PISA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1998)

PISA

V. Ascani

(lat. Alphea, Pisae)

Città della Toscana occidentale, capoluogo di provincia, posta lungo il corso del fiume Arno e non lontana dalla costa tirrenica. In origine P. fu città lagunare tra l'Arno e l'Auser, prima che l'insabbiamento e le correnti marine modificassero l'ambiente fino ai risultati attuali (Redi, 1991a, pp. 3-24; 1996a, pp. 24-29).

Archeologia e urbanistica

Della città antica rimangono scarse testimonianze materiali, consistenti, in elevato, nelle terme c.d. di Nerone, dei secc. 1° e 2° d.C., presso la porta del Parlascio, e nell'accesso al ponte sul Serchio, di fronte al monastero di S. Stefano (Redi, 1991a, pp. 26-30, tav. 4); strutture murarie di età imperiale sono state rinvenute con scavi recenti in piazza del Duomo e in piazza Dante (Pasquinucci, 1993; Bruni, 1995, pp. 177-178; Redi, 1996a, pp. 40-44). Residui significativi dell'impianto urbanistico persistono nel cuore della città, in relazione all'incrocio di via Tavoleria con via del Castelletto, in concordanza con tracce di una più remota centuriazione dell'Ager Pisanus (Redi, 1991a).A P., come altrove, è attestato il fenomeno della contrazione dell'impianto urbano tardoantico durante l'Alto Medioevo (Violante, 1974; Garzella, 1990, pp. 3-12). I recenti scavi della piazza del Duomo hanno dimostrato che le ricche domus di età imperiale che insistevano nell'area vennero sostituite, nel sec. 5°, da un'area cimiteriale in concomitanza con la costruzione dei primi edifici di culto cristiani (Maggiani, 1986; Bruni, 1995, pp. 176-177; Redi, 1996a, pp. 38-44). Gli scavi del 1936 all'interno del Camposanto, infatti, hanno riportato alla luce l'impianto di un battistero ottagonale, absidato a E, completamente di mattoni, databile al sec. 5°-6° (Pani Ermini, 1985). Dopo gli scavi da lui condotti nel 1949-1951 fra l'angolo nordoccidentale della cattedrale romanica e il Camposanto, Sanpaolesi (1975, pp. 20, 150-153) ha proposto l'individuazione di alcune strutture con l'impianto della prima cattedrale, o comunque di una basilica funeraria connessa con l'area episcopale (Redi, 1991a, pp. 64-76; 1996a, pp. 44-54). La località, chiamata Catallo dai documenti dei secc. 10°-12°, si trovava all' esterno della città, ma prossima all'accesso da N-O e interessata da un'importante arteria stradale; tutta l'area era difesa da un'ansa dell'Auser (Redi, 1991a, pp. 3-24). La contrazione della città, che aveva causato l'abbandono dell'area a E dell'od. asse viario di Borgo-porta del Parlascio e la riduzione di oltre la metà dell'area urbana, come attestano documenti dei secc. 10°-11° (Violante, 1974; Garzella, 1990, pp. 3-12), era dipesa dalla crisi demografica dei secc. 5°-9° ed era connessa con un generale collasso del sistema idraulico del territorio (Redi, 1991a, pp. 82-87). Toponimi come Civitate Vetere, a le Grotte, Petricio, o come Paludozzeri, immediatamente a O della via S. Maria, e Palude, nel cuore stesso della città, o ancora come Chinzica, oltre la riva sinistra dell'Arno, nonché altri come a Ischia e a la Rivolta, fra le od. piazze dei Cavalieri e S. Caterina, attestati dai documenti dei secc. 10°-12°, sono indice significativo dello stato di abbandono di P., del predominio della palude e dell'ingressione di un ramo dell'Auser da E verso O e dal centro della città verso N, come testimoniano anche fotografie aeree e da satellite (Redi, 1991a, pp. 7-18, tavv. 1, 6, 12).Lo stanziamento longobardo a P. nei secc. 7°-8° pare che abbia privilegiato dapprima aree e strutture esterne a quello che rimaneva della città tardoantica, come l'anfiteatro o teatro a N-E, denominato Parlascio dagli stessi Longobardi, o come il circo a S-E, nell'area attualmente occupata dal tribunale e già indicata nel sec. 12° con il toponimo Supracastello (Redi, 1991a, pp. 81-82, tav. 12). Nel cuore della civitas, dove in età imperiale sorgeva il foro, s'impiantò invece la residenza del gastaldo, come attesta la dedicazione della chiesa di S. Pietro in curte vetere (Garzella, 1990, pp. 59-60). Tombe di personaggi di alto rango, con corredo databile alla metà del sec. 7° (Hessen, 1974; Redi, 1996a, pp. 49-54), furono rinvenute da Sanpaolesi negli scavi del 1949-1951 all'interno delle strutture attribuibili alla cattedrale paleocristiana; altre tombe altomedievali insistevano nella stessa area episcopale (Stiaffini, 1985). Fondazioni longobarde risultano le chiese di S. Zeno - all'estremità nordoccidentale della città, della quale furono rinvenute nel 1965-1970 strutture di pianta mentre rimangono in elevato le murature di parte del lato sud (Redi, 1991a, pp. 77-80) -, di S. Pietro in Vincoli, di S. Bartolomeo (od. S. Cristina), di S. Margherita, di S. Maria Vergine, di S. Eufrasia, ubicate alcune all'interno della città, altre all'esterno, in connessione con importanti accessi: a S-E S. Pietro ai Sette pini, a N-E S. Zeno, a S S. Maria Vergine e S. Bartolomeo, situate alle due estremità dell'unico attraversamento dell'Arno (Redi, 1991a, pp. 82, 88-90).I recenti scavi di piazza Dante hanno restituito edifici dei secc. 8°-10°, con piani inferiori di pietra e strutture dei solai probabilmente di legno, come attesta un documento del 720 riguardante la vendita di "medietatem de casa meas cum gronda sua livera, tam solamentum quam lignamine, fine grondas" (Redi, 1991a, pp. 82-89; 1996a, pp. 89-90). Essi erano affacciati ai margini di una strada che dall'Arno conduceva verso la corte gastaldale (od. via P. Paoli), e che aveva obliterato parzialmente un'abitazione e una via di età imperiale (Redi, 1993). Oltre a queste tracce di un insediamento già di tipo urbano in prossimità del tracciato meridionale delle mura tardoantiche, sono verificabili interventi di ristrutturazione, nei secc. 8°-10°, nel battistero ottagonale e nella cattedrale o basilica funeraria (Redi, 1991a, pp. 76-77; 1996a, pp. 44-54).Nel sec. 10° i principali poli di organizzazione dello spazio urbano risultavano costituiti ancora dalla corte già del gastaldo poi del conte, al centro della città, e dall'area episcopale fuori della città, a N-O; ma presso quest'angolo, all'interno del perimetro tardoantico, già si era organizzata la curia vescovile, presso la chiesa di S. Giorgio e in diretto rapporto con l'arteria che dalla corte vecchia portava all'attraversamento dell'Auser di epoca romana varcando l'antica porta Pontis. In quest'area la curia e la canonica avevano iniziato un'intensa politica di urbanizzazione, concedendo in affitto terre di loro proprietà con l'obbligo di costruirvi abitazioni (Redi, 1991a, pp. 88-89). È molto probabile quindi che per l'attrazione esercitata dal ponte sull'Auser e dalla curia vescovile verso la metà del sec. 10° l'area venisse cinta da mura e praticamente inglobata nella civitas, come sembrano confermare la precoce esistenza del fossato difensivo del segmento occidentale, detto carbonaria, già nel 978, e le più recenti attestazioni della porta Archiepiscopi e della sua posterula, nell'angolo nordoccidentale, e della porta Picelle, verso la metà del lato ovest. In questo periodo venne costruito anche il muro difensivo del lato est, documentato con certezza solo nel 1027, sull'allineamento Borgo-porta del Parlascio (Violante, 1974; Garzella, 1990, pp. 3-12). Il lato nord unì probabilmente il ponte sull'Auser, a O, con le terme c.d. di Nerone, a E, mentre a S rimase in funzione il muro dell'impianto tardoantico, che ancora nel 1081, per quanto obsoleto, chiudeva P. verso l'Arno. Vestigia del lato orientale del muro tardoantico sopravvivevano ancora nel 1027 a E di quello di Borgo-porta del Parlascio (Redi, 1991a, pp. 97-99). Fu in particolare la costruzione di questo nuovo muro difensivo la causa della ridefinizione dell'impianto urbano con un nuovo allineamento stradale ruotato di 22° a N-O rispetto al reticolo tardoantico e con perimetro murario riconducibile a un parallelogramma (Redi, 1991a, pp. 107-112, tav. 13).Fra il sec. 10° e l'11° altri due angoli della civitas avevano assunto un ruolo di attrazione insediativa per la presenza di due arterie facenti capo alla porta Maris, a S-O, e alla porta Samuel, a S-E, l'una in direzione del mare e in rapporto con il palatium imperiale e la curia marchionale ubicati nell'area del monastero di S. Nicola, fondato alla fine del sec. 10° dallo stesso marchese Ugo di Tuscia, l'altra in direzione del Valdarno e in relazione con la curia viscontile, nell'area del monastero di S. Michele in Borgo, costruito nel 1016 per volontà del nobile Stefano. Da questa parte, nel corso del sec. 11°, si sviluppò il mercato, la cui presenza determinò la costruzione del pons Arni o pons vetus, dove oggi sorge il ponte di Mezzo, abbandonando l'attraversamento del fiume di epoca romana, più a valle, in corrispondenza delle chiese di S. Cristina e di S. Maria Vergine. In relazione con il mercato e con il monastero di S. Michele, fuori della porta Samuel sorse il Borgo per antonomasia, e, in progressivo sviluppo verso E, si distribuirono gli insediamenti di Foriporta, con le chiese di S. Pietro in Vincoli e di S. Andrea, e di Soarta, con la chiesa di S. Matteo, del 1027, oltre la quale, in corrispondenza dell'od. via S. Marta, un muro cinse la propaggine di Supracastello. A metà del lato est della civitas, fuori della porta S. Felice o del Visdomino, il Borgo proseguiva verso N fino a saldarsi con l'area del Segio, compresa fra S. Pietro a Ischia (od. S. Apollonia), S. Lorenzo alla Rivolta, scomparso, e S. Cecilia. Essa fu oggetto di lottizzazione, a preselle regolari ancora riconoscibili negli isolati delimitati dalle od. vie Oberdan, S. Cecilia, Fucini, nei quali il vescovado aveva estese proprietà derivanti dalla bonifica della palude e del ramo dell'Auser altomedievale (Redi, 1991a, pp. 99-119).L'attrazione esercitata dal lungarno per affacciarsi al fiume e ai commerci marittimi, che fra il sec. 10° e l'11° avevano iniziato ad assorbire gran parte delle attenzioni pisane, produsse dapprima l'occupazione abusiva di questa fascia di terreno appartenente al publicum e nel 1081 la legittimazione da parte dell'imperatore Enrico IV (1056-1106), purché le torri che erano state costruite non superassero l'altezza di trentasei braccia, cioè m 21 ca. (Redi, 1983, pp. 271-273; 1991a, pp. 177-180; 1991b; 1996b). Negli anni immediatamente successivi si verificò una corsa sfrenata all'occupazione di questi spazi, a tal punto che si dovette richiedere l'arbitrato (1088-1092) del vescovo Daiberto e stabilire un regolamento valido nei quartieri di qua e di là dall'Arno (Redi, 1983, pp. 271-273). Da questo lodo arbitrale si ricavano informazioni che consentono di individuare tipologicamente e archeologicamente le torri oggetto della disputa, caratterizzate da strutture massicce di pietra, con portico archeggiato al piano terreno, con limitate porte-finestre a ogni piano, con ballatoi e bertesche di legno all'esterno delle murature e con vani di abitazione singoli nei diversi solai (Redi, 1991a, pp. 200-207). Soltanto alla fine del sec. 11° l'area del palatium e il lungarno destro furono inglobati nella civitas e difesi da mura (Redi, 1991a, pp. 120-121). Ne rimasero esclusi l'area della cattedrale a N-O, l'Oltròzzeri con il monastero di S. Stefano a N, il Borgo, l'Orto, il Segio a E, il Borgo di San Vito con le strutture cantieristiche e il monastero omonimo, decentrati a S-O oltre la porta a Mare, tutto l'Oltrarno a S (Redi, 1991a, pp. 119-120, 130-137).Le vittoriose imprese marittime antisaracene del sec. 11° avevano rafforzato notevolmente P. sia sul piano politico sia su quello commerciale e avevano prodotto una forte espansione che dette luogo a vistosi effetti insediativi e urbanistici, quali la ricostruzione della cattedrale nel 1064, dopo la vittoria su Palermo, l'edificazione del tempio civico di S. Sisto in Cortevecchia nel 1087, dopo la vittoria di Mahdia e Zawīla, la nascita del Comune e la continuità del Commune colloquium o Forum Pisane civitatis con la sede della curia marchionale, presso S. Nicola, prima del trasferimento, nel 1161, nel cuore della civitas presso la chiesa di S. Ambrogio al Castelletto (Garzella, 1990, pp. 106-111; Redi, 1991a, pp. 315-319). Il decennio successivo alla cacciata del visconte, nel 1153, comprende la realizzazione di un imponente sistema di opere pubbliche, come le nuove mura urbane, che con un perimetro di km 7 ca. cingevano finalmente la cattedrale, i borghi e l'Oltrarno, escluso l'Oltròzzeri, e i sobborghi di Orticaia, San Marco in Guazzolungo, San Donnino, Ognissanti (Redi, 1991a, pp. 139-161), come le strutture portuali di Porto Pisano, a E di Livorno, il porto fluviale della città, gli arsenali di S. Vito e di S. Paolo a Ripa d'Arno contrapposti sulle due rive del fiume all'estremità ovest di P., oltre alla definitiva sede comunale di S. Ambrogio al Castelletto, dopo che alcuni uffici, come la dogana, la dogana del sale, la domus Communis e la darsena mercantile, erano stati ubicati a S. Vito, a S. Andrea Forisportam, a S. Nicola (Rossetti, 1989, pp. 268-270; Redi, 1993-1994, pp. 294-302).Nella seconda metà del sec. 12° vennero costruiti anche il nuovo battistero e il campanile; il tessuto urbano si addensò di nuove abitazioni che, affiancatesi alle torri ricordate dal lodo di Daiberto del 1088-1092, ne modificarono alcune secondo le esigenze abitative e i criteri edilizi elaborati intorno alla metà del sec. 12° e confluirono nello schema architettonico della casa-torre pisana (Redi, 1991a, pp. 211-226). Ragioni simboliche di prestigio familiare, valore immobiliare dei terreni edificabili, politica di controllo degli spazi urbani determinarono lo sviluppo verticale dell'edilizia signorile e la collocazione di essa agli angoli degli isolati, lungo le principali strade di scorrimento o affacciata sulle rive dell'Arno; ricerca di spazio domestico, di confort e di funzionalità produsse la dilatazione degli ambienti verso l'esterno per mezzo di sporti di legno pensili, proiettati fra coppie di pilastri (Redi, 1983, pp. 273-276). Ogni ambito parrocchiale risultava composto dalla chiesa, talvolta privata e a due piani o 'a loggia' (Redi, 1991a, pp. 372-378), dalle case-torri signorili, da magazzini, botteghe, officine e servizi collettivi o privati, da abitazioni minori. Esistevano aree nelle quali erano concentrati maggiormente edifici di tipo signorile e altre, generalmente più appartate, nelle quali prevalevano edifici seriali, a uno o due solai, a uno o due portici, per lo più di mattoni, di tipo artigianale, occupati da affittuari, generalmente immigrati dal contado (Redi, 1991a, pp. 252-262). Fra i secc. 12° e 13° la politica immobiliare di importanti enti ecclesiastici o di potenti famiglie signorili e mercantili si esplicò infatti nell'urbanizzazione di aree già agricole entro l'ambito cittadino con il sistema delle superficies, cioè delle costruzioni realizzate dall'affittuario sul terreno concesso in affitto (Redi, 1991a, pp. 292-297; 1993-1994, pp. 302-315).La forte urbanizzazione provocò una progressiva saturazione degli spazi disponibili, per cui anche quelli destinati all'edilizia signorile, agli inizi del sec. 13°, divennero più rari e più costosi; si ricorse perciò alla costruzione di case-torri a schiera, allineate lungo importanti strade di scorrimento, come la via S. Martino, con muri communes, cioè innalzati con partecipazione alle spese da parte dei confinanti e materialmente a cavallo delle rispettive proprietà (Redi, 1991a, pp. 177-198, 280-283; 1993-1994, p. 289ss.). Importante per il significato politico ed economico fu la costruzione nel 1182, da parte di una consorteria, di un altro ponte sull'Arno, il ponte Nuovo, fra la via S. Antonio e la via S. Maria, che produsse un parziale spostamento dei traffici commerciali fra le due rive del fiume più a valle, verso l'area cantieristica di S. Vito (Garzella, 1990, p. 182; Redi, 1993-1994, pp. 302-303). Agli inizi del sec. 13° si cominciò la costruzione della darsena militare del Comune, detta Tersana, a valle dei cantieri di S. Vito, scavando un ampio bacino allagato e cinto da mura, in addossamento al tratto meridionale del lato ovest delle mura urbane (Redi, 1991a, pp. 337-345). Per mettere in comunicazione diretta i cantieri di S. Vito con quelli di S. Paolo a Ripa d'Arno, sull'altra sponda del fiume, soltanto verso la fine del sec. 13° fu costruito il ponte a Mare, all'altezza della Tersana, mentre dalla parte opposta della città, a monte, già nel 1262 era stato costruito dal Comune il ponte di Spina (od. ponte della Fortezza), presso il quale venivano costruite e varate imbarcazioni forse unicamente impiegate per il traffico fluviale (Redi, 1993-1994, pp. 300-302). Dalla costruzione del ponte di Spina traevano vantaggio gli insediamenti gravitanti attorno ai monasteri di S. Matteo e di S. Silvestro, sul lungarno destro, e attorno al monastero di S. Andrea in Barattolaria, sulla sponda sinistra, favorendo una scorciatoia fra la via del Valdarno meridionale e il Borgo.Con l'avvento del regime popolare crebbero l'apparato burocratico del Comune e le esigenze di sedi idonee, così che nel 1279 vennero prese in affitto case-torri private per ospitare la residenza degli Anziani del Popolo, dando inizio agli accorpamenti edilizi della piazza delle Sette vie (od. piazza dei Cavalieri), che sfociarono nella costruzione del palazzo degli Anziani, mentre in prossimità del nucleo originario di S. Ambrogio al Castelletto si svilupparono la cancelleria, il palazzo del Podestà, la zecca, l'archivio degli atti, le varie curie, la camera del Comune; a P. mancò dunque un palazzo Pubblico con forme peculiari, come a Firenze, a Siena e altrove, e si verificò una certa dispersione degli edifici pubblici nel tessuto urbano (Redi, 1991a, pp. 320-334). La torre delle Ore, nel 1320, anziché presso i palazzi comunali, venne ubicata vicino al fiume, adiacente allo scalo dei vini, al centro del lungarno destro, perché il suono che scandiva le ore lavorative giungesse più chiaro nella zona in cui maggiormente fervevano le attività (Redi, 1993-1994, p. 318). Suilungarni erano concentrate infatti diverse infrastrutture commerciali, come il mercato, il chiasso dei caciaioli, macellerie, officine di spadai, a O dell'estremità settentrionale del ponte Vecchio, sul quale tenevano banco orefici, cambiavalute, ceraioli. Strutture minori, terragne, aggettanti sul fiume a E e a O del capo settentrionale del ponte, ospitavano setaioli, panettieri, scorticatori. Anche alle due estremità del ponte Nuovo sorgevano botteghe e, al capo nord, erano concentrati scudai e calderai; di qua e di là dallo stesso ponte si trovavano cuoiai e conciatori; più a O, sulla riva sinistra del fiume, si produceva e si lavorava la canapa; all'estremità orientale dello stesso lungarno erano concentrate le tiratoie della lana, mentre barattolai e mattonai sfruttavano le argille depositate dal fiume. Fornaci da mattoni circondavano tutta la città; i vasai erano concentrati a O sulle due sponde dell'Arno; lungo la via S. Maria, fra il ponte Nuovo e la cattedrale, lavoravano pellicciai e speronai (Redi, 1993-1994, pp. 315-321).Nel sec. 14° anche l'edilizia privata subì trasformazioni, sia a causa della soppressione degli sporti lignei e del tamponamento delle luci fra i pilastri, che viene a costituire la facciata dell'edificio con bifore e polifore, sia a causa degli accorpamenti edilizi effettuati per espandere orizzontalmente gli spazi domestici in cerca di maggiori comodità derivanti dallo sviluppo dei servizi e degli ambienti non più su piani verticali successivi. Tali accorpamenti produssero anche l'intasamento dei vicoli intermedi e la costruzione di cavalcavia; per esigenze di spazio e di decoro, agli inizi del sec. 14°, si procedette all'esproprio e alla demolizione di edifici, come per la realizzazione della nuova camera del Comune, poi tribunale dei Dodici, dell'Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, nel 1338, e della nuova piazza del Grano, o mercato Nuovo, dove oggi sorge l'università, nel 1340-1345. Con questo intervento urbanistico si trasferivano in una struttura più decorosa e funzionale i servizi che si erano sviluppati disordinatamente per oltre tre secoli all'estremità settentrionale del ponte Vecchio e si sottraeva all'Opera del Duomo il monopolio dei proventi della misurazione dei cereali (Redi, 1983, pp. 282-292; 1991a, pp. 297-303, 332-337; 1993-1994).Non fu la sconfitta della Meloria, nel 1284, a determinare l'arresto dello sviluppo della città, bensì furono la perdita della Sardegna, nel 1325, e le crisi politiche della metà del 14° secolo. Ancora nel secondo quarto del Trecento, sotto la signoria di Fazio di Donoratico, che segnò una breve ripresa per la città, si provvedeva all'adeguamento della Tersana, con la costruzione di nuovi ricoveri per le galee (Redi, 1993-1994, pp. 321-323), alla sopraelevazione delle mura urbane, ad altri interventi pubblici e privati che arricchirono la città di strutture e di servizi, di residenze lussuose, con giardini, logge, terrazze, che costituirono gli ultimi raffinati prodotti dell'edilizia civile pisana fino alla conquista fiorentina del 1406 (Redi, 1983, pp. 288-292; 1984).

Bibl.: E. Tolaini, Forma Pisarum, problemi e ricerche, Pisa 1967 (19792); O. von Hessen, Reperti longobardi di Pisa, Antichità pisane 1, 1974, 1, pp. 7-11; C. Violante, Tracce documentarie delle mura tardoromane e altomedievali della città di Pisa: il lato est, ivi, 4, pp. 13-17 (rist. in id., Economia, società, istituzioni a Pisa nel Medioevo, Bari 1980, pp. 17-24); P. Sanpaolesi, Il duomo di Pisa e l'architettura romanica toscana delle origini (Cultura e storia pisana, 4), Pisa 1975; F. Redi, Dalla torre al palazzo: forme abitative signorili e organizzazione dello spazio urbano a Pisa dall'XI al XV secolo, in I ceti dirigenti nella Toscana tardo-comunale, "Atti del III Convegno, Firenze 1980", Firenze 1983, pp. 271-296; id., Il fervore edilizio di Pisa dopo la Meloria: consistenza e interpretazione, in 1284. L'anno della Meloria, Pisa 1984, pp. 95-127; L. Pani Ermini, D. Stiaffini, Il battistero e la zona episcopale di Pisa nell'alto Medioevo (Biblioteca del Bollettino storico pisano. Collana storica, 30), Pisa 1985; L. Pani Ermini, L'insula episcopalis a Pisa nell'alto Medioevo. Appunti per una ricerca, ivi, pp. 3-18; D. Stiaffini, Note sull'area cimiteriale di Piazza del duomo di Pisa, ivi, pp. 19-25; A. Maggiani, Pisa: un santuario etrusco presso la Torre pendente, Archeo. Attualità del passato 13, 1986, p. 34ss.; F. Redi, L'arsenale medievale di Pisa: le strutture superstiti e i primi sondaggi archeologici, in Arsenali e città nell'Occidente europeo, a cura di E. Concina, Roma 1987, pp. 63-68; G. Rossetti, Pisa: assetto urbano e infrastruttura portuale, in Città portuali del Mediterraneo. Storia e archeologia, "Convegno internazionale, Genova 1985", a cura di E. Poleggi, Genova 1989, pp. 263-286; G. Garzella, Pisa com'era: topografia e insediamento dall'impianto tardoantico alla città murata del secolo XII, Napoli 1990; F. Redi, Pisa com'era: archeologia, urbanistica e strutture materiali (secoli V-XIV), Napoli 1991a; id., La Porta Aurea di Pisa: un caso forse risolto, in Pisa e la Toscana occidentale nel Medioevo. A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, Pisa 1991b, II, pp. 1-24; E. Tolaini, Pisa (Le città nella storia d'Italia), Roma-Bari 1992; M. Pasquinucci, Le strutture romane in piazza Dante: vecchie ipotesi e nuovi dati sull'urbanistica di Pisa romana, in Pisa. Piazza Dante. Uno spaccato della storia pisana. La campagna di scavo 1991, a cura di S. Bruni, Pontedera 1993, pp. 95-104; F. Redi, Le strutture materiali e l'edilizia medievale nell'area dello scavo, ivi, pp. 187-234; id., Spazi e strutture mercantili-produttive a Pisa tra XI e XV secolo, in Spazio urbano e organizzazione economica nell'Europa medievale, a cura di A. Grohmann, Annali della Facoltà di scienze politiche di Perugia 29, 1993-1994, pp. 287-324; S. Bruni, Prima dei Miracoli. Aspetti e problemi dell'insediamento antico nell'area della piazza del Duomo, in Storia ed arte nella Piazza del duomo. Conferenze 1992-1993 (Opera della Primaziale pisana. Quaderni, 4), Pisa 1995, pp. 163-195; F. Redi, Pisa. Il duomo e la piazza, Cinisello Balsamo 1996a; id., Reperti archeologici dell'edilizia medievale pisana a confronto con la documentazione archivistica coeva, in La città e le case. Tessuti urbani, domus e case-torri nell'Italia comunale (secc. XI-XV), "Atti del II Convegno di studi, Città della Pieve 1992", I, Case e torri medievali, a cura di E. De Minicis, E. Guidoni, Roma 1996b, pp. 89-100.F. Redi

Architettura

La doppia natura, cittadina e più propriamente portuale, dell'insediamento di Pisae di età romana trovò un'importante corrispondenza nella prima era cristiana e, in seguito, nell'Alto Medioevo, con la costruzione e le successive riedificazioni della cattedrale e del suo complesso da un lato e della basilica di S. Piero a Grado - parimenti di diretta dipendenza vescovile - dall'altro. Quest'ultima, sorta allo sbocco dell'Arno nel mare, segnava a un tempo l'ingresso al porto fluviale della città e il limite settentrionale della vasta area portuale che raggiungeva, con le ulteriori darsene di Porto Pisano (od. Stagno), l'attuale periferia di Livorno.Le primitive fabbriche di entrambe le costruzioni sono state oggetto di indagini archeologiche, ma, mentre per la prima rimane arduo definire alcunché di positivo riguardo allo sviluppo in alzato e la stessa identificazione resta incerta, la basilica marina reca tracce che permettono di avanzare oggi alcune supposizioni. La piccola costruzione a tre navate ottenuta dall'ampliamento, nel sec. 8°, di un breve edificio mononave di epoca paleocristiana, incentrato sull'altare sorto sul luogo del supposto sbarco in Italia dell'apostolo Pietro, dovette essere infatti sostituita già in età carolingia da una grande basilica triabsidata a tre navate. Lo provano le parti basamentali delle tre absidi orientate a S-E ancor oggi visibili, che, soprattutto all'interno, mostrano, sino a un'altezza inferiore alle monofore, un paramento bicromo, alternante corsi perlopiù singoli di tufelli chiari e duplici di pietra calcarea grigia - il c.d. marmo verde di Asciano - in piccolo apparecchio, che si differenzia significativamente dalla restante muratura della chiesa, anche dove vengono talora reimpiegati materiali che l'identità petrografica e litotomica denuncia appartenenti in origine alla stessa fase. La chiesa fu tuttavia interamente riedificata, se si eccettua l'impianto della zona absidale, nella seconda metà del 10° secolo. A quest'epoca appartengono il colonnato e i muri d'ambito, con monofore e finestre rettangolari a incassi, lesene piatte e cornici sommitali su corsi di archetti, decorate dall'inserimento di bacini ceramici figurati di fabbricazione perlopiù magrebina (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo). L'intero colonnato, compresi i capitelli, è episodio di riutilizzo di scelto materiale classico tra i più significativi dell'età ottoniana. Frammenti classici, ma anche altomedievali, compaiono anche in posizioni-chiave all'esterno, come le basi delle lesene (spezzoni di cornici adattati incidendo sui lati piatte volute), o come il pilastrino a intreccio sul fianco rivolto alla città. L'edificio è stato ridotto verso N-O nel sec. 12° e concluso da un'abside unica, contrapposta così alla terminazione triabsidata controlaterale, a definire lo spazio riservato al santuario petrino. Alla stessa epoca appartiene la ricostruzione dell'intero livello superiore della navata centrale - concluso da un timpano al di sopra delle tre absidi protoromaniche - con l'ampio finestrato stilisticamente pertinente al Romanico maturo di quel secolo. Poco resta, dopo la distruzione operata dai nazisti nel 1944, del monumentale campanile a base quadrata e cella a bifore edificato nella stessa occasione.In città, l'architettura di età carolingia e ottoniana è oggi studiabile, più che nel complesso episcopale, la cui intera ricostruzione romanica ha pressoché cancellato le fasi precedenti, nei lacerti murari a piccolo apparecchio del fianco di S. Tommaso in Ponte, probabilmente del sec. 9°, o nella singolare abbaziale di S. Zeno, chiesa a tre navate preceduta da atrio su colonne cui si sovrappone una tribuna interna, fulcro di un insediamento benedettino in rapporto con l'autorità imperiale. L'edificio, cui venne quasi del tutto ricostruito in due fasi, nel sec. 12°, il corpo longitudinale, per il seguito ancora parzialmente modificato, è stato ricondotto alcuni decenni or sono all'aspetto originario, con intervento (Lumini, 1972) dalle conclusioni peraltro discusse (Sanpaolesi, 1975), che ha avuto tuttavia il merito di restituire parte della facciata primitiva, del sec. 9°, e del fianco destro, a conci piuttosto irregolari, e la struttura dell'avancorpo che vi si addossa, aperto da arcate gemine e bifore, decorato da archetti pensili, oculi e losanghe a incassi, e bacini che lo rendono avvicinabile alla fase principale del S. Piero a Grado, di cui deve condividere la cronologia, fissata dalla critica alla seconda metà del sec. 10° (Sanpaolesi, 1975; Redi, 1991). Imponente anche in questo caso il catalogo di sculture reimpiegate: colonne, basi e capitelli spesso rovesciati o in posizione invertita, frammenti di cornici usate anche come mensole, talora integrate da originali metope in stucco perlopiù a motivi geometrici. Si attende ancora di chiarire la funzione di questa struttura, dato soprattutto l'isolamento geografico di un siffatto corpo occidentale, sebbene resti probabile il richiamo ai Westwerke comuni a simili abbaziali nelle regioni d'Oltralpe dell'impero.Ancora ai decenni antecedenti il Mille va fatta rimontare la parte inferiore dell'abside della piccola chiesa urbana di S. Cristina, sull'Arno, non dissimile da quanto visto sinora, che pure sembra possedesse un portico anteriore (Redi, 1991).Il sec. 11° dovette vedere la costruzione o ricostruzione di numerose chiese pisane, conseguente al periodo di benessere economico e di crescita politica e demografica vissuto allora dalla città. Tra le fabbriche che ancora mostrano caratteri stilistici riconducibili a questo periodo vanno segnalate la basilica di S. Stefano Oltròzzeri, nel suburbio settentrionale, in parte modificata in seguito, che riprende e regolarizza paramento e decorazioni della fase principale di S. Piero a Grado, come le teorie di archetti pensili su ampie mensole, e la chiesa di S. Matteo in Soarta, sul fronte dell'Arno, ricostruita nel tardo sec. 12° e in parte rifatta in seguito, di cui restano la parete sinistra e la zona absidale della fabbrica citata come esistente nel 1027 (Sanpaolesi, 1975). Vi si osservano lacerti di muro con serie di oculi e losanghe a incassi.Le due importanti costruzioni di S. Michele in Borgo e di S. Pietro in Vincoli (o S. Pierino), con struttura a due piani, fondate negli stessi decenni, vennero ricostruite nei due secoli successivi.Dopo la metà del secolo va posto l'avvio della costruzione di S. Frediano, chiesa basilicale ad arcate bicrome su colonne e capitelli antichi, completata con un presbiterio più slanciato, mentre la navata fu rialzata in una fase non molto successiva.Ma la seconda metà del sec. 11° va ricordata soprattutto per la rifondazione (1064) e la realizzazione di gran parte della cattedrale nella veste attuale. Dedicata all'Assunta e comunemente nominata dalle fonti come S. Maria Maggiore, la basilica fu innalzata da Buscheto (v.) all'apogeo della potenza marinara della città. Vittoriose imprese militari si susseguirono anche nei lunghi decenni della sua costruzione favorendone il completamento, arricchendone con trofei e acquisti la decorazione e garantendo le necessarie risorse economiche, in uno sforzo cui l'intera 'nazione' dovette contribuire, forte del sostegno imperiale e dei potentati locali, in primis Matilde di Toscana, e che fu coronato dalla concessione della dignità arcivescovile (1088) al presule pisano Daiberto alla vigilia dell'intervento nella prima crociata. Le consacrazioni, per mano pontificia, dell'altare maggiore (1118) e di alcuni minori (1121) e il concilio svoltovisi nel 1135, presente tra gli altri Bernardo di Chiaravalle, dovettero rappresentare i momenti conclusivi della fabbrica, rispettivamente per il blocco orientale e per il corpo delle navate, e stimolarne anzi l'immediato ingrandimento verso O a opera di Rainaldo, avviato certo entro la metà del secolo, e proseguito dopo quella data sotto Guglielmo e Riccio e, poi, sotto Biduino (v.), fino al termine dei lavori, probabilmente nell'ottavo decennio del secolo. Il grandioso edificio è composto da due corpi basilicali intersecantisi a croce latina, a cinque navate quello longitudinale, a tre il trasverso, di altezza minore, concluso da absidi al pari del coro. Entrambi con alzato a tre livelli, con tribune e finestrato, coronati da una singolare cupola ovoidale su tamburo ottagonale all'incrocio, e per il resto a copertura lignea o, in parte, a volte sin dall'origine negli spazi minori. Il marmo bianco delle riaperte cave di San Giuliano, l'armonica ma irregolare bicromia, il ricco apparato decorativo che ne organizza le piane superfici in telai di arcature cieche o trabeazioni su lesene, delimitando campi occupati dalle aperture incorniciate, da oculi e losanghe, talora da motivi a intarsio, i nobili episodi di riutilizzo di sculture classiche, qualificano all'esterno il monumento, caratterizzandolo, già a prima vista, nel suo decretato isolamento, come organismo affatto originale e unico, come nelle dichiarate intenzioni dei costruttori. Il lessico stilistico esaminato in precedenza viene così strutturato entro una nuova sintassi, sorprendentemente adulta fin dal suo nascere, e di felice concezione, che sarebbe rimasta a costituire un vasto repertorio di forme e materiali frequentato per quasi tre secoli. Senza seguito, in pratica, rimase invece la struttura nella sua non imitabile e complessa articolazione, sottendente rapporti proporzionali più che rigidi geometrismi, espressione di una ricca base culturale formatasi sullo studio, verosimilmente diretto, di numerosi ma selezionati precedenti, ormai ben presenti alla critica, dalle basiliche maggiori romane di età paleocristiana alle grandi realizzazioni bizantine e siriache, alle coeve cattedrali imperiali renane, al nascente romanico francese di gusto archeologizzante, alle sale di preghiera islamiche conosciute in Ifrīqiya e, forse, in Andalusia.Ancor prima del completamento della nuova basilica, primaziale sulla Corsica e le altre aree in mano pisana, iniziarono a sorgere in città, come in tutti i centri di tali territori e anche oltre, edifici che ne ripetono, a vario titolo di approssimazione e con differenti motivazioni, le forme, mentre è da notare per converso che anche nella stessa P. un filone di costruzioni religiose sembra invece restare immune da tale influenza.Queste ultime sono spesso edifici di culto di piccole dimensioni, se si eccettua il caso significativo di S. Sisto in Cortevecchia, tempio civico eretto presso l'antico foro, area presto scelta a centro del potere comunale, e teatro di molte delle funzioni religiose legate alla vita politica della repubblica marinara, per cui fu pensata una liscia struttura a tre navate su pregiati sostegni antichi, ma per il resto in semplice pietra verrucana e tufo, con decorazione esterna limitata a lesene e cornici su archetti con patere. Malgrado l'occasione della costruzione fosse la fortunata impresa contro Mahdia del 1087, celebrata anche dalla contemporanea letteratura ed epigrafia pisana, il prestigio e la ricchezza dell'edificio risiedevano unicamente nell'aulicità delle colonne e dei capitelli, studiatamente scelti e disposti, in un elegante ma più austero e immediato classicismo emulativo. Ancora più semplice la struttura di S. Giorgio Portemaris, cappella quadrangolare in pietra utilizzata per le funzioni connesse alla marina militare della repubblica, a ribadire il tenore sobriamente 'civile' di queste costruzioni comunali.Nel primo gruppo va invece fatta rientrare anzitutto la già citata chiesa di S. Frediano, di cui era ancora in costruzione la facciata alla fine del sec. 11°, simile già nel livello terreno alle parti basamentali del fianco e transetto dell'edificio buschetiano, con copioso - ma qui invero alquanto pesante - reimpiego di frammenti classici. Modificata e regolarizzata nel livello intermedio e superiore tripartito, con salienti e timpano - quest'ultimo successivamente rialzato -, essa fu portata a compimento probabilmente alla fine del primo quarto del sec. 12° con i ritmi, gli stilemi e, ove possibile, i materiali delle contemporanee fasi della cattedrale, in specie l'identico coronamento del transetto. Il campanile a pianta quadrangolare presenta un fusto che sovrappone una più leggera parte in cotto a un'alta sezione in pietra, secondo quanto comune in città nel pieno sec. 12° e nel primo Duecento, come fanno fede anche il campanile di S. Sisto o quelli, più tardi, del Santo Sepolcro, di S. Andrea Forisportam e di S. Michele degli Scalzi.Un aspetto parimenti derivato dalla decorazione dei livelli alti dei transetti e dell'interno della cattedrale mostra anche il S. Pietro in Vincoli, complesso organismo a due piani fondato già nel sec. 11° ma realizzato per gradi nel modo in cui oggi appare. La chiesa è sopraelevata su una cripta a quattro navate su pilastri e, al centro, colonne, anche di spoglio, che sembra aver svolto la funzione di sepolcreto, aperto in un primo tempo con arcature verso la riva del fiume, ancora non rialzata. I caratteri del riutilizzo e le cornici dei pilastri del vano inferiore sembrano in buona parte situabili alla fine dell'11° secolo. Nella chiesa, a tre navate su colonne e a terminazione rettilinea, la zona presbiteriale, limitata da pilastri, tergalmente in rapporto con strutture preesistenti, come il campanile, ricavato acquisendo una torre privata, sembra precedere il resto, appena più ampio, concluso - certo ben oltre la consacrazione del 1118 - con la decorazione del fianco sinistro, ad arcature cieche con monofore alternate a losanghe, e della simile, alta facciata, tripartita a salienti, con in più bifore sul frontone e sopra i portali, variazione sul tema dei transetti del duomo, con oculi a dischi intarsiati discesi dal prototipo buschetiano, che sarebbero rimasti comuni in Toscana occidentale ben oltre la metà del secolo.Derivata da questa costruzione è la non lontana basilichetta di S. Andrea Forisportam, edificata in due fasi a partire dal secondo quarto del secolo, a tre brevi navate a conclusione piatta, su colonne con capitelli antichi e due zoomorfi della seconda metà del sec. 12°, coevi alla facciata, incompiuta, decorata inferiormente ad arcature cieche con losanghe.Nel pieno sec. 12° si ebbe la maggiore fioritura di edifici religiosi esemplati sulla cattedrale, costituenti un compatto nucleo unitario che ha comportato la definizione di architettura romanico-pisana. Essi derivano in particolare dalla fase rainaldesca e da quella guglielmesca della costruzione, impiegano principalmente il marmo bianco di San Giuliano, spesso in bicromia con calcare grigio, sono percorsi da arcature cieche, su lesene o semicolonne, decorate con oculi e losanghe, mentre fa la sua comparsa la scultura architettonica figurata, sino a quel momento assente in ossequio al rigore del più antichizzante gusto buschetiano, dominante ancora fino alla metà del 12° secolo.Tra questi, l'episodio più significativo è rappresentato dall'abbaziale vallombrosana di S. Paolo a Ripa d'Arno, consacrata nel 1148 dal papa pisano Eugenio III ma terminata in seguito, con pianta a T, secondo la prassi dell'Ordine, corpo longitudinale basilicale su colonne con capitelli di imitazione classica sorreggenti alte arcature acute, transetto mononave, abside unica e cupola emisferica all'incrocio. Del duomo vengono qui peraltro anche raccolti e sviluppati aspetti protogotici di origine ancora incerta - francese, crociata o arabonormanna - come gli alti archi spezzati del colonnato e della metà destra della facciata, che presenta cornici a zig-zag e precoci oculi lobati di invenzione cistercense, inediti in ambito pisano. La decorazione esterna, a eleganti loggette su colonnine a ordini sovrapposti, proseguita per decenni, fu ultimata all'inizio del Trecento in ambito giovannesco (Caleca, Fanucci Lovitch, 1991), come dimostrano i capitelli.Ancora direttamente derivati dal duomo alla metà del sec. 12° sono i resti della facciata di S. Nicola, chiesa benedettina ricostruita poi dagli Agostiniani, con paramento bicromo ad arcate marmoree cieche e lunetta dell'ex portale centrale a tarsie. Derivazione più tarda dalla facciata del duomo è la fronte di S. Paolo all'Orto, conservata nella metà inferiore, a paramento marmoreo con arcate cieche racchiudenti, come di consueto, i portali alternati a decorazioni a losanghe e oculi. La ricca componente scultorea, comprendente anche campi a tarsie fito-geometriche e leoni su capitelli, aiuta in questo caso a situare l'opera all'epoca del completamento dei livelli inferiori della facciata e dell'area dei portali del duomo, al massimo entro il 1170.Il fianco meridionale della chiesa di S. Matteo, incompleta ricostruzione dell'edificio del sec. 11°, rimanda in maniera speculare al duomo nelle sue fasi più avanzate, in specie al finestrato alto della parte occidentale della navata. La sua struttura a bicromia marmorea, ad arcate cieche con strette monofore ornate di ghiere a tarsia o con losanghe, ne applica puntualmente tutti gli elementi, ormai evidentemente canonizzati.Ma negli stessi decenni il complesso episcopale si andava arricchendo di nuovi, basilari monumenti: il battistero, fondato nel 1152 da Diotisalvi (v.), e poi il campanile, costruito a partire dal 1173. Il primo consiste in una vasta rotonda con ambulacro separato dal vano centrale da pilastri alternati a coppie di colonne, sorreggenti una tribuna aperta da arconi su pilastri, costruita nel secondo Duecento, alla base della cupola. All'esterno un giro di arcate su colonne inquadra monofore e i quattro accessi. Al di sopra, una loggetta continua è quanto attuato del primitivo progetto, radicalmente mutato da Nicola e Giovanni Pisano (v.). L'assetto planimetrico geometricamente e ideologicamente significativo, la stessa alternanza di sostegni ricalcante esempi gerosolimitani, la cura e la ricchezza della decorazione, con la definitiva regolarizzazione della bicromia, l'eccezionalità delle dimensioni testimoniano la maturità e complessità dell'ambizioso edificio.Ancora più singolare è il campanile, nobile torre isolata a pianta circolare, trasposizione simbolica della tipologia dei fari, cui i rilievi che reca fanno, del resto, aperto riferimento, con base ad arcate cieche e piani superiori di logge, interamente rivestita in marmo e provvista di un vastissimo apparato scultoreo, con capitelli e, alla base, fregi. Esso permane di ignota paternità, non convincendo interamente né gli scarni indizi documentari indicanti attivo un maestro Gerardo, né i tradizionali riferimenti a Bonanno (v.), non testimoniato come architetto. Non sono del resto possibili neanche sicure ascrizioni allo stesso Diotisalvi - cosa che resta tuttavia più probabile, considerata anche l'ardita concezione generale basata sul cerchio e sul poligono a quindici lati -, a Guglielmo e al suo ambito o meno ancora a un troppo giovane e inesperto Biduino, che pure vi prestò lavoro come scultore. L'opera fu presto interrotta al terzo loggiato per i noti problemi di inclinazione dovuti al cedimento del terreno e ripresa in contropendenza, dopo ca. un secolo, quasi certamente da Giovanni di Simone (v.) nell'ottavo decennio del Duecento; la cella fu aggiunta, forse da Tommaso Pisano, in ogni caso entro il 1386.La torre è il presupposto per l'enigmatico campanile di S. Nicola, anch'esso pendente, di datazione e attribuzione oscillanti tra Diotisalvi e Nicola Pisano, ma in effetti forse già duecentesco. Circolare alla base, possiede una canna ottagonale e si apre in alto in una loggia a sedici lati, che regge la cella esagonale cuspidata, mentre nell'elegante interno sale un'aperta scala a chiocciola su colonne e classicheggianti capitelli con echini.Ciò che certamente va ascritto a Diotisalvi è un'altra importante costruzione a pianta centrale: il Santo Sepolcro, dell'Ordine ospedaliero, doppio ottagono concentrico su pilastri identici a quelli del battistero, con alta cuspide piramidale, decorato all'esterno da tarsie ben situabili nel terzo quarto del secolo.Un'ulteriore, apparentemente simile costruzione ottagonale, la cappella di S. Agata, in cotto, parte del complesso abbaziale di S. Paolo a Ripa d'Arno, aperta da trifore, sembra opera poco più tarda di maestranze di cultura lombarda, tra le molte di stanza a Lucca, come suggerisce lo stile della costruzione.Nei due ultimi decenni del sec. 12°, all'epoca dell'attività dei maestri della generazione di Biduino, lo stile architettonico pisano si semplifica, il decorativismo e la bicromia si attenuano e l'ornamentazione scultorea si concentra perlopiù su capitelli e architravi, spesso figurati, lasciando a lisce cornici, abachi e capitelli a tavoletta il compito della sottolineatura delle cesure architettoniche, con rigore di sapore monastico. Sebbene diventino più rare le loggette, non si rinuncia tuttavia alle teorie di arcate cieche, spesso ancora dotate di losanghe e oculi, anche a tarsie. La facciata e l'interno di S. Andrea Forisportam e la residua parte laterale e absidale di S. Silvestro in Soarta sono a P. i due principali esempi di questa tendenza, ben diffusa nel territorio e anzi estensivamente esportata, dalla Lucchesìa alla Maremma, ai territori pisani oltremarini di Elba, Corsica e Sardegna.Due peculiarità tipologiche dell'architettura romanica pisana sono le terminazioni piatte di molte delle chiese basilicali sin qui esaminate e l'esistenza di cappelle quadrangolari aperte su un lato con arcate sulla strada. Alcuni edifici religiosi - come S. Pietro in Vincoli, S. Andrea Forisportam, S. Michele in Borgo e S. Zeno - vennero ricostruiti nel sec. 12° a coro piatto, con il colonnato rientrante nella parete di fondo mediante un pilastro appositamente predisposto. Queste pareti terminali chiudono presbiteri quadrangolari a brevi colonnati, delimitati verso la navata da coppie di pilastri tra cui si tendeva la recinzione, e recano una monofora centrale. Precoci influenze monastiche, seppure verosimili, restano in ogni caso da precisare, come pure eventuali motivazioni di tipo liturgico.Pareti orientali similmente rettilinee possedevano anche le cappelle di strada, o chiese 'a loggia', talora su due livelli, spesso utilizzate anche a fini civili, tra le quali molte ancora ravvisabili (Tolaini, 1967; Redi, 1991), aperte da arconi su pilastri o, talvolta, colonne e capitelli antichi, come nei casi più monumentali conservati di S. Felice e di S. Luca.Tra la fine del sec. 12° e l'inizio del successivo, a fianco di chiese che, in veste sostanzialmente semplificata, ripetono il repertorio architettonico ormai tradizionale, come la basilica suburbana di S. Michele degli Scalzi - che peraltro ne impreziosisce la decorazione scolpita con apporti bizantini e pugliesi -, la meno integra S. Jacopo in Orticaia o la piccola S. Marco in Calcesana, ampliata a cavallo del nuovo secolo, si assiste allo sviluppo della differente tecnica del laterizio, solitamente non utilizzato in città nelle architetture religiose o monumentali. Oltre alla citata S. Agata, con S. Cecilia fa il suo ingresso a P. la tipologia di edificio in mattoni a navata unica che si andava diffondendo intorno al 1200 in specie a Lucca e in Valdelsa, soprattutto per impulso di artefici di cultura lombarda. Sopra un basamento lapideo, l'edificio rivela un lessico simile a quello di alcune chiese protoduecentesche di quelle aree, con bifora in facciata, cornici di archetti e patere, in buona parte ormai di fabbricazione locale, inserite anche al centro della facciata, come nel duomo di San Miniato. Singolare il campanile a bifore posto sullo spigolo della facciata, pensile all'interno della chiesa mediante il sostegno di una colonna.Ugualmente all'inizio del Duecento furono ingrandite le precedenti costruzioni di S. Stefano Oltròzzeri e di S. Eufrasia, contemporaneamente al sorgere in città dei primi oratori dei nascenti Ordini mendicanti, di cui P. ospitò insediamenti tra i più precoci, tutti peraltro ricostruiti nei decenni successivi.L'abbaziale di S. Michele in Borgo, di origine altomedievale, venne pure riedificata nel Duecento, sopra l'ampia cripta, in forma di basilica a terminazione piatta, come la precedente, con alto presbiterio scenograficamente impostato su colonne nascenti dai pilastri del vano sottostante, in coerenza con una navata centrale di ampiezza inusuale, e del pari rialzata nel 1262, richiamante i vasti vani unitari delle più attuali costruzioni ad aula. Lo stesso complesso abbaziale risulta peraltro insolito, esteso sul retro della chiesa, immerso e integrato nel denso tessuto urbano, fino a condividerne alcuni spazi.L'edilizia ospedaliera è rappresentata in questo secolo dalla struttura dello Spedale di Alessandro IV (o di S. Chiara), in cotto, in origine con torricini angolari, innalzato dopo il 1259 ma ampliato e completato solo negli anni trenta del Trecento, e in seguito trasformato. La grande sala rettangolare, oggi in parte occupata dal Mus. delle Sinopie, conserva tracce del finto apparecchio bicromo che vi era dipinto e le nicchie, o armaria, in corrispondenza dei singoli posti-letto.Intorno alla metà del secolo è da porre l'inizio della ricostruzione delle chiese mendicanti nelle forme definitive, fenomeno avviato a P. con netto anticipo rispetto ad altri grandi centri toscani. La S. Caterina edificata dai Domenicani è una struttura allungata, in origine mononave, con corpo orientale voltato, a cinque cappelle terminali rettangolari aperte sul transetto. Nella maggiore, le finestre a lancetta del resto della costruzione furono sostituite da un'ampia polifora. Sullo stesso modello fu costruito il S. Francesco, che i documenti provano avviato nel settimo decennio del Duecento; lungo il perimetro della chiesa corre un basamento lapideo al di sopra del quale l'opera prosegue in laterizio; il corpo trasverso, raddoppiato da alti pilastri ottagonali che reggono arconi longitudinali, ospita sette cappelle terminali rettilinee, aperte da bifore, e un'alta polifora, poi completata con vetrate dipinte. Qui come nella fondazione domenicana un agile campanile in cotto a pianta quadrata, a piani di bifore, con patere ceramiche e ricostruita cuspide, poggia mediante mensoloni - decorati e visibili in questo caso - sull'angolo del transetto. Entrambe le costruzioni, terminate nella struttura architettonica entro l'inizio del Trecento, facciate e ampliamenti a parte, sono attribuite con fondamento a Giovanni di Simone e costituiscono importanti prototipi per ulteriori fondazioni urbane mendicanti in Toscana.Lo stesso architetto costruì, a partire dal 1277, il grande Camposanto (v.), in forma di chiostro rettangolare chiuso tra il duomo e le mura, isolato e dunque dotato di un autonomo, lungo prospetto rivestito in marmo, aperto da due portali, completati poi con edicole, e ritmato da arcate cieche ornate di sculture, in coerenza con i monumenti romanici della piazza. All'interno, il loggiato su arcate, poi arricchito da trafori tardogotici, presenta un lato minore rialzato per esigenze liturgiche, mentre i muri esterni continui si andarono gradualmente ricoprendo di una vastissima decorazione dipinta, ultimata solo nel 15° secolo.Ulteriori fondazioni mendicanti furono realizzate nei decenni successivi, come S. Martino, postazione delle Clarisse, la chiesa del Carmine e quella di S. Antonio, dei Serviti, ultimate nel corso del secondo quarto del Trecento, strutture laterizie a navata unica a copertura piana con cappelle terminali voltate e senza transetto. Gli Agostiniani si installarono invece in S. Nicola, ricostruendola su simile schema, poi del tutto modificato. Rivestimenti marmorei furono approntati solo in S. Nicola e per i basamenti e le parti inferiori delle facciate di S. Martino e di S. Antonio, a grandi arcate cieche, al pari della facciata che, a partire dall'inizio del Trecento, in due fasi fu apposta a S. Caterina, del tipo che vede il suo primo esempio nel completamento di S. Michele in Borgo, avviato nel 1304, con fronte marmorea a salienti, a piani sovrapposti di loggette, attualizzata dalle dimensioni slanciate, dalle sculture e in più dalla forma triloba degli archetti. In S. Caterina la facciata è organizzata a capanna, data la presenza di una navata unica, e risolta in una cuspide lobata al di sopra delle logge, qui incentrate su un rosone entro un quadrato contenente rilievi. Il tentativo, dal 1336, di ingrandire questa chiesa costruendo, a partire dal transetto destro, una seconda navata voltata su pilastri cruciformi a semicolonne sul modello del Duomo Nuovo di Siena fu, come quello, abbandonato dopo la peste del 1348.L'oratorio di S. Maria della Spina, iniziato dopo il 1325 e condotto in due fasi sotto Lupo di Francesco (v.) e, più tardi, Andrea Pisano (v.) e il figlio Nino Pisano (v.), smontato e ricostruito nel 1871 più in alto sul fiume, che lo fiancheggia, è un piccolo tempio rettangolare, intensivamente decorato: rivestito in marmi bicromi, con facciatina gemina a composizioni di quadrati e triangoli e con rosoni, prospetto laterale arricchito con una loggetta abitata da statue, edicolette e guglie piramidali con statue sommitali.La conclusione del complesso episcopale con i coronamenti del battistero (1365), della cupola del duomo (1383-1388) e i trafori del loggiato del Camposanto, episodi di qualificata architettura civile come il palazzo Gambacorti, a piani di bifore, la non dissimile facciata della chiesetta di S. Domenico, commissionata per il monastero in cui prese i voti una figlia dello stesso Pietro Gambacorti, come pure ulteriore edilizia privata ormai su tipologie palaziali, non più di casa-torre, accompagnano P. negli ultimi anni di indipendenza alla fine del suo orgoglioso Medioevo.

Scultura

I non numerosi lacerti di scultura altomedievale rinvenuti o inseriti in costruzioni romaniche, come il duomo o S. Piero a Grado, non permettono di poter giungere a un quadro completo della scultura a P. fino all'età ottoniana e mostrano in ogni caso tipologie decorative sovrapponibili a quelle, perlopiù a intreccio, in voga in altri centri. Più interessanti le metope pseudofittili in stucco dipinto dell'avancorpo di S. Zeno, forse di poco anteriori al Mille, modellate a volute a svastica o a geometrizzati motivi di ascendenza classica. La forte influenza della scultura romana soprattutto di età imperiale ben presente in città e oggetto di ricerche e precoci acquisti a Roma stessa da parte dei Pisani mostra di avere in qualche modo inibito una moderna produzione locale fino al sec. 11° avanzato. In tutte le chiese fino a questo periodo vengono sistematicamente reimpiegati unicamente materiali classici, al più adattati o poco rilavorati, prassi che verrà proseguita, con minore incidenza, fino al primo Duecento. Su questo prezioso corpus di capitelli, sarcofagi, cippi e steli, poi in buona parte confluiti in Camposanto (Arias, Cristiani, Gabba, 1977; Camposanto monumentale, 1984; I marmi di Lasinio, 1993), gli scultori pisani di ogni epoca rivelano di essersi esercitati e di avere attinto modelli formali e iconografici, sovente con diretto rimando e sorprendente precisione. Ciò fin dagli anni di attività delle taglie di scultori collaboranti con Buscheto nella riedificazione romanica della cattedrale, dove si trovano al fianco di pezzi reimpiegati - come colonne di materiali pregiati, numerosissimi capitelli, basi, cornici, fregi, iscrizioni e frammenti più minuti - le sculture appositamente realizzate, in particolare i grandi capitelli classicheggianti a svariate tipologie decorative, gli uni e le altre da poco sistematicamente distinti e catalogati (Peroni, 1995; Tedeschi Grisanti, 1995), al pari delle altre forme decorative presenti su archivolti, cornici e altre membrature architettoniche (Nenci, 1995). Al completo studio topografico della cattedrale cui si è finalmente giunti si va ora affiancando anche l'analisi delle murature (Fabiani, Mennucci, Nenci, 1997), mentre rimane auspicabile poter conoscere altrettanto approfonditamente altre complesse fabbriche cittadine, come il battistero o S. Paolo a Ripa d'Arno. Le chiese minori pisane edificate entro il secondo quarto del sec. 12° possiedono peraltro anch'esse un vasto campionario di sculture di riutilizzo, di cui si conferma necessario operare una definitiva catalogazione e distinzione dalle opere classicheggianti degli scultori romanici.A partire dal sec. 12° inoltrato si ha il prevalere di capitelli e decorazioni plastiche realizzate dai costruttori stessi degli edifici, fenomeno sviluppatosi soprattutto con l'allungamento della cattedrale operato dalla bottega di Rainaldo, nel quarto e quinto decennio del secolo. Lo stile rainaldesco si stacca con forza dalle precedenti creazioni di Buscheto e degli artefici su di lui formatisi, introducendo figure zoomorfe sui lati della campana dei suoi capitelli, o anche umane, come nei suoi pannelli a tarsia sulla facciata, o sulla notevole fronte d'altare (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), dal geometrismo grafico emergente soprattutto nella linearistica semplificazione fisionomica e nei panneggi incisi a parallele striature, tra intagli fitomorfi dalla personalissima disposizione subgeometrica o a girali che si risolvono spesso in veri e propri arabeschi, non immuni invero da suggerimenti, anche tecnici, islamici. Queste sculture, lavorate intensivamente al trapano, dal rilievo uniforme e dalla spugnosa consistenza, soprattutto in quest'ultimo aspetto non sarebbero rimaste senza influenza sull'arte prodotta sotto la direzione di Guglielmo (v.), tra il 1150 e il 1170 ca., la cui bottega dovette comunque impiegare anche scultori precedentemente attivi con Rainaldo, e probabilmente persino porre in opera, quando non terminare o rilavorare, singoli elementi scolpiti rainaldeschi. La complessivamente ben evidente evoluzione stilistica rende peraltro ragione della sia pur breve distanza cronologica - e, più, tecnica e culturale - intercorsa. A Guglielmo si deve altresì il recinto presbiteriale a grandi formelle (1158-1161), in parte conservato (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), completo del celebre pulpito poi donato al duomo di Cagliari. Per il duomo egli sottoscrisse ancora un contratto nel 1165 insieme al maestro Riccio e alla bottega. Il suo stile, ampiamente plastico e insieme decorativo, realisticamente nuovo ma anche fortemente permeato dallo studio dell'Antico, risulta riconoscibile nel completamento della facciata, come nel fregio con animali detto 'delle cacce' sulla cornice del secondo livello, e nelle parti occidentali dell'interno, dove, tra i vertici qualitativi della sua taglia è il capitello con amazzone tra i leoni, riportato recentemente alla giusta evidenza dalla critica (Peroni, 1995). Negli anni successivi con lui collaborarono, in effetti, per poi prenderne il posto nelle sculture di coronamento, abili allievi, tra i quali emerse in particolare Biduino. Riflessi dell'arte di tutti questi scultori è dato vedere nelle molte chiese di P. che si ispirarono alle forme architettoniche del duomo: dapprima S. Paolo a Ripa d'Arno, fin dal 1135 ca., dopo il 1160 S. Paolo all'Orto e ancora più tardi S. Andrea Forisportam, edifici i cui capitelli e decorazioni di facciata riflettono significativamente i diversi stadi e tendenze nonché gli avvicendamenti delle maestranze del cantiere primaziale.Raccolse i modi di Guglielmo anche Bonanno (v.), autore nel 1180 della perduta porta bronzea del portale centrale della facciata del duomo - ultimato non molto prima collocando gli arcaici leoni di Guido e Bonfilio -, e di quella posta alla porta di S. Ranieri, nella stessa chiesa. Egli integrò in una ricca elaborazione personale lo stile di Guglielmo con apporti di diversa origine, renani e bizantini anzitutto, restituendo poi alla scultura in pietra - in specie a Biduino e alla sua generazione - suggerimenti formali e iconografici, come per es. le cornici a rosette o i tipici tempietti cupolati, comuni poi all'arte della Toscana occidentale fino al primo Duecento.Artisti minori esponenti della cultura di questi anni sono anche gli autori dei due sostegni di leggio da S. Paolo all'Orto, della fine del sec. 12° (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo), e dell'architrave da S. Silvestro con Storie del santo su due registri (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo), come pure gli scultori Buonamico e Giovanni con il suo discepolo Leonardo (Niveo de Marmore, 1992), autori il primo di un pluteo da Castellina Marittima nella Maremma pisana con Maiestas Domini tra i simboli degli evangelisti (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo), gli altri di un'attardata acquasantiera con angeli da San Pietro Belvedere, in Valdera (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo).L'ambiente cittadino intorno al 1200 si arricchì di numerose presenze forestiere di rilievo tutt'altro che secondario. Tra questi, gli scultori lombardo-lucchesi della vasta bottega di Guidetto (v.), forse con lo stesso caposcuola (Caleca, 1991), attivi alle mensole dell'interno del battistero; o il maestro bizantino autore nel 1204 del maestoso Pantocratore sulla lunetta del portale centrale di S. Michele degli Scalzi, dell'architrave sottostante e dei rilievi del portale orientale del battistero: scene della Vita di s. Giovanni Battista sull'architrave e cornice con busti componenti una Déesis tra evangelisti e angeli. Sugli stipiti del portale, completato poi con due delicate colonnette a racemi e sottarco con medaglioni contenenti l'Agnus Dei e i vegliardi dell'Apocalisse, un secondo scultore orientale ha figurato le serie dei Mesi, a sinistra, e degli apostoli, a destra, con Cristo e Maria, e altre scene. Un diverso scultore forestiero, a evidenza lombardo, ma influenzato dai precedenti, ha prodotto l'architrave del portale settentrionale dello stesso edificio, con Annunciazione e santi, unendo plasticismo e tecnica ticinesi con nobiltà fisionomica e iconografie di stampo orientale. Ancora, maestranze di identica provenienza, della bottega dei Bigarelli (v.), furono attive ai capitelli interni del battistero, tranne quello con scene di caccia, ancora guidettesco, e al fonte quadrato, con formelle a motivi fito-geometrici, firmato da Guido Bigarelli nel 1246.L'interesse della scultura a P. tra il 1250 e il 1350 si incentra soprattutto sul succedersi di nomi di grandi artisti, talora compresenti o in contrapposizione, fino a identificarsi con parti sostanziali delle carriere di Nicola Pisano (v.), del figlio Giovanni, di Tino di Camaino (v.), Lupo di Francesco, Andrea Pisano, i figli Nino e Tommaso, in gran parte nativi della città o qui residenti. La scultura gotica a P. consiste in buona parte di opere loro o di allievi: privilegiata situazione che ha potuto mantenere l'arte pisana ai vertici qualitativi del tempo.Il pulpito esagonale di Nicola nel battistero, ultimato nel 1260, costituì un punto di non ritorno verso la moderna plastica gotica per tutto l'ambiente artistico toscano e lasciò indietro definitivamente l'intera maestranza ticinese-lucchese, che dovette accontentarsi di commissioni minori e che a P. non avrebbe lavorato più. Un frammento di leggio da S. Michele degli Scalzi (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo) è stato interpretato come pertinente a un perduto pulpito di Nicola per quella chiesa (Niveo de Marmore, 1992). Negli anni successivi, probabilmente a partire dal 1278, Nicola lavorò con l'aiuto di Giovanni all'esterno del battistero realizzando la corona di ghimberghe abitate, adattando al proprio gusto e al disegno dell'edificio un recente motivo francese, che costituisce una delle novità architettoniche più sorprendenti del primo Gotico italiano. Le statue al suo interno, come l'intera decorazione scolpita dei livelli superiori (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), che rimasero incompiuti, restarono soprattutto a cura di Giovanni, e, poi, della scuola. Lo stesso Giovanni in anni più tardi eseguì per la città una serie di statue, in specie gruppi di Madonna con il Bambino (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana) per decorare il complesso episcopale, tra cui la Madonna detta di Arrigo e la statuetta eburnea di uguale soggetto, allungata come gli esempi francesi assecondando la forma del materiale. Negli stessi anni in cui egli lavorò al celebrato pulpito del duomo (1302-1311), Tino di Camaino eseguiva l'altare di S. Ranieri (1306), che inaugurò il nuovo genere delle tombe-altari a dossale, e il fonte-acquasantiera (1311-1312), mentre subito dopo approntava il monumento ad Arrigo VII nell'abside (1315). Datano agli anni successivi l'apprendistato in patria di Giovanni di Balduccio (v.), che vi tornò a eseguire alcuni capitelli per il chiostro di S. Caterina (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana; Francoforte sul Meno, Liebieghaus) e una Madonna con il Bambino in S. Maria della Spina, e l'ascesa di Lupo di Francesco. Andrea Pisano venne chiamato negli anni quaranta a coronare con le sue statue il duomo e poi l'oratorio di S. Maria della Spina, eseguì la lunetta con S. Martino perl'omonima chiesa e stabilì una longeva bottega che, retta poi dal figlio Nino, avrebbe tra l'altro prodotto una lunga serie di statue e monumenti sepolcrali, come quelli degli arcivescovi Scherlatti e Moricotti (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana) e Saltarelli in S. Caterina, o la Madonna del latte (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo). Tommaso Pisano è invece autore, tra l'altro, del polittico marmoreo con Madonna con il Bambino e santi in S. Francesco.A scultori diversi, variamente derivati da Giovanni, si devono il monumento funebre della famiglia della Gherardesca in Camposanto, avvicinabile anche a Lupo di Francesco, il meno valido pulpito di S. Michele in Borgo, di cui si conservano frammenti al Mus. Naz. di S. Matteo, volgarizzante il prototipo del duomo, e il monumento a Ligo Ammannati, in Camposanto, del settimo decennio del secolo.La tipologia delle statue lignee, dopo esempi giovanneschi, come il drammatico crocifisso (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), conta episodi dovuti a Nino Pisano e a Francesco di Valdambrino (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo).Tra le oreficerie si segnalano le placchette in argento dorato ritenute tradizionalmente della 'cintola' tesa intorno al duomo per la festa dell'Assunta, a figure sbalzate su fondo a smalti, dell'ambito di Nicola Pisano (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana).

Pittura e miniatura

A parte alcuni scarni lacerti di pitture decorative in varie chiese, a partire da quelli, precocissimi, con motivo a greca, all'interno di una monofora di S. Zeno, di età ottoniana, nulla resta della decorazione murale in città sino a date relativamente tarde, nel pieno Duecento. La pittura del sec. 12° è meglio studiabile in grandi opere miniate come i quattro volumi della Bibbia atlantica di Calci (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo), eseguiti per il monastero di S. Vito nel 1168 a opera di Adalberto (v.) e Viviano, che traducono stilemi e iconografie bizantine non senza originali adattamenti, e sulle più antiche croci dipinte, come quella da S. Paolo all'Orto (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo) o quella di S. Frediano, che testimoniano una ininterrotta evoluzione pittorica basata in particolare su questa tipologia iconografica, tra i cui prodotti più significativi resta la croce dal S. Sepolcro (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo, già nr. 15), dell'inizio del Duecento, con Cristo vivo e colorate storiette dal carattere vivace e popolaresco. I nuovi e diretti apporti bizantini osservati per la scultura trovano invece un importante, ben noto parallelo nella croce da S. Matteo (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo, già nr. 20), certo di artista costantinopolitano, grande e nobile composizione incentrata sul Cristo morto, con dolenti e storiette a slanciate figurine, tra fondali a padiglioni, che peraltro la tipologia e i contenuti iconografici denunciano eseguita a P. e non importata. L'influenza di questo capolavoro si va a combinare con l'insegnamento della tradizione precedente e con la personale forza espressiva nell'opera di Giunta Pisano (v.), conducendo alla iconografia del Cristo sofferente, o patiens, dai tipici lineamenti tirati del volto e dalla postura inarcata su un lato per il protagonistico abbandono del corpo, creata da istanze di realistica drammaticità di origine mendicante ma ben condivise dallo spirito misticamente teatrale dell'artista. Giunta Pisano lasciò in patria la croce di S. Ranierino e forse la più discussa croce processionale a due facce da S. Paolo a Ripa d'Arno, entrambe conservate al Mus. Naz. di S. Matteo, la prima testo fondamentale per le due successive generazioni di pittori pisani. Ne discendono per es. il dossale con S. Francesco e storie, per la chiesa pisana del santo, la ricercata croce di S. Pierino, non immune da influssi lucchesi, e le opere di Enrico di Tedice, come la croce di S. Martino, tavole ancora in situ.Quest'ultimo pittore fu a capo di una bottega familiare che, con il fratello Ugolino e il figlio di questi, Ranieri, giunse a operare fino all'inizio del Trecento, passando da forti modi giunteschi a una graduale assimilazione di stilemi cimabueschi, significativamente delineando una evoluzione che si deve ritenere emblematica dell'intero ambiente pittorico cittadino. Cimabue stesso fu in città almeno due volte, per la grande Maestà del 1290 ca. (Parigi, Louvre), di compatto e nuovissimo plasticismo, e per il mosaico absidale del duomo, di cui eseguì il delicato e realistico S. Giovanni Evangelista, al fianco del ben più tradizionale Cristo di Francesco da Pisa, alla vigilia della morte, avvenuta a P. nel 1301. Il suo passaggio ha lasciato una forte impronta anche sui più alti pittori pisani contemporanei. Lo dimostra inoltre l'interessante personalità del Maestro di S. Martino (v.), autore di una Maestà con Storie di s. Anna e di Maria (su trono parafrasante la tavola cimabuesca) e di una S. Anna con Maria, entrambe nel Mus. Naz. di S. Matteo, che nell'ultimo decennio del secolo unirono le novità iconografiche e prospettiche fiorentine alle coloriture vivaci, ai linearismi - campeggianti qui in ampie lumeggiature - e alle intense espressività raccolte sui migliori testi pisani. Forse suo anche l'Exultet pisano dal duomo (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana).Dal periodo del soggiorno di Cimabue, P. fu però soprattutto interessata dall'attività di artisti forestieri, al contrario di quanto avvenuto per la scultura. Oltre alla Stigmatizzazione di S. Francesco di Giotto (Parigi, Louvre), inviata alla chiesa di S. Francesco nei primi anni del Trecento (trafugata dai Francesi con la Maestà di Cimabue), è da ricordare il soggiorno del lucchese Domenico Orlandi, che dipinse il nuovo ciclo petrino di S. Piero a Grado (1298-1301), o Memmo di Filippuccio, che con i suoi corali per S. Francesco (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo) aprì la strada alla penetrazione in città degli artisti senesi. I pittori pisani, come il Maestro di S. Torpè, autore di alcune tavole e di una Madonna con il Bambino a fresco sull'arco trionfale del duomo, risentirono variamente di queste diverse e significative presenze aggiornando i propri stilemi, ma persero la precorsa capacità d'invenzione e, si può dire, pressoché ogni peculiarità locale di linguaggio. Il fenomeno si accentuò nei successivi decenni con la lunga attività a P. della bottega martiniana - cui spetta il polittico di S. Caterina (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo) con parti riferibili a Simone Martini - e, in specie, di Lippo Memmi (v.), spesso presente a P. tra il 1320 e il 1335, che ebbe a collaboratori alcuni artisti locali, come Francesco Traini (v.) o il ripetitivo Giovanni di Nicola. Tra i molti prodotti di questi artefici si ricordano il polittico della parrocchiale di Casciana Alta sulle colline pisane, eseguito per il duomo; un altro polittico, smembrato, per S. Paolo a Ripa d'Arno; il noto Trionfo di s. Tommaso in S. Caterina; i mosaici absidali dei transetti del duomo con Annunciazione e Assunzione; affreschi, di cui resta la Crocifissione, del Camposanto; infine, numerose opere miniate, in particolare antifonari e corali.Con il quarto decennio del Trecento era iniziata l'affrescatura del Camposanto, ambizioso e immane compito, durato per oltre un secolo, cui Buonamico Buffalmacco (v.) diede tra i primi il proprio contributo, tra il 1336 e il 1340, con il celebre Trionfo della Morte, il Giudizio finale, le vite di anacoreti e scene cristologiche, seguito da Stefano Fiorentino e Taddeo Gaddi (v.), con la perduta Assunzione e le Storie di Giobbe, mentre Bernardo Daddi (v.) aveva forse inviato a P. un polittico. Lo stesso Taddeo fu attivo anche in S. Francesco, nel 1342, alla realizzazione dei perduti affreschi della cappella maggiore, le cui volte erano appena state dipinte da un senese, detto Maestro degli Ordini dal soggetto della sua opera, i santi fondatori di Ordini religiosi.Nel secondo Trecento Barnaba da Modena (v.) lasciò a P. opere su tavola, tra cui il polittico di Ripoli (Pisa, palazzo Arcivescovile). Andrea di Bonaiuto (v.) e poi Antonio di Francesco (v.) furono invece attivi in Camposanto alle Storie di s. Ranieri. Al veneziano si attribuiscono inoltre le Storie di Maria affrescate in una cappella annessa a S. Martino, e due notevoli opere su tavola: una bandinella processionale e un'Assunzione, entrambe nel Mus. Naz. di S. Matteo.Alla fine del secolo dipinsero in Camposanto l'orvietano Piero di Puccio, autore dal 1389 di prospetticamente innovative storie veterotestamentarie e di una Incoronazione della Vergine, e Spinello Aretino, cui spettano le Storie dei ss. Efisio e Potito oltre a un polittico in S. Francesco. Nell'ultimo decennio del Trecento viene ultimato il complesso francescano con gli affreschi neotestamentari di Niccolò di Pietro Gerini nella sala capitolare di S. Bonaventura e le Storie di Maria del senese Taddeo di Bartolo nella cappella di sacrestia.L'intera seconda metà del secolo vide anche attiva una scuola locale, che sotto Francesco Neri da Volterra raggruppò come allievi Jacopo di Michele detto il Gera, Cecco di Pietro, Neruccio Federighi, Getto di Jacopo e, poi, Turino Vanni, autori per lunghi decenni di numerose, deboli tavole, tra le quali il polittico di Agnano di Cecco di Pietro e l'Assunta e santi di Neruccio Federighi, entrambi a P. (Mus. Naz. di S. Matteo), che a una cultura di base rimontante per larghi versi a Francesco Traini e ai suoi seguaci sommano singolarmente sporadiche influenze - stilistiche, iconografiche o compositive - raccolte dallo studio delle diverse pitture più recentemente apparse in Camposanto.

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