BONAMICI, Pietro Giuseppe Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11 (1969)

BONAMICI, Pietro Giuseppe Maria (Castruccio)

Claudio Mutini

Nacque a Lucca il 18 ott. 1710 da Francesco e da Maria Felice Rigola. La famiglia era di modeste condizioni economiche.

Studiò nel seminario di Lucca, poi a Pisa e infine a Padova, ove, al termine di un precoce apprendistato retorico, cominciò a comporre versi e orazioni in latino. Forte di questo patrimonio culturale, si trasferì nei primi anni del pontificato di Clemente XII a Roma, sperando di ottenere qualche incarico in Curia. Senonché l'unica proposta concreta circa una stabile sistemazione sembra che fosse l'invito rivoltogli dal cardinale di Polignac di seguirlo come segretario in Francia; per cui, deluso nelle proprie aspirazioni e convinto di poter far valere altrove una notevole preparazione letteraria, decise di abbandonare Roma e di presentarsi a Napoli alla corte di Carlo di Borbone.

Fu dapprima nominato cadetto nel reggimento di cavalleria, poi fu chiamato a far parte delle guardie del corpo del sovrano. In tale mansione egli partecipò alla battaglia di Velletri (1744), nella quale l'esercito borbonico riuscì ad avere la meglio su quello austriaco, ma quel che più contò per la sua carriera letteraria fu che del fatto d'armi il B. trasse argomento per una succinta narrazione in latino: il De rebus ad Velitras gestis commentarius dedicato a Troiano Acquaviva d'Aragona (che era stato suo protettore dal momento in cui il B. si era presentato alla corte napoletana) e pubblicato con la falsa indicazione di Lione (ma Lucca) nel 1746.

L'opera ebbe un'accoglienza favorevole non solo presso la corte di Napoli, ovviamente interessata a riscoprire il fatto d'armi in una prosa degna delle antiche gesta, ma presso il pubblico dei dotti, che ravvisò nel breve commentario i pregi stilistici di una perfetta prosa d'arte improntata alla descrizione di avvenimenti contemporanei. Tale fu il successo che l'autore, a soli tre anni di distanza dalla primitiva edizione, e mentre stava lavorando ad una maggioreopera storica, si decise a ristampare il commentario che vide ancora la luce a Lucca (sempre con la falsa indicazione di Lione) nel 1749.

La stessa corte di Napoli incoraggiò il B. a compilare una narrazione di più ampio respiro, tale da poter inquadrare l'avvenimento bellico narrato nel commentario nella serie di avvenimenti che riguar,davano gli stati della penisola al tempo della guerra di successione austriaca. Per raccogliere l'intero materiale occorrente il B., nel 1748, decise di compiere un viaggio nell'Italia settentrionale e si fermò, com'era naturale data la narrazione cui si stava accingendo, a Genova.

Il governo genovese accolse di buon grado l'iniziativa del B. intesa a raccogliere materiali nell'archivio cittadino; dato però che le notizie avrebbero potuto assumersi da fonti insicure e il B. avrebbe potuto compilare una storia più svantaggiosa che giovevole alla Repubblica nel particolare frangente politicomilitare, il governo decise di assecondarlo, anche oltre le sue stesse speranze, al patto però che egli accettasse le informazioni che la Repubblica era disposta a fornirgli.

Il desiderio del governo genovese di porre una concreta ipoteca sulla docilità della storia che il B. stava redigendo era probabilmente motivato dalle notizie che sull'autore giungevano copiose a Genova circa la venale spregiudicatezza di cui egli aveva fatto mostra a Roma come a Napoli. Il 10 sett. 1748 veniva sborsato al B. un acconto di 150 zecchini (sui 500 pattuiti per l'opera finita): elemento che dovette notevolmente accelerare la stesura almeno del primo libro della storia, tanto che il B. nei primi mesi del '49 già ne sollecitava, a Roma, la pubblicazione.

La sperata benevolenza di Benedetto XIV (al quale il B. aveva dedicato la ristampa del commentario) venne tuttavia a mancare e la pubblicazione si faceva attendere più di quanto egli avesse previsto, anche per il sospetto da parte dei diplomatici del re di Sardegna che si parlasse nella storia in termini meno che riverenti nei riguardi del sovrano, e le scarse cure del cardinale Orsini, al quale la corte di Napoli aveva affidato l'incarico di patrocinare l'opera presso la Curia. La Repubblica genovese inoltre era restia a patrotrocinare direttamente la pubblicazione soprattutto per l'aperta ostilità verso l'opera del diplomatico piemontese G. B. Rivera. Si pensò quindi di pubblicare l'opera a Genova, mantenendo tuttavia il segreto di stampa.

Vide così la luce il De bello italico, con la solita indicazione di Lione, tra il 1750 e il '51. Il primo libro apparve dedicato a Carlo di Borbone, il secondo a Filippo duca di Parma, il terzo alla Repubblica di Genova: ciò di cui il governo espresse pubblici ringraziamenti mediante l'elargizione al B. di una gratifica di altri 100 zecchini.

Il successo dell'opera fu anche questa volta notevolissimo: si accostò il De bello italico ai commentari cesariani e si ravvisò nel B. il più dotato fra gli scrittori in latino della sua generazione. L'unico ostacolo che gli rimaneva ancora da superare era l'avversione (tutt'altro che letteraria) del diplomatico piemontese, per cui il B. si rimise alla mediazione del gesuita Giulio Cesare Cordara, amico del Rivera. Neanche la benevolenza dei Cordara riuscì tuttavia a minimizzare il truce ritratto che il B. faceva, nella sua storia, di Carlo Emanuele III, raffigurato mentre tirannicamente ambiva ad estendere il proprio dominio ai danni di Genova.

Interpellato dal Cordara, il Rivera faceva tuttavia rassicurare il B. che da parte di Carlo Emanuele non sarebbero state prese contro di lui particolari misure repressive; ci si sarebbe invece limitati a proibire la diffusione dell'opera nei territori dei domini sardi, mentre personalmente il ministro esprimeva il rammarico che Genova e non Torino fosse stata capace di guadagnarsi la penna del B.: riflessione quanto mai significativa non solo per giudicare della disponibilità dello scrittore, ma per riconoscere al De bello italico una effettiva forza oratoria che supera largamente l'impegno storiografico del Bonamici.

Dopo la pubblicazione dell'opera il B. si trasferì per breve tempo a Roma, donde ripartì per Napoli, dove probabilmente continuava a godere di maggiori favori presso la corte borbonica. E tuttavia la città non lo soddisfaceva completamente, anzi lo infastidiva, come si deduce da una serie di giudizi contenuti nelle lettere che il B. scambiava in questo periodo con il senese Giulio Savini. "Già Napoli non mi è piaciuta mai: - scriveva nel 1753 - dopo Siena poi mi dispiace a segno di farmi dar nelle furie e far delle continue giaculatorie al Vesuvio, perché una buona volta finalmente spenga questa razza". Finì tuttavia con l'avvezzarsi alla vita napoletana, che dopo tutto, e a parte i fastidiosi impegni a corte, sembrava garantirgli deliziosi passatempi. Scriveva nel 1754: "Abbiamo io ed altri miei compagni fatte in questo Carnevale in festini e cene spese lucullèe, e ora mi convien pagare. Così dai piaceri si passa ai dolori, e dai dolori ai piaceri, che vale a dire si vive la vita".

Dal periodo di questa corrispondenza si fanno più rare le notizie sul Bonamici. Spinto forse dal desiderio di una migliore sistemazione o costretto dalla precarietà delle condizioni di salute, si ridusse negli ultimi anni nella nativa Lucca, dove morì il 22 febbr. 1761.

L'edizione complessiva che raccoglie tutte le opera del B. è quella, ordinata da Giovan Battista Montecatini, che raccoglie anche i lavori del fratello Filippo Maria: Philippi et Castrucci fratrum Bonamicorum, lucensium, opera omnia, Lucca 1784. In essa si legge un discorso in onore di Clemente XII (De laudibus Clementis XII Summi Pont. oratio) e una De literis latinis restitutis oratio; entrambi i lavori sono naturalmente da riferirsi al primo soggiorno romano dello scrittore. Il Mazzuchelli accenna infine a un'inedita De scientia militari, composta a Napoli, come l'Orazione per l'apertura dell'Accademia Reale d'Architettura Militare.

Nell'orizzonte di questa produzione occasionale emerge il De bello italico come opera di un retore più esperto e smaliziato, che dalla lezione dei classici riesce a estrarre un modello, oltre che letterariamente accettabile, confacente alla propria indole e temprato a uno stile personale di vita. Per il B., che cambiò il proprio nome in quello dell'eroe lucchese già idealizzato dal Machiavelli, i Commentari di Cesare non rappresentarono soltanto un esempio di concinnitas espressiva, di atticismo retorico, ma un modello di individuale spregiudicatezza rispetto agli eventi per cui gli avvenimenti potevano essere soggiogati dall'indole volubile dello scrittore, interpretati secondo il suo indocile arbitrio e giudizio.

Bibl.: Dell'opera del B. fanno naturalmente menzione gli studi che hanno avuto per oggetto anche non immediato la battaglia di Velletri. Cfr. per tutti M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, I, Milano 1923, pp. 372 ss. Cfr. inoltre G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, pp. 2313 ss.; G. Sforza, Episodi della storia di Roma nel sec. XVIII, in Arch. stor. ital., s. 4, XIX (1887), pp. 222 ss.; F. Colonna di Stigliano, Un senese brontolone alla corte di Napoli, in Napoli d'altri tempi, Napoli 1911, pp. 131 ss.; A. Neri, Le relazioni di Castruccio Buonamici con il governo genovese, in Riv. ligure di scienze, lett. ed arti, XXXIX (1912), pp. 158 ss.; F. Nicolini, Uomini di spada, di Chiesa, di toga, di studio ai tempi di Giambattista Vico, Milano 1942, pp. 66 ss.; G. Natali, Il Settecento, Milano s.a., pp. 528 s., 558 s.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE