Polinice

Enciclopedia Dantesca (1970)

Polinice

Antonio Martina

Figlio di Edipo re di Tebe e di Giocasta, e fratello di Eteocle. La figura di P. appartiene a un mito antichissimo e assai noto per l'influsso che ha esercitato sui grandi tragici greci (e poi anche latini). Difficile è però stabilire, essendo perdute o mal testimoniate molte delle tradizioni, quali modificazioni vi siano state apportate di volta in volta.

Edipo, il quale alla sua nascita era stato esposto dal padre Laio, aveva saputo dall'oracolo delfico di essere destinato a uccidere il padre e a sposare la madre. Esiliatosi spontaneamente da Corinto per non vedere quelli che credeva i suoi genitori ed evitare così che la predizione si compisse, incontrò Laio in un trivio: provocato da lui, lo uccise e ne sposò la vedova Giocasta, che era anche sua madre. Dopo molti anni, essendo Tebe desolata dalla peste, Edipo ordinò che, come voleva l'oracolo, si cercassero e punissero gli uccisori di Laio. Quando gli fu rivelata la verità, si accecò gemendo la sua sventura e condannandosi all'esilio, perché considerava rivolte contro sé stesso le maledizioni che aveva scagliato col decreto contro l'uccisore di Laio. Dopo l'abdicazione di Edipo, Eteocle e P., sui quali pure pesavano le maledizioni del padre, si accordarono per governare Tebe a turno. Ma Eteocle alla scadenza del suo turno si rifiutò di cedere il posto al fratello, che, deciso a riconquistare il trono a ogni costo, si rivolse ad Adrasto, re di Argo, di cui sposò la figlia Argia, per chiedere aiuto. Ebbe così inizio la guerra dei Sette contro Tebe, nel corso della quale i due fratelli, mossi l'uno contro l'altro dal desiderio di dominio e da un odio furibondo, si trafissero vicendevolmente combattendo sotto le mura della città, l'uno in difesa, l'altro a conquista del regno. Secondo la tradizione attestata nella tragedia (Sofocle, Antigone) il sovrano Creonte, padre di Giocasta, riservò a Eteocle gli onori funebri, ma decretò che il cadavere di P. restasse insepolto, determinando così in Antigone, sorella al pari della timida Ismene dei due sventurati fratelli, l'eroica decisione di dare a ogni costo sepoltura anche a Polinice. Secondo Stazio, fonte di D., i cadaveri dei due fratelli furono posti a bruciare sullo stesso rogo.

Il complesso ciclo tebano, denso di episodi di sangue e di orrore, ha fornito parecchi spunti alla fantasia dantesca. Di P. vi è menzione in più luoghi del corpus dantesco. In If XXVI 52-54 il poeta, colpito dalla singolarità della fiamma bilingue che avvolge nell'eterno tormento Ulisse e Diomede, chiede a Virgilio: chi è 'n quel foto che vien sì diviso / di sopra, che par surger de la pira / dov'Eteòcle col fratel fu miso?. D. tiene qui presente Stazio Theb. XII 429-432, dove si dice che quando i cadaveri dei due fratelli furono posti a bruciare sul rogo, la fiamma che ne sorse si divise in due, quasi a significare che il loro odio continuava anche dopo la morte: " Ecce iterum fratres: primos ut contigit artus / ignis edax, tremuere rogi, et novus advena busto / pellitur; exundant diviso vertice flammae, / alternosque apices abrupta luce coruscant ". Un'allusione a questo momento del mito è anche in Lucano Phars. I 551-552, il quale, parlando del fuoco di Vesta, dice: " Scinditur in partes, geminoque cacumine surgit, / Thebanos imitata rogos ".

In Pg XXII 55 ss. Virgilio, rivolgendosi a Stazio e con squisito tratto di gentilezza mostrandogli di conoscere profondamente la sua opera, dice di non sapersi spiegare né come né quando Stazio sia diventato cristiano, dal momento che non gli consta che fosse entrato nella fede quando cantò le crude armi / de la doppia trestizia di Giocasta (vv. 55-56), per quello che si può giudicare dalle cose che dice ispirato dalla musa Clio (per quello che Clïò teco lì tasta, v. 58); cfr. Staz. Theb. I 41 " quem prius heroum, Clio, dabis? " che allude al tema della Tebaide cui D. fa esplicito riferimento in If XIV 68-69 (Quei [Capaneo] fu l'un d'i sette regi' / ch'assiser Tebe), di cui l'episodio culminante è costituito dalla lotta tra Eteocle e P., i due fratelli che si odiarono e si uccisero a vicenda.

Un altro momento del mito di P. è rievocato da D. in Cv IV XXV 6-8, quando illustra la sua definizione di pudore allegando come esempio Argia e Deifile (ricordate come personaggi de le genti tue in Pg XXII 109-114, cioè della Tebaide e dell'Achilleide), riassumendo quanto dice Stazio, lo dolce poeta, nel primo de la Tebana Istoria, che quando Adrasto, rege de li Argi, vide Polinice coverto d'un cuoio di leone, e vide Tideo coverto d'un cuoio di porco selvatico, e ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue figlie, che esso divenne stupido; e però più reverente e più disideroso di sapere.

L'oracolo era che Adrasto doveva sposare le figlie Argia e Deifile a un cinghiale e a un leone; perciò quando P. e Tideo fuggiaschi l'uno di Tebe e l'altro di Calidone, quegli vestito della pelle di un leone, questo della pelle di un cinghiale, giunsero nella reggia di Adrasto in una notte tempestosa, disputandosi l'atrio per dormire, il re accorso si ricordò dell'oracolo e gli diede compimento. I passi della Tebaide tenuti soprattutto presenti sono: I 395 ss., 482 ss. e 527 ss.

Infine, un'allusione al mito di P. è in Pg XII 51, dove D., descrivendo uno degli esempi di superbia punita, ricorda la collana dell'Armonia (sventurato addornamento) con la quale P. riuscì a corrompere Erifile, moglie di Anfiarao; questa svelò il luogo, solo a lei noto, dove il vate-guerriero si era nascosto per non partecipare alla spedizione dei Sette contro Tebe, poiché prevedeva che vi avrebbe trovato la morte, come infatti avvenne (cfr. If XX 31-36). E per questo v. Stazio Theb. II 265 ss.

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