltre ai libri citati nella nota 1, cfr. One God or Many? Concepts of Divinity in the Ancient World, ed. by B. Nevling Porter, Bethesda-New York 2000; L’“Uno” e i “molti”. Rappresentazioni del divino nella Tarda Antichità, Atti della giornata di studio (Milano 9 dicembre 2003), in Annali di Scienze Religiose, 8 (2003); Le monothéisme: diversité, exclusivisme ou dialogue?, Actes du Congrès de l’Association européenne pour l’étude des religions (Paris 11-14 septembre 2002), éd. par C. Guittard, Paris 2010.

4 V.J.P. Kenney, Mystical Monotheism. A Study in Ancient Platonic Theology, Hanover (NH)-London 1991.

5 D.Chr., oratio 12,26.

6 Plu., De Iside et Osiride 67,377F-378A.

7 Apul., met. XI 5.

8 Apul., Plat. I 12,204-206, ed. Beaujeu, pp. 71-72.

9 AE 1913, 188.

10 Traduzione di E. Livrea, Sull’iscrizione teosofica di Enoanda, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 122 (1998), pp. 90-96, in partic. 91.

11 Cfr. S. Mitchell, The Cult of Theos Hypsistos between Pagans, Jews and Christians, in Pagan Monotheism, cit., e Id., Further Thoughts on the Cult of Theos Hypsistos, in One God, cit., pp. 167-208.

12 C. Moreschini, Monoteismo cristiano e monoteismo platonico nella cultura latina dell’età imperiale, in Platonismus und Christentum. Festschrift für Heinrich Dörrie, hrsg. von H. Blume, F. Mann, Münster 1983, pp. 133-161, in partic. 160.

13 Macr., Sat. I 17,2-4.

14 Cfr. G.H. Halsberghe, The Cult of Sol invictus, Leiden 1972; Id., Le culte du Deus Sol invictus à Rome au IIIe siècle après J.C., in ANRW II 17,4, pp. 2181-2201.

15 V.R. Turcan, Héliogabale et le sacré du Soleil, Paris 1985.

16 Cfr. il lavoro di M. Wallraff, Christus Verus Sol, cit.

17 h.A. Heliog. VI 7.

18 h.A. Heliog. VII 4: «omnes sane deos sui dei ministros esse aiebat».

19 Romanzo Pseudoclementino 10,14.

20 Cfr. E. Peterson, Der Monotheismus, cit., pp. 49 segg.

21 Arist., Metaph. 1076A.5.

22 E. Peterson, Der Monotheismus, cit., p. 33.

23 Mac. Mgn., fr. IV 20.

24 Stob., I 1,39, ed. Wachsmuth, p. 49,5-6.

25 Eus., p.e. IV 5,1-2.

26 Eus., p.e. IV 13,1.

27 Porph., Abst. II 37,4,103-104.

28 Aug., epist. 17,35.

29 Aug., epist. 16,1.

30 Cic., div. II 148-149.

31 Aristid., Or. 26,11.

32 Macr., Sat. I 23,12-13.

33 CIMRM, 423.

34 Apul., met. X 6.

35 Mart., V 24,15.

36 Corp.Herm., Poimandres 26-32.

37 Corp.Herm., Dialogus 16.

38 De Ogdoade et Enneade 62,64,66.

39 Corp.Herm., Poimandres 15,18,20.

40 Cfr. il nono trattato del Corpus Hermeticum 4.

41 Orac.Chald., Fr. 153.

42 Porph., Fr. 288, ed. Smith.

43 Iambl., Fr. 17.

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