TITI, Placido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TITI, Placido

Ugo Baldini

– Nacque a Perugia il 25 dicembre 1603. Non si hanno notizie dei suoi genitori.

Dal Medioevo un ramo della famiglia apparteneva al patriziato perugino, ma non è certo che fosse quello di Placido. Giovanni Battista Vermiglioli lo disse figlio di un Tiberio (non l’omonimo pittore toscano, 1573-1627). Una parentela con Roberto Titi (1551-1609), letterato e docente a Bologna e Pisa, non è provata; più probabile una con il teologo francescano perugino Girolamo Titi (ca. 1571-1656).

Il 14 maggio 1618 entrò tra i benedettini di Monte Oliveto, e professò il 6 gennaio 1620. Si formò nell’Ordine, ma gli studi sono poco noti; secondo una fonte studiò teologia nell’Università di Padova, forse tra il 1620 e il 1623, ma mancano riscontri. In particolare, è oscura l’origine delle sue competenze matematiche e astronomico-astrologiche; affermò di aver studiato la scienza degli astri ab ineunte aetate, ma nelle scuole olivetane dell’epoca non risultano corsi specifici. Nel 1648 scrisse a Leopoldo de’ Medici di aver impartito «li primi principii di matematica» più di vent’anni prima al confratello Vincenzo Renieri, poi vicino a Galileo Galilei (Le opere dei discepoli di Galileo Galilei. Carteggio 1642-1648. Volume primo, a cura di P. Galluzzi - M. Torrini, Firenze 1975, p. 523); forse in Monte Oliveto vi erano corsi privati, che egli seguì e poi tenne per altri. Ebbe comunque formazione tradizionale: manca in lui la matematica avanzata del tempo, accennò soltanto ai nuovi sistemi astronomici e in filosofia naturale restò aristotelico. Coltivò la musica: pubblicò alcune messe, dicendosi organista in Monte Oliveto (D. Placidi Titi perusini Olivetani in monasterio Montis Oliveti clusurarum organi modulatoris missarum quinis vocibus concinendarum liber primus una cum basso ad organum et missa defunctorum in fine..., Venezia 1626; v. G. Gaspari, Catalogo della Biblioteca del Liceo musicale di Bologna, II, Bologna 1892, pp. 143 s.).

Cenni saltuari nei registri della congregazione e nelle opere lo mostrano economo di monasteri a Milano (1623-24), Monte Oliveto (1625-29), Cremona (1630), Gubbio (1632), Perugia (1636). Nel 1638 fu di nuovo a Cremona, poi maestro dei novizi a Genova (1639-40), Milano (1641), Bologna (fino al 1644), e prima del 1648 forse ancora a Milano, dove iniziò a pubblicare una produzione rimasta sempre astrologica (le sezioni astronomiche e matematiche nelle opere sono solo strumentali).

Esordì con esami di due gruppi di natività tratte da opere di Giovanni Antonio Magini e Andrea Argoli, i maggiori astrologi italiani del primo Seicento, proponendo procedure di misura e calcolo più rigorose di quelle in uso (Quadraginta geneses prae caeteris, quas posuit [...] Andreas Argolus [...] in suo de diebus criticis opere [...], Milano, G.M. Malatesta; Septem geneses, quas posuit [...] Io. Antonius Maginus [...] in suo de diebus criticis opere..., Padova, Cribelli); approfondì l’esposizione nel De modis directionum coelestium mobilium in genethlialogicis ad medicinae usum compendiolum... (ancora Milano, Malatesta). L’anno di stampa dei tre volumi (1641) si trae dalle date degli imprimatur e delle prefazioni.

Allora e in seguito Titi si presentò come Didaco Pritto Pelusiense (anagramma di Placido de Titis Perusino), physiomathematicus, nel senso di indagatore del nesso di eventi terrestri con influenze astrali presupposte, in sé non quantitative né analizzabili; la sua physiomathesis fu quindi cosa diversa dalla ‘fisico-matematica’, com’era designato allora il nuovo approccio quantitativo-sperimentale ai fenomeni. Nel proprio ambito, però, volle essere ‘scientifico’. Sul piano dei principi, si tenne alla forma tolemaica della disciplina perché ancorata a parametri esplicativi definiti, negando fondamento a sviluppi magico-occultistici che ritenne di origine islamica. Sul piano tecnico-metodologico propose un metodo di domificazione più esatto; questo riprendeva quello proposto nel XII secolo da Abraham Ibn Ezra, che a sua volta l’aveva presentato come derivato dal Quadripartitum di Tolomeo, ma l’astrologia successiva adottò la formulazione ‘placidiana’ (per una descrizione matematica: H. Klöckler, Corso di astrologia, I, Roma 1998, pp. 153 ss.).

Il De modis directionum era tratto «ex prolixioribus quaestionibus» cui l’autore lavorava, sfociate nella sua opera d’impianto più vasto: Quaestionum physiomathematicarum libri tres. In quibus ex naturae principijs hucusque desideratis demonstratur Astrologiae pars illa, quae ad meteorologiam, medicinam, navigium, et agriculturam spectat. Cum 12. exemplis in fine. L’antiporta fu incisa a Bologna già nel 1646, e alcune copie furono stampate a Milano nel 1647 da Malatesta; poi, però, la stampa dovette sostare fino al 1650.

Negli esemplari del 1647 mancano il parere di un censore ecclesiastico e l’imprimatur, che Titi chiese a stampa già avviata. Il riferimento del titolo a meteorologia, medicina, nautica e agricoltura alludeva ai limiti posti all’astrologia dall’Aquinate e recepiti dalla Chiesa, ma la sua attenzione per le natività supponeva un nesso almeno statistico tra eventi astrali e psiche e comportamenti umani, che nel caso di personalità di spicco poteva riverberarsi su eventi collettivi, politici e militari. L’inquisitore di Milano, quindi, non concesse l’imprimatur, e Titi si rivolse al S. Ufficio romano, che fece esaminare il testo dal medico Silvestro Collicola e poi dal teologo Raffaele Aversa. Solo nel settembre del 1650 autorizzò la pubblicazione, previa premessa al testo di un elenco di correzioni suggerite da Aversa, che riprese in toto quelle proposte da Collicola; la stampa fu completata da Malatesta entro la fine dell’anno. La decisione romana fu inconsueta (di solito le correzioni erano inserite nel testo, perché premetterle poteva solo attrarre l’attenzione sui passi censurati); forse non si volle danneggiare tipografo e autore con la distruzione delle copie già stampate, o pesarono divisioni tra i censori circa l’ambito di liceità dell’astrologia, e la difficoltà di applicare le distinzioni di principio alla varietà dei casi concreti. Nella stampa del 1650 Titi aggiunse un secondo indirizzo ai lettori, nel quale accettò le correzioni, e un secondo frontespizio con un proprio titolo, che evidenziava l’intento sistematico dell’opera: Physiomathematica sive coelestis philosophia. Naturalibus hucusque desideratis ostensa principiis. Questi interventi hanno fatto apparire le due stampe come opere diverse, o edizioni distinte da modifiche testuali rilevanti.

I libri secondo e terzo dell’opera erano tecnici, ma il primo discusse natura e modi delle influenze celesti con generalità e sistematicità rare nella letteratura astrologica. Detto che, in quanto studio di fenomeni eterni e immutabili, un’astrologia depurata da elucubrazioni arbitrarie è superiore alla filosofia naturale, Titi escluse le influenze occulte e ridusse l’azione degli astri a due soli fattori: l’intensità ed estensione della luce emessa; il colore specifico di ognuno. Alle loro variazioni e combinazioni, al mutare delle posizioni di pianeti e costellazioni tra loro e rispetto alla Terra, e alle diversità geografiche risalivano eventi e proprietà contingenti o durevoli, nel mondo inorganico (Titi credeva anche alla genesi astrale dei minerali) e organico-psichico (‘temperamento’ individuale, epidemie, ma anche stati d’animo collettivi). Tuttavia la riduzione dei fattori influenti richiedeva di dedurne l’azione dalle loro leggi fisiche (nel caso specifico, dell’ottica), cosa che Titi non fece né avrebbe potuto fare, limitandosi alla – supposta – evidenza del nesso tra le loro configurazioni ed eventi terrestri.

Non eliminò quindi il circolo che era un bersaglio classico dei critici dell’astrologia: certi fenomeni erano detti prodotti da altri, ma il fatto che i secondi li producessero era desunto dal loro mero verificarsi. Questo circolo fu quindi imputato anche a lui, perciò dovette tornarvi in seguito, nel Tocco di paragone. Egli inoltre rifiutò la tesi che le congiunture astrali siano solo ‘segni’ di eventi voluti da Dio, asserendo che un discorso è scientifico se enuncia un nesso causale tra eventi, non solo una correlazione temporale, pur costante.

Nel complesso, il suo tentativo di far fronte a certe criticità dell’astrologia fu forse il più avanzato possibile all’interno della cosmologia tradizionale, ma non avvertì che questa stava collassando, e sottostimò l’impatto dei nuovi sistemi planetari: mentre la mobilità della Terra e la dissoluzione della sfera delle stelle fisse trasformavano i segni astrali da entità reali in semplici apparenze sotto certi angoli visuali, seguitò ad attenersi a una stretta astronomia di posizione. Questo lo rese poi un bersaglio critico per ‘moderni’ come Geminiano Montanari (L’astrologia convinta di falso, 1685).

Da almeno il 1648 al 1653 Titi fu vicario e curato a Imola, dove – ancora con il nome di Diego Pritto Pelusiense fisiomatematico – iniziò a redigere efemeridi astrologiche annue di uso popolare, con il titolo Il corriere astronomo prenuntio de gli accidenti dell’anno [...] cioè Lunario, e giornale calcolato al meridiano d’Italia. Restano quelle per il 1650 (Bologna), 1651 (Bologna e Milano), 1652 (Milano), 1654 (Padova), 1657 (Padova); almeno alcune apparvero anche in versione latina (Nuncius astronomicus, Milano 1654). Dal 1654 al 1656 i registri della congregazione olivetana, senza indicarne le mansioni, lo collocano a Padova, ma la sua edizione del Quadripartitum di Tolomeo mostra che v’era ancora nell’ottobre del 1657. È molto probabile – sebbene non attestato – che entrasse in rapporto con Argoli, docente di matematica nell’Ateneo locale e un suo autore di riferimento fin dagli anni giovanili. Nel 1657 pubblicò a Padova anche le Tabulae primi mobilis cum Thesibus ad Theoricen, et Canonibus ad praxim, additis in rerum demonstrationem, et supputationum Exemplum Triginta clarissimorum natalium thematibus, dedicate all’arciduca d’Austria Leopoldo Guglielmo, del quale Titi si disse uno dei matematici; le circostanze della nomina sono ignote, e forse non precedette la dedica, ma ne fu un effetto.

L’opera, sorta di manuale per la pratica ‘alta’ della disciplina, si apriva con le regole enunciate nella Physiomathematica, schematizzate in 70 tesi e 42 canoni, seguite da 30 natività di figure storiche e da tavole astronomiche, geografiche, cronologiche e logaritmiche, notevoli per accuratezza. Fu forse lo strumento più completo espresso dall’astrologia italiana, ed ebbe diffusione europea. Tra 1789 e 1790 ne apparve a Londra una traduzione inglese in tre volumi: il primo con la parte teorica, il secondo con le natività, il terzo con le tavole e la natività di Oliver Cromwell. Questa traduzione fu ristampata a Londra nel 1814 e nel 1820, con il titolo Primum mobile e un’appendice di John Cooper; poi nel 1983 a Bromley (Londra); infine, con lo stesso titolo, a Parigi nel 1998.

Nello stesso 1657 Giovan Francesco Loredan propose l’olivetano come successore di Argoli ai Riformatori dello Studio patavino (Delle lettere del signor Gio. Francesco Loredano nobile veneto. Parte seconda, Venezia 1685, p. 9), ma senza successo. Così Titi accettò la lettura di matematica nell’Università di Pavia, nei cui ruoli compare dall’anno accademico 1657-58 (Memorie e documenti per la storia dell’Università di Pavia e degli uomini più illustri che v’insegnarono, I, Pavia 1877-1878, p. 151); nell’aprile del 1658 era già nel monastero olivetano della città. Prima di lasciare Padova, però, completò il programma di ritorno a Tolomeo con un’edizione annotata della traduzione latina di Antonio Gogava del Quadripartitum (1548), che credeva la migliore (Opus de siderum iudiciis quadripartitum è graeco codice in latinum sermonem per Antonium Gogavam [...] translatum, [...] Praepositis ad singula capita breviarijs, vel notationibus, Padova, Frambotti, 1658; P. Riccardi, Biblioteca matematica italiana, I, 2, Modena 1873-1876, col. 522, segnalò due ristampe del 1660 e 1665, che non sembrano rintracciabili).

A Pavia gli fu prescritto d’insegnare soprattutto l’astrologia medica. In Italia molte letture universitarie dette di matematica erano state attivate in funzione di una astronomia-astrologia per uso medico (solo in pochi Studi, come a Bologna, una lettura ad astronomiam, i cui docenti dovevano compilare efemeridi astrologiche annue, coesisteva con una di matematica in senso proprio), ma dalla prima metà del Seicento il nuovo clima scientifico veniva eclissando questo assetto. Sebbene tempi e modi del processo nei singoli atenei italiani restino in gran parte da ricostruire, la richiesta a Titi mostra che a Pavia la tradizione visse ben oltre il 1650; di fatto, egli fu l’ultimo docente di matematica in Italia che scrisse solo o soprattutto di astrologia, e l’ultimo interprete dell’ufficialità didattica che per secoli l’aveva innalzata sulle altre arti divinatorie. Restano sue lezioni in materia del giugno del 1662 (Epitome philosophiae coelestis, in Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, ms. FC, 238); dell’insegnamento propriamente matematico e astronomico rimangono Rudimenta rerum astronomicarum ad usum artis medicae pro tyronibus alumnis nobilissimi gymnasii ticinensis (Pavia s.d.), ma plausibilmente non andò molto oltre geometria, algebra e astronomia sferica elementari.

Cessò di pubblicare scritti divulgativi del genere di Il corriere astronomo (con l’eccezione di uno edito da altri, il Discorso astrologico naturale sopra l’anno venturo 1666. Con un ragionamento circa le feste mobili. Ottenuto dalla penna del P.D. Placido Titi, Milano s.d., ma 1665), sostituiti da efemeridi per studenti e medici, con parti di calcolo più ampie e approfondimenti ‘fisici’ (Ephemeridum caelestium motuum ab initio anni 1661, usque ad totum 1665 [...], cum tractatu de transmutationis elementorum causa efficiente tum propinqua inferiori tum remota coelesti. [...] Tomus primus, Pavia 1661; Continuatio ephemeridum caelestium motuum ab initio anni 1666 usq. ad finem 1675..., Pavia 1666). In queste opere, come nelle precedenti, le credenze tradizionali si valsero di uno strumento aggiornato, le Tabulae motuum coelestium perpetuae di Philip van Lansberg (1632), scindendo i valori numerici dalla base astronomica copernicana; un’appendice riguardò il contesto astrale di terremoti recenti in Lombardia, Emilia, Calabria. In un manuale di astrologia medica (De diebus decretoriis et aegrorum decubitu [...] cum LX exemplis apud gravissimos authores inventis, I-II, Pavia 1660 e 1665) Titi discusse casi clinici, ma anche eventi sociopolitici, spiegando la rivolta napoletana del 1647 con le configurazioni astrali dei quattordici giorni successivi al 7 luglio e con l’oroscopo di Masaniello. Intervenne anche nei dibattiti sulla cometa del 1664 con il Discorso naturale sopra la cometa che si vede nel presente mese di Decembre 1664 (Pavia 1664; rist. in appendice a B. Lanoni, La Cometa del Corvo celeste osservata di decembre 1664, Bologna 1665).

Su un piano generale, però, lo scritto più significativo degli anni pavesi fu una breve difesa dell’astrologia di fronte all’ampliarsi del solco con la scienza matematica della natura: Tocco di paragone onde evidentemente appare che l’astrologia nella parti concesse da S. Chiesa è vera scienza, naturale, nobile, et utile quanto la filosofia, Pavia 1665 (rist. Milano 1992).

In ventuno capitoletti Titi riaffermò la superiorità scientifica dell’astrologia, negò che fosse superstiziosa ed eterodossa (potevano esserlo certi suoi cultori), ne ribadì l’utilità e ne difese la parte ‘giudiziaria’ argomentando che ogni scienza, in quanto esplicativa, tende a previsioni. Gli scarti tra predizioni ed eventi non erano dovuti a infondatezza o erroneità, ma al sommarsi di cause terrestri alle celesti, alla vaghezza dei tempi assunti nei calcoli e all’incompletezza del sapere, comune a tutte le scienze. Nella dedica respinse le accuse di circolarità aprioristica: a chi chiede «chi sia stato quello, il quale habbia rivelato a Tolomeo le influenze celesti, [...] io domando [...] chi sia stato quello, che habbia rivelato ad Aristotele che il giro perpetuo del nascere e perire delle cose ogni anno habbi origine dal circolo obliquo» (p.n.n.). Pose quindi le correlazioni astrologiche sullo stesso piano di quelle tra cicli astronomici e fatti climatici, come se i fattori esplicativi fossero omogenei. L’inquisitore di Pavia lo invitò a chiedere l’imprimatur al S. Uffizio, che fece esaminare l’opera da Michelangelo Ricci, vicino ai galileiani e futuro cardinale.

Ricci suggerì modifiche (apportate prima della stampa), attenuando certi asserti e restringendo la generalità di altri: la critica a credenze tradizionali iniziava a penetrare nella stessa Curia.

Quanto noto sulla vita di Titi va poco oltre i suoi spostamenti, la storia editoriale delle opere e gli scarni cenni che offrono. Fu apprezzato da figure socialmente rilevanti, e alluse a conversazioni colte e a dibattiti sui suoi testi precedenti alle pubblicazioni, ma in genere i cronisti dei luoghi dove visse lo ignorarono. Nelle cronache olivetane appare di rado, e il Necrologium dell’Ordine lo elogia in poche righe e non accenna a meriti religiosi o ruoli di spicco. La nomina a matematico di Leopoldo Guglielmo d’Asburgo non sembra aver comportato alcun ruolo effettivo. A parte Renieri, che seguì altre strade, non risultano allievi diretti di qualche rilievo e, esclusi i patroni e finanziatori delle opere, i rapporti personali noti riguardano solo pochi estimatori del suo tentativo di riforma dell’astrologia, come il teatino Girolamo Vitali (1632-1698), il cui Lexicon mathematicum astronomicum geometricum (1668), repertorio di concetti, metodi e risultati delle scienze matematiche, dette all’astrologia ampio spazio (ridotto però molto in una riedizione del 1690, forse perché l’esito della battaglia difensiva di Titi apparve segnato). Ma l’iniziativa ‘placidiana’ più notevole fu una seconda edizione postuma (Milano 1675) della Physiomathematica, curata da un Cursino Francobacci e un Africano Scirota (anagrammi, rispettivamente, di Francesco Brunacci e Francesco Maria Onorati).

Pur appartenendo ad ambienti culturali romani avanzati (l’Accademia fisico-matematica, il Congresso medico, la redazione del Giornale de’ letterati e in seguito l’Arcadia), Brunacci e Onorati consideravano l’astrologia di Titi compatibile con il quadro concettuale della nuova scienza. Modificarono il terzo libro dell’edizione 1647-1650 e aggiunsero Additamenta, tratti da una Astrologia italica cui stavano lavorando (mai apparsa, e forse perduta), ma non chiesero l’imprimatur, riproducendo quello precedente e le correzioni di Aversa. L’Indice scoprì l’omissione solo nel 1685; gli accertamenti, avviati anche dal S. Uffizio ed estesi al De diebus decretoriis e alle Tabulae primi mobilis, originarono divisioni tra i censori, i cui pareri, spesso approfonditi, illustrano uno stadio avanzato di crisi delle categorie tradizionali. Nel maggio del 1687 (ma il decreto apparve in dicembre) l’Indice proibì l’intera edizione del 1675: il testo dei primi due libri era quello del 1650 e i censori avevano considerato solo il terzo, con gli Additamenta di Brunacci e Onorati, ma proibire solo parte dell’opera dovette sembrare inconsueto e inefficace. Nel marzo del 1689, invece, si decise di non procedere per le altre due opere, la cui proibizione avrebbe comunque creato difficoltà: il De diebus aveva ottenuto l’imprimatur; le Tabulae ne erano sprovviste, ma la parte teorica era un sunto dei primi due libri della Physiomathematica del 1650, che l’avevano.

Morì a Pavia nel 1668; né i registri del suo Ordine né altre fonti forniscono una data esatta.

Fonti e Bibl.: Asciano (Siena), Archivio dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Liber professorum, II, f. 5r; Familiarum tabulae, V (1599-1643), e VI (1644-1677), ad annos; Necrologium, all’anno 1668. I documenti del S. Uffizio e dell’Indice sono in Città del Vaticano, Archivio della congregazione per la Dottrina della fede, SO, codd. Decreta 1648, 1650, 1657, 1663, 1665; Censurae librorum 1641-54, 1665-67; Tituli librorum 1640-58, 1665-70; e ibid., Index, Protocolli TT, VV, XX, YY, e Diari 8.

G.B. Vermiglioli, Biografia degli scrittori perugini, II, 2, Perugia 1828-1829, pp. 304 s.; G. Bezza, introduzione a G. Titi, Tocco di paragone, Milano 1992; Id., Arcana mundi. Antologia del pensiero astrologico antico, Milano 1995, pp. 722-731, 886-892; M. Mazzucotelli, Cultura scientifica e tecnica del monachesimo in Italia, I, Seregno 1999, pp. 129-138; G. Bezza, L’astrologia rinascimentale nel Lexicon mathematicum di G. Vitali, in Nella luce degli astri: l’astrologia nella cultura del Rinascimento, a cura di O. Pompeo Faracovi, Sarzana 2004, pp. 242-244, 249 s.; Id., Astra non esse signa rerum, quarum non sunt causae: la causalità astrologica in P. T., in Bruniana & Campanelliana, XII (2006), pp. 633-639; L. Cantamessa, Astrologia. Opere a stampa (1472-1900), II, Firenze 2007, pp. 995-999; M. Mazzucotelli, L’astrologia ricuperata: due manoscritti inediti del medico e matematico olivetano Giovannibuono de Bonitatibus (1635-1716), in Benedictina, LX (2013), pp. 204-206; Id., Cultura scientifica nei monasteri italiani nel secolo di Galileo, in Seicento monastico italiano. Atti del X Convegno di studi storici sull’Italia benedettina..., Abbazia di S. Maria di Casamari (FR), Abbazia di S. Domenico di Sora (FR)... 2011, a cura di G. Spinelli, Cesena 2015, pp. 456-464.

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