PLOTINO

Enciclopedia Italiana (1935)

PLOTINO (Πλωτῖνος, Plotīnus)

Guido Calogero

Filosofo greco, massimo rappresentante del neoplatonismo antico.

La vita. - Fonte principale per la sua biografia è la Vita che di lui scrisse il suo scolaro Porfirio: altri elementi forniscono Eunapio, nelle sue Vitae sophistarum, e il lessico di Suida. Nato a Licopoli (o, secondo un'altra indicazione, a Lykon) in Egitto, in un anno che i diversi indizî cronologici fanno oscillare fra il 203 e il 206 d. C. (la massima probabilità è peraltro per il 203), si dedicò, ventottenne, agli studî filosofici, e divenne dopo qualche tempo scolaro di Ammonio Sacca, che la tradizione designa come iniziatore del neoplatonismo classico e che certo ebbe influenza decisiva sulla formazione speculativa di P., per quanto, dato che egli non lasciò alcuno scritto, non sia possibile controllare in che misura la sua fisionomia di pensatore si sia arricchita (secondo un processo consueto nella tradizione della filosofia antica) di tratti proprî di quella del suo più illustre scolaro. Nel 242 P. prese parte alla spedizione dell'imperatore Gordiano contro la Persia, nell'intento di prendere conoscenza della filosofia persiana: ma, per l'insuccesso della spedizione, dovette riparare ad Antiochia. Si recò allora a Roma, dove, quarantenne, iniziò la sua attività didattica, divenendo a poco a poco famoso non solo tra coloro a cui più direttamente si dirigeva il suo insegnamento ma anche tra il popolo, che vedeva in lui un esempio di superiore serenità e saggezza e ricorreva a lui per consiglio e per la risoluzione di controversie: non pochi, morendo, gli affidarono persino la tutela dei figli. L'interesse che il suo insegnamento destava nell'alta società romana richiamò d'altronde su P. il favore dell'imperatore Gallieno e dell'imperatrice Salonina: e fu per tale protezione imperiale che P. poté concepire il progetto di realizzare sulla terra l'ideale dello stato nell'ultima e più matura forma che gli aveva dato Platone. Sul modello delle Leggi doveva infatti essere fondata o richiamata in vita (Porfirio parla della ricostruzione d'una città distrutta della Campania, che quindi avrebbe potuto essere Pompei o Ercolano) e costituzionalmente organizzata una città, che avrebbe assunto il nome di Platonopoli e in cui si sarebbe naturalmente trasferito P. con i suoi seguaci. Ma l'imperatore si lasciò distogliere dall'attenzione già prestata al progetto, il quale perciò non fu recato in atto. Dopo ventisei anni d'insegnamento P. si ritirò, malato, da Roma nella villa di un suo scolaro in Campania, e vi morì nel 269 o 270.

L'opera. - La cura dello scolaro Porfirio ha conservato integro alla posterità il complesso degli scritti plotiniani da lui potuti raccogliere: ma considerarli semplicemente come l'opera omnia di P. significherebbe porsi da un punto di vista inadeguato per l'interpretazione del loro contenuto. Anzitutto il complesso sistematico che essi formano dipende soltanto dall'ordine loro dato dall'editore, il quale, obbedendo a simbolismi numerici di tradizione non soltanto neopitagorica ma anche platonica, divise i cinquantaquattro scritti plotiniani in sei gruppi di nove, detti perciò Enneadi ('Εννεάδες), e li ordinò a seconda del contenuto, pur indicando, nella sua biografia del maestro, quale fosse la loro successione cronologica. In secondo luogo questi scritti non furono composti da P. con intento letterario, affinché fossero pubblicati, ma sono il documento dell'attività didattica da lui svolta nella scuola, e quindi per tale aspetto si avvicinano ai trattati (non agli scritti giovanili) di Aristotele, salvo, peraltro, due fondamentali differenze. La prima è quella che mentre gli scritti aristotelici documentano piuttosto la fase preparatoria dei suoi corsi di lezione, di cui costituiscono il tracciato, gli scritti plotiniani sembrano piuttosto serbare memoria delle lezioni avvenute e delle discussioni seguite ad esse; la seconda è quella che, mentre i documenti dell'attività didattica di Aristotele testimoniano di tutta l'evoluzione del suo pensiero posteriore al periodo giovanile, quelli del neoplatonico risalgono soltanto all'ultimo quindicennio del suo insegnamento, perché solo quando era già cinquantenne egli si decise (per altrui esortazione, stando al racconto di Porfirio) a fissare per scritto ciò su cui veniva disserendo. Ciò non toglie che, anche in seno a tali limiti cronologici, sia stato possibile iniziare tentativi - peraltro ancora assai recenti, e per molti lati incerti - d'una ricostruzione dello sivluppo del pensiero plotiniano. Del carattere degli scritti di P. è, d'altronde, documento indiretto anche lo stile, che ha per fortuna conservato, nonostante le cure redazionali di Porfirio, la vivacità della parola parlata e dell'idea discussa, anche a scapito dell'unità e sistematicità di ciascuna trattazione: nella quale immediatezza è insieme la difficoltà e il fascino dello stile plotiniano.

Considerate nel loro complesso, le dottrine plotiniane si presentano sì come facenti sistema: ma non tanto perché esse si trovino inquadrate in un organismo originale, e predominante con le sue esigenze, quanto nel senso che esse sistemano, con opportuna disposizione gerarchica, i più importanti concetti e motivi teorici che la filosofia precedente era venuta elaborando. Più ancora che un sistema, la filosofia di P. è una silloge accuratissima delle principali verità del pensiero classico: e solo in tali limiti è accettabile il giudizio di chi vede in lui il primo (e insieme anche l'ultimo) grande sistematico del mondo antico. Egli stesso non ebbe ambizioni di originalità, e certo sentì come suo compito essenziale la restaurazione del verbo platonico nella sua intrinseca congruenza con le verità ad esso più affini: com'è provato dalla sua stessa indifferenza per la conservazione letteraria del proprio insegnamento (Porfirio riferisce non solo, come si è detto, che egli cominciò a scrivere solo a cinquant'anni e per incitamento altrui, ma anche che, per risparmiare la debole vista, non si curò mai di rileggere quel che aveva rapidamente annotato). Indifferenza che, nel sec. III d. C., non poteva più spiegarsi né con i motivi che nei primi secoli dell'evoluzione del pensiero greco facevano talora preferire il discorso parlato al discorso scritto, né con l'esempio di pensatori, come Epitteto, essenzialmente orientati verso l'edificazione morale e non interessati a tutti i problemi ontologici, logici, gnoseologici che P. sentiva e la cui soluzione non poteva considerarsi semplicemente rispecchiata nel comportamento pratico. Questa relativa non originalità di P. non appare ancora ben chiara, in quanto appena iniziate si possono considerare le ricerche circa la fase di preparazione del neoplatonismo, le quali pure hanno già condotto a farne risalire (e in certo senso anche a cancellarne) i limiti nella direzione del medio platonismo e della media stoa, specialmente posidoniana. È quindi lecito prevedere che le ulteriori indagini dovranno completare e confermare questi risultati; e che, come già si può dire che non c'è nulla nel neoplatonismo posteriore che non sia nella sostanza plotiniano, così si potrà forse dire che non c'è elemento del sistema plotiniano il quale non s'incontri già nel pensiero precedente.

Tutto ciò non esclude, s'intende, che a P. resti il merito della silloge e dell'armonizzazione dei varî elementi speculativi, e che in questa stessa opera egli sia venuto sviluppandone altri, che gli appartengono in proprio. Una sommaria esposizione dei principali aspetti del suo sistema potrà segnalare quale sia, all'ingrosso, la proporzione fra l'importato e l'autoctono. Suo carattere fondamentale è anzitutto quello della graduazione gerarchica degli enti che compongono l'universo, e del rapporto onde dalla realtà dell'ente supremo dipende a grado a grado la realtà di tutti gli altri, senza che quella del primo ne risulti comunque diminuita: così dall'Uno discende l'Intelletto, dall'Intelletto l'Anima, e da questa, attraverso altri gradi gerarchici, tutta l'ulteriore molteplicità delle cose. A questo processo viene dato, a preferenza d'ogni altro, il nome di "emanazione", e nell'emanatismo si scorge di conseguenza la più originale caratteristica del sistema plotiniano. In realtà, questa concezione è nella sua maggior parte platonica o platonico-aristotelica. P. parla sì talvolta di uno "scorrere", di un "defluire" (ῥεῖν, ἀπορρεῖν) di tutte le molteplici determinazioni del mondo dalla prima fonte dell'Uno, ma avverte che tale espressione è puramente metaforica, perché l'Uno non perde, per tale efflusso, nulla della sua sostanza: e per ciò stesso egli ricorre più spesso ad altre metafore attinte alla sfera dei fenomeni luminosi, i quali sembrano nascere dalla loro sorgente senza per nulla sottrarle realtà (donde l'immagine della περίλαμψις, ἔλλαμψις, effulguratio, che sempre più si afferma nell'ulteriore corso del neoplatonismo). Ora, questa metaforica della luce si ricollega strettamente a quella che nella filosofia platonica serve a simboleggiare il rapporto di dipendenza dell'empirico dall'ideale: il primo modello dell'effulgurazione plotiniana è nel mito della Repubblica, secondo cui l'idea del bene (che comprende e supera in sé, nella sua suprema trascendenza, la stessa idea dell'essere) è per il mondo delle idee che da essa logicamente si dispiega quello che per il mondo della natura è il sole che l'illumina e fa esistere; e l'immagine del rispecchiamento, di cui P. pure si serve quando paragona il mondo emanato all'immagine che una realtà produce di sé stessa in uno specchio, non è in sostanza che una ripetizione del concetto platonico della "somiglianza" del mondo empirico al mondo ideale, onde le cose "imitano" il loro eterno modello e (sempre secondo la Repubblica) stanno ad esso così come le immagini riflesse stanno alla realtà di cui sono immagini.

Ciò è confermato, d'altra parte, dallo stesso contenuto speculativo che in tali simboli sensibili si concreta: ché nel sistema plotiniano il motivo onde la realtà inferiore discende dalla realtà superiore è sempre quello della maggiore comprensione logica, che parimenti determina, in P., tanto il rapporto delle cose singole alle idee, costituenti le classi universali di quelle, quanto le relazioni di maggiore o minore universalità colleganti le idee stesse nel loro sistema dialettico, e che in Aristotele si concreta nella gerarchia delle forme materiate, culminante nella forma pura dell'intelletto divino. P. si vale di tutte queste distinte formulazioni dell'unico rapporto logico onde l'universale discende verso l'individuale accrescendo la sua estensione e diminuendo la sua comprensione, e le raccoglie in un solo sistema: nel che è insieme la sua novità e la sua debolezza, perché le divergenze storiche che sussistono tra quelle distinte formulazioni si trasformano, nella loro compresenza, in motivi di contrasto che a volta a volta ottengono il sopravvento. Così si spiega, anzitutto, l'antitesi che nel suo sistema appare più palese e importante, quella tra il motivo monistico, implicito nell'idea dell'emanazione o effulgurazione e per cui nulla è nell'universo che non derivi nella totalità del suo essere dal primo principio, e il motivo dualistico, intrinseco alla considerazione di tale complesso emanatistico come gerarchia discendente, nella quale perciò quanto più si procede tanto più ci si allontana da quel principio, fino a giungere a un limite che sta agli antipodi del punto di partenza e che viene così a presentarsi come principio negativo, assolutamente antitetico alla perfetta positività di quello (donde la concezione plotiniana della "materia" come termine estremo del processo discendente e come determinante della discesa stessa: tenebra rispetto alla luce, principio d'ogni male nell'universo, che se dipendesse soltanto dal perfetto Uno non potrebbe essere che buono; e, insieme, i tentativi che P. stesso fa - riprendendo anche qui motivi platonici e anticipando Agostino - di evitare il dualismo di tale concezione considerando la materia e il male come pura steresi, assenza, negazione del principio opposto, solo davvero esistente). Tale antitesi è infatti quella stessa che sussiste tra il processo di determinazione quale si realizza, per semplice accrescimento di comprensione logica, nel sistema platonico delle idee per sé considerate, e quello che invece si attua nella costituzione delle individualità empiriche, in cui l'intervento dell'idea platonica e della forma aristotelica dev'essere concomitante a quello dell'opposto principio (e sono appunto le varie determinazioni platoniche o aristoteliche di tale principio come materia o non-essere quelle che permettono a P. tanto il suo atteggiamento dualistico quanto i tentativi che egli compie per evitarne le conseguenze contraddittorie).

La più originale delle caratteristiche di tale sincretismo plotiniano è d'altronde quella per cui nella gerarchia logico-ontologica degli enti emanati prendono posto non solo le caratteristiche del mondo oggettivo, sia come effettiva realtà sia come puro contenuto del pensiero, ma anche quelle del mondo soggettivo dell'attività pensante, che dal sistema logico-ontologico delle idee platoniche e delle sostanze aristoteliche restavano invece a rigore escluse. La funzione pensante non è per Platone un'idea e le idee non sono funzioni pensanti, salvo che in qualche momento di dubbio; e in Aristotele l'attività dell'intelletto divino è sì forma suprema, ma nello stesso tempo tale che, per la sua mancanza di materia, essa si distingue assolutamente da tutte le altre sostanze che costituiscono l'universo. Nel sistema plotiniano la prima determinazione dell'assoluto principio, cioè dell'Uno affatto indeterminato e ineffabile (assoluto principio nella concezione del quale P. si ricollega così all'antico motivo eleatico-zenoniano dell'unità sovrastante a ogni determinazione molteplice, non senza però valersi anche dell'accentuazione della trascendenza divina operata dal medio platonismo e da Filone di Alessandria, culminanti nella tesi che tale primo e divino principio potesse essere definito soltanto negativamente, mercé astrazione da ogni determinazione concreta) è invece quella per cui l'Uno stesso si sdoppia nella dualità del νοοῦν e del νοοῦμενον, del pensante e del pensato, e si pone perciò come νοῦς "intelletto", che pur distinguendosi in quei termini s'identifica con entrambi, perché la sua assoluta consapevolezza non sussisterebbe se la realtà intelligente non fosse la stessa realtà intelletta, e viceversa. Questa autocoscienza resta d'altronde formulata sullo schema della teologia aristotelica, assumendo poi insieme anche un aspetto schiettameme platonico, in quanto l'intelletto viene a identificarsi con lo stesso "mondo intelligibile" (κόσμος νοητός) in cui si vede compreso (anche qui attraverso le interpretazioni del medio platonismo e di Filone) tutto il mondo delle idee, propriamente considerate come concetti, contenuti logici di coscienza. S'intende quindi come la terza ipostasi plotiniana sia quella stessa "anima" (ψυχή), che nel sistema platonico appare per certi aspetti come realtà intermediaria tra il mondo ideale e quello materiale: materiale infatti, o meglio costituito di idealità e di materialità e procedente per gradi verso una sempre maggiore assenza della prima e presenza della seconda (donde, come si è detto, la sua somiglianza col mondo aristotelico delle sostanze materiate) è tutto il complesso delle realtà che discendono da queste prime tre ipostasi e che, attraverso la terza, traggono principalmente il loro lume dalla seconda. E qui il sistema di P. accoglie in sé anche elementi stoici, ché, in quanto principî generatori della realtà molteplice nella natura, le idee costituenti il κόσμος νοητός dell'intelletto si riflettono nell'anima come λόγοι σπερματικοί, rationes seminales, cioè come principî in cui la pura razionalità dell'intelligibile si arricchisce d'un carattere concretamente creativo.

Già da questi lineamenti sostanziali risulta d'altro lato evidente come il sistema plotiniano, nel suo tentativo di conciliare in unica sintesi tutte le grandi verità del pensiero classico per opporle alla minacciosa offensiva del nuovo pensiero cristiano, venga tuttavia ad assmere forme sostanzialmente affini a quelle in cui contemporaneamente, e con reciproco giuoco d'influssi, si atteggia quello stesso pensiero, intento ad adattare gli antichi schemi teoretici al nuovo contenuto religioso (v. per ciò neoplatonismo). Il motivo dell'emanazione, per cui il principio supremo produce pur non agendo e si moltiplica e abbassa pur rimanendo identico e perfetto, viene così a chiarirsi come tipico compromesso fra la teologia ellenica, per cui Dio è perfezione e verità inattiva, e la teologia cristiana, per cui Dio è attività creante: e sotto questo aspetto si può ben dire che P., che del resto è contemporaneo di Origene, fornisca le migliori armi ai suoi stessi avversarî. Che ciò non corrisponda all'intento, e anzi neppure alla consapevolezza storica, di P., è provato dal fatto che la conclusione morale del suo sistema resta totalmente inquadrata nell'ambito di quella stessa etica classica, che nella concezione del Dio-Verità, contemplante sé medesimo, eleva sugli altari il suo ideale pratico dell'inerte e adiafora considerazione delle cose. Anche qui egli riprende infatti le concezioni platoniche e aristoteliche, per le quali la teoria sta al disopra della prassi e la contemplazione è la forma di vita in cui meglio si attua la ὁμοίωσις ϑεῷ, l'assimilazione alla divinità: nell'intuizione del primo principio culmina infatti l'ascesa etica dell'uomo, che, se da un lato si esempla sulla stessa gradazione aristotelica delle virtù etiche e dianoetiche, dall'altro risponde al motivo del ritorno, onde ciò che è derivato dall'Uno all'Uno tende a ritornare. Ma in quanto l'Uno trascende ogni determinazione logica, la sua intuizione, anzi la mistica identificazione con esso, esce dai limiti del razionale conoscere e contemplare: l'individuo deve perciò "uscire da sé" nell'"estasi" (ἔκστασις "uscita da sé medesimo"), che della filosofia plotiniana è pure uno dei concetti tipici proprio in quanto costituisce il limite in cui la teoreticità dello spirito greco, per serbarsi tale anche su un piano che ormai non poteva più essere dominato se non in termini di prassi, finiva col distruggere sé stessa.

Delle Enneadi manca ancora un'edizione che si possa dire adeguata: la più recente e consigliabile è quella di E. Bréhier, nella "Collections des Universités de France", in voll. 6, Parigi 1924 segg.; utile ancora quella di R. Volkmann, nella teubneriana, voll. 2, Lipsia 1883-84. Tra le versioni moderne la migliore è quella francese pubblicata dallo stesso Bréhier a fianco della citata edizione: assai buona è anche quella tedesca, iniziata da W. Heintz e continuata e pubblicata da R. Harder (ne è uscito il vol. I, nella "Philosophische Bibliothek" del Meiner, Lipsia 1931: gli scritti sono tradotti nell'ordine cronologico, segnalato, come si è detto, ma non seguito da Porfirio. Cfr. su essa G. Calogero, in Gnomon, VIII, 1932, pp. 206-10). Manca una traduzione italiana. Tra le edizioni parziali è soprattutto da citare quella del trattato 8° della prima enneade, criticamente curata e commentata da E. Schröder nella dissertazione P.s Abhandlung Πόϑεν τὰ κακά, Rostock 1916, pp. 81-117. Per altre edizioni e traduzioni v. Ueberweg-Praechter, Grundriss d. Gesch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, p. 598.

Bibl.: Trattazioni generali su P. e sulle Enneadi: K. S. Guthrie, P., his life, times and philosophy, Chicago 1909; W. R. Inge, The Philosophy of P., voll. 2, New York 1918; M. Wundt, P. Studien zur Geschichte des Neuplatonismus, I, Lipsia 1919; F. Heinemann, P. Forschungen über die plotinische Frage: P. s Entwiklung und sein System, Lipsia 1921; E. Bréhier, P., Parigi 1928; J. Theodorakopulos, P. s Metaphysik des Seins, Baden 1928. Sull'interpretazione dell'emanatismo plotiniano: A. Covotti, La cosmogonia plotiniana e l'interpretazione panteisto-dinamica dello Zeller, in Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, Cl. di sc. mor. e st., s. 5ª, IV, 1895, pp. 371-93, 469-88. Ulteriore bibliografia speciale in Ueberweg-Praechter, Grundriss d. Gesch. d. Philosophie, I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 188*-90*. Cfr. anche neoplatonismo.