Poliade

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Nella storia delle religioni, divinità che ha un legame più stretto con una città rispetto a quello che la lega alle altre e perciò è da essa venerata con un culto particolarmente importante e solenne.

Nelle grandi religioni politeistiche dell’ambiente mediterraneo (ma anche altrove, per es., nell’America precolombiana, nell’Africa occidentale ecc.) si nota frequentemente che le singole città, pur venerando tutte le divinità del pantheon, per una di esse hanno un culto particolare, considerandosi protette da essa. Nella Mesopotamia già le prime città sumere avevano ciascuna la propria divinità particolare. Alcuni studiosi hanno attribuito a tali culti locali una parte determinante nella formazione stessa del politeismo, che non sarebbe altro che il riflesso religioso della progressiva unificazione politica di città originariamente indipendenti, ciascuna con un proprio culto centrale. A parte questa teoria, che presupporrebbe una serie di monoteismi o monolatrie locali nel seno di un omogeneo ambiente etnico e culturale, è un fatto che gli eventi politici si riflettevano sui rapporti tra le divinità e le città: così, per es., quando la città di Babele conquistò l’egemonia in Mesopotamia (prima metà del 2° millennio a.C.), il suo dio, Marduk, venne a occupare una posizione preminente nel pantheon, appropriandosi delle funzioni di Enlil; e con l’egemonia assira altrettanto avvenne per il dio Assur. La situazione fu analoga nell’antico Egitto: capitale dell’Antico Regno era Menfi, il cui dio, Ptah, godette allora di un prestigio esteso a tutto l’Egitto, prestigio che, durante il Medio e il Nuovo Regno, sarebbe passato ad Amun, dio della nuova capitale, Tebe. Ogni singola città egiziana aveva la propria divinità p. e una tale idea era così radicata nella mentalità egiziana che, dopo la conquista greca, per la nuova città di Alessandria si dovette fondare il culto di una nuova divinità, Serapide, che vi potesse esercitare le funzioni poliadi.

L’idea non era aliena nemmeno ai Greci che, pur venerando ovunque gli stessi dei, conoscevano legami particolari tra una città e una divinità: così Atena ad Atene, Era ad Argo e a Samo, Apollo a Delfi e a Delo, Afrodite a Cipro, Elio a Rodi. Non era diversa la situazione nell’Italia arcaica: basti ricordare le singole città dei Prisci Latini che, pur riunite nella federazione religiosa accentrata intorno al culto di Iuppiter Latiaris, avevano ciascuna un proprio culto particolare: Ariccia quello di Diana, Lanuvio quello di Giunone Sospita, Palestrina di Fortuna Primigenia ecc. La divinità p. di Roma stessa era, almeno sin dalla fondazione del tempio capitolino (509 a.C.), Giove. Ma la tradizione romana conosceva anche una ‘segreta divinità protettrice’ della città, di cui non si divulgava il nome, anche per evitare che essa potesse essere evocata dai nemici. Nel periodo ellenistico si diffuse nel mondo antico un nuovo concetto di divinità p.: come ogni luogo, così anche ogni città aveva la propria «fortuna» (gr. Τύχη). La Tyche (o anche, nel mondo romano, il Genio) della città non aveva una fisionomia propria come le grandi divinità del pantheon classico e si riduceva alla sola funzione di rappresentare la città. È su questo modello di divinità p. che si sviluppò l’idea di una Dea Roma, la cui venerazione è documentata già al principio del 2° sec. a.C. in Oriente.

Il bisogno di una tutela religiosa della città, sopravvivendo anche nel cristianesimo, trova tuttora espressione nella venerazione dei santi patroni locali.

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