GIANNONE, Pietro

Enciclopedia Italiana (1932)

GIANNONE, Pietro

Fausto Nicolini

Nato il 7 maggio 1676 a Ischitella, da Scipione e Lucrezia Micaglia, e recatosi intorno al 1692 a Napoli per erudirsi nella giurisprudenza, la sua fiammeggiante passione politica e le sue tendenze di polemista e pamphlétaire (nel senso alto della parola) gli resero particolarmente care le questioni giurisdizionali, divampate allora ardentissime nel Regno. Sicché, laureatosi (1698), mentre, prima nello studio di Gaetano Argento, poi da sé, esercitava con crescente successo l'avvocatura, prese a studiare tali questioni (1702-1722), non già, come allora usava, caso per caso, e, più che altro, dal punto di vista dottrinale, bensì complessivamente e nel loro corso storico, procurando d'inquadrarle in un'opera di grande mole. La quale - pubblicata a Napoli nel marzo del 1723 e ispirata a un anticurialismo lontano, nella lettera, dall'eterodossia, ma già volterriano nello spirito - narrava, o avrebbe dovuto narrare, l'Istoria civile del Regno di Napoli, ossia le vicende politiche, giuridiche, culturali e religiose dell'Italia meridionale dalle origini del cristianesimo alla fine del sec. XVII.

Plagi veri o immaginarî, disuguaglianza di preparazione, errori materiali di fatto sono stati rimproverati all'Istoria più volte (p. es. dal Manzoni). Ma, a dir vero, più che in questi e altrettali difetti particolari - che sono compensati dalla grandiosa larghezza della trama, dalla ricchezza d'informazione, dall'ordinata distribuzione della materia, dalla lucidità d'esposizione - l'intima debolezza e conseguente caducità dell'opera sta nel fondamentale errore metodico per cui il G. pose la sua ricostruzione storica a totale servigio della sua fede politica. Da ciò la necessità di far convergere artificiosamente tutta la storia del Mezzogiorno d'Italia, così caotica e meno di ogni altra riconducibile a un unico motivo ispiratore, intorno alla lotta tra stato e chiesa; l'astratta e fantastica configurazione dello stato come bene assoluto, progresso, civiltà, forza generosa, e della chiesa come male, regresso, oscurantismo, malizia frodolenta; lo scarso o nessun rilievo dato alle diverse fisionomie dei singoli personaggi storici, costruiti tutti d'un pezzo e tutti allo stesso modo, cioè, pur con differenze in più o in meno, presentati come vasi d'ogni virtù se uomini di stato, d'ogni nequizia se uomini di chiesa; l'ipercritica, e sovente la cavillosità avvocatesca, con cui i documenti non collimanti coi fini pratici dell'autore sono sforzati e stravolti; e via enumerando. Sennonché, qualora non si tenga presente ciò che il G. annunziò di fare e non seppe o non volle fare (o, meglio, seppe o volle soltanto parzialmente), ma, valutando l'Istoria dall'esclusivo punto di vista dell'efficacia didascalica (solo requisito essenziale degli scritti di propaganda), la si consideri un colossale pamphlet o allegazione o requisitoria, è da dire che pochi libri, nella pubblicistica politica del sec. XVIII, le stanno a paro. Da ciò, la risonanza immediata, immensa, relativamente duratura, ehe essa ebbe in tutta Europa; le lodi entusiastiche di uomini come il Montesquieu, il Voltaire e il Gibbon; il bisogno che si sentì, malgrado la mole e l'argomento regionale, di tradurre integralmente in inglese, francese e tedesco quelle duemila e più pagine in quarto; il subito e spontaneo sorgere della parola "giannonismo", adoprata ancora oggi per designare le tendenze giurisdizionalistiche dell'autore; l'ufficio, a cui l'Istoria vacò per decennî, di bibbia dell'anticurialismo; il riconoscimento concorde di uomini di stato e scrittori politici napoletani (Tanucci, Galiani, Caracciolo, Eleonora Fonseca-Pimentel, ecc.) che quel libro aveva fatto del Regno una "nuova nazione"; e, che forse vale più di tutto, la guerra implacata che la curia pontificia mosse alla persona e, dopo la morte, alla memoria stessa del G.

Il quale, scomunicato dall'arcivescovo di Napoli (marzo 1723), minacciato dalla plebaglia, non difeso dall'autorità politica locale, era costretto a rifugiarsi a Vienna presso Carlo VI, che gli concesse asilo e una pensione annua di mille fiorini. E là, mentre Roma poneva il libro all'Indice (1724) e lo dava via via a confutare al canonico Torno, all'arcivescovo Anastasio, al gesuita Sanfelice, al chierico regolare Paoli, al minore osservante Bianchi, al vescovo Tria, ecc., egli, oltre che a farvi molte giunte e correzioni, comparse primamente nella traduzione francese (1742), attendeva anche (1723-34) da un lato, a difenderne, chiarirne e svilupparne alcuni punti in una decina di trattatelli polemici (Sulle scomuniche invalide, Sull'apostolica legazia, Professione di fede, Risposta alle "Annotazioni" del Paoli, Sull'arcivescovato beneventano, ecc.) e a comporre l'altra sua opera maggiore, conosciuta col titolo, non suo, di Triregno.

L'importanza precipua di quei trattatelli, rifusi parzialmente nella postuma Apologia dell'Istoria civile, sta nel fatto che da essi, meglio che dall'Istoria, si ricava un programma d'azione politica: programma che, - poi quasi tutto attuato a Napoli lungo un settantennio e fondato sul principio che la chiesa, di diritto non gode se non d'un'autorità meramente spirituale e che se, nel fatto, fruisce altresì di attribuzioni temporali, ciò essa deve a concessioni, consce o inconsce, dello stato, a cui Dio ha dato, intera e senza mediazione, la sovranità - propugna l'abolizione della chinea, l'esercizio pieno del regio exequatur, la riduzione del foro ecclesiastico, il nazionalizzamento e successiva abolizione dell'Inquisizione, l'invalidità giuridica delle scomuniche non riconosciute dallo stato, la compiuta avocazione a questo della censura preventiva e repressiva della stampa, il ritorno del diritto d'asilo allo stato di fatto anteriore alla bolla estensiva di Gregorio XIV, il divieto di conferire benefici ecclesiastici del Regno a non regnicoli, la non obbligatorietà delle decime, la proibizione a qualunque ente ecclesiastico di acquistare nuovi beni stabili, la graduale soppressione della manomorta, la sottoposizione dei beni ecclesiastici a tutte le imposte, la repressione degli ordini religiosi. E, circa i tre libri del Triregno, sebbene l'autore li scrivesse per la migliore conoscenza del suo "essere di uomo interiore" e non li destinasse alla pubblicità (videro la luce non prima del 1895), il suo ardore politico e polemico era così travolgente che gli riuscirono, per dir così, un'Istoria civile potenziata. Giacché, non più contento di lasciare al papato la mera potestà spirituale, non disgiungibile, nella pratica, da temporalità e inframmettenze nella sovranità laica, egli afferma che, pel libero svolgimento di quest'ultima, convenga sopprimere papato e gerarchia ecclesiastica, privare il clero d'ogni bene temporale e sottoporlo in tutto e per tutto allo stato. Tesi politica poggiante anch'essa su un'impalcatura storica o pseudostorica, nella quale il G., non senza avvalersi anche del Tractatus theologicus politicus dello Spinoza, sostiene che nell'antichità ("regno terreno") nessun popolo, Ebrei compresi, credeva alla resurrezione della carne e alla vita eterna: due dogmi proclamati primamente da Cristo, e ai quali e all'Incarnazione del Verbo si riduce l'essenza del cristianesimo puro ("regno celeste"); ma intorno ai quali coloro che si fecero ministri della nuova religione, e segnatamente colui tra essi che usurpò sugli altri e sul mondo intero un potere monarchico e tirannico, intesserono, a scopo di ricchezze e prepotere, un tal groviglio di miti, leggende e piae fraudes, da restaurare un nuovo regno terreno, più pagano dell'antico ("regno papale"). Il che mostra quanto, anche nel Triregno, il G. resti l'uomo del secolo degli Enciclopedisti e quanto siano lontani dal vero quei critici che, per poche, problematiche e inconcludenti coincidenze in particolari secondarî, hanno fatto di quell'opera qualcosa d'analogo alla Scienza nuova del Vico, del quale, se mai, il G. è l'antitesi più perfetta e verso cui, del resto, espresse in lettere private la più sprezzante commiserazione.

La riconquista ispano-borbonica del Regno (1734) e la conseguente perdita della pensione gravante sul bilancio delle Sicilie inducevano, intanto, il G., lasciato il sicuro asilo viennese, a tentare di tornare in patria. Sennonché, giunto a Venezia, su richiesta della corte di Roma gli fu inibito da Madrid e da Napoli l'ingresso nel Regno, e l'anno appresso si riuscì a farlo cacciare di notte, armata manu, dagli stati della Serenissima, e poi a farlo fuggire da Modena. Sfrattato anche da Milano, si recò a Ginevra (1735), dove avrebbe trovato pace se, convertendosi pubblicamente al calvinismo, avesse dato agio a Roma, che a questo patto l'avrebbe lasciato tranquillo, di provare al mondo cattolico che nell'animo del G. ferveva non il semplice anticurialismo, bensì, com'era in effetti, un ostile anticattolicismo. Ma, appunto perché codesta apostasia avrebbe tolto efficacia all'opera sua, egli tenne, come non mai, ad abbondare in manifestazioni estrinseche del culto avito: di che, previe intese con la cancelleria papale, approfittò il marchese d'Ormea, primo ministro sabaudo, per porgli ai fianchi un agente segreto (tal Gastaldi), che, convintolo dell'opportunità di adempiere al precetto pasquale nella più vicina terra cattolica (Vesna di Savoia), seppe fargli accettare l'invito a trascorrervi qualche giorno in casa sua, salvo a farvelo arrestare e a condurlo prigione a Chambéry, donde quel governatore (il conte Picon), che, con analogo tranello, s'impadroniva dei manoscritti lasciati dall'esule a Ginevra, lo avviava al castello di Miolans (aprile 1736). Secondo il convenuto, Roma chiese la consegna delle carte e del loro autore; ma, se le si diedero quelle, s'ebbe ritegno a darle anche questo, circa il quale le si assicurò, in compenso, che lo si sarebbe ritenuto in perpetua prigionia negli stati sardi e gli si sarebbe strappato un atto di abiura. Pertanto da Miolans, ove scrisse un'ampia autobiografia (fonte di prim'ordine anche per la vita letteraria napoletana e per quella italo-spagnola a Vienna, durante la prima metà del Settecento), venne trasferito (settembre 1737), nelle carceri di Torino, ove, separato da un suo figliuolo, fin allora suo compagno di cattività, privato di libri e dell'occorrente per scrivere, sottoposto alla quotidiana catechizzazione di un padre Giambattista Prever, a volta a volta minacciato di consegna a Roma o blandito con lusinghe di non lontana liberazione, finì, dopo sei mesi di resistenza, col firmare l'atto che si desiderava (marzo 1738). Nel giugno del 1738 lo si rinchiuse nel castello di Ceva nelle Langhe, ove restò fino al settembre del 1744, occupando il "disperato ozio" con la stesura di quattro opere storiche - i Discorsi sulle deche di Tito Livio, l'Apologia dei teologi scolastici, la Chiesa sotto il pontificato di Gregorio Magno e l'Ape ingegnosa - nelle quali, malgrado una maggiore cautela e qualche professione di fede cattolica, si risente spesso l'eco dell'Istoria e del Triregno. Per esigenze militari fu trasferito ancora una volta nelle carceri della cittadella di Torino, ove, vittima altresì della brutalità d'un aiutante, Giambattista Caramelli, morì il 17 marzo 1748.

Bibl.: Una compiuta bibliografia ragionata in F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P. G., Bari 1914. Posteriormente, F. Nicolini, Le teorie politiche di P. G., Napoli 1915; B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari 1925.

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