POLIMORFISMO

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

POLIMORFISMO (XXVII, p. 653)

Giovanni Trippa

In biologia, una specie di differenze a carattere discontinuo che permettono d'individuare categorie subspecifiche ben definite. Fra i vari tipi di p. non viene considerato senz'altro il più importante quello definito da E. B. Ford p. "genetico" (1940), soprattutto perché solo da questo può dipendere l'evoluzione di una specie. Esso consiste nella coesistenza di variazioni genetiche attribuibili ad almeno due alleli comuni di uno stesso gene nell'ambito di una stessa popolazione di individui della stessa specie, viventi nello stesso habitat. La frequenza di questi alleli deve cioè essere tale che anche il più raro di essi non possa essere dovuto solo a mutazione ricorrente. Poiché una valutazione del genere riesce talvolta difficile, in modo convenzionale si considera comune un allele quando ha una frequenza maggiore o uguale a 0,005. Questo significa, come vedremo in seguito, che in una popolazione di un organismo diploide almeno l'i % degl'individui saranno eterozigoti per quel gene. Sulla base di queste considerazioni, sono stati riconosciuti polimorfici nell'Uomo i geni per più di una ventina di sistemi di gruppo sanguigno (come ABo, Rh, MN, ecc.), per più di trenta enzimi eritrocitari (come la fosfatasi acida, la fosfoglucomutasi, la adenilatochinasi, ecc.) e per più di venti proteine (l'emoglobina, le aptoglobine, le transferrine, ecc.).

Lo studio dei p. genetici e quindi delle frequenze geniche costituisce l'oggetto della genetica di popolazioni (v. genetica, in questa App.). La frequenza genica è la frequenza degli alleli del gene in studio misurata tra i gameti che hanno dato origine a tutti gl'individui della popolazione stessa. Una delle scoperte più importanti della genetica di popolazioni è stata quella fatta indipendentemente da G. H. Hardy e W. Weinberg nel 1908, e che va sotto il nome di legge di Haidy-Weinberg, per cui se le frequenze di due alleli di uno stesso gene A, A′ e A″, in una popolazione hanno rispettivamente valori p e q - naturalmente se questi sono gli unici due alleli di quel gene (p + q) = 1 - tali frequenze si mantengono inalterate nelle generazioni successive solo se vengono rispettate le seguenti condizioni:

1) che le aggiunte di alleli A″ in seguito a mutazione di

siano equilibrate da sottrazioni di alleli A″ in seguito a retromutazione da

(dove u e v sono rispettivamente le velocità di mutazione e di retromutazione) e quindi solo quando pu = qv;

2) che nessun genotipo o fenotipo produca più progenie degli altri, cioè che non comporti alcun vantaggio selettivo;

3) che la popolazione sia sufficientemente numerosa. Se infatti la popolazione fosse di dimensioni limitate le frequenze alleliche potrebbero modificarsi per puro caso (deriva genetica casuale);

4) che non vi siano emigrazioni differenziali né immigrazioni da popolazioni con frequenze geniche diverse;

5) che non vi siano deviazioni sistematiche del principio della segregazione (Ia legge di Mendel).

È stato inoltre osservato da Hardy e Weinberg che, una volta rispettate tutte le condizioni esposte, se gl'individui di una popolazione s'incrociano a caso rispetto al gene in questione, le frequenze dei tre genotipi possibili, A′A′, A′A″ e A″A″, sono rispettivamente p2, 2pq e q2 e che tali valori sono raggiunti in una sola generazione a partire da frequenze iniziali dei genotipi, quali esse siano. In altre parole, soddisfare i requisiti suesposti corrisponde a lasciare immutate le frequenze alleliche, il che è sinonimo di staticità genetica, mentre non soddisfarli significa poterle cambiare e quindi evolvere. L'esistenza di un certo grado di variabilità genetica rappresenta perciò la base di una possibile evoluzione di una popolazione. Non meraviglia quindi che negli ultimi anni l'interesse di molti genetisti si sia rivolto principalmente a chiarire quale fosse il grado di p., cioè quale fosse la percentuale di geni polimorfici, delle popolazioni naturali.

Fino a circa una ventina di anni fa non era possibile avere un'idea neanche approssimativa di quale fosse il numero di geni polimorfici in popolazioni naturali di organismi anche ben conosciuti come la Drosophila, il topo e l'Uomo. Questa situazione era dovuta essenzialmente a due ordini di motivi: in primo luogo non esisteva un metodo per contare i geni (questi infatti venivano identificati solo se mostravano almeno due alleli), secondariamente non esisteva un metodo per vedere quanti, di un certo numero di geni presi a caso, fossero polimorfici. Quando gli studi di biologia molecolare hanno permesso d'identificare nella sintesi di una catena polipeptidica l'azione primaria del gene, solo allora si è potuto affrontare sistematicamente lo studio del grado di p. delle popolazioni. La dimostrazione sperimentale dell'affermazione "un gene uguale una catena polipeptidica" ha consentito infatti d'identificare un gene indipendentemente da criteri genetici, con la sola dimostrazione dell'esistenza di una catena polipeptidica. È stato quindi possibile contare i geni semplicemente contando un certo numero di differenti catene polipeptidiche. Successivamente, l'impiego delle tecniche elettroforetiche (che permettono di differenziare in un campo elettrico molecole differenti, soprattutto in base alle loro proprietà elettriche), spesso associato a metodi di colorazione specifici delle proteine studiate, ha permesso di vedere quante di un certo numero di queste, ottenute da un campione rappresentativo (100-200 individui) di una popolazione di una determinata specie, mostravano lo stesso comportamento elettroforetico (proteine monomorfiche elettroforeticamente) e quante lo mostravano diverso (proteine polimorfiche elettroforeticamente). In quest'ultimo caso si concludeva che le proteine in esame dipendevano da geni polimorfici, se era stato possibile dimostrare che le differenze elettroforetiche osservate erano geneticamente determinate. I risultati ottenuti con l'impiego di queste tecniche nel 1966 indipendentemente da H. Harris nell'Uomo, da R. C. Lewontin e J. L. Hubby in Drosophila pseudoobscura e da F. M. Johnson e coll. in Drosophila ananassae, hanno mostrato che un'aliquota considerevole (circa il 30%) di geni che controllano la sintesi di catene polipeptidiche è polimorfica. Una gran quantità di dati analoghi è stata raccolta successivamente per un gran numero di proteine in numerose specie animali e vegetali. Questo permette di considerare il p. genetico piuttosto che un evento eccezionale una caratteristica generale degli organismi viventi. La sua estensione è senza dubbio maggiore di quella finora accertata; le attuali stime infatti hanno classificato come polimorfici solo quei geni i cui prodotti alternativi sono distinguibili con l'elettroforesi. Considerazioni teoriche sul potere risolutivo delle tecniche elettroforetiche fanno ritenere inoltre che questi metodi identifichino come polimorfico solo un terzo dei geni realmente polimorfici. L'aver quindi trovato in media polimorfico circa il 30% dei geni esaminati rende molto verosimile l'attuale convinzione dei biologi che i geni strutturali siano di regola polimorfici. Vi sono diversi modi per indicare quanto una popolazione o più in generale una specie sia polimorfica; per es. indicando il numero di alleli comuni per ciascun gene polimorfico, oppure la frequenza degli eterozigoti per un dato gene in una popolazione, oppure la percentuale di geni polimorfici, ecc. Il più conveniente di questi consiste nel misurare il grado medio di eterozigosità, cioè la proporzione di geni che in un individuo sono allo stato eterozigote. Questa stima si ottiene come media delle frequenze degli eterozigoti (2pq, per un gene con due alleli; 2pq, 2pr, 2qr, per un gene con tre alleli...) di tutti i genì esaminati. Harris e Hopkinson nel 1972, studiando 71 geni nell'Uomo, di cui venti avevano mostrato p. elettroforetico (28,2% di geni polimorfici), hanno ottenuto una stima del grado medio di eterozigosità pari a 0,067. Questo equivale a dire che in media il 7% dei geni strutturali in ogni individuo sono eterozigoti per alleli comuni differenti da un punto di vista elettroforetico. La tabella 1 riporta i risultati di un'indagine analoga sul grado di variabilità genetica di alcune specie animali.

Si ritiene oggi comunemente che tre siano i meccanismi principali alla base dell'insorgenza e dell'eventuale mantenimento di un p. genetico: la mutazione, la selezione naturale e la deriva genetica. La mutazione determina infatti la comparsa di nuovi alleli e opera con un processo sostanzialmente casuale. La selezione naturale tende a eliminare quegli alleli che in un determinato ambiente risultano svantaggiosi per gl'individui che ne sono portatori e a incrementare la diffusione di quelli vantaggiosi. Potremo quindi osservare una condizione di p. transeunte prima che gli alleli a ridotta idoneità biologica siano stati soppiantati del tutto. Uno dei casi meglio analizzati e più spettacolari riguarda l'incremento di forme melaniche determinate geneticamente in numerose specie di farfalle notturne parallelamente al diffondersi dell'industrializzazione in paesi quali l'Inghilterra, il Nord Europa e gli Stati Uniti ("melanismo industriale"). Si è visto che l'incremento delle forme melaniche è dovuto al fatto che queste sono perfettamente mimetiche con i substrati anneriti dalle scorie industriali e risultano quindi più protette delle forme normali più chiare nei confronti degli uccelli predatori. La condizione invece in cui il p., una volta che si sia instaurato, non ha tendenza a scomparire viene detta di p. stabile o bilanciato. È il caso di geni come quelli dell'anemia falciforme, della talassemia, di altre emoglobinopatie comuni e della glucosio-6-fosfato-deidrogenasi nell'Uomo, per i quali l'eterozigote in ambienti malarici sembra mostrare un vantaggio selettivo nei confronti di entrambi gli omozigoti (eterosi). In questi casi le frequenze geniche si stabilizzano attorno a un certo valore e anche se disturbate da fluttuazioni casuali, tendono a tornare al valore originario. La deriva genetica casuale, infine, provoca dei cambiamenti nelle frequenze geniche da una generazione all'altra per quanto più piccola è la popolazione in conseguenza del processo casuale di campionamento dei gameti che daranno origine agl'individui della generazione successiva. Sono infatti note numerose situazioni nelle quali alcune varianti proteiche assenti o rare altrove hanno frequenze eccezionalmente elevate in comunità relativamente piccole e isolate, come nel caso dell'allele variante dell'albumina sierica con frequenza 0,25 negl'Indiani Naskapi d'America o in comunità che sono derivate da un gruppo molto piccolo di individui (effetto del fondatore), come nel caso della malattia genetica nota col nome di retinoblastoma, circa mille volte più frequente fra gli abitanti dell'isola Tristan da Cunha (Oceano Atlantico), che nel resto del mondo.

Un esempio interessante di quanto le dimensioni della popolazione possano influire sulle frequenze geniche è dato da un esperimento simulato al calcolatore elettronico per un solo gene con due alleli con uguale frequenza iniziale (0,5), senza l'intervento di nuove mutazioni né della selezione (gli alleli sono considerati cioè selettivamente neutri). Sono state simulate tre popolazioni differenti con N (dimensione della popolazione) pari rispettivamente a 25, 250 e 2500 individui diploidi che si riproducono secondo le leggi mendeliane. La figura mostra l'andamento delle frequenze geniche nelle generazioni e la fissazione di un allele (frequenza di questo del 100% e scomparsa dell'altro) dopo solo 43 generazioni nella popolazione più piccola. Va detto che con uguale probabilità avrebbe potuto fissarsi l'altro allele, dato che entrambi sono stati considerati selettivamente neutri. Si può notare che nelle altre popolazioni, più grandi, la fissazione richiede tempi più lunghi; non si è infatti ancora realizzata dopo le 150 generazioni considerate.

Una categoria differente di p. riguarda, anziché singoli geni, complessi genici all'interno di riordinamenti cromosomici strutturali noti col nome d'inversioni; queste consistono in un cambiamento dell'ordinamento lineare di una serie di geni sul cromosoma in seguito a una rotazione di 180° del segmento cromosomico che li contiene. Questo p., detto cromosomico, consiste nella coesistenza di uno o più cromosomi presenti in due o più ordinamenti strutturali alternativi all'interno di una popolazione. Th. Dobzhansky e coll. hanno studiato a lungo (1930-1975) questo fenomeno in circa una trentina di specie del genere Drosophila, dove l'esame citologico di questi riordinamenti strutturali è facilitato, oltre che dalle notevoli dimensioni, anche dallo stretto appaiamento dei cromosomi omologhi delle cellule delle ghiandole salivari larvali. Le osservazioni fatte consentono di ritenere che l'elevato grado di p. per alcune caratteristiche inversioni venga mantenuto nelle popolazioni naturali per mezzo dell'eterosi. Si è visto infatti che gli eterozigoti per i vari ordinamenti strutturali sono in genere più frequenti dell'atteso, presentano una maggiore vitalità e producono un maggior numero di figli nei confronti dei rispettivi omozigoti. Una prova a favore dell'ipotesi che un qualche meccanismo selettivo favorisca gli eterozigoti in ambienti particolarmente svantaggiosi si può trarre dai risultati di un esperimento in cui i tre genotipi possibili per gli ordinamenti indicati come ST (Standard) e CH (Chiricahua) in popolazioni allevate in laboratorio in condizioni ottimali di Drosophila persimilis, sono risultati presenti con frequenze i cui valori sono in accordo con quelli attesi p2, 2pq e q2. In condizioni di competizione larvale per mancanza di cibo, invece, la proporzione di individui adulti eterozigoti è risultata maggiore di quella attesa, dimostrando il vantaggio selettivo di questa condizione. Il p. cromosomico non è tuttavia uniforme e statico in tutte le popolazioni, al contrario evolve di continuo in dipendenza delle condizioni ambientali in cui i differenti genotipi si trovano, provocando delle variazioni delle frequenze dei diversi tipi cromosomici. In Drosophila pseudoobscura, per es., dei vari tipi di cromosoma terzo indicati come ST, CH e AR (Arrowhead), il primo è il più comune lungo la costa californiana del Pacifico (0,50-0,60), diventando uno dei più rari man mano che si va verso Est fino all'Arizona e al Nuovo Messico. Variazioni analoghe sono state osservate in rapporto all'altitudine e alle differenti stagioni dell'anno: il cromosoma ST è il più frequente alla base della Sierra Nevada, mentre a circa 3000 metri il più frequente diventa AR; nel Sud della Califomia l'ordinamento ST ha valori dello 0,53 in marzo che si riducono quasi alla metà a giugno, quando CH diventa il più comune passando dallo 0,24 allo 0,40.

Uno speciale tipo di p. per il numero (2n) dei cromosomi, anziché per singoli geni o per differenti riordinamenti strutturali, potrebbe essere considerato quello osservato in alcune razze del gasteropode marino Purpura lapillus con 26 e 36 cromosomi, distribuite in habitat differenti e che originano tipi con un numero intermedio di cromosomi in regioni con caratteristiche ecologiche intermedie.

Bibl.: E. B. Ford, Ecological genetics, Londra 1971; L. L. Cavalli-Sforza, Introduzione alla genetica umana, Milano 1974; R. C. Lewontin, The genetic basis of evolutionary change, New York e Londra 1974; H. Harris, The principles of human biochemical genetics, Amsterdam, Oxford 1975.

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