PIETRO da Todi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PIETRO, da Todi (Pietro <apost>de Sapitis<apost>).– Nacque in una data imprecisata (comunque entro il 1280)

Raffaella Citeroni

a Todi.

In due atti del 1317 egli si qualifica anche con il cognome «de Sapitis», famiglia attestata a Firenze nel XIV secolo (forse esule per motivi politici).

Entrò nell’ordine dei Servi di Santa Maria anteriormente al maggio 1295.

Alcune laconiche tracce documentarie permettono di ricostruire una cronologia della sua carriera (non scevra da incertezze, giacché presso i Servi vigeva la prassi di identificare i frati solo con il toponimo di provenienza). Fu conventuale a Firenze tra il 1299 e il 1300 con il fratello Stefano e successivamente a Bologna (dove fu anche procuratore) tra il 1303 e il 1304. Nel biennio successivo (1304-1306) ricoprì l’ufficio di priore provinciale di Romagna, e tra il luglio e il settembre 1305 fu particolarmente attivo, assieme ad alcuni confratelli, nella risoluzione della «discordia electionis» relativa al priore generale fra Andrea Balducci da Sansepolcro. Scaduto il provincialato di Romagna (e forse dopo esser stato priore del convento di Bologna), ricoprì il medesimo incarico nella provincia di Lombardia (1307) e quindi del Patrimonio (1313-14). Al capitolo generale a Rimini (22 agosto 1314) fu infine eletto priore generale, carica che detenne continuativamente per 30 anni fino alla morte, imprimendo una profonda traccia nell’Ordine.

In continuità con la linea di governo del suo predecessore, fra Andrea Balducci, si adoperò energicamente per l’espansione dell’Ordine, intessendo – personalmente o tramite procuratori di sua fiducia – rapporti con i multiformi governi locali delle sedi prescelte. Si trattava per lo più di insediamenti in centri urbani di medie e grandi dimensioni (meno spesso semirurali o eremitici), posti lungo le principali direttrici verso il nord dell’Italia e dell’Europa (dunque, in aree economicamente vivaci). Tale politica portò, entro il 1344, al raddoppio del numero dei conventi e dei frati nelle sei province italiane (Tuscia, Patrimonio di San Pietro, Romagna, Lombardia e, dal 1325, Venezia) e in quella di Germania, arrivando a circa 600 frati e 30 conventi e contribuendo così a spostare irreversibilmente il baricentro dell’Ordine, in precedenza gravitante sull’Italia centrale.

Convocò e presiedette 22 capitoli generali, a cadenza all’incirca annuale. Attraverso l’attività legislativa svolta in tali occasioni, documentata nelle «Constitutiones novæ», si impegnò costantemente e con decisione sia nella riforma della disciplina, contrastando gli abusi più gravi, i – pochi – casi di apostasia, le mitigazioni nelle osservanze regolari, nell’obbedienza, nel rispetto del regime dei digiuni e della povertà (decreti del 1315, 1317, 1320, 1325, 1328, 1336, 1337). Si adoperò per la promozione e il sostegno, anche economico, al sempre più diffuso impegno dei frati negli studi teologici, indispensabili per far degnamente fronte ai loro numerosi impegni pastorali (predicazione, confessione, cura parrocchiale e incarichi ecclesiastici di responsabilità), fin dai primi anni del generalato (decreti del 1317, 1320, 1328). Vigilò sull’attuazione dei decreti capitolari anche attraverso le visite nei conventi secondo la cadenza prescritta nelle Costituzioni, annuale in Italia e triennale fuori dall’Italia, e un’attenta scelta dei priori provinciali e conventuali (questi di nomina diretta del generale), politica che sembra aver inizialmente prodotto esiti positivi.

Contestualmente alla riforma disciplinare e alla vigorosa espansione dei Servi, Pietro ne promosse, fin dai primi anni del generalato, la spiritualità e l’idealità agiografica dando impulso al culto di santi dell’Ordine e avviando la redazione di un corpus di legendæ agiografiche.

L’ampio progetto spirituale di Pietro prese avvio il 10 (o 12) giugno 1317 con la solenne traslazione delle spoglie di s. Filippo Benizi, padre dell’Ordine assieme ai sette Santi fondatori, dal sepolcro comune conventuale a una tomba individuale in chiesa, evento cui verosimilmente presenziò anche Pietro, oltre al vescovo Nicolò Armati, al clero, ai frati e alla cittadinanza.

A quel medesimo torno di tempo risalgono i due principali testi agiografici del periodo, la «Legenda beati Philippi», detta «vulgata», e la «Legenda de origine Ordinis», anonimi ma concordemente ritenuti di autori riconducibili all’«entourage» di Pietro (se non a lui stesso la seconda). Il progetto si completò intorno agli anni 1330-35 con la redazione dell’anonima «Vita ac legenda beati Joachimi Senensis» e della «Legenda beati Francisci de Senis», questa redatta dal vicario di Pietro, fra Cristoforo da Parma. Attraverso queste opere Pietro e i suoi collaboratori proposero ai confratelli, e al laicato gravitante intorno a loro, uno sviluppo dell’Ordine fedele al propositum vitæ delle origini e incardinato su alcuni ideali fondanti e caratterizzanti l’identità dell’Ordine: l’amore per la povertà, l’umiltà e la profonda devozione nei confronti della Vergine, il cui ruolo imprescindibile era volutamente accentuato. Il progetto fu completato anche dai decreti capitolari di quegli anni relativi al culto della Vergine, di s. Agostino, s. Pietro martire e s. Giuseppe, nonché dalle lettere di partecipazione spirituale indirizzate da Pietro a singoli devoti e a confraternite durante l’intero arco del generalato.

Tuttavia proprio verso la fine degli anni Venti iniziarono a manifestarsi i primi segnali di crisi, che assunsero poi i caratteri dell’aperta e risoluta opposizione nei confronti di Pietro. Non si può infatti escludere che la sua collaborazione e le sanzioni disciplinari da lui comminate ad alcuni confratelli tra il 1327 e il 1328 su pressione delle autorità civili veneziane per un non meglio precisato “reato verbale” si siano intersecate con tensioni e dissidi già serpeggianti nell’Ordine, che si rivelarono chiaramente al capitolo generale del 1328, riunito a Siena: agli atti fu premessa una dura protesta di Pietro, finalizzata a salvaguardare la validità delle decisioni prese dal capitolo generale e a respingere le pesanti ingerenze da parte di seguaci dell’imperatore Ludovico il Bavaro, allora in Italia. Tuttavia il generale celebrò regolarmente il capitolo e riuscì a proseguire nel suo programma di riforma dell’Ordine.

La situazione precipitò qualche anno dopo: su istanza dei frati del convento fiorentino della Ss. Annunziata, divenuto il fulcro della contestazione, il 24 marzo 1334 fu pubblicata una sentenza di scomunica di Pietro per opera del legato papale Ponzio Étienne. Gli atti furono inviati ad Avignone alla Curia papale, alla quale Pietro e il suo vicario Cristoforo si appellarono, sospendendo gli effetti della scomunica (ma la morte del pontefice Giovanni XXII nel mese di dicembre differì la soluzione della controversia). Il capitolo generale di quell’anno si poté riunire ugualmente, ma fuori della Toscana, a Faenza, e a ottobre invece che a maggio, dopo che Pietro e Cristoforo avevano stipulato un accordo con i confratelli dell’Annunziata; ciononostante l’operato del generale e dei suoi collaboratori venne apertamente sconfessato: sia a Faenza sia nel capitolo di Firenze del 1335, al quale parteciparono i vescovi di Pistoia e di Firenze in qualità di delegati papali, furono abrogati i decreti emanati dalle assemblee capitolari, rispettivamente, del 1333 e del 1328.

Nei due anni successivi la contestazione raggiunse l’acme: una protesta del generale, in cui si allude a tentativi di ribellione non meglio specificati (probabilmente il nuovo ricorso del provinciale di Toscana e di molti confratelli e la ripresa della causa in Curia), fu premessa agli atti del capitolo di Bologna del 1336, che si celebrò comunque ed emanò norme contro le commistioni dei frati in vicende secolari; ciononostante Pietro si trovò in difficoltà nel correggere gli eccessi dei frati tanto da chiedere, tramite il vescovo, aiuto al podestà. Ancora nel 1337 gli atti del capitolo generale di Bologna, l’ultimo riunito da Pietro, furono preceduti da una dura protesta del generale, dai toni analoghi alle due precedenti.

L’intervento papale a questo punto fu risoluto: Benedetto XII convocò più volte in Curia le parti in causa e dal 1338 Pietro non si allontanò più da Avignone, governando l’Ordine attraverso i suoi vicari e solo talvolta personalmente, come testimoniano due procure e una supplica per l’accettazione di conventi (1339, 1341 e 1343). Le gravi accuse di «cattiva e parziale amministrazione e di ripetuti e temerari attentati contro Dio, la giustizia e le antiche istituzioni, confermate anche dalla Sede Apostolica» portarono, il 31 dicembre 1341 all’esonero dall’incarico dei quattro vicari generalizi e all’assegnazione del governo e dell’amministrazione dell’Ordine a due «vicari generali», i frati Angelo da Rimini e Andrea da Todi, fino al pronunciamento definitivo. La causa giunse di fatto a conclusione solo con la morte di Pietro, in Curia, avvenuta in una data non nota, ma anteriore al 17 giugno 1344, quando i frati di Venezia celebrarono l’ufficio per la sua anima.

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