MONTORO, Pietro Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MONTORO, Pietro Francesco

Filippo Crucitti

MONTORO, Pietro Francesco. – Nacque a Narni nel marzo 1558 da Costantino e da Dianora Cortesi, romana, figlia di Pietro Francesco; il 28 dello stesso mese fu battezzato nella locale chiesa di San Giovenale.

Ebbe quattro fratelli e due sorelle: Giambattista, marchese di Montoro dal 1590, che sposò la genovese Girolama Pallavicini; Brigida; Gianrinaldo; Federico, che sposò la marchesa Porzia Gabrielli; Ottavio; e Laura, che sposò il marchese napoletano Giovanni Antonio Citarella. Degli zii paterni, Paolo fu canonico di S. Eustachio a Roma, abate commendatario di Chiaravalle presso Milano e priore di S. Marta di Frignano (Castelleone) nella diocesi di Cremona; Gianfrancesco fu rettore della chiesa di S. Maria del Monte di Montoro. Fu imparentato con tre cardinali della famiglia Cesi: Paolo Emilio e Giovanni Federico, fratelli della nonna materna Brigida, e Bartolomeo (1568-1621), suo cugino; il prozio materno, Giacomo Cortesi, fu vescovo di Vaison e patriarca di Alessandria.

Il padre, stabilita a Roma la residenza della famiglia secondo una clausola del contratto di matrimonio del 13 gennaio 1555, avviò Montoro, ancora adolescente, alla carriera ecclesiastica. A soli 14 anni, il 17 giugno 1572, acquisì le rendite del priorato di S. Marta di Frignano cedutegli, col consenso di Gregorio XIII, dallo zio Paolo. Studiò all’Università di Padova dove, il 6 luglio 1581, si laureò in utroque iure. Tornato a Roma, nel 1582 fu nominato referendario delle due segnature. Il 7 marzo 1583 subentrò allo zio Gianfrancesco come rettore di S. Maria del Monte di Montoro. Il 1° gennaio 1586, dopo la riforma di Sisto V che ridusse il numero dei referendari, fu confermato nell’incarico con bolla dello stesso pontefice. Il 29 novembre dello stesso anno, dopo la morte del padre Costantino, aderì alla primogenitura istituita in favore del fratello Giambattista in cambio di una rendita annua di 200 scudi. Nel 1587 fu governatore di Fano e, dal 27 luglio 1588 al 27 settembre 1589, vicegovernatore di Fermo sotto il governatorato del cardinale Alessandro Peretti.

L’elezione di Clemente VIII fece ipotizzare per Montoro, protetto del cardinale nipote Cinzio Passeri Aldobrandini, conosciuto probabilmente a Padova durante gli studi universitari, un cursus honorum di rilievo presso la corte papale. Tuttavia la rivalità esplosa tra Cinzio e l’altro cardinale nipote, Pietro Aldobrandini, e il prevalere di quest’ultimo nella gestione del potere, ne rallentarono l’ascesa, e anzi fu proprio l’opposizione di Pietro a impedirgli di conseguire, durante il pontificato clementino, il cappello cardinalizio al quale fu più volte candidato.

Il 23 maggio 1592 fu inviato Parigi con Girolamo Agucchi, Marcantonio Bellino e Carlo Montilio, vescovo di Viterbo, per consegnare a Filippo Sega, nunzio in Francia, la bolla, la berretta cardinalizia, la croce della legazione e le facoltà. Rimase a Parigi e collaborò col nunzio nel periodo in cui, dopo l’estinzione del ramo maschile della casa di Valois, si decidevano le sorti della corona di Francia e si preparava la conversione al cattolicesimo di Enrico IV di Borbone (25 luglio 1593). Il 16 dicembre 1593 tornò a Roma, dove riferì a Clemente VIII e ai nipoti l’opinione del nunzio che la conversione di Enrico fosse solo apparente e il consiglio di temporeggiare e intanto di sostenere la Lega cattolica. Le capacità dimostrate in questa missione e le ottime referenze di Sega gli fecero ottenere il 7 febbraio 1594 il vescovato calabrese di Nicastro.

Prese possesso il 24 marzo 1594 tramite un procuratore e raggiunse Nicastro il 19 maggio. Effettuò una visita pastorale e tenne un sinodo il cui risultato inserì nella sua prima relazione sullo stato della diocesi (16 aprile 1595) che consegnò personalmente a Roma in occasione della visita ad limina di quell’anno. Tornò quindi in Calabria dove sostenne un’aspra contesa con i nobili della diocesi, in particolare con il duca di Feroleto (prima Ferrante Caracciolo, poi, dopo la morte di costui, il 2 giugno 1596, il nipote omonimo che per la giovane età era affidato alla tutela dello zio Giovanni Antonio Caracciolo), con i funzionari vicereali e con una parte del clero. Il conflitto tra il vescovo, «nobile romano, altero, risentito, tutto imbevuto de’ principi della supremazia ecclesiastica » (Amabile, 1882, I, p. 114) e il potere civile, riguardò essenzialmente il recupero di pascoli e terreni su cui Feroleto accampava diritti e la salvaguardia delle immunità ecclesiastiche, in particolare del diritto di asilo. La contesa si accese ancor più quando Montoro, che per le rendite del vescovato si era scontrato anche col nunzio pontificio a Napoli Jacopo Aldobrandini, scomunicò gli ufficiali della città e il commissario della Regia audientia venuto a notificargli un decreto del Regio consiglio che riconosceva al duca il diritto ai frutti dei terreni contestati. Quando il governo vicereale lo dichiarò decaduto dal vescovato e, il 31 gennaio 1598, ne sequestrò le rendite, egli lanciò l’interdetto contro la città e tornò a Roma.

Il 16 aprile 1598 fu tra i prelati incaricati di scortare il Ss. Sacramento che precedeva Clemente VIII e la corte papale in viaggio verso Ferrara per la presa di possesso del ducato. Da Ferrara laboriosi negoziati furono avviati tra Cinzio Aldobrandini e Antonio Fernández de Córdoba y Cardona, duca di Sessa e ambasciatore spagnolo presso la S. Sede, sulla questione di Nicastro; a settembre il papa ne scrisse direttamente a Filippo III e nel mese successivo fu concluso un accordo che Montoro considerò un successo perché soddisfaceva la sua richiesta di interdire l’esercizio di qualunque ufficio pubblico nel territorio della diocesi ai funzionari che gli si erano contrapposti. Nonostante la ricomposizione della vertenza e la revoca dell’interdetto (marzo 1599), Montoro non tornò a Nicastro: dal 13 ottobre 1598 accompagnava, col permesso del papa, il cardinale di S. Giorgio in fuga da Ferrara per essere stato sopravanzato nella considerazione di Clemente VIII da Pietro Aldobrandini. Con lui fece tappa a Venezia, Padova e Vicenza, all’abbazia di Felonica presso Verona (21 ottobre), a Piacenza (novembre), Milano (dicembre), Genova (aprile 1599) per tornare, il 7 maggio 1599, a Roma dove si trattenne per più di cinque anni. Non sembra plausibile l’ipotesi (Amabile, 1882, I, pp. 251 s.) che non fosse tornato a Nicastro per avere segretamente sostenuto, l’anno precedente, la congiura di Tommaso Campanella. È vero che aveva lottato contro gli abusi baronali e le prepotenze dell’amministrazione spagnola, ma l’orgoglio di nobile romano e l’esperienza maturata al seguito del cardinale Sega fanno ritenere poco credibile un suo sostegno alla rivoluzione di un domenicano che forse non aveva neanche conosciuto. È probabile invece che sia rimasto presso la corte papale per non isolarsi in una piccola diocesi periferica che gli aveva già creato tanti problemi e continuare a sperare nella promozione cardinalizia.

A Roma, nell’ambiente dell’Accademia filosofico-letteraria di Cinzio Aldobrandini, che aveva ormai quasi del tutto abbandonato la vita politica, Montoro conobbe Martin Haesdael, canonico di S. Paolo, studioso di Paracelso e della filosofia chimica e spagirica. In una lettera del 24 settembre 1621 Haesdael gli ricordò che, molti anni prima, lo aveva ricevuto di notte in casa sua e gli aveva consegnato dei libri di Paracelso destinati all’Accademia del cardinale di S. Giorgio. Negli incontri Montoro e altri intellettuali dibattevano di filosofia, alchimia e scienze naturali nell’arduo tentativo di armonizzare i nuovi saperi con la teologia e la tradizione facendo attenzione a non oltrepassare i confini dell’ortodossia. Nella stessa lettera Haesdael si offrì di fornirgli, sempre che egli ne fosse stato ancora interessato, una cospicua quantità di nuove pubblicazioni su tali materie, provenienti dalla biblioteca segreta dell’imperatore Rodolfo II, di cui era stato per anni il segretario. Nell’ambito dell’Accademia Montoro conobbe anche Marcantonio De Dominis, arcivescovo di Spalato dal 1602, che nel 1616, in polemica con la chiesa di Roma, rinunciò alla carica vescovile e abbracciò l’anglicanesimo. All’inizio del 1622, quando in De Dominis stava maturando la decisione di tornare al cattolicesimo, Montoro ebbe con lui da Colonia uno scambio epistolare e lo sollecitò a compiere questo passo confidando nel perdono del papa.

Deluso per l’esclusione dalla promozione cardinalizia del 9 giugno 1604, Montoro tornò in Calabria ma fu richiamato poco dopo a Roma per essere nominato vicelegato di Avignone e del contado Venassino della cui legazione era stato insignito il cardinale di S. Giorgio. Ricevuto l’incarico il 12 novembre, partì l’11 dicembre insieme con il nuovo nunzio in Francia Maffeo Barberini col quale, giunto a Marsiglia per mare da Civitavecchia, ebbe uno scontro per la precedenza nel territorio di Avignone.

Durante il suo incarico trascurò sostanzialmente il tema della riforma ecclesiastica e riuscì solo a favorire la fondazione di un collegio di gesuiti a Carpentras. Le sue energie furono assorbite da problemi amministrativi e dai rapporti, non sempre facili, con l’ingombrante vicino francese: tentò di riformare l’elezione dei senatori di Avignone e Carpentras per scardinare consolidate posizioni di potere e vi riuscì solo in parte; cercò di porre sotto il suo controllo i magistrati di Avignone, entrando in conflitto col governo cittadino; intravide la possibilità di aumentare le entrate dello Stato quando gli fu chiesta una concessione per l’apertura di miniere di sale nelle montagne del Delfinato verso il confine francese; si scontrò più volte con i funzionari francesi per la dogana del Rodano, la libertà di commercio e il diritto di battere moneta, senza giungere mai a soluzioni stabili; intervenne nella questione di Orange, fortezza posta nel territorio del papa, posseduta dall’omonima famiglia ma comandata dall’ugonotto Alexandre de Mirabel de Forest, signore di Blacons; intavolò con lui trattative nel tentativo di convincerlo a cedere il suo posto a un comandante cattolico proprio mentre Enrico IV inviava una spedizione militare per impossessarsi della fortezza; sospettato di intesa con Blacons, fu costretto a giustificarsi sia con la corte papale sia con Parigi.

Ad Avignone Montoro incontrò Vincenzo de’ Paoli scappato per mare dalla Tunisia, dove viveva in schiavitù dopo essere stato rapito dai pirati barbareschi, e approdato sulle spiagge di Aigues Mortes, presso Marsiglia, il 21 giugno 1607. Lo accolse con entusiasmo in città e, al termine del suo incarico, lo condusse a Roma e lo ospitò per molti mesi nel suo palazzo.

Tornato a Roma nel novembre 1607, raggiunse la sua diocesi all’inizio del 1609, ma fu di nuovo alla corte papale alla fine di ottobre. Nel gennaio 1610, subito dopo la morte di Cinzio Aldobrandini, subì l’onta degli arresti domiciliari per aver lanciato un’accusa di corruzione, poi ritrattata, contro il cardinale Mariano Pierbenedetti e il giudice Marcantonio Tani. Rientrato a Nicastro per ordine del papa, tornò a Roma nei primi mesi del 1618 nel vano tentativo di ottenere la nunziatura di Parigi, ma gli fu ingiunto di ripartire per la Calabria. Il 5 aprile 1619 si propose, senza successo, per un incarico diplomatico in Francia. Verso la fine del pontificato di Paolo V chiese di rinunciare al vescovato e ne fu autorizzato, dopo l’elezione di Gregorio XV, il 16 febbraio 1621, mantenendo comunque il titolo di vescovo di Nicastro. Tornò a Roma alla fine di aprile e all’inizio di giugno, con l’appoggio dell’influente segretario di Stato Giovanni Battista Agucchi conosciuto nel 1592 a Parigi, fu nominato nunzio a Colonia; ricevute le istruzioni il 31 luglio, partì il 13 agosto e giunse a destinazione il 25 settembre.

Fondata nel 1584 come un avamposto del cattolicesimo verso il Nord protestante, nei primi decenni di attività la nunziatura di Colonia, più che caratterizzarsi come una rappresentanza diplomatica presso una corte principesca, costituì un centro di potere ecclesiastico con il compito di procedere a una riforma interna dei vescovati renani, in particolare quelli di Colonia e Liegi, secondo i dettami del Concilio di Trento e di tentare la riconquista dei vescovati protestanti del Nord della Germania, incarico affidato dopo il 1622 alla Congregazione di Propaganda fide. All’arrivo del nunzio la situazione nei territori dell’impero, dopo la vittoria di Jan T’serclaes, conte di Tilly, alla Montagna Bianca (8 novembre 1620) e la messa al bando dello sconfitto principe elettore protestante Federico V del Palatinato da parte dell’imperatore Ferdinando II (29 gennaio 1621), volgeva a favore dello schieramento cattolico. Lo stesso Federico vedeva ormai minacciato il proprio territorio e stava per perdere il titolo di elettore del Sacro Romano Impero che la S. Sede intendeva fosse devoluto al duca di Massimiliano di Baviera che aveva contribuito al successo militare in Boemia e applicato scrupolosamente i dettami della Controriforma nei suoi territori. Per tale devoluzione, Montoro dispiegò un’intensa attività epistolare verso i capi militari, i vescovi e i principi cattolici, in particolare verso l’arcivescovo di Magonza, Johann Schweikard, che sosteneva il diritto al titolo elettorale di Wolfgang Wilhelm del Palatinato-Neuburg in nome di una stretta parentela con la casa palatina e che, temendo un allargamento della guerra, intendeva acquisire il consenso di Spagna, Inghilterra e Sassonia prima di procedere alla devoluzione. Schweikard fu indotto cedere solo dopo un’estenuante trattativa di cinque giorni condotta da Montoro ad Aschaffenburg nel settembre 1622; la Dieta dei principi elettori che si concluse il 25 febbraio 1623 attribuì dunque a Massimiliano il titolo di elettore, ma solo per la propria persona; su consiglio dei tre vescovi elettori cattolici Montoro non prese parte alla Dieta, nonostante vi fosse stato destinato da Gregorio XV il 3 settembre dell’anno precedente. Intervenne invece nell’acquisizione, da parte della S. Sede, della Biblioteca Palatina di Heidelberg, che conteneva testi a stampa e manoscritti di notevole valore e stava particolarmente a cuore al papa. Già il 18 dicembre 1621 Gregorio XV aveva esortato l’arcivescovo di Magonza a prenderla sotto la sua protezione nel caso di una minaccia militare contro la città; quindi, di fronte all’avanzata dell’esercito cattolico nel Palatinato, incaricò Montoro di farsi garantire da Tilly la protezione dei manoscritti dal saccheggio e di esprimere al duca di Baviera il suo desiderio di entrarne in possesso. Dopo la caduta di Heidelberg (19 settembre), il 1° ottobre 1622 il papa si felicitò con Massimiliano ringraziandolo al tempo stesso del prezioso dono che aveva da lui ricevuto. Il 28 ottobre Leone Allacci, dottore in teologia e scrittore della Biblioteca Vaticana, partì per la Germania e ne ritornò portando con sé circa 3550 codici e 7000 libri a stampa.

Quanto alla riforma interna l’azione di Montoro, notevolmente frenata dallo stato di guerra e dalle epidemie del 1622-1623, si limitò alla diocesi di Liegi dove risiedette dal settembre 1622. Riuscì comunque ad influenzare le elezioni in alcune importanti sedi vescovili (Osnabrück, recuperata al cattolicesimo nel 1623, Würzburg e Treviri), cercò di intervenire, non sempre con successo, nelle discutibili gestioni di alcuni monasteri (Clarisse di Heilbronn, S. Agnese di Maaseik, S. Maria Laach, S. Maximin di Treviri) scontrandosi con le autorità civili o con i vescovi competenti e si adoperò per la restituzione dei beni ecclesiastici del Palatinato. La sua nunziatura si concluse nel 1624, quando Urbano VIII lo sostituì con il vescovo di Tricarico Pier Luigi Carafa. Il 12 agosto, dopo il passaggio delle consegne, Montoro si mise in viaggio per Roma sperando in altri incarichi di prestigio.

Guardò con interesse a un vescovato nello Stato pontificio, alla nunziatura di Napoli e a quella di Vienna e sperò di ottenere finalmente il cappello cardinalizio, ma le sue aspettative furono vanificate dai dissidi avuti con Maffeo Barberini al tempo della vice-legazione di Avignone. Negli anni 1624-1626 gli furono più volte chiesti consigli sugli affari di Colonia, fu incaricato di visitare la diocesi di Lodi, ma per il resto della vita dovette limitarsi all’incarico onorifico di vescovo assistente della cappella papale che deteneva fin dal 1594.

Morì a Roma il 6 giugno 1643 e fu sepolto in S. Maria del Popolo.

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