PIETRO da Verona, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PIETRO da Verona, santo

Marina Benedetti

PIETRO da Verona, santo. – Nulla si conosce della famiglia di questo frate predicatore e inquisitore (la tradizione secondo la quale proviene da una famiglia di eretici è solo agiografica), mentre la città del suo convento di origine è ipotizzabile dall’indicazione di provenienza nel suo nome.

Possediamo pochissime informazioni sulla sua vita, e il confronto tra sopravvivenze documentarie e diffusione iconografica è impari. La prima notizia certa risale al 1245, quando a Firenze prese parte in qualità di testimone alla condanna dei fratelli Pace e Barone. Le altre scarsissime notizie sulla sua attività precedente non sono corroborate documentariamente e vanno considerate con la massima cautela. L’erudito Bernardino Corio informa che – «sì come havemo trovato per uno autentico instrumento da noi vulgarizato» (Corio, 1978, p. 364) – nel 1232 frate Pietro fece inserire negli statuti cittadini su mandato di Gregorio IX la normativa antiereticale in collegamento all’attività preparatoria al grande moto dell’Alleluia del 1233. Secondo frate Galvano Fiamma, nella Chronica maior, a partire dal 1233 visse nel convento milanese di S. Eustorgio e nel 1240 venne nominato inquisitore da Innocenzo IV (Odetto, 1940, p. 326). L’anno successivo, nelle vesti di priore del convento di Asti, partecipò al Capitolo provinciale di Milano durante il quale venne nominato priore di Piacenza.

Il primo – e unico – dato certo sulla sua attività inquisitoriale è la lettera dell’8 giugno 1251 di Innocenzo IV con la quale si conferiva l’incarico per l’estirpazione dell’eretica pravità a Cremona ai frati Pietro da Verona e frate Viviano da Bergamo, e il giorno successivo ai frati Vincenzo da Milano e Giovanni da Vercelli a Venezia. Le lettere furono scritte durante una lunga permanenza del pontefice a Milano e a Genova (dal 15 maggio al 13 settembre 1251) e mostrano la conoscenza diretta del contesto locale. È degno di nota che i delegati papali nella lettera non sono mai definiti inquisitores. Meno di un anno dopo, il 6 aprile 1252, frate Pietro venne ucciso nel bosco di Barlassina presso Milano e la sua morte avrebbe provocato la conversione di oltre 200 buoni cristiani dualisti (o catari).

Non c’è ragione di dubitare che, al momento della morte, frate Pietro svolgesse funzioni inquisitoriali, come risulta dalla Gaudeamus in Domino del 18 maggio 1252 e dalla lettera di canonizzazione Magnis et crebris del 25 marzo 1253. L’autenticità di questa informazione non autorizza a dilatare la pervasività di un’azione repressiva in ogni caso compressa in tempi brevi. Due missive interne all’Ordine riferiscono che, un mese dopo l’assassinio, frate Romeo da Atencia scrisse a frate Raimondo da Peñafort informandolo delle circostanze della morte e precisando che Innocenzo IV aveva scelto frati idonei a divenire inquisitori, tra i quali frate Pietro da Verona (Balme, 1889, p. 908). In una missiva inviata da frate Giovanni Colonna, priore della Provincia Romana, ai frati parigini alcuni giorni dopo la canonizzazione si legge che frate Pietro era stato «predicator eximius plus quam XXIII annis» (Krafft, 2003, p. 424). Si può ragionevolmente ipotizzare che alla lunga esperienza di predicatore non corrispose una altrettanto solida attività di inquisitore. Se ciò in parte spiega la mancanza di documentazione, non aiuta a comprendere il movente dell’assassinio che resta sconosciuto. Non esiste inoltre alcun riscontro positivo riguardo a iniziative nella fondazione di confraternite, quali la Società delle Fede a Milano e la Società della beata Vergine a Firenze o le altre numerosissime a lui intitolate, per la diffusione del culto e la repressione dell’eresia (Pellegrini, 2007, pp. 225-234).

La morte di frate Pietro da Verona si colloca in un fase delicata della lotta all’eresia in Lombardia e, in particolar modo, ai buoni cristiani dualisti (o catari), in cui i frati predicatori ebbero un ruolo di primo piano. Con la Ut pressi quondam del 13 settembre 1246, scritta al priore del convento milanese, Innocenzo IV concesse la facoltà agli eretici convertiti, o in procinto di convertirsi, di vestire l’abito dei predicatori e ricevere i voti prima della scadenza dell’anno di noviziato. In tale contesto un ex cataro della Chiesa milanese di Concorezzo, Raniero Sacconi, entrò nell’Ordine prendendo il nome di Raniero da Piacenza, divenendo inquisitore e poi autore di una Summa de catharis, conclusa nel 1250, in cui convergono informazioni derivanti da diciassette anni di militanza tra i buoni cristiani dualisti (come egli stesso precisava). È un testo che frate Pietro doveva conoscere. Di tale manuale si conservano attualmente oltre cinquanta copie (dunque è ipotizzabile che abbia avuto una notevole diffusione). Non altrettanto può dirsi di una Summa che in età moderna viene intitolata «contra patarenos Petri martiris» attribuita a Pietro da Verona di cui sono sopravvissuti due soli esemplari, la cui influenza fu ridotta e la paternità è dubbia. Appartenevano invece a frate Pietro una Bibbia e un breviario avvolto in un panno di lino conservati nella sacrestia della chiesa milanese di S. Eustorgio che, tuttavia, nulla hanno a che vedere con i suoi compiti inquisitoriali.

Quando, il 6 aprile 1252, venne ucciso a colpi di falcastro nel bosco di Barlassina, frate Pietro si stava recando da Como a Milano con tre confratelli. In seguito, il corpo fu trasferito nella chiesa di S. Simpliciano di Milano e deposto in una cassa. Un documento interno all’Ordine non esente da precoci topoi agiografici, la lettera di frate Romeo da Atencia, illustra la dinamica dell’assassinio in cui fu coinvolto il confratello Domenico che, sopravvissuto una settimana, avrebbe descritto il comportamento cristomimetico di frate Pietro. Nel frattempo, un contadino aveva catturato l’assassino, Pietro da Balsamo detto Carino. Alla confessione di costui seguì una rapidissima indagine che portò a bandire in tempi molto brevi (sei giorni) alcuni mandanti, tra cui Stefano Confalonieri da Agliate. Nonostante la velocità dell’avvio, le inchieste si protrassero per tutta la seconda metà del XIII secolo, se la sentenza contro Stefano Confalonieri, forse nemmeno definitiva, venne emessa nel 1295. Ciò dimostra le difficoltà dell’accertamento dell’accaduto, dal momento che la maggior parte degli uomini accusati dell’assassinio occupavano cariche pubbliche di rilievo nel delicato contesto politico milanese in cui la morte di Federico II (1250) aveva creato un vuoto di potere e nuove dinamiche politiche.

Lo scenario non è riducibile a un mero scontro tra eretici e inquisitori, né tantomeno tra guelfi e ghibellini: coinvolgente rappresentanti politici, oltre che membri di famiglie milanesi non schierati politicamente in modo compatto, lo scontro politico-religioso si sviluppò sul doppio piano della repressione dell’eresia e della promozione della santità. Ne è singolare esempio la figura dello stesso Pietro da Balsamo, console di Milano, che in seguito all’omicidio era entrato nell’Ordine dei frati predicatori, vivendo poi nel convento di Forlì, e infine venne beatificato come Carino da Balsamo (una vicenda lineare soltanto se prevale il taglio agiografico-combinatorio, come in Prudlo, 2008b, pp. 1-21).

Solo due deposizioni, probabilmente del 2 settembre 1252, sono sopravvissute all’ampio dossier giudiziario sulla morte di frate Pietro da Verona in cui sono descritte la fase organizzativa che coinvolse ser Manfredo e ser Tommaso da Giussano, Guidotto da Sacchella, Giacomo della Chiusa, dominus Stefano Confalonieri, oltre Pietro, detto Carino da Balsamo, e ad Albertino Porro da Lentate. A costoro si possono aggiungere Roberto, detto Patta da Giussano, ed Enrico, detto Rosso da Giussano. Risulta chiaro il rilevante coinvolgimento dei membri del consortile dei da Giussano che occupavano incarichi pubblici a vario titolo. Ciononostante, il ruolo di spicco di questa famiglia nell’organizzazione dell’omicidio è dovuto alla sopravvivenza di testimonianze esclusivamente loro riferite, nelle quali i nomi dei testimoni variano al variare delle diverse copie prodotte evidenziando non solo interventi esterni, ma anche una complessa tradizione documentaria. Tale sopravvivenza è ricollegabile a una conservazione archivistica privata dei documenti giudiziari di cui almeno una copia dell’interrogatorio apparteneva a dominus Filippo da Giussano (Benedetti, 2008, pp. 5-29). Ai due interrogatori parteciparono frate Amizone da Solario, uno dei testimoni al processo di canonizzazione di Domenico da Caleruega, qui nelle vesti di notaio, e il priore conventuale frate Lamberto da Bologna in qualità di testimone (anche nel coevo processo di canonizzazione di san Pietro martire). Dagli interrogatori si evince l’esistenza di un piano per uccidere anche frate Raniero da Piacenza, inquisitore a Pavia, colui che avrebbe condotto l’inchiesta con frate Guido da Sesto, decretorum doctor e auditor contradictarum presso la curia. Il calibro dei personaggi coinvolti e il collegamento con la figura del santo fondatore Domenico da Caleruega mostra chiaramente la progettualità agiografica di una morte martiriale.

Il 30 marzo 1257, presso la canonica di Crescenzago, frate Raniero da Piacenza interrogò dominus Stefano Confalonieri, che probabilmente poteva aver conosciuto ai tempi della comune frequentazione della Chiesa catara di Concorezzo. In precedenza, con la Ad audientiam nostram del 19 agosto 1254, frate Raniero aveva ricevuto il mandato da Innocenzo IV di distruggere il castello di Gattedo di Roberto detto Patta (che aveva abiurato il 6 luglio 1253), dove si riunivano i buoni cristiani dualisti, ma soprattutto dove era stato sepolto il suo antico maestro Nazario.

La perdita degli atti processuali originali e la presenza di plurime copie di due soli interrogatori crea una falsa prospettiva sul procedimento giudiziario, anche considerando l’anomalo approdo di tali interrogatori negli Acta Sanctorum. A ciò va aggiunto il ruolo di Daniele da Giussano, una figura ambigua assai vicina ai congiurati, che pochissimi mesi dopo la morte dell’inquisitore diventò frate e, a sua volta, inquisitore in Lombardia per oltre trent’anni. È solo un esempio delle incrinature all’interno di ampi gruppi parentali che, come anche nel caso dei da Sesto, presentano inquisitori che indagano e interrogano membri della loro stessa famiglia.

Parallelamente al processo inquisitoriale contro gli uccisori del frate inquisitore Pietro da Verona si svolse il processo di canonizzazione. Tale contemporaneità creò una contaminazione tra le due diverse tipologie di procedimento e una precoce immissione di elementi agiografici nella documentazione coeva, che tuttora condiziona gli storici (cfr. Rainini, 2011, pp. 31-55). In meno di un anno dalla morte, il 25 marzo 1253, venne emessa la lettera di canonizzazione Magnis et crebris del secondo santo dell’Ordine, in cui si istituì un parallelismo tra la Passione di Cristo e il martirio di Pietro, modello di riferimento e forma peculiarmente domenicana di imitatio Christi, come avvenuto nella Vita del contemporaneo Tommaso Agni da Lentini e nella Legenda Aurea di Iacopo da Varagine scritta nella seconda metà del XIII secolo.

Le ragioni della rapidità del procedimento si spiegano con la delicata situazione della Lombardia, con la funzione antiereticale della santità di Pietro martire, ma anche assai plausibilmente per le pressioni in curia dell’Ordine, a cui non dovette essere estraneo frate Raimondo da Peñafort, il giurista che, nel 1232, aveva concluso il Liber Extra commissionato da Gregorio IX e, nel 1242, un manuale di procedura inquisitoriale, il cosiddetto Directorium. Non a caso, era stato immediatamente informato dopo l’assassinio con una lettera contenente i dati fattuali per la costruzione del culto del santo. Il dossier del processo di canonizzazione è andato perduto, così come il fascicolo originale usato dai bollandisti (Dondaine, 1953, p. 108).

In seguito alla canonizzazione, la cassa marmorea contenente il corpo dell’inquisitore, donata dall’abate di San Simpliciano, venne trasferita nella navata sinistra della chiesa di S. Eustorgio e fu promossa la diffusione del culto attraverso l’immagine martiriale del santo, caratterizzata da un falcastro che solca la fronte e dalla fondazione di conventi e confraternite a lui intitolati. Venne progettata un’arca monumentale in cui conservare il corpo, mentre a Bologna Nicola Pisano stava terminando quella di san Domenico, conclusa nel 1267. Dopo essersi impegnato per il santo-fondatore, l’Ordine si occupò del monumento funebre per il santo-martire. Nel 1297, durante il Capitolo generale di Venezia, il maestro generale Niccolò da Treviso sollecitò una raccolta di fonti. Divenuto nel 1303 pontefice con il nome di Benedetto XI, richiese direttamente agli inquisitori lombardi un contributo che, successivamente, devolvettero altro denaro in varie occasioni.

Un ulteriore appello venne lanciato nel corso del Capitolo generale di Londra del 1335 in seguito al quale giunsero sussidi dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania, dall’Ungheria e dall’Italia, soprattutto da Milano, ma anche dal re e dalla regina di Cipro, dal cardinale Matteo Orsini, Azzone e Giovanni Visconti, rispettivamente signore e arcivescovo di Milano. Tutti questi personaggi sarebbero stati raffigurati nell’arca. Nel convento milanese dei frati predicatori il ricordo di un inquisitore martire, e poi santo, si concretizzò in una doppia memoria – scultorea e manoscritta – attraverso i riferimenti devozionali di un monumento pubblico al santo (in chiesa) e dei personali ‘libri del mestiere’ di frate (la Bibbia e il breviario conservati in sacrestia). Non è possibile, invece, trovare alcuna traccia del concreto lavoro di inquisitore per cui si presume sia stato ucciso Pietro.

Nel 1337 lo scultore Giovanni di Balduccio da Pisa iniziò a lavorare all’arca che avrebbe concluso due anni dopo. In occasione del Capitolo generale di Milano del 1340 ebbe luogo la traslazione solenne nel monumento funebre collocato nella navata sinistra della chiesa di S. Eustorgio. Tale cerimonia avvenne in un clima di riconciliazione tra i membri dell’Ordine dei predicatori, in particolar modo gli inquisitori, e i rappresentanti politico-religiosi della famiglia Visconti, tra i quali Azzone e l’arcivescovo Giovanni, in precedenza anch’egli accusato di eresia, a dimostrazione del livello assunto dallo scontro in un contesto in cui l’accusa di eresia appariva esplicitamente politica.

La successiva fase architettonico-monumentale ebbe luogo nel XV secolo, con la costruzione della cappella Portinari e la realizzazione del ciclo di affreschi di Vincenzo Foppa sul martirio dell’inquisitore. Il trasferimento definitivo dell’arca ebbe luogo nel 1736. Il teschio del martire è conservato in un reliquiario posto in una stanzetta adiacente.

Riportata negli Acta Sanctorum il 29 aprile, attualmente la festa di san Pietro martire si celebra il 6 aprile, mentre il suo Ordine lo ricorda il 4 giugno.

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