Poeti Minori del Trecento – Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (2013)

Poeti Minori del Trecento – Introduzione

Natalino Sapegno

II Trecento è caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in cui acquista un rilievo predominante l'esperienza della lirica d'amore, dai siciliani agli stilnovisti, riflessa in forma consapevole nella dottrina del De vulgari eloquentia), dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme più dispersiva e obbediente a molte sollecitazioni discordanti. Tre grandi nomi, consacrati in un canone a buon diritto tradizionale, segnano i momenti essenziali di questa cultura; ma appunto, con la loro grandezza, accentuano a dismisura il distacco e la povertà delle esperienze minori; mentre, con la loro successione, sottolineano la complessità di cui si è detto, l'irrequietezza e il rapido trasmutarsi dci riflessi culturali e letterari di una struttura sociale, che in un breve giro di anni vede un po' in tutta la penisola frantumarsi le istituzioni comunali, disgregarsi il sistema dei rapporti economici ad esse corrispondente, costituirsi le signorie e i principati, prepararsi in somma, con varie alternative e attraverso lotte aspre, e non senza discontinuità cronologiche determinate da specifiche situazioni locali, quello che sarà per secoli l'assetto relativamente stabile della società italiana e della sua cultura. Un'età, dunque, per eccellenza, di transizi0ne; segnata da alcune fortissime personalità di orgogliosi pionieri e capostipiti della civiltà moderna, c da una folla di tentativi e di esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile, contraddittoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico morale cd intellettuale.

Intendere questo travaglio significa infine rendersi conto di quel fenomeno storico complesso e bifronte, che si suoi designare, rispetto allo svolgimento della cultura, col termine di umanesimo, e al quale si riconnette non a caso, nella secolare tradizione storiografica, per quanto si riferisce all'Italia almeno, un'alterna vicenda di valutazioni discordanti: ora disposte a ritrovarvi le premesse e i fondamenti della grande lezione rinascimentale e della sua funzione europea; ora, soprattutto nella critica ottocentesca e romantica, portate piuttosto a puntualizzare in esso l'inizio o il sintomo di una crisi, di un'involuzione profonda della società italiana e l'espressione, se non proprio la causa, del mancato sviluppo di una cultura nazionale autonoma. La chiave per un'interpretazione più persuasiva dell'umanesimo, che risolva in un nesso dialettico questo contrasto di valutazioni, sta forse proprio in uno studio più attento del Trecento italiano; perché è proprio nell'Italia del secolo XIV che si elabora primamente il volto della moderna civiltà dell'Europa; ma questa scoperta di una nuova prospettiva culturale ed umana viene a coincidere anche con l'esaurirsi di un promettente rigoglio di civiltà politica e reca con sé il germe di quella dolorosa scissione, caratteristica di tutta la storia italiana per secoli, tra la coscienza politica e la vita intellettuale e morale, fra il cittadino e lo scrittore.

L'umanesimo, in quanto invenzione di una nuova tavola di valori culturali ed umani che polemicamente si contrappone al medioevo ascetico e feudale, è invero la coscienza, fatta esplicita e chiara, della civiltà borghese dei Comuni: la scoperta dell'iniziativa dell'uomo creatore dei suoi beni e della sua fortuna; l'esaltazione dell'intelligenza e dell'astuzia mondana, della potenza e della ricchezza terrena, e anche delle umane passioni, della dignità dei sentimenti e del loro complesso caratterizzarsi; donde l'esigenza del realismo narrativo e del lirismo introspettivo nella letteratura, dell'antiscolasticismo nella filosofia, e nell'etica una più spregiudicata attenzione alla casistica dei valori sociali e individuali; l'avvento insomma di una concezione laica della vita, legata a interessi concreti, consapevole delle sue forze, inizialmente ottimistica, esuberante e avida di progresso. Ma nel momento stesso in cui questa nuova coscienza umanistica perviene in Italia alla sua maturità, già la struttura sociale, in cui essa si era venuta elaborando, è entrata in una fase di decadenza, ha iniziato il suo processo di disgregazione e s'avvia a una rapida rovina. La rivoluzione politico-economica, che ha la sua espressione nel Comune italiano, recava nel suo seno anche il germe di questo capovolgimento delle prospettive culturali, che giunge alla sua pienezza, dopo una lenta elaborazione sotterranea, nella civiltà trecentesca, nelle opere dell'Alighieri, del Boccaccio e del Petrarca; ma questa raggiunta maturità si rivela fin dal principio tormentata e intimamente scissa, ha lo splendore troppo acceso e un po' fragile di un fiore sradicato che consuma in un effimero fervore le sue linfe superstiti (e non darà frutto); il fastigio supremo di una civiltà viene così a coincidere con i primi segni della decadenza, in un'atmosfera di decoro e di raffinatezza, che prepara da lontano i trionfi dell'accademia e della pedanteria filologica. Interpreti e attori al tempo stesso di questa vicenda contraddittoria, in cui si celebra il nascimento di una grande cultura moderna, del suo splendore, del suo orgoglio polemico e delle ragioni del suo imminente declino, sono i protagonisti della civiltà italiana trecentesca.

Dante, cresciuto nell'ambito di una civiltà comunale già lacerata dai profondi dissidi interni e segnata dalle gravi insufficienze politiche che ne fanno presentire il non lontano sfacelo; egli stesso partecipe e martire di quelle lotte; si tiene tuttavia aggrappato con tutta la sua umanità e la sua dottrina a quella realtà di vita politica e di costumi e di ideologie etiche e religiose, e la elabora in una vasta sintesi, che è cronaca insieme e profezia, somma filosofica e rappresentazione di fatti e di uomini, l'opera più assoluta e al tempo stesso la più legata alla problematica spicciola del suo tempo, la più universale e anche la più italiana e dialettale di tutta la nostra letteratura.

Il Boccaccio, che opera nel medesimo ambiente fiorentino, ma in uno stadio di involuzione più profonda, è già lontano dall'atteggiamento dantesco di partecipazione, e anzi alieno dall'intenderlo e dal giustificarlo, già propenso a stabilire fra la letteratura e la vita quotidiana un distacco, in cui si celebri la nuova teorizzata libertà e dignità del letterato; ma è ancora aperto alle sollecitazioni di un'esperienza di costume e di moralità concreta, da investire con le armi dell'ironia e della satira, non ha ancora rinunziato, nel nome di un'ideale solitudine, alla dialettica dei rapporti sociali, che anzi lo appassiona intensamente con la sua varia e vivace casistica; accoglie pertanto con nuovo vigore il patrimonio della cultura borghese, inventiva e polemica, psicologica e narrativa, e lo riassume trasportandolo su un piano di estrema raffinatezza letteraria, ma conservandone la straordinaria ricchezza di fantasie e di rappresentazioni, di tipi e di situazioni comiche romanzesche e drammatiche.

Il Petrarca infine, sciolto da ogni legame diretto con le vicende della lotta politica italiana e, pur attraverso le varie relazioni con i principi e i signori di cui accetta il patrocinio, sempre attento a salvaguardarsi un rifugio più o meno illusorio di libertà intellettuale e poetica, è il simbolo più schietto del tardo ideale umanistico, con la sua cultura distaccata e fragile, tutta chiusa in un labirinto di sottili esperienze individuali, lirica e idillica, solitaria ed astratta, sebbene intensamente vissuta nella sua astrattezza, la cultura che vive nel Canzoniere e che si proporrà naturalmente a supremo modello dei letterati italiani per almeno tre secoli.

Dante, Boccaccio, Petrarca additano i momenti più importanti, le fasi di un trapasso, di una trasformazione radicale delle strutture politiche, dei costumi, delle concezioni del mondo. In essi l'esperienza culturale attinge a quel supremo rigore che caratterizza le punte più consapevoli e riflesse di una civiltà. I minori del Trecento sono invece lontanissimi da un rigore siffatto, come pure da quello piuttosto scolastico, ma pur sempre indice di una vicenda intellettuale cosciente delle sue direttive c dei suoi limiti, che aveva guidato e regolato i progressi dell'attività letteraria del secolo XIII. Essi presentano un quadro più vario, ma più incerto, più difficile ad afferrarsi, più dispersivo e più ibrido, in cui galleggiano i residui inerti di una cultura già spenta e ridotta a bagaglio di formule astratte, ma anche affiorano a tratti voci nuove, più facili e cordiali.

Guardate i lirici, ad esempio. Ciò che più spicca, a paragone della coerenza della scuola dai siciliani allo stil novo, è proprio il carattere estremamente empirico dei loro tentativi, la loro riluttanza ad accettare un sistema preciso di schemi contenutistici e di linguaggio, la prontezza con cui obbediscono di volta in volta alle suggestioni più disparate dell'ambiente: insomma una cultura ed un gusto tipicamente informi. Se nei primi anni del secolo registriamo una fioritura di mediocri rimatori che riecheggiano dall'esterno l'insegnamento degli stilnovisti, con una totale incapacità per altro di adesione sostanziale; se per contro negli ultimi decenni del Trecento, in un clima di stanchezza e di esaurimento, fiorisce l'illusione arcaicizzante ed erudita dei letterati intenti a risuscitare il fascino di quella lirica preziosa, su un piano meramente verbale di più o meno decorosa accademia; ciò che conta è piuttosto l'apporto di una folla di piccoli maestri, dci quali è assai più arduo definire un'immagine e un'impronta stilistica, e la cui importanza consiste forse soltanto nell'immediatezza con cui riflettono i dati di una cultura disgregata e ibrida, adattandoli alle mediocri esigenze della loro incerta e torbida biografia: da Fazio degli Uberti al Correggiaio, dal Vannozzo ad Antonio da Ferrara, da Giannozzo Sacchetti a Simone Serdini, dal Bonichi al Faitinelli ed al Pucci, dal Soldanieri al Donati e al Prudenzani. Non a caso alcune di queste figure sono estremamente vaghe e sfuggenti alle ricerche del filologo; e quando anche i dati documentari son sufficienti a permetterei di stabilire con esattezza i limiti dei singoli canzonieri, il risultato non ci appare perciò meno inconsistente per l'affiorare di una molteplicità di elementi contraddittori, che non riescono ad assestarsi, caso per caso, in una fisionomia unitaria.

Ciò che conta è la varietà grande, dall'uno all'altro, degli spunti e dei motivi d'ispirazione; e in tutti la presenza di una sollecitazione autobiografica immediata e di una continua occasionalità dei temi, e insieme l'esigenza di un vario sperimentare di forme e di tecniche e di linguaggi, aperto tutto in una volta agli echi della grande tradizione trobadorica e dantesca, alla suggestiva novità del lirismo petrarchesco, alle eleganze fiorite della poesia musicale, al «parlato " incisivo e mordente dell'Angiolieri, al gusto dei suggerimenti popolareschi, allo squallido mitologismo ornamentale dei grammatici preumanisti. Senza dire che poi tutte queste ed altre reminiscenze e maniere, non solo si succedono, ma si alternano, si intersecano, si mescolano di continuo in uno stesso autore, talora in un solo componimento. Si tratta per lo più, non di poesia, ma di letteratura: di una letteratura per altro irrequieta e mobilissima, che attraversa zone intense, e solo verso il finire del secolo approda ai malinconici esercizi di un generico squallore. Non diversamente, nella sezione dei poemi allegorici e didattici, vedete come dal serio impegno dei testi più antichi si passi solo a poco a poco al modo dispersivo e tutto esterno degli esempi più tardivi, in cui l'allegoria è poco più che un gioco e un pretesto per accogliere e legare alla meglio una somma di minute esperienze di vita, e più spesso di letteratura.

Non è il luogo qui di indugiare in una descrizione dei nomi e dei testi singoli (a ciò sopperiscono abbastanza le notizie introduttive ai diversi canzonieri o poemi o gruppi di liriche). Basterà, dopo aver riconosciuto questo frantumarsi degli elementi di una cultura letteraria in una moltitudine di esperienze individuali, e talora nell'ambito persino di una singola esperienza, dar rilievo alle figure e ai fatti più salienti: oltre i rimatori già ricordati (e il fenomeno, che essi incarnano, di un allargarsi e ramificarsi capillare degli interessi letterari in tutte le parti della penisola), all'alba del secolo, la pungente fantasia satirica e mimica dell'autore del Fiore, la robusta vena gnomica e l'infinita curiosità di Francesco da Barberino; più tardi, la pubblicistica un po' pettegola, ma arguta schietta e fantasiosa di un Pucci; e, con essa, che è forse l'apporto più importante e significativo, la dovizia inconsueta dei testi popolari e semipopolari. Cantàri, serventesi, laude e rappresentazioni sacre, frottole, strambotti, favole e proverbi: è tutta una ricca letteratura, che rappresenta la maggior somma di invenzioni e di modi veramente nuovi in questa poesia minore trecentesca, e, soprattutto nei cantàri, oltreché la più fertile di schiette, se pur tenui, emozioni poetiche, anche la più attiva, in quanto è quella che maggiormente opera a svincolare anche la letteratura ufficiale dagli schemi del passato, ad aprirle nuove vie, ad offrirle temi inusitati e fecondi. Anche questo rilievo inconsueto, che acquista nel Trecento la letteratura popolare, ci aiuta a definire meglio gli aspetti minori di una civiltà caratterizzata appunto dai segni della molteplicità, della varietà, dell'estremo empirismo dei tentativi e dei linguaggi; il che comporta anche, nonostante tutto, il senso di una più larga apertura, di una più varia ricchezza, e cioè l'affacciarsi, almeno potenziale, di una problematica letteraria più duttile e in parte più moderna, più promettente, che per altro, nel trionfo dell'ideale umanistico (che tende sempre più a svincolarsi dalle sue origini e ad affermarsi nella sua astratta assolutezza), era destinata a rimanere da noi senza proseguimento e sviluppo.

Oltretutto, è proprio da questi testi minori, dove il valore documentario prevale quasi sempre sul proposito artistico, che noi possiamo ricavare meglio l'immagine reale del secolo: un'immagine minuta, varia, contraddittoria se si vuole, e nell'insieme torbida e angosciosa. L'impressione che sorge più insistente dalle pagine che qui abbiamo raccolte è un'impressione di decadenza, che investe e travolge tutte le forme di una civiltà.

Mentre un sistema di rapporti umani e civili si spezza e cede il posto ad un altro, in cui più angusto è il margine concesso all'armonico sviluppo della vita individuale, il cuore degli uomini sembra stretto da un senso di paura e di sconforto.

I grandi istituti, su cui poggiava l'assetto della cristianità medievale, sono ormai vuoti nomi. La Chiesa, lacerata dagli scismi e dall'interna corruzione, ha smarrito il senso della sua funzione: in alto, prelati lussuriosi e simoniaci; in basso, preti e frati ipocriti e avidi di guadagno e di sopraffazione. I compiti affidati ai vicari di Cristo «son tutti trasmutati In sparger sangue e vender benefici, In vizi scellerati», afferma Antonio da Ferrara; e Giannozzo Sacchetti conferma che «ipocrisia ... per sacerdoti ogni ben dissigilla»; e Pietro Alighieri ritrae i principi della Chiesa «tratti a lussuria e a ricchir parenti»; e Braccio Bracci stupisce che le forze dello spirito e una dottrina di pace siano messi al servizio degli interessi terreni e ridotti a strumenti di guerra: «El Vangelo di Dio leggesti invano, Che pace predicò per ogni via, E tu fai guerra e mettici in resia ... » L'invocazione di una giustizia di Dio, che sopravvenga ad atterrare l'«avara Babilonia», è così frequente da diventar quasi un luogo comune; mentre da ogni parte insorge la richiesta di una riforma profonda di tutta la vita religiosa. Né minore è la vergogna, e più ridicola l'impotenza, dell'Impero; sempre più evidente appare la vanità di ogni speranza riposta in un suo intervento, che rimetta ordine e giustizia negli stati della penisola. La situazione dell'Italia, nei suoi rapporti soprattutto con l'autorità imperiale, è efficacemente riassunta nelle parole di uno scrittore pur di tradizione ghibellina, Pietro di Dante: «rege sanza possa e leggi vane»; un sovrano che «è tenuto più a ciancia Che non fu mai il ciocco dalle rane» e per causa del quale «quasi a tiranno è ogni terra».

Ma più grave del declino delle istituzioni medievali è la profonda crisi degli ordinamenti del Comune. Già nei testi più antichi, anche in quelli dove la nuova concezione del costume borghese si esprime in termini più orgogliosamente polemici, come nel Fiore, o in quelli che teorizzano in modi ingenui le idealità della classe dirigente, come i trattati di Francesco da Barberino o la canzone del «pregio» di Dino Compagni, il lettore intravvede di scorcio il rovescio reale di una condizione apparentemente vivace, florida e superba: venuta meno l'onestà delle relazioni mercantili, corrotte le magistrature, resa venale la giustizia, smascherata l'ipocrisia dei giuramenti cavallereschi. E il lamento cresce negli anni seguenti (perfino sulle labbra dei modesti rimatori fiorentini, di un Pucci, di un Adriano de' Rossi), quanto più si fa grave dall'esterno e dall'interno la minaccia delle soluzioni violente, della rivolta del popolo minuto ovvero della prepotenza degli avventurieri spregiudicati e fortunati. Il Comune non è riuscito a creare un sistema stabile di ordine e di giustizia; le lotte civili hanno determinato i lunghi rancori e le disperate nostalgie degli esuli; le oligarchie chiuse hanno preso il sopravvento; il contado è rimasto distaccato ed estraneo, se non ostile. La storia di Firenze, fra la tirannide del duca d'Atene e il tumulto dei Ciompi, è quasi un simbolo dell'interna debolezza e dell'incapacità di sviluppo degli ordinamenti comunali.

Perfino l'affermazione della ricchezza e della potenza, che era stata in un primo tempo l'orgogliosa affermazione di un modo nuovo terreno e mondano di concepire la vita, si vien rivelando a poco a poco nella sua grettezza e diventa la norma e il presupposto di un'ingiustizia più profonda: «El mondo vile è oggi a tal condotto Che senno non ci vale o gentilezza, Se è non v'è misticata la ricchezza La qual condisce e 'nsala ogni buon cotto», afferma Pieraccio Tedaldi; e Niccolò Soldanieri rincalza: Il vulgo cari Tien zappator pur ch'egli abbian denari ... Al mondo è maggior chi ha più fortuna». La querela per un siffatto travolgimento dei valori si estende e sottolinea l'ingiustizia dei rapporti sociali: al povero tutto è negato; anche le offese perpetrate a suo danno restano impunite; una società dura e gretta lo condanna a una condizione di servitù senza speranza di redenzione. E mentre per alcuni, pur nelle forme familiari di un'ideologia religiosa e di un richiamo all'ideale evangelico, la povertà è bandiera di lotta c segno di protesta; altri sorgono a smascherare il carattere utopistico di questo cristianesimo arcaico e mettono in luce la natura reale della povertà, fonte di corruzione, di avvilimento e di disordine. Ma questo senso di uno squilibrio profondo dell'assetto sociale resta pure, come il segno di una minaccia incombente, il rimorso di una legge ideale infranta, l'ansia di una giustizia inafferrabile, e risuona con modi e toni vari nelle prose e nei versi del tempo. Fin nelle laude religiose si insinua l'utopia di un mondo dove gli uomini siano finalmente uguali:

«Se noie tutte averno un pate, Donqua semo noie frateglie: Perché non semo agguagliate De ricchezza onncchiveglie?» E sullo sfondo della polemica arditissima del Fiore balena ad un tratto, con straordinario vigore di rappresentazione, l'immagine delle plebi affamate e derelitte: «E quand'io veggo ignudi que' truanti Su' monti del litame star tremando, Che freddo e fame gli va sì accorando Che non posson pregiar né Die né santi, El più ch'i' posso !or fuggo davanti…»

In un mondo così turbato dalla coscienza dell'anarchia e dell'ingiustizia che lo pervade, anche la minaccia della tirannide può assumere la maschera di una speranza di ordine e di pace sociale. La signoria di un solo può parere che assicuri, in certi limiti, una parvenza di uguaglianza e perfino, per i più oppressi e perseguitati, di maggiore libertà. L'esperienza tuttavia dissipa ben presto le illusioni: «nella terra del tiranno Folli son quei che vi stanno», ammonisce Francesco da Barberino; e il Saviozzo, o chi per lui, ribadisce: «Tiranno tira a sé tutte sue voglie: Chi priva dell'aver, chi della vita; A chi toglie la figlia, a chi la moglie»; mentre Pietro Alighieri mette in guardia contro i «nuovi publicani che «rodon la gente ognor con peggior morso».

Ad ogni modo, sopra tutte le delusioni, resta ferma l'invocazione ansiosa, insistente, dolorosa, di un ordine nuovo che dia finalmente tranquillità e sicurezza a tutti: la pace, qualunque essa debba essere, ordinata da un imperatore o promossa da un pontefice, meglio consapevoli delle loro funzioni, o magari imposta da un tiranno alle comunità faziose e rissose. L'immagine della «dolce pace» è presente, bene supremo e sempre inafferrabile, a tutti gli spiriti; sorregge le speranze degli esuli; ispira le riflessioni e i moniti dei cittadini più pensosi; risuona sulla bocca anche dei retori; è usurpata al servizio delle più varie propagande.

Intanto, nell'assenza di un assetto durevole e ordinato dei rapporti economici civili e morali, l'uomo si sente come un fuscello in balìa di forze estranee che lo opprimono. La Fortuna signoreggia il mondo: sia poi essa sentita, come talora avviene, quasi cieca ed informe potenza del caso, o ancora come espressione dell'impenetrabile volontà di Dio, o magari come una specie di forza materiale di fronte a cui l'uomo di cuore si erge, non vittorioso, ma pur tenace nel rivendicare la sua superstite umana dignità. Ai più neppure questa impotente rivendicazione di dignità è concessa: «Contra Fortuna non si puote andare,» dichiara il Vannozzo «Né può per predicanza o per sermone Corso de stella un momento cessare». Non resta che acconciarsi ai cinici precetti dell'anonimo: «Per consiglio ti do di passa passa ... », o a quelli anche più avvilenti che van sotto il nome di Bindo Bonichi: «Un modo c'è a viver fra la gente: ... Cessa da' magri e accòstati a' grassi ... » L'impressione che si leva da molte di queste pagine è quella di una civiltà che si estingue, con i suoi ordini politici e morali, e anche con la sua sapienza e la sua poesia: al lamento di Giovanni Quirini per la morte di Dante («Or son le Muse tornate a declino, Or son le rime in basso descadute ») risponde alla fine del secolo quello di Franco Sacchetti per la morte del Boccaccio («Or è mancata ogni poesia E vote son le case di Parnaso »).

Al lettore accorto non sfuggirà il ricorrere frequente da un testo all'altro di alcuni temi insistenti, e dunque indubbiamente vivi e ugualmente presenti alla coscienza dei lirici come dei didascalici, dei canterini e dei laudesi: il problema della fortuna, e cioè del comportamento dell'uomo dinanzi alle forze soverchianti della realtà circostante; il problema della povertà, e cioè degli squilibri e delle ingiustizie sociali; il motivo della tirannide, minaccia incombente alle comunità superstiti e agli individui ansiosi di libertà e al tempo stesso promessa sovente di un ordine più stabile e di una giustizia più uguale; l'anelito infine della pace, di una politica in cui trovi riposo in qualunque modo e a qualunque prezzo la travagliata sorte di tutti e di ciascuno.

È proprio nel ricorrere di questi temi (d'altronde strettamente legati fra loro e radicati in una medesima situazione civile c morale) che si delinea l'atmosfera comune da cui nascono, pur così dissimili negli aspetti, tutti i testi qui raccolti: ed è, come s'è visto, l'atmosfera di una civiltà che si spegne, in un rigoglio estremo di superstite effimera vitalità, ma squilibrata e dispersa, già disposta ad accasciarsi nell'immobile splendore di una lunga decadenza confortata da splendidi sogni.

Qualche parola è da dire sui limiti di questa scelta e sui motivi di certe esclusioni. Mancano qui, perché sono state assegnate ad altro volume, le rime del maggior Sacchetti, dell'autore del Pecorone, di Buccio da Ranallo. Della poesia religiosa si è cercato di offrire un'esemplificazione che fosse piuttosto varia che abbondante, al fine di evitare al lettore il senso di monotonia che nascerebbe senza dubbio dal ripetersi pedestre di temi e schemi verbali in un genere dove è assai più rara che non si creda la presenza di una fantasia veramente originale e di una commozione sincera. Così anche, per quanto si riferisce alla sezione dei poemi allegorici e didattici, ci parve miglior cosa abbondar nella scelta dei testi più antichi, che sono anche i più vivi; era inutile porgere esempi della Fimerodia, della Pietosa fonte, della Leandreide e via discorrendo, quando basta il Quadriregio a documentare l'inaridirsi di una tradizione. Più largo spazio si è concesso ai cantàri e in genere alla letteratura popolare, che rappresenta la promessa, comunque abortita, di una poesia più moderna (la sola, ad ogni modo, che si sottragga al rigoroso indirizzo aulico della nostra storia letteraria).

Trovi posto, almeno qui, l'espressione della nostra gratitudine alla Dr. Olga Apicella, che ci prestò un valido aiuto nella prima scelta del materiale; ad Alfredo Schiaffini, per il suo apporto a una revisione più attenta di tutti i testi, e a Luigi Ronga per le sue pagine limpide e informatissime sulla musica trecentesca.

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