Poesia

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Poesia

Gian Mario Villalta

La fine del 20° sec. e l'inizio del 21° non sembrano aver lasciato un segno decisivo sulla coscienza comune della poesia. L'impressione più generale, anzi, potrebbe essere quella di un mesto stemperarsi e disperdersi di quei caratteri che più fortemente avevano segnato il corso del Novecento. In un tempo contraddistinto dall'imporsi dei cosiddetti eventi mediatici, infatti, l'assenza di un alto quoziente di intrattenimento o di scandalo, capace di generare una sufficiente eco giornalistica e televisiva, condanna alla semioscurità qualsiasi espressione artistica. Soprattutto se quest'arte, come è accaduto per la p. negli ultimi decenni del 20° sec., ha visto dapprima trasformarsi e poi corrodersi gravemente l'incidenza di quelle funzioni del discorso pubblico - quali la critica e l'insegnamento - che ne formano il naturale contesto e mantengono vivo il legame con il lettore. Un tentativo di risposta c'è stato con il moltiplicarsi delle letture pubbliche e la maggiore attenzione prestata all'aspetto drammaturgico dell'offerta poetica, che, pur producendo qualche nuovo elemento degno di attenzione, non ha modificato la situazione generale. Nell'insieme, accanto a un profondo mutamento nella comunicazione culturale, c'è chi registra "una crescente marginalità del genere letterario poesia, o più semplicemente una sua vera e propria 'decadenza', un suo svuotamento e impoverimento culturale" (Berardinelli 2001, p. 121), in ragione del venir meno tanto del ruolo quanto del mandato pubblico di coscienza critica intellettuale che ha sempre accompagnato la figura canonica del poeta di epoca novecentesca.

Va rilevato che la delusione storica attuale, rispetto alla centralità della p. nel quadro culturale del 20° sec., s'incentra soprattutto sulla perdita di quella comunità d'orizzonte che aveva permesso alla p. e al discorso sulla p. di produrre un riscontro efficace sul gusto e sull'orientamento critico del lettore. A ben vedere, però, l'erosione del terreno comune di collegamento tra la p. e il lettore è attribuibile soprattutto alla scomparsa, dal movimento delle poetiche di questi anni, di quegli intenti programmatici e progettuali che, nelle varie fasi dello sviluppo novecentesco, pretendevano di riassumere nella visione soggettiva del gesto artistico il senso della storia, del destino umano, del vivere sociale, eventualmente attraverso un processo che era di negazione, ma non per questo meno totalizzante. In altre parole, nel quadro di violento scontro ideologico che ha caratterizzato l'epoca, il conflitto delle poetiche, spesso organizzato per gruppi e collegato a un progetto politico, ha fornito alimento alla vitalità del discorso pubblico sulla p. almeno fino ai tardi anni Settanta del 20° sec., facendo aggio sul reale rapporto fra il testo poetico e il lettore, inteso nei termini di un'effettiva compenetrazione di sensibilità e senso nella forma del testo. Contava, insomma, più la poetica che la p., e la vitalità del conflitto delle poetiche ha focalizzato l'interesse su alcuni aspetti della creazione e dei suoi contenuti di pensiero, tenendo a lungo nascosto quel profondo mutamento della realtà antropologica e comunicativa che è stato il vero evento dell'epoca. Quest'ultimo, vale a dire il progressivo e totale dispiegarsi della modernità, percepito da alcuni artisti e pensatori fin dalla metà dell'Ottocento, divenne con il primo conflitto mondiale un acido corrosivo che infiltrò i tessuti più profondi della soggettività, la consistenza dei valori, e quindi, necessariamente, la coscienza della lingua. È all'interno di questo nesso tra lingua, soggetto e valore che la lirica, come specifica modalità dell'espressione poetica, nel corso del Novecento ha occupato un posto centrale, fino a diventare quasi sinonimo del fatto poetico nella sua interezza, in nome della ricerca di un immediato luogo di esperimento delle tensioni che minavano la coesione tra il soggetto, la continuità dei valori e la lingua. Si aggiunga che l'indagine sul linguaggio ha costituito uno dei punti focali della ricerca filosofica del Novecento, ritrovandosi su un naturale terreno di condivisione e di dialogo con l'universo della lirica, che proprio del rapporto tra il soggetto e la lingua ha fatto a sua volta un frequente tema creativo e l'oggetto di ampie riflessioni. Lo sfondo esplicito o taciuto di tale difficile, a volte abissale, interrogazione, è stato l'avvertimento di un dissolversi inesorabile del legame di sacralità tra l'uomo, la natura e il tempo, e ha avuto un ruolo centrale nell'opera di alcuni tra i maggiori poeti del secolo, da Th.S. Eliot, a P. Celan, ad A. Zanzotto. L'attuale crisi della p., vale a dire l'intero ordine dei mutamenti di contesto culturale e di orizzonte operativo, dei quali si darà più avanti qualche preciso riferimento, si configura più propriamente come crisi della lirica, delle sue coordinate interpretative e delle condizioni in cui è venuta affermandosi come un sottogenere dominante la quasi totalità del genere 'poesia'.

Il predominio della lirica nella poesia del Novecento

La descrizione del sottogenere 'lirica' si avvaleva, ancora agli inizi del 20° sec., di una connotazione abbastanza precisa, in termini di evoluzione interna alla storia della letteratura, che prevedeva il configurarsi di una p. di carattere soggettivo, con l'impiego di una sola voce nell'insieme della sequenza poetica: l''io' lirico, dunque, nella sua espressione immediata, raccolto in un sentimento dominante, secondo la tradizione del 'canto' poetico, che da Saffo a Orazio, dai provenzali a F. Petrarca, a G. Leopardi, intonava in unità l'eccellenza della lingua e il mondo interiore del poeta.

Rispetto a questa definizione, ancora oggi largamente accettata, la p. francese della metà dell'Ottocento, assurta presto a paradigma della sensibilità moderna, richiede all'etichetta del sottogenere 'lirica' alcune necessarie avvertenze e precisazioni. Con Ch. Baudelaire, A. Rimbaud e S. Mallarmé il contrasto tra l'io lirico che prende parola e la sua dichiarata difficoltà a riconoscersi nella lingua e nei suoi significati, la posizione del soggetto refrattaria alla comunicazione, l'appello all'ineffabile, diventano i motivi della più ampia attenzione imitativa, per i poeti, e di adesione o polemica, per la critica. Un'opera come Die Struktur der modernen Lyrik (1956) di H. Friedrich, pur con i suoi notevoli limiti, è un utile prontuario degli elementi che caratterizzano la coscienza media della lirica novecentesca, almeno per quanto riguarda la sua centralità nello sviluppo della p. degli anni Venti e Trenta, con la deriva di convinzioni e atteggiamenti che ha in seguito generato. Friedrich pone all'origine dello sviluppo della lirica 'moderna' - nell'aggettivo c'è un chiaro segnale di discontinuità con la tradizione - la p. simbolista francese, che è vista risolversi nella poetica di Mallarmé, e procedere attraverso il Surrealismo francese, la grande stagione poetica della Spagna nel primo e secondo decennio del 20° sec., l'Espressionismo tedesco, l'Ermetismo italiano e l'opera di alcuni poeti come G. Ungaretti, Eliot e G. Benn. Uno schema di questo tipo, che paga lo scotto di gravi esclusioni e altrettanto gravi incomprensioni, concede però di raccogliere alcune costanti della forma, della sensibilità e della riflessione, che hanno accompagnato l'esperienza poetica novecentesca, fino a diventare definizioni correnti nei manuali scolastici. Primo fra tutti il carattere di sorpresa - di shock - sul lettore, ottenuto mediante lo sforzo di staccare il segno linguistico dal suo significato corrente, per alludere a dimensioni esistenziali e a forme del sentire non corrispondenti al discorso pubblico dominante. Da qui il senso di oscurità, di arbitrio e di eccesso, persino di disumanizzazione del soggetto, che ne caratterizza il linguaggio formale e produce quel fenomeno di resistenza alla parafrasi che è stato, in positivo o in negativo, uno dei punti di maggiore concentrazione critica della risposta interpretativa. In rapporto all'esperienza della creazione poetica, inoltre, la lingua tende a trascendere i limiti di mero strumento comunicativo, per divenire radice di un processo ontologico, in cui s'innervano quelle condizioni essenziali, che permettono al poeta di pensarsi portatore di una parola più vera della realtà - rifiutata o negletta - in cui si ritrova a vivere.

In questi pochi dati riassuntivi si riconosce anche una mitologia non ancora esausta: l'eccezionalità del poeta si caratterizza attraverso quegli elementi di emarginazione, estraneità, follia, che dovrebbero dar ragione di un'effettiva 'tensione da dissonanza' in termini di comunicazione sociale.

Dal punto di vista della forma del testo e dell'effetto sulle attese del lettore, Friedrich illustra così i principali caratteri della modernità nella lirica novecentesca: "[…] la differenza tra lingua corrente e lingua poetica si fa radicale, e ne scaturisce una prepotente tensione, che, associata all'oscurità dei contenuti, provoca smarrimento. La lingua poetica acquista il carattere di un esperimento, da cui emergono combinazioni non volute dal significato, ma dalle quali piuttosto scaturisce il significato stesso. Il vocabolario usuale s'innalza a significazioni inconsuete. Parole appartenenti al linguaggio tecnico più remoto vengono elettrizzate liricamente. La sintassi si smembra ovvero si riduce a espressioni nominali volutamente primitive. I più antichi strumenti della poesia, la similitudine e la metafora, vengono maneggiati in un modo nuovo, che evita il termine di comparazione naturale e provoca un'irreale fusione di ciò che realmente e logicamente è inconciliabile" (1956; trad. it. 1971, pp. 15-16). Ora, se è vero che all'interno di questo elenco possiamo trovare qualche tratto descrittivo che si addice a uno o più esempi della maggiore letteratura in versi del Novecento, è anche vero che una simile concentrazione cancella le differenze, a volte enormi, tra scuole, tendenze e individualità, fino al punto di divenire uno strumento inattendibile sul piano conoscitivo. Pur concedendo a Friedrich l'attenuante di lavorare nella metà degli anni Cinquanta, e quindi - rispetto al nostro punto di vista -sulla soglia della maggiore trasformazione nel contesto culturale dell'epoca, è necessaria in ogni caso qualche precisazione integrativa.

Prima di tutto va segnalata l'assenza di grandi individualità, che in qualche misura avrebbero dato una dimensione più problematica all'insieme, da W.B. Yeats a R.M. Rilke, da B. Brecht a W.H. Auden, a U. Saba, tenendo conto che sono del tutto ignorati i russi (A.A. Blok, V.V. Majakowskij, O.E. Mandel´stam, M.I. Cvetaeva) e gli americani (W. Stevens, W.C. Williams, M. Moore). Una maggiore attenzione a queste esperienze avrebbe portato a tematizzare le ragioni del predominio della lirica nella p. del Novecento, e, con un certo profitto, a considerare alcune articolazioni del quadro culturale, che diventano più evidenti là dove la definizione di lirica, pur sommariamente accettata nei repertori, non coincide con la sostanza del testo (basti fare gli esempi, istruttivamente lontani, di Brecht o di Rilke). A volte è la brevità del componimento, a volte invece l'altezza dell'intonazione e la raffinatezza espressiva, quando non l'eccentricità del tema, a raccogliere in una comune definizione ciò che di comune ha ben poco.

Altre importanti questioni meriterebbero approfondimento. Ci si limita a qualche nota: a) sul piano della riflessione, qualora si consideri il tema dello smarrimento, o shock, che Friedrich analizza in rapporto alle intenzioni dei poeti, e lo si riporti al più ampio contenuto di verità indagato da W. Benjamin (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936; trad. it. 1966) e M. Heidegger (Der Ursprung des Kunstwerkes, risalente al 1936 e pubblicato nel 1950; trad. it. 1968), siamo invitati a riconoscervi i caratteri di una crisi strutturale, profondamente radicata nel contrasto fra le tecniche tradizionali della creazione artistica e l'impatto dello sviluppo tecnologico, che modifica non solo le facoltà operative dell'artista, ma soprattutto le condizioni fondamentali della risposta estetica; b) su un altro livello, relativo ai paradigmi generali della ricezione delle opere, l'estetica di derivazione romantica e idealistica, con il suo mito della soggettività creatrice e l'indifferenza per alcuni aspetti della vita dell'opera (lo sviluppo dei generi, le convenzioni retoriche, la cultura materiale), si ritrova naturalmente predisposta a riconoscere il primato della lirica. Le correnti interpretative derivate dall'impulso formalista, al di là delle polemiche di scuola, presentano in seguito un aggiornamento sui risultati delle poetiche simboliste e postsimboliste, più di quanto comportino un vero e proprio mutamento di paradigma; c) considerazioni analoghe potrebbero dare conto di certe apparenti anomalie nel quadro generale, quali l'annessione privilegiata di certe forme di frammentismo o citazionismo (si pensi, tra i più influenti, a Eliot ed E. Pound), oppure l'imporsi di un gusto si direbbe 'trasversale' rispetto agli orientamenti delle varie correnti poetiche, che finì per riassumere un sentire generalmente condiviso, e che ha nella traduzione italiana I lirici greci (1940) di S. Quasimodo uno dei momenti di maggiore esemplarità; d) un'altra integrazione necessaria, rispetto al quadro proposto da Friedrich, riguarda l'operato delle avanguardie, del quale non si può trascurare l'incidenza sugli atteggiamenti culturali e sui comportamenti sociali, non confinabile entro i limiti della sola dimensione del testo poetico, a volte ripetitivo e piuttosto deludente, rispetto alla forza provocatoria delle enunciazioni teoriche. L'impatto delle avanguardie ebbe una grande influenza sulle generazioni seguenti e sancì il vero inizio di quel processo di diffusione del valore estetico in ogni ambito della vita pratica, dalla produzione industriale alla comunicazione, che è stato tra i principali eventi nella cultura degli ultimi decenni del Novecento.

La ricerca poetica nel secondo Novecento

All'indomani della Seconda guerra mondiale, le forti esigenze di testimonianza e di impegno diedero impulso a una stagione di ripensamento dei compiti e dei limiti della p., con la frequente presenza di componenti ideologiche, diversamente tradotte nei termini della ricerca formale. Un ritorno ai temi della realtà quotidiana, espressa alla luce di una maggiore adesione alla lingua della comunicazione pubblica, interessò anche la p., se pure in termini di minore portata rispetto ai fenomeni del Neorealismo nella narrativa e nel cinema, soprattutto in Italia, e poi in Spagna e nella Germania Federale, mentre l'area di influenza sovietica si avviava a un periodo in cui il peso della politica sulla cultura avrebbe svuotato di contenuti originali l'opzione realistica. La Gran Bretagna, che uscì vittoriosa dal conflitto e non subì occupazione del suolo nazionale, visse in modo parzialmente diverso il decennio del dopoguerra, rispetto al resto dell'Europa occidentale, anche per ragioni di tradizione culturale e di lingua, rispetto ai mutamenti interni e alla potente influenza della politica e dello stile di vita statunitense. Il Movement consacrato negli anni dal 1955 al 1957, in cui spiccavano i nomi di Ph. Larkin e di Th. Gunn, si distaccava dalla p. di D. Thomas e degli apocalittici, che avevano tenuto la scena negli anni Quaranta, in nome di un ritorno alla comprensibilità, che poteva dichiararsi antiavanguardistico senza per questo proporsi nei termini di una restaurazione rispetto alle esperienze primonovecentesche.

Tra i Paesi del continente, in quel periodo fu solo la Francia a mantenere una maggiore continuità e convinzione della propria tradizione lirica, grazie anche al fatto di non aver interrotto in precedenza le relazioni con la cultura internazionale e, anzi, di aver arricchito la sua realtà con l'apporto dell'emigrazione russa prima, sovietica poi, e in parte minore ebraica. Mentre Parigi assumeva di nuovo il ruolo di capitale culturale d'Europa, negli altri Paesi, e segnatamente in Italia, la breve stagione neorealistica tramontò di fronte al ritorno dei grandi protagonisti della p. tra le due guerre. Furono ancora Eliot, Benn, E. Montale, A. Breton, P. Eluard, Ungaretti, R. Alberti, F. García Lorca (morto nel 1936, ma in quegli anni tradotto e acquisito come un maestro), a costituire i più alti punti di riferimento per la giovane p. europea e italiana, e con loro si ebbe la ripresa di motivi avanguardistici, mediante la formazione di gruppi e la redazione di programmi operativi, che miravano a spostare l'attenzione critica dal testo poetico al sistema della risposta estetica in cui il testo si produce. Nei decenni Cinquanta e Sessanta, dominati da un grandissimo impulso teorico, attraverso una rinnovata vitalità delle riviste, si affermarono diverse tendenze di rinnovamento. In Italia fu il momento del gruppo di Officina, la rivista che vide emergere i nomi di P.P. Pasolini e F. Fortini, e dei Novissimi (N. Balestrini, A. Giuliani, E. Pagliarani, A. Porta, E. Sanguineti), collegati al progetto denominato Gruppo 63. Fu un passaggio decisivo per lo sviluppo della p. in Italia, che ebbe carattere di esemplarità per la scena europea occidentale, dove ragioni e tensioni analoghe si ritrovavano in Francia, nella Germania Federale e, in misura minore, nella Spagna franchista. In Italia risultò più profondo il "trauma" (Pasolini) relativo alla rapida trasformazione economica del Paese, che vedeva una civiltà contadina affrontare l'impatto dell'industrialismo e dei nuovi mezzi di comunicazione: fu il cosiddetto boom economico e demografico, con l'espansione dei consumi, l'abbandono delle campagne, la migrazione interna, il concreto impegno politico per una reale scolarizzazione di massa. Si parlò di una "mutazione antropologica" (Pasolini), che aveva sconvolto i costumi e la mentalità degli italiani, aveva intaccato tradizioni secolari e, di conseguenza, aveva determinato "una rivoluzione della mente, una svolta intellettuale" (I. Calvino), tale da mettere in crisi i consueti parametri di interpretazione dei fatti culturali.

Si deve situare all'interno di questo processo anche l'avvento di quel fenomeno di crisi della lirica, che impose alla ricerca poetica nuovi confronti sul piano della lingua, delle tematiche, delle finalità espressive. In Italia, si ebbe "l'evento del tutto eccezionale, di una lingua, come l'italiano, che per la prima volta da lingua di cultura andava imponendosi sia pure confusamente come lingua di comunicazione"š (D. Isella, Introduzione a V. Severi, Tutte le poesie, 1986, p. xxvi). Ciò significò, per la lirica, doversi confrontare con il 'parlato', rispetto a una tradizione che aveva lavorato alla separazione dei due ambiti, riservando al discorso in versi uno statuto di eccezionalità che lo preservava da contaminazioni tematiche e compromessi discorsivi. In questo frangente, invece, "la tendenza a stabilire rapporti sempre più stretti con quest'ultimo [il 'parlato', appunto], che pure aveva, in singole personalità, punteggiato fasi o momenti del secolo, divenne un fenomeno di portata generale" (Testa 2005, p. vi). E si trattò di un fenomeno che colpì in profondità la lirica proprio sul piano di quell'immediatezza espressiva e di quella libertà formale che avevano costituito il fondamento della sua tradizione. Anche la convinzione di un portato di spregiudicatezza eversiva, nei confronti della realtà quotidiana, veniva meno, non appena si accettava il confronto con questo nuovo orizzonte operativo. Veniva ora in chiaro che il forte senso di 'modernità' della lirica novecentesca era stato ottenuto con un trattamento sistematico del lessico e della sintassi, e, su quest'ultima, mediante un violento processo di semplificazione. Se pure, fin dalla seconda metà dell'Ottocento, il vocabolario era stato esteso dalle parole più rare a quelle più quotidiane, dalla terminologia tecnica a voci straniere o dialettali, a semplici onomatopee, si comprendeva che ciò si era ottenuto forzando il lessico entro gli ambiti di tensione dell'analogia. Era stata conservata così una scansione eufonica del dettato verbale molto vicina alla tradizione, e in grande continuità con essa, anche quando l'effetto visivo era quello di uno sconvolgimento della metrica tradizionale. La lirica si era portata all'altezza delle richieste del Novecento, in contrastante sintonia con le sue tensioni più forti, procedendo nel senso dell'artificio e della sua esibizione, aumentando il solco che la separava dalla percezione della parola comune, come si è già visto, e ritrovandosi in questo momento inadeguata rispetto agli spazi di sensibilità e di significato che la parola comune stava conquistandosi. Il punto di maggiore difficoltà veniva a interessare, quindi, non tanto il lessico, quanto l'assetto metrico profondo, inadatto a recepire costrutti, fraseologie, espressioni idiomatiche, ritenuti appartenere naturalmente all'ambito della prosa.

La neoavanguardia del Gruppo 63 si situa al centro di quello che si è definito il conflitto delle poetiche, e procedette "ad una critica, ideologicamente agguerrita, sia della lingua delle comunicazioni istituzionali che del codice letterario, mirando così ad accelerare (per straniamento, contaminazione e montaggio) la dissoluzione del discorso lirico, privato d'ogni autenticità o innocenza" (Testa 2005, p. ix). Diversamente, tra i protagonisti di questa stagione culturale, ci fu chi riscontrò una condizione storica di 'fine della poesia', per ragioni diverse, quali la perdita della trascendenza (Montale) o la definitiva inefficacia, inutilità del discorso poetico (Pasolini). Montale, disorientato dal premere, ai confini della lirica, di altri ambiti di parola quali "il ragionamento, il racconto, il discorso, la cronaca, la storia", ricavò, con Satura (1971), gli ultimi bagliori di ironia poetica mediante la revoca in dubbio di tutta la sua precedente opera. Pasolini raggiunse con Trasumanar e organizzar (1971) la soglia di un definitivo abbandono dei valori tradizionali della letteratura, mettendone in discussione le forme e le modalità, con articoli in versi e interventi d'occasione, fino a persuadere il lettore che "il poeta abbia rinunciato all'idea della centralità della poesia" (F. Bandini, Introduzione a P.P. Pasolini, Tutte le poesie, 2003, p. lii).

In questo volgere di anni acquistò un ruolo fondamentale la ricerca di quei poeti, definiti della terza generazione, tra i quali spiccano i nomi di A. Bertolucci, G. Caproni, V. Sereni, M. Luzi e - con qualche differenza, essendo di una decina d'anni più giovane - Zanzotto. Meno coinvolti nel conflitto delle poetiche, e interessati piuttosto a interrogare la propria vocazione in rapporto a una concreta realtà esistenziale, furono loro a proporsi - nel corso di un operare non privo di arresti, balzi in avanti o riprese - un confronto reale, da condurre per ogni singolo componimento, con le profonde contraddizioni del momento. Luzi con Nel magma (1963), Caproni con Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1965), Sereni con Gli strumenti umani (1965), Bertolucci con Viaggio d'inverno (1955-1970) (1971) e Zanzotto con La Beltà (1968) si sentirono di rispondere sul piano della forma alla richiesta di accogliere nel dettato poetico diverse richieste del presente "inglobando e stratificando paesaggi e fatti reali, private inquietudini e minimi eventi quotidiani?" (Sereni). A questi titoli vanno aggiunti La vita in versi (1965) di G. Giudici, dove l'intento di apertura sulla vita pratica diventa programmatico, e Le case della Vetra (1966) del più giovane G. Raboni (1932-2004), che si distingue per la coerenza del tono nella pluralità delle voci chiamate a rendere ragione del nuovo tempo condiviso. Questi poeti hanno "proficuamente trattato, secondo misure e obiettivi diversi, l'italiano 'comune' appena affermatosi sulla scena sociale" (Testa 2005, p. ix), fino a evocare nei loro versi le nuove relazioni tra la parola e il sentire. Si tratta, senz'altro, di una "poesia che riesce ad accogliere a ogni livello quanto prima non rientrava in essa, fino a rendere più elastica e comprensiva la nozione stessa di lirica" (Galaverni 2002, p. 27), ma soprattutto di una p. che mantiene un'alta tensione formale anche dove accoglie aspetti espressivi prima di allora inaccettabili in un contesto lirico.

Tra secondo e terzo millennio

La p. del Novecento ha trovato una delle sue vette espressive nell'opera del poeta romeno naturalizzato francese, ebreo di lingua tedesca, P. Celan (pseud. di Paul Antschel), che rappresenta un caso discriminante nella vicenda della lirica del secolo. Morto suicida a Parigi nel 1970, cinquantenne, lasciò un'opera di singolare potenza espressiva, che ha portato all'estrema soglia dell'esprimibile i caratteri di tensione e concentrazione ereditati dalla tradizione lirica precedente. In contrasto con quella tradizione, però, e per questo capace di accenti di verità nuovi e assolutamente personali, la p. di Celan si distingue per un radicale appello all'esperienza, alla concretezza dei nomi e dei luoghi, ai corpi, al tempo vissuto della parola. Nelle poche pagine di riflessione lasciate dal poeta, si insiste sul carattere di esposizione, di ricettività, costitutivi dell'atto poetico, fino a una totale identificazione con la spontaneità del gesto: "Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema" (Celan 1993, p. 58).

È in questa direzione che si deve cercare, per trovare la via che la lirica ha percorso dagli anni Sessanta del 20° sec., incontrando problemi analoghi in tutte le tradizioni nazionali, che hanno determinato un difficile lavoro di ricostruzione dei principali parametri tematici e formali, nonostante la presenza di notevoli individualità quali I. Bachmann (1926-1973) e H.M. Enzensberger (n. 1929) nell'area di lingua tedesca, il russo I.A. Brodskij (1940-1996; premio Nobel per la letteratura 1987), i francesi M. Deguy (n. 1930), A. Du Bouchet (1924-2001) e J. Stéfan (n. 1930), i polacchi Z. Herbert (1924-1998) e W. Szymborska (n. 1923; premio Nobel 1996).

È però la scena di lingua inglese che è sembrata anticipare, per diversi aspetti, il tracciato dell'evoluzione della lirica verso la svolta del millennio, con l'opera di T. Harrison (n. 1937) e, ancora più segnatamente, di S. Heaney (n. 1939; premio Nobel 1995). Harrison si forgia di una metrica precisissima, per contenere una lingua duttile e tagliente, con cui scrivere di eventi politici e quotidiani, produrre interventi polemici e narrazioni, assumendo dal teatro i ritmi dell'oralità. Heaney, il poeta che ha esercitato forse la maggiore influenza in Europa, si affida ai valori antichi di plasticità della forma e di esattezza della lingua, alla ricerca di un'esperienza di condivisione che non travalichi l'esistenza storica, ma ne sia configurazione reale, in termini di emozione e di coscienza. Nell'opera di questo poeta si ritrova l'unità formale e la tensione psichica della grande lirica novecentesca, ma un nuovo universo di cadenze espressive, di valori e di comunicazione. Sulla strada tracciata da questi due poeti si muovono i più giovani J. McKendrick (n. 1955) e S. Armitage (n. 1963).

Gli anni Settanta e Ottanta del 20° sec. sono stati segnati sul piano politico e sociale, in Italia, dal progressivo riflusso dell'onda di rinnovamento e di emancipazione del decennio precedente. È stato quello il tempo della liberazione 'desiderante', per usare un'espressione dell'epoca, seguita dagli 'anni di piombo' del terrorismo. Disorientamento ideologico, frantumazione dei riferimenti culturali, da un lato, predominio della comunicazione di massa ed estinzione dei dialetti dall'altro, sono stati i fenomeni che hanno interessato più da vicino la poesia. Per quanto riguarda la lirica, il lascito della 'terza generazione' è stato accolto da alcuni poeti - M. Cucchi (n. 1945), C. Viviani (n. 1947), M. De Angelis (n. 1951) e l'allora giovanissimo V. Magrelli (n. 1957) - che hanno riproposto dall'interno della loro esperienza il confronto con la parola quotidiana. Nella loro opera, accresciuta oggi di consistenza e di valore, si ritrova la tensione tra la concretezza della vita, l'impermanenza della lingua e l'incombere di un vuoto di comunità. In questo periodo vi è stata anche una fioritura della p. neodialettale (v. dialettale, letteratura): il prefisso neo- vuole segnare il distacco da una tradizione di subalternità del dialetto nei confronti dell'italiano letterario. Il dialetto porta alla lirica, oltre al "suo storico rapporto con la concretezza e la realtà" (F. Brevini, L'orologio di Noventa, 1992, p. 16), soprattutto il confronto più vivo con la parola parlata, che trova nei maggiori rappresentanti, R. Baldini (1924-2005) e F. Loi (n. 1930), gli accenti di una fisicità teatrale. Negli anni Ottanta si è verificata, inoltre, una rivisitazione delle forme 'chiuse', la ricerca di una stabilità, spesso necessariamente ironica, dello specifico formale della p., con P. Valduga (n. 1953) e G. Frasca (n. 1957), con gli esempi stilisticamente eccellenti di Zanzotto e Raboni, con la ripresa dell'intento 'civile' da parte di G. D'Elia (n. 1953). Il ricorso al sonetto, alle strofe in rima abbracciata e all'alessandrino, provenienti dalla tradizione lirica prenovecentesca, è del resto un fenomeno che riguarda anche altre realtà europee, teso ad affermare la riconoscibilità di un linguaggio, quello della p., in costante debito di identità sociale.

Dagli anni Novanta a oggi, pur operando in un clima di scarso o insufficiente riconoscimento, la p. non ha disertato le richieste di un presente quanto mai difficile da decifrare, dove i caratteri di crisi più volte enunciati nel corso del secolo (perdita della centralità del soggetto, disarticolazione della temporalità, polverizzazione dell'agire nel turbine della comunicazione, omologazione delle culture storiche ed emergenza di fattori localistici) sono venuti affermandosi come fenomeni di continuità in una diffusa condizione esistenziale. La coscienza di una cultura europea condivisa, l'attenzione alle proprie radici familiari e geografiche, il riconoscimento di sé nella misura dell'esporsi ai mutamenti della realtà e della lingua, sono i dati che caratterizzano la p. di oggi, anzi, che ne formano il margine "così rapido e inquieto da far pensare che l'abituale distinzione tra lirico e antilirico, utile in passato, non sia qui più produttiva" (Testa 2005, p. xxviii). Gli anni Novanta hanno sancito inoltre, in Italia come nel resto d'Europa, la coesistenza e la moltiplicazione delle prospettive estetiche, con la pluralità degli itinerari di formazione e la capillarità dell'informazione, lo sfrangiarsi dei tradizionali rapporti di magistero poetico, da cui emergono nel panorama europeo, oltre ai citati McKendrick e Armitage, i nomi del belga G. Goffette (n. 1947), dei francesi J.-P. Lemaire (n. 1948), J.-M. Maulpoix (n. 1952) e V. Rouzeau (n. 1967), del tedesco D. Grünbein (n. 1962), degli spagnoli J. Mateos (n. 1963), E. Otero (n. 1962), B. Atxaga (n. 1951). Tra gli italiani che hanno più recentemente contribuito a indicare, tra esitazioni e conquiste, una condizione di pronunciabilità della parola nel cuore del loro tempo, si ricordano F. Buffoni (n. 1948), B. Salvia (1954-1985), M. Benedetti (n. 1955), E. Albinati (n. 1956), M. Bocchiola (n. 1957), C. Damiani (n. 1957), F. Pusterla (n. 1957), A. Anedda (n. 1958), S. Dal Bianco (n. 1961), A. Riccardi (n. 1962), D. Rondoni (n. 1964) e R. Deidier (n. 1965).

bibliografia

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A. Berardinelli, La poesia, in Storia della letteratura italiana, fondata da E. Cecchi e N. Sapegno, Il Novecento. Scenari di fine secolo 1, diretto da N. Borsellino e L. Felici, Milano 2001, pp. 117-82.

A. Zanzotto, Scritti sulla letteratura, 2 voll., Milano 2001.

R. Galaverni, Dopo la poesia, Roma 2002.

Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi, S. Giovanardi, 2 voll., Milano 2004.

E. Testa, Introduzione a Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di E. Testa, Torino 2005, pp. v-xxx.

G.M. Villalta, Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea, Milano 2005.

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