POLICROMIA

Enciclopedia Italiana (1935)

POLICROMIA

Ranuccio BIANCHI BANDINELLI
Pietro TOESCA
Luigi CREMA

. Il problema della policromia nell'arte antica e nell'arte medievale e moderna si presenta in modo diverso: giacché, mentre per l'arte moderna la policromia in genere è conservata, per l'arte antica non siamo dinnanzi che a notizie, a frammenti e a tracce: l'esemplificazione monumentale deve riescire per forza scarsa e saltuaria.

La scultura primitiva è sempre policroma. Nell'arte egiziana quasi non esiste pittura che non sia congiunta al rilievo, e d'altra parte le statue in legno e in pietra calcare erano dipinte a colori uniti che ricoprivano tutta la superficie. Anche le statue in pietra dura levigata conservano tracce di policromia sulle vesti. I colori erano dati a tempera; quelli più usati erano: bianco candido (calcare puro delle conchiglie), azzurro (lapislazzuli in polvere o un sale di rame, con tono meno vivo), nero (carbone di tamerisco o terre contenenti sale di ferro), giallo, rosso (ocre bruciate), minio. S'incontra anche un isolato tentativo di applicare i colori in pasta entro incassature della pietra. Anche nell'arte mesopotamica e persiana i rilievi erano normalmente completati dalla policromia, come dimostrano i mattoni smaltati delle costruzioni babilonesi dei secoli VII-VI a. C. Ma questi rilievi policromi appartengono in realtà più all'architettura che non alla scultura. In Grecia la scultura crisoelefantina, unendo i toni dell'avorio, dell'oro e dell'argento, era basata sopra rapporti di colore; il trono dello Zeus criselefantino di Fidia (v. fidia, XV, p. 230) era inoltre dipinto con varie raffigurazioni eseguite da Paneno (v.). Anche nelle statue in bronzo (particolarmente virili) si otteneva una varietà di toni applicando occhi in smalto o pasta vitrea e avorio nonché ciglia e talora labbra e capezzoli in lamina di rame. Il nostro abituale concetto del bronzo patinato in modo uniforme, del marmo bianco, degli occhi privi di pupille, che riteniamo "classico" è in realtà sorto nel Rinascimento e diffuso poi dal gusto neoclassico. Tutta la scultura greca fu più o meno completamente policroma. Occorre distinguere però varî periodi. Nel sec. VI a. C quando il materiale impiegato per la scultura era prevalentemente una specie di tufo poroso di colore giallobruno (poros), la policromia fu totale, applicata direttamente sulla pietra o sopra una preparazione analoga allo stucco (v. frontone).

Gli esempî migliori si hanno nelle sculture dei frontoni dei templi dell'Acropoli di Atene precedenti al saccheggio persiano (480 a. C.). I colori predominanti sono il rosso e l'azzurro; distesi a larghe zone piatte; più rari, un color bruno, il nero, il bianco. Le figure virili sono rosse nelle parti nude; barba, capelli, ciglia, sopracciglia e pupille sono in nero; il globo degli occhi in biancastro, giallastro o del colore naturale della pietra. Un mostro a tre corpi anguiformi, ivi raffigurato, ha barba azzurra, occhi verdi. Un altro frontone era occupato dalla figura di un toro azzurro e di due leonesse rosse. Sembra escluso che l'azzurro sia dovuto all'alterazione chimica di un colore nero (ossido di rame).

La policromia era essenzialmente decorativa e convenzionale, non realistica. Il fondo, in questi rilievi arcaici, è del colore naturale della pietra, cioè giallobruno, o colorato in giallo, più chiaro, quindi, come tono generale, delle figure. Col raffinarsi della sensibilità plastica e il conseguente diffondersi dell'impiego del marmo si venne a dare minore prevalenza alla coloritura e si ha, nel bassorilievo, una inversione di rapporti tra fondo e figure, che corrisponde esteticamente e cronologicamente al passaggio dalla tecnica a figure nere a quella a figure rosse nella ceramica. Le figure, cioè, spiccano in chiaro sul fondo scuro (tesoro dei Cnidî a Delfi: fondo azzurro, carni non colorate, armi e vesti leggermente colorate; basi con scene di palestra, dal muro di Temistocle, figure chiare sul fondo rosso vivo). Nei frontoni di Egina (circa 490 a. C.) solo alcune parti rivelano policromia e non più a larghe zone, ma solo nei particolari della testa e negli orli ricamati delle vesti. Gli esempî migliori si trovano fra le statue di giovinette (korai) del Museo dell'Acropoli.

Esse hanno in genere labbra rosse, sopracciglia nere, palpebre bordate di nero (ciglia), iride formata da un cerchio rosso con centro nero e contorno nero sottilissimo; capelli rossi (biondo; in un caso solo con certezza color giallo ocra). Isolatamente tracce di rosa anche sulle guance, sui seni, sull'ombelico. Orecchini e diadema hanno disegni in rosso e in azzurro. Le vesti erano colorate interamente oppure soltanto ornate da disegni policromi; in esse la policromia non teneva conto del colore reale, ma era intesa in modo assolutamente decorativo, a masse, e mai con intento d'imitare il vero.

Per i periodi successivi, per i quali gli originali statuarî sono conservati in minor numero, si hanno meno testimonianze monumentali; ma anche la policromia divenne più sobria, pur rimanendo sempre elemento integrale della scultura greca. Solo con tale presupposto si può capire che Luciano (Imag., 6) parlasse dello sguardo umido dell'Afrodite Cnidia di Prassitele. E sappiamo che questo artista dava fra le proprie opere la preferenza a quelle colorite dal grande pittore Nicia. Un noto passo di Platone (Republ., IV p. 420 C) afferma che solo il concorso della pittura dà pienezza alla forma e al disegno dello scultore. Di questo bisogna tener conto nell'apprezzamento della scultura antica.

Tracce di colore si riscontrarono nel panneggio dell'Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia (v. apollo, III, tav. CXLIII); in una copia da Corinto della testa del Doriforo di Policleto (v.); nelle statue del mausoleo di Alicarnasso e nei fregi del medesimo edificio, trame di fondo azzurro; tracce anche nei capelli e nei sandali dell'Hermes di Prassitele (Olimpia; originale?). Per la policromia del sec. IV il miglior esempio è il sarcofago di Alessandro (v. cavallaria, IX, tav. a col.); i colori usati formano accordi tenui di violetto, porpora, azzurro, giallo carminio, rossobruno, bistro, tonalità che predominano ancora in certi affreschi pompeiani di più prossima derivazione classica; policrome sono le vesti, i capelli, gli occhi (iride azzurra o bruna). Si può anche ricordare una testina di Alessandro Magno della fine circa del sec. IV, ora in proprietà privata a Berlino, che è in marmo giallognolo delle isole; dai resti di colore si può dedurre che il volto era dorato, le labbra e gli angoli degli occhi erano colorati in rosso; capelli ricoperti da un sottile strato di stucco colorato; il diadema era in metallo (Einzelnaufn., Monaco 1893 segg., n. 3902).

I colori venivano sciolti in cera e applicati a caldo, con processo analogo a quello usato per la pittura a encausto. Le parti policromate erano lasciate ruvide, le carni invece polite. Il marmo veniva trattato avanti con un olio volatile (harpix), già noto agli Egiziani, che doveva impedire lo scorrere del colore; esso ha lasciato talvolta traccia lucida dove il colore è scomparso. Nelle terrecotte, in genere, prevale una qualche intenzione veristica e si colorano in relazione anche le parti nude. Nella statuaria classica i nudi ricevevano per solito una velatura uniforme assai leggiera per riscaldare il tono del marmo, che prendeva un aspetto quasi di cera. Essa veniva rinnovata ogni tanto, e l'operazione era detta γανωσις o κόσμησις. Secondo Vitruvio (De Archit., VII, 9, 2) e Plinio (Nat. Hist., XXXIII, 122) era costituita da cera sciolta con poco olio, data a caldo con un pennello e asciugata con un pannolino. Iscrizioni di Delo conservano la registrazione delle spese di tale patinatura per gli anni 279, 269, 250, 201 a. C. Sta di fatto che nei musei in genere i marmi antichi (e i vasi dipinti) appaiono come inariditi. La scultura etrusca mantenne più a lungo la policromia totale in uso nella scultura greca arcaica (Apollo e antefisse di Veio; sarcofago di Orvieto; v. antefissa, III, tav. a col.; apollo, III, tav. CXXXIX; etruschi); del resto seguì i principî di quella greca, che furono continuati anche da quella romana nella misura attenuata raggiunta dall'ellenismo.

La statua vaticana di Augusto da Prima Porta (v. augusto, V, tav. LXXXIV) reca tracce di colore rossiccio nei capelli, di rosso sulla tunica e sul manto, di giallo e di azzurro sulle frange della corazza e sui rilievi che la adornano, i quali dovevano apparire come smalti, con toni variatissimi, e di bruno sul tronco dell'albero.

Anche la statua di Augusto da Via Labicana (Museo Naz. Rom.) mostrava tracce di colore violaceo sulla toga mentre il plinto sul quale posa si staccava nettamente per il suo colore rosso. Sopra una dicromia con effetti di chiaroscuro si basa la tecnica dei cammei e dei vasi di vetro a rilievo bianco su fondo azzurro prediletti dal tempo di Augusto alla metà del sec. I d. C. (vaso degli Amorini vendemmianti, Pompei; vaso Portland, British Museum). I numerosi ritratti di personaggi imperiali che si vedono nei musei, composti da teste di marmo bianco e busti di marmo o alabastro colorato, sono composizioni di età moderna, generalmente barocca. È notevole però il giusto sentimento stilistico che ha fatto generalmente scegliere, per questi pasticci, ritratti del terzo secolo, che, con la loro tecnica pittorica e coloristica sopportano bene il contrasto dei colori. Un'analoga composizione, antica, si può vedere però nella statua colossale di Minerva/Roma del Museo Nazionale Romano.

Col sec. III la policromia si attenua, basandosi soprattutto sopra effetti di lumeggiature d'oro sul bianco del marmo. Sul sarcofago Ludovisi con battaglia (Antike Denkmäler, IV, 1929, p. 61) capelli e barba di tutti i personaggi erano dorati, così pure le criniere dei cavalli; le armi e le vesti lumeggiate a strisce d'oro. Contorni degli occhi e delle bocche forse colorati in rosso. Resti ancora più evidenti di analoga policromia si notano sopra un sarcofago del Laterano (O. Marucchi, Mon. del Mus. Crist. Pio Laterano, tav. 23,1), dove erano dorati capelli e barbe dei pastori, i velli delle pecore; i tendaggi e la veste dell'orante mostravano listature d'oro, precedenti diretti della listatura delle vesti nelle icone bizantine.

Nell'arte medievale europea l'uso della policromia invase ogni ramo, accresciutesi sul principio le sue tradizioni classiche con nuove correnti orientali, che sono attestate soprattutto dalle oreficerie partiche, sassanidi e barbariche. Le incrostazioni di gemme su metalli preziosi, gli smalti, le miniature dei codici, infine le vetrate dipinte (v. le singole voci) mostrano poi in molteplici modi e adattamenti il costante gusto della decorazione policroma; del quale la pittura murale fu una delle manifestazioni più squisite, sebbene spesso non venga considerata in codesto suo valore, che pur è essenziale al suo essere. Tra i coefficienti dello stile della pittura bizantina, romanica e gotica uno dei principali, e di qualità più puramente d'arte, fu l'intento di coordinarlo all'architettura: la pittura venne intesa come veste policroma delle forme architettoniche. Attenuando perciò, pur non senza altre ragioni, la rappresentazione della profondità dello spazio, o tralasciandola del tutto, semplificando la modellazione o riducendola in superficie, la pittura medievale aderì alle forme costruttive, or semplice or grandiosa com'esse, anche quando con le sue figurazioni diede forma più concreta allo spirito religioso, come nell'interno del S. Marco di Venezia o nell'abside della Basilica Liberiana a Roma. La policromia ad affresco, a musaico negli edifici più sontuosi, era presupposta nelle costruzioni sacre medievali, sebbene non sempre attuata: dove fu meglio compiuta non lasciò parte scoperta nemmeno delle membrature architettoniche (Parigi, Sainte-Chapelle; Assisi, basilica di S. Francesco, v. assisi, V. tavv. X-XI); si estese anche all'esterno (musaici del sec. VI nel duomo di Parenzo, dei secoli XII e XIII in facciate di basiliche romane; affreschi del sec. XVII, ma di pura tradizione medievale, nell'esterno di chiese balcaniche); si accompagnava alla policromia composta più uniformemente dalle incrostature di lastre marmoree, come in S. Vitale di Ravenna (v. italia, XIX, tav. CLIX) o in S. Sofia a Costantinopoli (v. costantinopoli, XI, tav. CXXXVI), o portata a toni più profondi e differenti dalle tarsie marmoree (S. Sabina, a Roma; duomo di Parenzo), dall'accordo dei colori di materiali diversi come nei portali dell'atrio del S. Marco di Venezia, capolavori di composizione cromatica che incastonano il verde prezioso delle porte di bronzo.

Troppo complicato sarebbe ricercare nei particolari, come genialmente tentò il Viollet-le-Duc, i sottili modi della policromia parietaria medievale. Ne fu norma costante, che ancor resse gli affreschi stessi di Giotto, il campire con larghe distese di colore uguale - l'azzurro intenso del cielo, l'ocra del terreno, l'oro dei musaici - e far primeggiare pochi toni; fu frequente il contornare di nero ornati e figure per staccare e isolare i toni; la semplificazione fu spinta, specialmente nel periodo gotico, sino a ridurre in superficie piana ogni rilievo (v. gotica, arte).

La policromia si stese anche sulle sculture. Per il più antico Medioevo, finita la produzione dei sarcofagi, non ve n'è traccia che in opere di oreficerie e in avorî (Roma, Museo cristiano: capselle di Pasquale I, d'argento con dorature; avorio di Rambona, v. avorio, V, tav. CXLV, ecc.), ma è probabile che le sculture a ornati piani con intrecci (sec. VIII-X) fossero rinforzate da colori, come suggerisce la loro stessa tecnica. Nel periodo romanico notizie e monumenti attestano l'uso di colorare gl'intagli in legno a ornati e a figure, inserendovi anche cristalli colorati (Santa Maria in Volturella presso Tivoli: frammento d'altare del sec. XII) mentre nella scultura marmorea ornamentale la policromia di ornati a musaico, e perfino con maioliche dipinte, dall'arte bizantina e musulmana si diffondeva e trovava nuovo splendore in Sicilia, nell'Italia meridionale, a Roma. La statuaria in legno, per la sua stessa materia, favoriva e richiedeva la coloratura; e la policromia vi poté essere spinta a quella finezza di dorature e di particolari della quale è uno dei saggi più integri la Madonna di Acuto (Roma, Palazzo Venezia, v. lazio, XX, p. 699) già nella povera chiesa di Antico presso Anagni. La scultura in marmo e in pietra, ancor più nel periodo gotico che nel romanico, e soprattutto oltralpe, ebbe a necessario complemento il colore. Nelle cattedrali gotiche la statuaria era largamente dipinta, anche per conservarla meglio: erano dipinte le membrature architettoniche, per quanto ancor si può intendere dalle tracce rimaste dei colori (Parigi, Sainte-Chapelle, v. gotica, arte, XVII, p. 578; Losanna, cattedrale, v. losanna, XXI, tav. CXXXII, ecc.); tinte franche - rosso, azzurro, verde - coloravano le nicchie i capitelli le nervature su un fondo generale ocraceo; le statue, tinteggiate unitamente nelle diverse parti del drappeggio, risultando il chiaroscuro dalla modellazione stessa, erano qua e là lumeggiate d'oro, portavano iscrizioni dipinte sui loro cartigli. Così ancora sul principio del sec. XV il pittore J. Malouel, che si accompagnò il doratore Ermanno di Colonia, ebbe incarico di dipingere le mirabili statue del "pozzo di Mosè" nella badia di Champmol presso Digione (v. digione, XII, p. 840). Nelle statuette e nei piccoli intagli in avorio, l'arte gotica applicò con raffinatezza oro e colori (Parigi, Louvre: gruppo dell'Incoronazione; ecc.).

In Italia i rilievi nel tramezzo della chiesa di Vezzolano e nella lunetta del portale di S. Zeno a Verona provano il corrente uso della policromia nella scultura monumentale del sec. XII che spesso, come appunto nei rilievi di Nicolao a Verona e a Ferrara, sembra tradurre opere di pittura. Nicola Pisano adoprò molto moderatamente il colore inserendo vetri dipinti e dorati nelle cornici dei suoi pergami mentre fra Guglielmo li stendeva a sfondo dei rilievi dell'arca di S. Domenico (v. bologna, VII, p. 338); ma forse sulla facciata del duomo di Orvieto (e così nelle storie di S. Caterina in S. Chiara, a Napoli) i sottili rilievi dei quattro pilastri furono tutti campiti d'oltremare, staccando le figure candide sul fondo azzurro come nei rilievi del secondo ordine del campanile del duomo di Firenze con un contrasto che poi fu rinnovato da Luca della Robbia. Nelle statue in marmo fra noi, durante il Trecento, la policromia fu usata assai sobriamente, almeno per quanto ancora si può osservare, e soprattutto negli orli e nei risvolti dei panni; essa invece fu comune e largamente profusa nelle statue di legno, con delicata finezza soprattutto dagli scultori pisani e dai senesi. L'arte italiana del Quattrocento seguì le stesse pratiche e alcune ne sviluppò mirabilmente, facendo anche uso di marmi policromi e del bronzo (tempio malatestiano di Rimini, v. alberti, II, p. 183 e. tav. XXXVI; italia, XIX, tav. CLXI; tomba di Giovanni e Piero de' Medici del Verrocchio, in S. Lorenzo a Firenze, ecc.). I rilievi di marmo o di pietra furono spesso campiti di azzurro (facciata di S. Bernardino a Perugia, di Agostino di Duccio; camino di Domenico Rosselli nel palazzo ducale di Urbino; ecc.), lumeggiati d'oro; ebbero qualche volta, da Donatello e dai suoi seguaci, lo sfondo avvivato di musaici, di dischi d'oro, di patere (cantoria di S. Maria del Fiore, v. donatello, XIII, p. 134 e tav. XXXI; pergamo di Prato; Madonna nella cappella medicea in S. Croce, ecc.). Mentre le statue mamoree comunemente erano lasciate incolori, quelle di legno erano policromate (Annunciazione di Iacopo della Quercia, nella collegiata di S. Gimignano, dipinta da Martino di Bartolomeo; ecc.); come oltralpe, in Lombardia e nel Veneto le grandi pale d'altare, intagliate in legno con ornati e con statue, erano tutte oro e colori. La scultura in terracotta, a rilievo e a tutto tondo, fu colorata non meno dei legni. La sua policromia ebbe una geniale innovazione, i cui precedenti si possono trovare nel Trecento, da Luca della Robbia non soltanto perché applicata col procedimento tecnico della maiolica ma per l'ideale trasposizione dell'effetto coloristico e atmosferico - che allo stesso Leonardo da Vinci parve ammirevole - nell'azzurro unito dello sfondo e nel bianco del rilievo: questa vigorosa e delicata dicromia, a cui il maestro stesso e Andrea della Robbia non sempre si attennero, fu poi ognor più tralasciata nella bottega robbiana per una varietà di toni in cui svanì quella prima sublimazione del colore. Le terrecotte robbiane inserte nelle costruzioni, ora a rivestirle completamente come nella cupoletta dell'atrio della Cappella dei Pazzi in S. Croce (v. Brunelleschi), ora ad animar portali e architravi, e infine distese nell'ampissimo fregio istoriato dell'Ospedale del Ceppo di Pistoia, furono delle più originali applicazioni della policromia all'architettura. Gli stucchi modellati, e i più comuni ristampati da rilievi, diedero occasione nel Quattrocento a complicare anche più la plastica con la pittura.

Nel sec. XVI gli scultori italiani lasciarono quasi del tutto di colorare i marmi; ripresero invece qualche volta, non senza l'esempio della statuaria classica, a usare marmi di variato colore: pratica che ebbe più favore nei secoli XVII e XVIII (esempî, a Roma: statua di Paolo IV in S. Maria sopra Minerva; busto del Nigrita in S. Maria Maggiore; monumento Chigi Odescalchi in S. Maria del Popolo), quando il Bernini, com'era nella natura della sua arte, usò largamente la policromia con marmi colorati e con bronzi anche lumeggiati d'oro e dorati (monumenti d'Urbano VIII e di Alessandro VII, v. alessandro, II, tav. XLIX; cappella Cornaro, ecc.), seguito dai discepoli e dallo stesso Algardi (Genova, S. Carlo). Era il tempo in cui incrostature e tarsie di marmi variati rivestivano gl'interni e perfino le colonne (Genova, Annunziata, v. genova, XVI, tavola XC; Venezia, Gesuiti) lussuosamente ma per lo più con toni bassi che non disturbano l'architettura, mentre la pittura, che fin dal secolo XV aveva allentato i suoi vincoli con le forme costruttive, spaziava libera nelle vòlte e nelle cupole ritrovando nondimeno il suo valore di rivestimento policromo, or negli scomparti che ne frazionano e ne moltiplicano i colori quasi per nascoste derivazioni dai concetti della decorazione medievale (affreschi dei Carloni nella SS. Annunziata di Genova; v. carloni, IX, p. 78), or nella più sconfinata atmosfera come sovranamente fu praticata dal Tiepolo.

Fuori d'Italia la policromia non ebbe sorti diverse, ma fu adoprata anche più prodigamente nella scultura in legno, dagl'intagliatori gotici, italianeggianti, barocchi nei paesi germanici - in Fiandra, nel Tirolo, nell'Austria - e iberici: passò per fasi coerenti a quelle dello stile plastico, dall'idealizzazione gotica ai modi svariati dell'arte barocca che nella scultura spagnola la trattò coi più determinati propositi d'illusione realistica. L'arte neoclassica, e i suoi derivati, per la persistente falsa opinione della acromia della statuaria antica, moderarono di molto nella scultura l'uso del colore che, perdurato negli arredi e nella decorazione (v. neoclassica, arte), raramente poi è riapparso nella grande plastica come nelle opere di Max Klinger variate di rare materie.

Nell'arte dell'Estremo Oriente (v. cina; corea;. giappone; india), come in quella dell'America precolombiana, la policromia fu sempre un elemento essenziale, e anche dominante, nell'effetto artistico, moltiplicata sui bronzi dagli smalti, sui legni dalle lacche, nell'architettura dai materiali diversi, anche ceramici, per tutto dalla decorazione dipinta; nell'arte islamica (v. islamismo: Arte), di cui il colore fu mezzo sovrano, la sua più fastosa applicazione si verificò appunto nei rivestimenti ceramici dell'architettura.

Architettura. - Quasi in tutte le architetture, sebbene in diversa misura, fino ai tempi moderni, fu in uso la policromia. Questa policromia poteva essere naturale, dovuta cioè all'associazione di materiali di diverso colore; o artificiale, ottenuta con rivestimenti dipinti o con la colorazione diretta dei materiali costruttivi.

Così l'antico Egitto non solo colorì le membrature architettoniche delle facciate, ma coprì i muri con bassorilievi dipinti a toni vivaci.

Tale decorazione scolpita e dipinta rivestiva anche le pareti interne e decorava i colonnati, ed era ravvivata dalle applicazioni di metalli e dalle incrostazioni di pietre lucenti e paste vetrose.

Nella Mesopotamia i sette piani delle ziggurat erano coloriti in bianco, nero, porpora, azzurro, vermiglio, argento e oro, in rapporto col sole, la luna e i cinque pianeti conosciuti dai Caldei. A Warka i muri sono rivestiti di uno spesso strato di stucco con inseriti cunei di terra cotta dalla testa smaltata, in una decorazione policroma a losanghe. Ma il più diffuso sistema decorativo è il rivestimento parziale o totale degli edifici con mattoni smaltati in cui su un fondo azzurro spiccano, talvolta a rilievo, ornati e figure a colori tra i quali predomina il giallo. Questa tecnica ebbe seguito nell'arte persiana. Anche il metallo fu impiegato, ad es., per rivestire colonne di legno; del resto in tutte le architetture orientali si nota una predilezione per i colori vivi e i materiali preziosi.

Nell'architettura minoica le lastre di gesso alabastrino, gli intonachi di stucco e le colonne furono dipinti con tinte marmoreggiate o unite; un affresco trovato a Cnosso mostra una di queste facciate policrome Nell'architettura micenea (v. cretese-micenea, civiltà), oltre agl'intonachi colorati e alle incrostazioni con paste vetrose, si usarono policromie naturali e rivestimenti di metallo ("tesoro d'Atreo").

La Grecia offre nei templi dorici il più tipico esempio di una viva policromia artificiale. In toni dapprima più caldi, in armonia con le tinte delle terre cotte che rivestivano le cornici lignee, più chiari in seguito, il marmo o la pietra (rivestita o no di un intonaco di stucco, a seconda della sua qualità) ricevettero tinteggiature uniformi che facevano risaltare la plasticità architettonica e decorativa in un ritmo di toni complementari. Pare sicuro che nei muri e nelle colonne si attenuasse con una delicata colorazione gialla la bianchezza dei marmi. In generale gli anelli inferiori dei capitelli, i listelli del fregio, la faccia inferiore del γεῖσον erano colorati in rosso, i triglifi e i mutuli in turchino, le gocce in giallo, il fondo delle metope e del timpano in rosso o in turchino. Piu̇ discreta, la policromia ionica si limitò a porre in evidenza la decorazione colorendo il fondo dei fregi (tesoro dei Sifni a Delfi) e dorando i rilievi; nell'Eretteo si ha il raro esempio di un fregio scuro in pietra di Eleusi con applicate figure di marmo bianco. Nell'ordine corinzio si hanno per lo più solo dorature e applicazioni metalliche. Sono anche da ricordare i capitelli, dorici e ionici, dipinti, delle colonne votive sull'Acropoli d'Atene.

L'architettura etrusca si valse del legno, rivestendolo di terre cotte policrome e mantenendo tale sistema decorativo, che in Grecia si limita all'età arcaica, fino ai tempi ellenistici.

Roma nel fasto della decorazione plastica escluse in genere, negli edifici di pietra, la policromia artificiale, ma impiegò largamente marmi colorati per le colonne e per le decorazioni architettoniche, o ancor più frequentemente nei rivestimenti di lastre marmoree di tinte assai varie poste sulle pareti o nei pavimenti. Nei paramenti di laterizî scoperti, caratteristici specialmente dell'età antoniniana, si alternarono mattoni gialli e rossi nelle membrature architettoniche e nei fondi; inoltre nei motivi decorativi si trovano associati al laterizio altri materiali, come la pomice.

Una vivace e calda policromia presentano le case di Pompei e di Ercolano negli intonachi dipinti delle facciate e dei peristilî nonché nei musaici che rivestono le inquadrature architettoniche di edicole e di fontane.

L'architettura cristiana primitiva ravvivò talvolta le facciate delle chiese con musaici (Basilica di Betlemme; Parenzo; vedi abside, I, tav. LI; modello, XXIII, pagina 511).

L'architettura bizantina riservò dapprima per gl'interni il fasto della decorazione; solo a partire dal sec. IX animò sistematicamente l'esterno dei monumenti con la dicromia del marmo o della pietra e del laterizio, in filari alternati o in contorni e disegni, talvolta aggiungendovi incrostazioni di ceramica (S. Basilio ad Arta).

L'architettura russa profuse i colori, sia armonizzandoli, secondo l'uso persiano, sia contrastandoli, secondo l'uso mongolo, e fece splendere le cupole in bei rivestimenti d'oro e d'argento.

La predilezione per il colore è caratteristica dell'architettura musulmana, che specialmente in Siria e in Egitto sfruttò il contrasto dei materiali lapidei bianchi e rossi o bianchi e neri, e impiegò dovunque la ceramica a rivestire le ampie superficie delle facciate o inquadrare le aperture.

La policromia appare motivo dominante in tutto l'Estremo Oriente: nell'architettura indiana, nella tibetana che corona le facciate con una grande fascia vermiglia, e particolarmente nella cinese che riveste gli edifici di ceramica con intonazioni cromatiche a valore simbolico (giallo per i palazzi imperiali, azzurro per i templi del cielo, ecc.) e nelle architetture che dalla cinese più o meno direttamente derivano.

Anche nell'America precolombiana (v. america, II, tavv. CCI e CCVIII; chich'en itzá, tav. a col.; colombia; copán; messico; perù) si trova diffusa la policromia architettonica, artificiale nei rivestimenti di stucco a toni caldi e contrastati del Messico e dell'America Centrale, naturale nei rivestimenti aurei delle alte terre andine.

In Europa l'architettura romanica presenta policromie sia inerenti alle strutture murarie (mattoni e pietra: S. Zeno a Verona; pietre di due colori a fasce alternate: monumenti pisani), sia dovute a incrostazioni, come nei rivestimenti di pietre colorate, caratteristici specialmente dell'architettura alverniate (Notre-Dame a Le Puy-en-Velay), nelle decorazioni in laterizio dell'Italia settentrionale (S. Stefano a Bologna, v. bologna, VII, tavola LVIII), nelle tarsie marmoree fiorentine (Battistero, S. Miniato), negli elaborati ornati a marmi), calcari e pietre vulcaniche dell'Italia meridionale (Gaeta, Amalfi, Ravello) e della Sicilia (Cefalù, Monreale). I campanili in laterizio di tipo lombardo sono ravvivati dal biancore degli elementi marmorei (colonnine, mensole) e dall'inserzione di marmi colorati e ceramiche (S. Francesca Romana); a Roma inoltre i maestri Cosmati (v.) animano l'architettura dei portici (S. Lorenzo fuori le mura) e dei chiostri (S. Giovanni in Laterano) con incrostazioni di musaici e di marmi antichi, e rivestono le facciate di musaici multicolori (S. Maria in Trastevere, S. Maria Maggiore; v. anche S. Frediano a Lucca, v. lucca, XXI, tav. CXLV).

L'età gotica prosegue quasi dovunque tali policromie. Specialmente fuori d'Italia sottolinea con colori, più vivi all'esterno che all'interno degli edifici, le decorazioni scolpite e ricorre anche alle dorature (porte di Notre-Dame). Le architetture in laterizio dell'Italia settentrionale ricevono decorazioni pittoriche e fasce di bianco intonaco che dànno evidenza alle cornici, sistema che ha seguito nel Rinascimento e trova un'ultima eco nel barocco piemontese. In Liguria si diffonde la policromia a fasce bianche e nere. A Venezia, dalla fastosa policromia di S. Marco si passa alle incrostazioni marmoree, prima limitate, poi diffuse e ravvivate anche da dorature, nei palazzi (Ca' d'Oro) e nelle chiese (S. Maria dei Miracoli) fino al pieno Rinascimento. Nella decorazione geometrica a due toni rosati del Palazzo Ducale (vedi buon, VIII, p. 112; italia, XIX, p. 978) è ricercato un particolare effetto di alleggerimento delle superficie piene della parte superiore. In Abruzzo, e anche in Umbria, si hanno rivestimenti in pietre colorate, probabili derivazioni dalla leggiadra decorazione a quadrilobi rossi in campo bianco di S. Maria di Collemaggio, ad Aquila (v. abruzzo, I, tav. XLIII). Infine nei duomi di Orvieto (v.) e di Siena lo sfavillio dei musaici viene a dare un tono di insuperabile magnificenza alla policromia delle facciate.

Poi questa policromia, con l'affermarsi delle forme classiche, nel Quattrocento, si attenua. Rimane ancora a rivestire qualche edificio, come la Cappella Colleoni a Bergamo (v. amadeo, II, tav. CLV) e S. Bernardino a Perugia (v.), e nell'architettura in laterizio dell'Italia settentrionale. Echeggia ancora negli specchi marmorei della facciata di S. Francesco a Rimini e nelle terrecotte inserite tra i bianchi intonachi e le membrature in pietra delle architetture brunelleschiane (Ospedale degl'Innocenti a Firenze, Ospedale del Ceppo a Pistoia) mentre aveva intanto singolari applicazioni nell'arte decorativa con le statue dipinte e le lunette robbiane e i vasi di maiolica toscani o marchigiani od umbri. Si riduce infine alla schematica dicromia della pietra e del laterizio (Palazzo Ducale di Urbino, v. camino, VIII, tav. CVI) e ai sobrî effetti dei graffiti.

Ma cacciata dall'esterno degli edifici, la policromia si rifugia nell'interno, riprendendo in parte le tecniche di rivestimento marmoreo del mondo romano. La prima metà del Cinquecento vede ad esempio in Roma la raffaellesca cappella Chigi e la peruzziana tomba di Adriano VI, che preludono a tante più vaste applicazioni. E intanto, nelle vaste sale, pitture parietali, arazzi, soffitti dorati o dipinti recano una vera festa di colore, pur sobria e armonica.

Il barocco accentuò questa tendenza e profuse marmi policromi negl'interni, talvolta specialmente nell'Italia meridionale (chiostro e chiesa di S. Chiara) e in Toscana, nella forma minuta e ingegnosa degl'intarsî, e spesso seppe elevare quest'arte in opere di mirabile bellezza vivace; ma affidò l'effetto esterno delle costruzioni solo al dinamismo pittorico delle masse: è rara eccezione il tondo dipinto inserito nella facciata del S. Carlino, a Roma (v. frontone, XVI, tav. XXXIII).

Nelle architetture nordiche i tetti sono spesso coperti con tegole colorate, che talvolta formano disegni.

L'architettura contemporanea, dopo tentativi di policromia decorativa, particolarmente in Spagna con impiego di maioliche, attualmente cerca di valersi del cromatismo architettonico (ottenuto con rivestimenti in lastre di pietra, mattoni o intonachi colorati e sottolineato dall'impiego dei metalli) per far risaltare la plastica architettonica. Non mancano inoltre tentativi di sfruttare il valore costruttivo del colore per accentuare o attenuare con toni d'intensità digradante le masse e i ritmi.

Vedi anche: bizantina, arte; decorazione; ercolano; musaico; pompei. (V. tavv. CXLIII-CL e tavv. a colori).

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