BOHIER, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11 (1969)

BOHIER, Pietro (Petrus Boherius, Boherii, Boerii)

Enzo Petrucci

Originario di La Retorte (comune del distretto di Carcassona, dipartimento dell'Aude), nella Francia meridionale, nacque presumibilmente tra il 1310 e il 1315. Non si hanno notizie né della sua famiglia, né della sua infanzia e adolescenza, ma dovette entrare giovanissimo nell'Ordine benedettino, nel monastero di St.-Chinian (Sancti Aniani) presso Béziers (nel dipartimento dell'Hérault), dove un tal "Berardus Boerii", quasi sicuramente suo parente, era priore. La prima data nota relativa alla sua vita è il 29 ott. 1335, giorno in cui gli atti della visita dell'abbazia di St.-Chinian, compiuta dal vescovo Raimondo dell'antica diocesi di St.-Pons de Thomières, lo menzionano già come monaco e camerario del monastero. Addottoratosi in diritto canonico, che aveva studiato alla scuola dell'abate Giovanni di Joncels, fu eletto nel 1350 abate del monastero di St.-Chinian.

Il 23 giugno 1336 Benedetto XII aveva emanato la bolla Summi magistri, designata comunemente con l'appellativo di "benedictina", con la quale, dando una nuova struttura all'Ordine di s. Benedetto, aveva tra l'altro diviso i monasteri in trentadue province e stabilito che gli abati si dovessero riunire in capitolo ogni tre anni. In ottemperanza a queste disposizioni, nel 1355 si tenne a Carcassona il capitolo generale delle province di Narbona e Auch, e il B., probabilmente proprio per la sua competenza in diritto canonico, fu chiamato a presiederlo insieme con tre altri abati. Eletto di nuovo presidente del capitolo provinciale, tenuto ancora a Carcassona nel 1362, delegò il 9 febbraio le funzioni del suo ufficio all'abate Pietro di Joncels. Fu inoltre definitore di altri capitoli provinciali e visitatore di alcuni monasteri della Settimania.

Frutto dei suoi studi giuridici e della sua attività letteraria durante questo primo periodo della sua vita trascorso nel monastero di St.-Chinian, che va fino al 1364, sono il Commentarium alla bolla Pastor bonus (emanata il 17 giugno 1335, con la quale Benedetto XII disponeva che i monaci vaganti entrassero in qualche monastero) e il Commentarium alla bolla già menzionata Summi magistri. Di quegli stessi anni sono altri due opuscoli: lo Speculum monachorum seu de monachorum professione e il De signis locutionum liber unicus. Ma l'opera più importante e di più ampio respiro, che egli scrisse durante il suo governo abbaziale, è senza dubbio il primo commento alla regola benedettina, terminato, dopo un anno di lavoro, il 21 marzo, festa di s. Benedetto, del 1361, com'egli ci informa nei versi posti alla fine dell'opera.

Il B. volle in questo lavoro mostrare la concordanza delle prescrizioni della regola di s. Benedetto con le norme del diritto canonico. E, per quanto attingesse largamente al commento dell'abate di Montecassino Bernardo Aiglerio (Ayglier), fino a citarlo spesso testualmente, il B. era consapevole, e lo dichiarava, della novità del suo tentativo: "Mille tercentum decem sex quoque semel [cioè 1361] / Festo Benedicti, quo cepi, te glosa finivi / Canonici iuris quod nullus ante me fecit / Anno revoluto, sumpto calamo delibuto / Praedictae normae...". Il B. dedicò la sua opera agli abati e ai padri del capitolo provinciale e ne consegnò una copia, insieme con i commenti alle due bolle di Benedetto XII, all'abate Pietro di Joncels. Queste opere del B. pare che allora facessero testo nelle assemblee benedettine della Francia sud occidentale. Infatti nel capitolo generale delle province narbonese, auxitana e tolosana, tenuto nel 1368 nel convento dei frati minori di Lavaur, fu stabilito che l'abate Pietro di Joncels avrebbe dovuto restituire agli altri abati, con lui copresidenti, e al capitolo "librum Regulae et constitutionum domini Benedicti XII glossatum et cum apparatu bene dispositum per dominum Petrum olim abbatem S. Aniani" (M. Besse, Provincial Chapters of the Black Monks in France, in Spicilegium Benedictinum, XIII [1889], p. 13), e poi custodirlo diligentemente fino al prossimo capitolo, che si sarebbe dovuto riunire tre anni più tardi a Carcassona nel convento dei frati predicatori.

Morto frattanto nel 1364 il vescovo di Orvieto Giovanni di Magnavia, Urbano V, con bolla del 15 novembre, chiamò a succedergli il B. e con altra del 10 dicembre lo nominava, con amplissimi poteri, anche suo vicario nella città di Roma, come era ormai tradizione per i vescovi orvietani. Per questo e per altri evidenti motivi della politica di Avignone, data l'importante posizione di Orvieto nello Stato della Chiesa, anche i tre immediati predecessori del B. nella sede orvietana (Raimondo, Ponzio e Giovanni) erano stati scelti tra il clero francese. Con una terza lettera dello stesso giorno 10 dicembre, il papa affidava al B. anche l'amministrazione dei titoli cardinalizi vacanti.

Il 25 nov. 1364, dieci giorni appena dopo la nomina, il B. era già ad Avignone, dove fece la rituale promessa di pagare alla camera apostolica "pro suo comuni servitio" la somma prevista per la sede di Orvieto di 300 fiorini, da versarsi in due rate successive che scadevano alla festa di Ognissanti. E puntualmente la prima rata di 150 fiorini fu pagata metà il 26 ottobre, per mano di Simone Gardi, e metà il 30 ott. 1365 per mano di Guglielmo Banali.

Consacrato vescovo, raggiunse la sua sede presumibilmente nei primi giorni di gennaio del 1365. Il 7 febbraio assisté alla stesura dell'atto notarile con il quale ser Giovanni Guidotti da Montefiascone, procuratore del tesoriere del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia Angelo Tavernini, rimetteva al collettore apostolico Guglielmo di Lordat i beni mobili del defunto vescovo Giovanni di Magnavia - e perfino vasi e arredi sacri e libri liturgici appartenenti al vescovato -, sequestrati in base al diritto di spoglio. Grave, soprattutto dal punto di vista economico e sociale, risultava il sequestro e la messa in vendita, fatta con inesorabile rigidezza dal collettore, di tutti gli animali da lavoro da allevamento e da trasporto, giacché privava le terre e i coloni vescovili di uno dei più ricchi prodotti alimentari e di un insostituibile strumento di lavoro per la produzione agricola. Il B. così il 18 marzo, con un atto notarile di mano di Guarnerio di Giovanni de Marvilla, richiese formalmente al collettore che venisse restituito a lui e al vescovato il bestiame necessario alla conduzione delle proprietà vescovili. Inoltre per l'acquisizione di quei beni già posti in vendita, ma necessari all'esercizio dignitoso del suo ufficio di vescovo e di vicario di Roma, e indispensabili per le funzioni liturgiche della cattedrale e delle chiese poste sulle terre vescovili, egli si offriva di pagare anche un prezzo maggiore di quello di stima. Due giorni dopo, 20 marzo, insieme con i canonici e con il capitolo della cattedrale, il B. chiese al collettore, sempre tramite lo stesso notaio, che non venissero in alcun modo venduti - ed anzi venissero restituiti - gli "ecclesiastica ornamenta" di spettanza della chiesa e del vescovato orvietano, destinati da tempo al culto divino.

Il B. spiegò nella sua diocesi un'intensa attività pastorale e amministrativa; tuttavia si avvalse spesso dell'opera dei suoi vicari generali, tra cui incontriamo anche il vescovo di Spoleto Matteo Petroni (1371) e il vescovo di Nepi Bonifacio de Cetto (1373), come dimostrano i numerosi atti da essi compiuti in suo nome: infatti il suo ufficio di vicario pontificio di Roma e altri incarichi straordinari, non di rado affidatigli dal papa, lo costringevano a frequenti e lunghe assenze dalla sua sede.

Già nel maggio-giugno del 1365 Urbano V gli affidava la revisione dei conti del rettore della Campagna e Marittima Giovanni, preceptor del convento agostiniano di S. Antonio in Firenze, per accertare, in vista del rimborso, l'entità della somma, superiore agli stipendi suoi e delle sue genti, spesa dal rettore per recuperare e difendere alcuni castelli e terre delle due province. Intanto Urbano V aveva deciso di riportare la sede pontificia a Roma: il primo segno fu la lettera del 10 sett. 1365 con la quale incaricava il B., nella qualità di suo vicario di Roma, di destinare ai restauri della basilica di S. Pietro (campanile) e del palazzo apostolico le offerte della basilica vaticana (oblationes altarium) spettanti al papa, e il 13 novembre lo invitava a far ripristinare l'inselvatichito viridario vaticano e a ripararne la recinzione. I lavori però dovettero procedere a rilento, perché il 29 luglio dell'anno seguente fu inviato a Roma, con il compito specifico di riparare il palazzo papale, il canonico Gaucelmo de Pradallo, munito di varie lettere credenziali, tra cui una anche per il B., nella quale il papa, annunciandogli il suo prossimo ritorno, lo esortava a prestare al latore ogni possibile aiuto per l'assolvimento dei compiti affidatigli. Inoltre il 19 agosto il B. veniva incaricato di concedere a Ludovico dei Prefetti (di Vico) e a Francesca di Pietro Colonna, consanguinei di quarto grado, la dispensa - forse precedentemente dal papa stesso rifiutata - di contrarre matrimonio in vista della pacificazione delle due famiglie. E la pacificazione delle consorterie baronali doveva stare particolarmente a cuore al pontefice nella prospettiva del ritorno a Roma, dove il governo popolare era riuscito ormai ad assicurare l'ordine. Così l'attività del B. a Roma in quegli anni va vista anche nel quadro della preparazione della città ad accogliere degnamente il pontefice, che vi ritornava per la prima volta, dopo la lunga assenza avignonese, il 16 ott. 1367.

In quello stesso mese il B. assistette a fianco del papa al colloquio con gli ambasciatori greci, che l'imperatore Giovanni V Paleologo aveva inviato per le trattative di unione tra la Chiesa latina e la Chiesa greca, nella speranza che poi l'Occidente cristiano intervenisse in Oriente contro la minacciosa avanzata dei Turchi. Il B. stesso riferirà più tardi i termini del colloquio, mettendo in evidenza da un lato il tono umile delle richieste dei Greci e la loro fedeltà alla tradizione dei primi otto concili ecumenici, dall'altro il tono altero e l'angustia della visione ecclesiologica delle risposte di Urbano V (cod. Vat. Barber. 584, f. 37). Il contatto personale che in quell'occasione il B. stabilì con i vescovi orientali - di cui fu l'accompagnatore durante il loro soggiorno romano -, le conversazioni amichevoli fuori di ogni clima di ufficialità che ebbe con loro, i quali nei punti di divergenza prospettavano la necessità del concilio, rivelarono al suo animo di benedettino una spiritualità nuova, fino allora sconosciuta, e suscitarono in lui, insieme forse con il sentimento della insufficienza della sua formazione culturale canonistica, l'interesse per la storia della Chiesa dei primi secoli, per il pensiero dei padri e per la legislazione degli antichi concili.

Due anni dopo, e cioè il 7 ott. 1369 (e non 1370 come riferisce l'Allodi, p. XI, sulla scia dell'Ughelli e dell'Eubel), il B. fu trasferito alla sede di Vaison (dipartimento di Valchiusa) nel contado Venassino, rimasta vacante per la morte del vescovo Giovanni (forse Urbano V, che già pensava di ritornare ad Avignone, lo avrebbe voluto poi vicino a sé). Lo stesso giorno il papa affidava l'amministrazione commendataria della diocesi di Orvieto al vescovo di Padova Giovanni de Placentinis, e di ciò avvertiva con altre lettere della stessa data, secondo la prassi, il capitolo ed il clero di Orvieto e della diocesi, e il popolo della città e del distretto. Ma tali provvedimenti non ebbero poi esecuzione: e infatti Gregorio XI nominando, il 7 febbr. 1371, il suo cappellano Ebbone alla sede di Vaison, "ne longe vacationis subiret incommodis" (Reg. Aven. 175, f. 22v), accenna al fatto che il suo predecessore Urbano V non vi aveva provveduto. Non è perciò esatta la notizia - per altro non documentata - data dall'Heurtebize (p. 462), secondo la quale il B., nominato vescovo di Vaison, pur conservando la sede di Orvieto, avrebbe seguito Urbano V nel suo ritorno ad Avignone. Tuttavia in quell'occasione il B. dovette essere dimesso dall'ufficio di vicario di Roma (in sua vece fu nominato il vescovo di Arezzo, trasferito poi a Spoleto, Iacopo de Mutis de Romena [Eubel, I, p. 104], a cui Urbano V si rivolge con tale titolo in una lettera del 28 luglio 1370, in Theiner, II, p. 475, doc. 483).

Comunque il B. non solo restava vescovo di Orvieto, ma anzi riceveva, il 22 genn. 1370, da Urbano V l'incarico di correttore e riformatore del Comune, il che significava in pratica dover procedere ad un mutamento degli uomini di governo. Partito subito per Orvieto, il B., dopo un'inchiesta condotta con discrezione, "sine strepitu et figura iuditii" (Riformanze, 156, f. 35), secondo le istruzioni del papa, procedette personalmente ad un nuovo imbussolamento dei Signori Sette, dei membri del Consiglio segreto dei Dodici e dei membri del Consiglio generale di Balìa: e il 24 febbraio ne presiedette l'estrazione, portando così a termine la sua missione. Poi, probabilmente nell'estate di quello stesso anno, il B. per riposo e nostalgia del chiostro, si recò temporaneamente a Subiaco, dove, nel ritiro del Sacro Speco, iniziò un nuovo commento alla regola di s. Benedetto: "Relaxata paulisper episcopali solertia, Sanctum utique Specum, quem Benedictus ipse poenitentiae gratia incoluit diutius, et apud quem Regulam fertur ordinasse praesentem, pro meo delegi otio salutari... Intra quem [i. e. Specum] corpore allocatus, ministrato candelae lumine, cum tremore incoepi opusculum" (ed. Allodi, p. XXX). Il B. portò a termine il suo nuovo lavoro il 16 luglio 1373, e ne donò poi il codice originale autografo, punteggiato di correzioni e aggiunte, ai monaci specuensi, che ne avevano fatto richiesta, come egli stesso specifica nei versi con i quali accompagnava il dono: "Pulsatus precibus vobis transmitto pudicis, / O fratres cari, quod, me sudante frequenter, / Hoc opus exegi patris mea viscera nostri, / Speleo iuxta vos iam vitalia vestris" (ibid., p. XXI). L'Allodi (pp. XX-XXI), il Lugano (pp. 58-59) e l'Heurtebize (p. 462) hanno invece inteso tali versi nel senso che il B. si decise alla composizione dell'opera su istanza di quei monaci. Ma l'idea del nuovo lavoro, al di fuori e al di là di ogni sollecitazione esterna, doveva urgere entro l'animo suo, ormai insoddisfatto del primo commento, giudicato incompleto, specie dopo il recente contatto con i vescovi orientali. Nella prefazione egli dichiarava con sinceri accenti di pentimento di avvertire quasi come una colpa l'aver trascurato, nel primo commento, la dottrina dei padri: "Cum igitur Petrus ego peccator, indignusque nomine Petri, in primo apparatu regulae S. Benedicti praelibatorum doctrinas Patrum atque eloquia allegare neglexerim negligentia vigilante, ductus tandem poenitentia opus hoc aggredior, quo solerter valeam restaurare omissa" (ed. Allodi, p. XXX). Con questi intenti il B. introduce nel suo commento gli scritti di s. Girolamo, per il quale egli sembra nutrire una vera venerazione, e di S. Atanasio; la regola di s. Basilio e, seppure meno frequentemente, quella di s. Pacomio; le Institutiones e le Collationes di Cassiano e le Vite dei Padri, con citazioni testuali e talvolta a senso, intese ad illustrare i passi della regola. All'inizio dei capitoli, inoltre, spesso indica nelle opere degli stessi padri le possibili fonti di s. Benedetto: così, per esempio al cap. V (edizione Allodi, p. 208): "Istud caput potuit ortum habere ex libro quarto Institutionum, capitulo vigesimo secundo et sex capitulis ibi sequentibus, et etiam ex regula Basilii capite trigesimo nono"; o al cap. XXXIX (p. 494): "Hoc caput originem ducere potuit ex capite nono regulae Basilii; ex Institutionum libro quinto; ex Collatione secunda; ex Collatione decima; ex libro secundo Hieronymi contra Iovinianum et tandem eiusdem Hieronymi ad Eustochium de virginitate". Non sono trascurati neanche i concili e il diritto canonico, sebbene per questo si rinvii più spesso al primo commento.

Una ultima caratteristica di quest'opera è il raffronto di diversi passi della regola, compiuto per illustrare gli uni con gli altri.

Al ritorno nella sua sede episcopale, dopo il soggiorno sublacense, il B. il 9 apr. 1372 ebbe l'incarico di decidere la controversia sorta fra il vescovo di Viterbo Niccolò e i frati minori di Tuscania che gli contestavano il godimento, quale tutore di Guglielmo del fu Giovanni di Paolo de Vetulis, dell'eredità del fu Stefano Groude e di Iacopa sua moglie. Ma alcuni mesi dopo il B. riceveva una fredda lettera pontificia dell'11 novembre, in cui il papa, dopo avergli espresso il rammarico per il fatto che l'ospedale di S. Maria della Stella, il maggiore di Orvieto, per la cattiva amministrazione dei rettori - e non senza negligenza sua e dei suoi predecessori -, era economicamente decaduto e che, comunque, non destinava all'assistenza tutte le risorse di cui disponeva, gli ordinava di far ristabilire le spedalità nella misura dei mezzi che l'istituto ricavava dalle sue proprietà e da altri proventi. L'anno dopo, cioè nel 1373 (e non nel 1374, come in Fumi, Statuti..., p. XIV, e in Allodi, p. XIII), il B. insieme con il capitolo della chiesa di S. Maria ebbe un grave urto con il Comune a proposito dell'elezione del camerario dell'Opera del duomo. In effetti avvenne che Verio da Trevi, secondo le istruzioni ricevute dall'abate di Monmaggiore Gerardo di Puy (rettore e governatore generale di Roma, del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, del ducato di Spoleto, della Campagna e della Marittima, di Perugia e di molte altre città), che lo aveva inviato a Orvieto con l'incarico di riformatore del Comune, aveva fatto un nuovo bussolo ed estratto il camerario, in deroga ad una prassi che durava dal 1349, secondo la quale per quell'ufficio si dovevano imbussolare i nomi scelti da una lista fornita dal vescovo e dal capitolo. Il B. allora, ritenendo che con quella elezione si fossero lesi i diritti del vescovo e dei canonici, non solo si rifiutò di riconoscere il nuovo camerario, ma gli intimò, sotto pena di scomunica, di astenersi dall'esercitare il suo ufficio. Il 3 settembre il Comune fece ricorso all'abate di Monmaggiore, il quale rispose con una lettera del 6 settembre, indirizzata al vescovo e ai canonici, in cui ordinava al B. di revocare la scomunica, e di permettere al camerario eletto di esercitare le sue funzioni senza impedimenti di sorta; annunciava inoltre l'arrivo di Iacopo da Caprese, "decretorum doctor", il quale avrebbe deciso la contesa secondo giustizia. Alla base dell'atteggiamento del vescovo e del capitolo, oltre ad una rivendicazione di principio dei diritti dell'autorità ecclesiastica di fronte a quella civile, doveva stare forse anche il loro desiderio di far costruire un altare nella cappella del Corporale. Ed infatti poco dopo il vicario generale del vescovo ordinava al camerario, pena la scomunica, di far eseguire la progettata costruzione entro quindici giorni. La questione fu discussa nel consiglio generale del 27 marzo 1374, che respinse la richiesta di costruzione dell'altare, approvando nel contempo di ricorrere, se il vescovo avesse insistito e l'abate di Monmaggiore l'avesse sostenuto, anche al sommo pontefice. Ma su tutta la vertenza, concernente in fondo l'elezione del camerario dell'Opera del duomo, fu raggiunto l'8 maggio un accordo, in base al quale il vescovo e il Comune s'impegnavano a rispettare i patti stipulati nel 1349.

Poco dopo il B. riceveva una lettera di Gregorio XI, datata da Salon (diocesi di Arles) il 22 giugno 1374, che costituisce il secondo e più energico e decisivo intervento della Santa Sede in favore dei primi eremi della riforma dell'Ordine francescano (Osservanza), iniziata da Paolo Trinci da Foligno (Ehrle, p. 184). Con tale lettera il pontefice incaricava il B. di richiamare severamente i ministri provinciali, i custodi e altri superiori dei frati minori delle province Romana e di S. Francesco, esortandoli a desistere dal recare molestie ai confratelli che intendevano osservare la regola "ad litteram" in alcuni romitori (tra i quali, oltre Brogliano, Le Carceri, Eremita, Giano, già concessi a Gentile da Spoleto), anzi a favorirli "studio caritatis"; in caso contrario il vescovo di Orvieto doveva inviare ad Avignone una circostanziata relazione scritta, "ut nos - scriveva il papa - per huiusmodi relationem tuam sufficienter instructi, tale super hoc remedium adhibere curemus, quod transeat ceteris in exemplum" (Ehrle, p. 185). Il documento pontificio e l'azione svolta dal B. si possono perciò considerare elementi fondamentali per il felice avvio dell'Osservanza.

Fu, forse, in questo periodo che il B. si ritirò di nuovo a Subiaco, nel monastero del Sacro Speco. In quell'occasione, secondo quanto racconta Alfonso Pecha, il B., alla sua presenza, manifestò al priore e ai monaci il proposito di costruire nella valle sublacense un monastero dedicato a s. Girolamo e di dotarlo per dodici monaci; espresse inoltre il desiderio di rinunciare al vescovato "et in ipso monasterio se includere et monachare ut verus monachus in observantia regule et in paupertate ibidem vivere" (Conscripcio, p. 99). L'abate di S. Scolastica, Francesco II da Padova, con lettera del 20 sett. 1374 autorizzava il B. a dare inizio ai lavori. Ma doveva trattarsi non di un nuovo monastero, bensì della ricostruzione di uno di quei dodici monasteri della valle sublacense che la tradizione faceva risalire a s. Benedetto, tra i quali c'era appunto quello dedicato a s. Girolamo, posto sulla via da Subiaco a Ienne (cfr. Carosi, p. 77). Il Pecha riferisce anche che il B. si sarebbe ritirato "per aliquos annos" - non specifica quali - nel monastero del Sacro Speco "ut ibi componeret super decretum unum solempnem librum qui vocatur Codex Canonum" (Conscripcio, p. 100).

Certamente la locuzione "per aliquos annos" non va intesa nel senso che il B. visse per alcuni interi anni a Subiaco ma solamente che vi trascorse qualche tempo per alcuni anni, altrimenti la notizia sarebbe errata. Quanto al Codex Canonum, invece, esiste nella biblioteca del capitolo metropolitano di Praga un'opera che reca questo titolo: Petri Urbevetani episcopi Tabulae decreti ed è dedicata ad Anglico Grimoard, cardinale vescovo di Albano, fratello di Urbano V ("Reverendo in Christo patri... A. episcopo Albanensi suus orator humilis Petrus etc.": Schulte, Die Kanonistischen Handschriften der Bibliotheken Prag..., Prag 1868, p. 72).

Quasi certamente le Tabulae decreti e il Codex Canonum, cui allude il Pecha, sono la stessa opera. Se così, la composizione si dovrebbe situare con qualche probabilità tra il 15 nov. 1367 e il 25 giugno 1371, periodo in cui il cardinale d'Albano fu vicario generale dello Stato della Chiesa. Solo allora infatti il B. ebbe la possibilità di avere con lui rapporti personali - forse anche per dovere di ufficio - tali da far pensare alla dedica di un libro.

Comunque, verso la fine del 1374, il B. doveva essere di nuovo a Orvieto, e poco dopo Gregorio XI gli affidava un incarico molto delicato. Pietro Arsehn di Pamiers, vescovo di Montefiascone (la città solo di recente, il 5 luglio 1368, era stata da Urbano V elevata a sede vescovile, staccando tra l'altro Bolsena dalla diocesi di Orvieto), si era querelato presso il pontefice contro Guido di Farnese, domicello della diocesi di Castro, e contro Benedetto e Berardo Monaldeschi, domicelli della diocesi di Orvieto, perché il primo lo molestava circa alcuni beni mobili e proprietà situate su ex territori della diocesi orvietana, e gli altri gli contestavano il possesso dei beni di Quartulevallisflati nel territorio di Bolsena. In un momento in cui lo Stato pontificio e specie le città del Patrimonio vicine ad Orvieto, tra cui proprio Montefiascone, mostravano apertamente il loro malcontento contro il governo dell'abate di Monmaggiore, e mentre i rapporti tra la Chiesa e i Fiorentini si facevano tesi, la questione poteva diventare estremamente delicata per i riflessi politici, dacché le persone denunciate appartenevano a due tra le più nobili e potenti famiglie della regione. Il papa, con bolla del 15 genn. 1375, commise la lite nelle mani del B. con la raccomandazione di decidere secondo giustìzia, ma senza istruire un vero e proprio processo; tuttavia gli dava mandato, nel caso che i testimoni citati si rifiutassero di comparire per timore o favoritismo, di non esitare a ricorrere anche al braccio secolare per obbligarli a fare la loro deposizionee infine di far rispettare con fermezza il suo verdetto, ricorrendo alle censure ecclesiastiche e ad altri mezzi che il diritto gli forniva.

Verso la fine dell'anno la rivolta che covava da tempo nello Stato pontificio scoppiò violentemente. Tra le prime città a insorgere furono Narni e Orte, seguite quasi subito da Todi e Viterbo. Le autorità di Orvieto, fedeli al governo della Chiesa, presero subito provvedimenti per la difesa, ed anzi, nel consiglio generale del 20 nov. 1375, in esecuzione d'una proposta approvata all'unanimità, il vicario, i Signori Sette e tutti i consiglieri giurarono nelle mani del B., presente in consiglio, di essere "fideles, obedientes et devoti ecclesie sancte Dei et attendere ad conservationem status ecclesie et pacifici et popularis status... civitatis" (Riformanze, 163, ff. 54-55; l'edizione del Fumi, Codice..., p. 554, doc. 690, è difettosa. Va inoltre corretta la notizia dell'Allodi, p. XIII, che pone il giuramento a Perugia il 22 novembre, equivocando sulla data della lettera dell'abate di Monmaggiore al camerario del Comune, per autorizzare le spese necessarie alla difesa della città e dei castelli del contado di Orvieto; cfr. Fumi, ibid., pp. 555-556). In realtà il B. non ricopriva nessuna carica politica nello Stato della Chiesa; è dunque probabile che il giuramento nelle sue mani - ripetuto peraltro il 2 dicembre nelle mani del vicario, che era la più alta autorità civile e il vero rappresentante del potere politico del papa nella città - fosse stato fatto e perché il B. rappresentava la pienezza della autorità della Chiesa tout court, e perché, forse, si vedeva in lui, come prelato francese, un rappresentante del sistema avignonese. Dopo questa rapida presenza, però, il B. non apparirà più sulla scena politica di quegli anni di rivolta. Del resto egli non mostrò mai interesse per la politica attiva; e gli incarichi che frequentemente ebbe dalla Curia papale furono sempre, o quasi, di natura religiosa, così come quello, che ebbe di lì a poco, di visitatore apostolico dei monasteri sublacensi. Con tale qualifica il pontefice, il 3 marzo 1376, indirizzava al B. e agli abati di S. Paolo e di S. Lorenzo fuori le Mura la conferma della sentenza degli uditori camerali in favore del monastero di S. Scolastica contro Roberto, conte di Squillace, per il possesso del castello di Ienne.

Intanto Gregorio XI, tornato a Roma il 17 genn. 1377, si trasferiva nella primavera ad Anagni, dove nel giugno troviamo il B. sostenere la supplica che gli ambasciatori di Orvieto avevano rivolto al papa al fine di ottenere la concessione dell'indulgenza generale, in occasione della festa del Corpus Domini, a coloro che avessero fatto offerte all'Opera del duomo. Gregorio XI, grato della fedeltà mantenuta, durante la recente rivolta, dagli Orvietani, "qui una Nobiscum his temporibus turbinum contra ferventium impetum procellarum, multis inconsulte deviantibus, constantibus pectoribus, permanserunt", concesse il 27 giugno 1377 alla chiesa di S. Maria (duomo) le stesse indulgenze annesse alla basilica di S. Pietro (Fumi, Codice..., p. 565, doc. 698). Il B. si affrettò a comunicare al Comune di Orvieto la concessione del privilegio pontificio, con una lettera dello stesso giorno, in cui, rivolgendosi alle autorità con l'appellativo "Onorabiles domini et amici mei karissimi", esaltava la sorprendente generosità del papa ("nec credebam quod indulgentiam tantam concederet"); esprimeva il desiderio di trovarsi tra i suoi concittadini e concludeva raccomandando il vescovato e salutando tutti "nobiles atque cives" (Riformanze, vol. 165, f. 34: cfr. Fumi, ibid.).

Per il resto dell'anno 1377 il B. fu ancora occupato con i monasteri di Subiaco. Gregorio XI infatti, volendo porre fine alle continue contese in materia di competenze e di rendite fra le tre mense di S. Scolastica, del Sacro Speco e dell'abate, il 20 agosto affidò al B., assistito dall'abate Giordano dei SS. Nazario e Celso di Verona e dall'abate Antonio di S. Eutizio presso Norcia, il compito di eliminare ogni motivo di contrasto; e il 1º novembre gli dava ampi poteri di riformare i due monasteri di S. Scolastica e del Sacro Speco "tam in capite quam in membris" e di assolvere i monaci da censure e irregolarità. Il B. e i due suoi collaboratori emisero la sentenza l'8 dicembre, stabilendo tra l'altro l'unione delle mense dei due monasteri sotto una unica amministrazione; il diritto dei monaci del Sacro Speco di partecipare all'elezione dell'abate e il dovere di quest'ultimo di provvedere al mantenimento dei monaci, degli ospiti, degli infermi e alle spese per le riparazioni degli edifici. Tali provvedimenti però, forse per l'interessata iniziativa dell'abate e nonostante le resistenze dei monaci (Egidi, p. 134), furono abrogati il 10 febbr. 1379 (Federici, p. 176, n. 1835) da Luca, cardinale di S. Sisto; la stessa sorte toccò ad un altro provvedimento che il B. prese in quella occasione, e cioè l'istituzione del priorato di S. Donato casae Etii, revocato tre anni dopo (16 aprile 1380) e assegnato da Urbano VI al monastero di S. Scolastica (Mirzio, p. 424).

Morto poco dopo (27 marzo 1378) Gregorio XI, ed eletto l'8 aprile Urbano VI, il B. dovette quasi subito allinearsi sulle posizioni dei cardinali francesi, che dichiararono invalida l'elezione, perché avvenuta sotto la pressione popolare, e schierarsi quindi dalla parte di Roberto di Ginevra, quando il 20 settembre fu eletto a Fondi col nome di Clemente VII. Sembra però che egli non si fosse limitato a fare semplice atto di riconoscimento, ma dovette assumere un atteggiamento particolarmente attivo in favore del papa francese. Infatti nelle prime due bolle di scomunica che il 6 e il 29 novembre Urbano scagliò contro i suoi più decisi avversari troviamo il nome del B. accanto a quello dei capi dell'opposizione antiurbanista del Sacro Collegio (il camerario Pietro Cros e i cardinali Roberto di Ginevra, Giovanni de la Grange, Gerardo di Puy [l'abate di Monmaggiore, più sopra ricordato] e Pietro Flandrin) e dei sostenitori più attivi di Clemente VII (Giacomo di Itri, patriarca di Costantinopoli, i vescovi di Cosenza, di Urbino, di Montefiascone, di Ginevra, il conte di Fondi, Gaetano Orsini, il conte di Caserta, Niccolò Spinelli da Giovinazzo ed altri). Il suo nome ritorna ancora nella condanna rinnovata e aggravata del 28 giugno 1379. Naturalmente con la sentenza di scomunica Urbano VI aveva deposto il B. anche dalla sua dignità di vescovo di Orvieto, nominando in vece sua il vescovo di Città di Castello Niccolò Merciari da Perugia. Non si conoscono i motivi che ispirarono al B. il suo atteggiamento di fronte all'elezione di Urbano VI; ma, accanto ai suoi scrupoli giuridici e al suo sentimento nazionale, con tutta probabilità dovette agire su di lui anche l'influenza del cardinale Giovanni de la Grange, benedettino anch'egli e la personalità politica più cospicua del Sacro Collegio. Infatti si deve quasi sicuramente ad una segnalazione del cardinale, che godeva di un'altissima considerazione presso il re di Francia, se il B. fu chiamato poi a corte da Carlo V.

Dopo l'elezione di Clemente VII il B. si recò quasi sicuramente a Fondi, dove il nuovo papa, in data 16 nov. 1378, rispondeva in modo favorevole "sine alia lectione" ad una serie di suppliche che il vescovo di Orvieto gli aveva inoltrato in favore di quattro suoi nipoti, Guglielmo di Garcia chierico della diocesi narbonese e Rinaldo, Girolamo e Berengario chierici della diocesi di Saint-Pons de Thomières per vari benefici sine cura e prebende. Da Fondi partì poi, in quella fine d'autunno o poco più tardi, alla volta di Avignone, dove incontrò il canonista benedettino Niccolò Vener, al quale presentò i suoi due commenti della regola, esercitando su di lui un'influenza stimolante per la riforma benedettina. Anzi lo Heimpel (p. 68) crede di poter affermare che la vita e l'opera del B. segnino l'inizio degli sforzi di una riforma benedettina che, attraverso Niccolò Vener, giungono a Sigfrido Gerlachon. Il soggiorno avignonese del B. fu però brevissimo, giacché Carlo V, che lo aveva fatto suo cappellano, lo invitò a stabilirsi a Parigi, nel monastero dei celestini, e a iniziare delle indagini per una opera sulla storia dei papi.

Come primo frutto di queste ricerche deve forse considerarsi il breve trattato composto già nel 1379 (probabilmente alla fine dell'anno) a Rouen. Il trattato - ma si tratta piuttosto di appunti - prende le mosse dalla questione allora agitata "utrum generale concilium debeat fieri pro instante divisione Romane ecclesie decidenda" (edizione Bliemetzrieder, p. 44). Per prima cosa il B. vuol chiarire che cosa si intenda per concilio generale e spiega che ve ne sono di tre tipi: l'assemblea di tutta la Chiesa universale, latina e greca, con partecipazione di prelati e principi, chierici e laici, convocata solamente per questioni - come per esempio, l'eresia ariana - riguardanti la Chiesa universale: tali furono i concili di Nicea, di Costantinopoli e simili; il concilio generale della sola Chiesa latina o della sola Chiesa greca, come i concili, di Ancira, di Neocesarea, del Laterano e di Lione; il concilio di un patriarcato, sia latino sia greco, o di una sua vasta provincia, come l'Italia che è sotto il patriarca di Roma, o l'Africa che fu sotto quello di Cartagine.

Sulla base della storia dei papi, il B. dimostra che un concilio del primo tipo non fu mai convocato per risolvere una doppia elezione pontificia, e perciò lo sconsiglia. L'elezione del papa, che è un vescovo, riguarda solamente la Chiesa locale di Roma o i vescovi suffraganei della provincia romana o, al massimo, quelli dell'Italia: ogni contesa al riguardo - conclude il B. - si risolveva, in passato, là dove era sorta, cioè entro le mura di Roma.

Il concilio generale di secondo tipo, in questo caso della sola Chiesa latina, sarebbe invece, al giudizio del B., non solo auspicabile ma necessario: non, s'intende, per occuparsi dell'elezione del vescovo di Roma, bensì per la riforma della Chiesa occidentale, che egli vede articolarsi in tre punti: ritorno all'osservanza dei primi otto concili ecumenici (e così senza bisogno di altre leggi si attuerebbe il rinnovamento di tutta la Chiesa "quia, ut dicit beatus Gregorius, in his consiliis sancte fidei constructura consurgit et cuiuslibet vite atque accionis in eis norma consistit": edizione Bliemetzrieder, p. 46); ripristino dell'antica usanza dei concili provinciali, la cui omissione - afferma il B. - alimenta eresie e toglie la possibilità di dirimere eventuali questioni e di emendare i costumi; impegno di giungere "cum diligencia, humilitate et veritate" (ibid.) all'unione con la Chiesa greca. Se un tale concilio non si potesse convocare, il B., che naturalmente non si faceva illusioni, raccomandava la celebrazione almeno di quello di terzo tipo: infatti, scriveva con amarezza, sono pochi coloro che si adoperano per la pace e la concordia, ma noi siamo tra quei pochi.

Chiarita così la nozione di concilio generale, il B. passa a rispondere a coloro che prospettavano la necessità di un concilio universale per definire la contesa tra i due papi, in base alla considerazione che, essendo la Chiesa di Roma universale, la questione toccava tutti i fedeli. Il B. precisa innanzitutto che la Chiesa di Roma non è universale, ma "de universitate", cioè parte della Chiesa cattolica e apostolica. Chiarisce poi che la cattolicità, cioè l'universalità, è in ogni Chiesa locale come l'uno nei numeri: infatti la Chiesa cattolica non si trova in una sede speciale, ma - sostiene il B. - è, e rimane, soltanto negli uomini santi e perciò "per universum orbem fidelium dilatatur" (ibid., p. 47). Fa poi in particolare l'esegesi di Matteo, XVI, 18 e 19 e Giovanni, XXI, 17 e del titolo "princeps apostolorum" concludendo che mai Pietro ha ricevuto da Cristo il primato e mai lo ha esercitato. Quanto all'affermazione che anche i concili hanno dato alla Chiesa di Roma la potestà primaziale, il B. osserva che i concili non le hanno attribuito privilegi e potestà maggiori che agli altri patriarchi.

L'ultima parte del Trattato è una semplice raccolta di materiale: un elenco di indicazioni di luoghi di vario carattere (storico, patristico, giuridico) che dovrebbero dimostrare, nell'intento dell'autore - sembrerebbe quasi in polemica con l'opposta proposizione del Dictatus papae di Gregorio VII -, la proposizione "Quod romanus pontifex non sit universalis".

Se alcuni temi contrari alla universalità del potere del pontefice (la Chiesa avrebbe due sposi, Cristo e il papa) erano allora forse diffusi e discussi, specie negli ambienti culturali di Parigi (Valois, I, pp. 377 ss.), la posizione del B., maturata nello studio della storia della Chiesa e nella riflessione sulle sue esperienze personali, dove trovava forse una verifica delle idee scambiate un decennio prima nelle conversazioni con i vescovi orientali e i personaggi del seguito di Giovanni V Paleologo, è nel suo complesso audace e originale. Il B. espresse il suo pensiero anche più ampiamente nel Commento (terminato forse all'inizio dell'estate del 1380) al Liber Pontificalis di Pandolfo da Damaso a Onorio II (1124-1130).

Dedicò l'opera a re Carlo V (morto il 16 sett. 1380) con una lettera che reca questa intestazione: "Karolo christianissimo principi... Petrus serenitatis tue humilis cappellanus, tuusque orator minus ydoneus pacificare militantem ecclesiam mererique meritis triunfantem". Il Duchesne, sulla base dell'espressione "tuusque orator", scrisse che il B. fu rappresentante del re presso il papa di Avignone; e lo Heurtebize (p. 464) arrivò a stabilire perfino gli anni, 1379 0 1380, di tale rappresentanza. La precisazione è però infondata, perché è certo che in quegli anni il B. risiedeva a Parigi (Conscripcio, pp. 98-100), facendo un soggiorno anche a Rouen. Ed infatti il Valois (I, p. 326) riferisce l'opinione del Duchesne con riserva, e lo Heimpel (p. 64), prudentemente, si limita a dire che il B. appare come regio orator e cappellanus, senza altra specificazione. Ma la qualifica di ambasciatore deve essere negata. Anche in una lettera allo stesso Carlo V (senza data, ma quasi certamente prima dello scisma, giacché non si fa alcun accenno a differenza della dedica del Commento al Liber Pontificalis), con la quale il B. pregava il re di consegnare ai monaci di St.-Denis l'esemplare del secondo Commento alla regola benedettina, che gli aveva fatto pervenire, ritorna il termine orator: "Oro igitur, heros noster et inclite princeps, eamdem monachorum excipe regulam per me tuae maiestatis oratorem humillimum in Specu... noviter commentatam, ipsamque enim dextera sacra tua... porrigi precor abbati venerabili sancti Dionisi, suoque sacro conventui..." (Allodi, pp. XXVII-XXVIII). Si deve tuttavia osservare che il B., ogni volta che si rivolge direttamente a una persona, si qualifica sempre come orator. Così per esempio, oltre che negli indirizzi a Carlo V e nella dedica delle Tabulae decreti al cardinale Anglico Grimoard, anche nella lettera al clementista cardinale Pietro di Luna del marzo 1387 il B. si firmerà "vester humilis orator Petrus" (Conscripcio, p. 99); e nello stesso modo, nel novembre del 1378, si era qualificato nella presentazione a Clemente VII delle suppliche in favore dei nipoti: "Supplicat s(anctitatem) v(estram) humilis devotus orator vester Petrus" (Registrum supplicationum, 48, f. 372). Sembra perciò indubbio che orator nei documenti bolieriani non vada inteso nel senso di ambasciatore (per tale accezione del resto erano di uso corrente, almeno nella Curia papale, i vocaboli nuncius o nuntius e ambaxiator) bensì come espressione di umile cortesia.

Comunque sia nella dedica a Carlo V del Commento al Liber Pontificalis, il B., mentre esaltava il valore in sé del Liber, di cui indicava al re un triplice significato morale ("Triformia quoque" - e non, come legge il Duchesne, II, p. XXVII, "Tu forum quoque", o il Delisle, p. 385, "Tu solve tria que" - "sunt huiusmodi libri signacula ex metalli materia fabricata moraliter", cod. Vat. Barber., 584, f. 9), si limitava a presentare il suo lavoro come un'aggiunta di "glosellas aliquas". Tuttavia, forse consapevole dell'audacia di alcune sue conclusioni, aggiungeva "que inquam addita, meque ac mea dicta singula, correctioni catholice matris ecclesie humiliter subicio et inclitissime tue etiani maiestatis".

Nelle glosse apposte a singole parole o frasi, secondo il metodo dei glossatori, il B., chiarendo al lettore il passo che prende a commentare, istituisce sempre, o quasi, un confronto tra il passato giudicato migliore, in quanto conforme alla norma degli otto concili, e il presente con le sue deviazioni e sovrastrutture e perciò bisognoso di riforma. Inoltre la verifica sul piano storico della legislazione degli otto concili induce il B. a considerare il diritto antico come lo strumento ideale per la soluzione dello scisma e la piattaforma di ogni rinnovamento della Chiesa.

I risultati dei suoi studi, per altro verso, portarono il B. a riconoscere Urbano VI come vero papa. Questa convinzione, però, o non fu immediata o non la manifestò subito per l'ostilità antiurbanista dell'ambiente in cui viveva e anche per le difficoltà oggettive di lasciare la Francia clementista. Ma il 1º ago. 1386 riuscì a partire e si recò a fare atto di sottomissione a Urbano VI, presumibilmente a Genova, dove il papa dimorò dal 23 sett. 1385 al 16 dic. 1386. In una lettera al cardinale Pietro di Luna (il futuro papa avignonese Benedetto XIII), riferita da Alfonso Pecha (Conscripcio, p. 99), scritta da Perugia il 10 marzo forse del 1387, il B., dopo aver informato il cardinale spagnolo di aver lasciato Parigi alla volta del suo vescovato il 1º agosto (naturalmente dell'anno precedente, e dunque del 1386), gli rivela che durante le ricerche per le Glosse al Liber Pontificalis "concordando canones et practicam Curie nunc currentem, multa vidi que meam conscientiam ingrossarunt contra provisionem factam secundo apud Fundos". Fa poi un'interessante considerazione sull'elezione dell'8 apr. 1378. Spiega infatti che l'elezione di Urbano VI non sarebbe stata forse valida se fosse stata fatta soltanto dai cardinali, ma essa fu ratificata dal clero e dal popolo romano, e dunque - aggiunge secondo il suo concetto di cattolicità - "quodammodo a toto mundo", giacché, per diritto divino e canonico, "episcopalis eleccio ad clerum spectat et populum civitatis".

Quando la notizia del suo passaggio all'obbedienza romana giunse ad Avignone, Clemente VII con bolla del 31 ag. 1387 sospese il B. dal vescovato di Orvieto, affidandone l'amministrazione al vescovo di Grasse Tommaso di Jarente. Urbano VI, al contrario, lo aveva restituito alla sua dignità vescovile e alla sua sede, che però, forse, non poté raggiungere, perché in Orvieto dominava Rinaldo Orsini, clementista. Il B., come afferma egli stesso, fu costretto a fermarsi a Perugia, "non volens transire ultra propter viarum discrimina" (Conscripcio, p. 99). Ma il suo più profondo desiderio era ormai quello di ritirarsi nel suo prediletto monastero di S. Girolamo nella valle sublacense, per il quale però occorrevano costosi lavori di riattamento. A questo scopo otteneva da Urbano VI un privilegio, datato da Lucca 2 luglio 1387, che accordava l'indulgenza plenaria a chi avesse prestato il suo aiuto ai lavori di ricostruzione. Deve essere perciò corretto quanto afferma l'Heurtebize (p. 468), secondo il quale il B. da Perugia si recò a Roma, dove sarebbe stato accolto con benevolenza dal papa. È infatti noto che Urbano VI, assente da Roma fin dal 19 apr. 1383, soggiornò a Perugia dal settembre 1387, rientrando in Vaticano solo alla fine di agosto o ai primi di settembre del 1388, quando il B. era forse già morto. Infatti Alfonso Pecha, che avrebbe composto il suo trattato prima del 19 ag. 1388 (Bliemetzrieder, Un'altra edizione…, p. 76), lo ricorda come già defunto: "quondam episcopus Urbevetanus" (Conscripcio, p. 98). D'altra parte se Clemente VII nominò il titolare di Orvieto fin dal 2 marzo 1388 - ma non aspettò certamente la morte del B. -, Urbano VI non gli diede un successore che ai primi di maggio del 1389, nella stessa persona, pare, di Niccolò Merciari, che lo aveva sostituito durante la sua parentesi clementista.

Opere. Se si eccettuano il commento alla costituzione Summi Magistri, che fu pubblicato a Parigi nel 1519 con il titolo Benedictina, seu Benedicti XII Pontificis Maximi constitutio cum commentario Petri Boherii (quasi introvabile), il (secondo) commento alla regola di s. Benedetto, pubblicato dall'Allodi, e il breve trattato pubblicato dal Bliemetzrieder, Le Traité..., tutti gli altri scritti del B., tra cui molto importanti In Regulam S. P. Benedicti apparatus (primus) e le glosse al Liber Pontificalis di Pandolfo, sono rimasti inediti. (Quest'ultima opera è però in corso di stampa a cura di U. Prerovsky). Un elenco delle opere con i relativi codici è in Allodi, incompleto però, mancando la menzione del Codex Canonum, o Tabulae Decreti, e del Trattato sul concilio generale.

Fonti e Bibl.: Delle lettere pontificie indirizzate al B., che rappresentano la principale fonte documentaria, e che sono conservate nell'Arch. Segr. Vat., sono state pubblicate le seguenti: una da A. Theiner, Cod. diplom. dominii temporalis S. Sedis, II, Romae 1862, p. 430, doc. n. 408; una da F. Ehrle, Die Spiritualen..., 4. Das Verhältniss der Spiritualen zu den Anhänger der Observanz, in Archiv für Litteratur -und Kirchengeschichte des Mittelalters, IV (1888), pp. 184-185; una da J. P. Kirsch, Die Rückkehr der Päpste Urban V. und Gregor XI. von Avignon nach Rom, Paderborn 1898, p. 265; e due da K. Eubel, Bullarium Franciscanum, VI, Romae 1902, p. 472, doc. n. 1182; p. 533, doc. n. 1337; di altre lettere si vedano i troppo brevi, e qualche volta inesatti, regesti di P. Lecacheux e G. Mollat, Lettres secrètes et curiales du pape Urbain V, II, Paris 1906, p. 234, nn. 1442-1443; p. 449, n. 2347; e di G. Mollat, Lettres secrètes et curiales du pape Grégoire XI (1360-1375), I, Paris 1962, p. 161, n. 1164; II, ibid. 1963, p. 45, n. 2711-2712; per le bolle di scomunica si veda O. Raynaldi, Annales ecclesiastici, VII, Lucae 1752, pp. 361-367, e I. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XXVI, Venetiis 1784, coll. 611-614. Ma molti altri documenti vaticani sono inediti: Reg. Vat. 254, f. 120; 255, f. 80v; 258, f. 159v; 286, f. 282v; 298, f. 127; 337, ff. 251-255; 310, f. 286v; Reg.Aven. 171, ff. 101v-102v; Reg. Supplicationum 48, f. 372; Instrumenta Miscellanea 2393. Dei documenti dell'Arch. di Stato di Orvieto alcuni, sebbene con qualche inesattezza ed omissione, sono editi da L. Fumi, Cod. diplom. della città di Orvieto, Firenze 1884, p. 554 n. 690; p. 565 n. 698. Altri inediti: Riformanze 156, ff. 35, 41; 162, ff. 56v-57v, 99v-100; 163, f. 54; inediti anche gli atti dell'amministrazione diocesana del B. nell'Arch. vescovile di Orvieto, CodiceB., ff. 33-35, 150-207. Per i documenti conservati a Subiaco, nell'Arch. di S. Scolastica, cfr. i brevissimi regesti di V. Federici, I Monasteri di Subiaco, II, La biblioteca e l'archivio, Roma 1904, p. 169 n. 1756; p. 172 n. 1794; p. 174 nn. 1808 e 1818, p. 175 nn. 1819-1822; p. 176 nn. 1831 e 1835; p. 190 n. 2013.

Tra le fonti letterarie, oltre agli accenni che si trovano nelle opere del B. stesso, come si è visto nel testo della voce, preziose notizie offre il trattato di A. Pecha, Conscripcio bona sub triplici via de eleccione sanctissimiin Christo patris ac domini Urbani pape sexti, a cura di Bliemetzrieder, Un'altra edizione..., pp. 98-100; qualche notizia offre anche l'anonimo autore del Liber dialogorum Gerarchie subcelestis inter orthodoxum catholicum et cathecumenum Pantascium inquirentem de reformatione ecclesie militantis, in J. Quétif et J. Echard, Script. Ordinis Praedic., I, Parisiis 1719, p. 684.

Particolarmente vasta la bibliografia erudita più antica relativa a B., ormai completamente superata (se ne veda un elenco, sebbene incompleto, in Allodi, p. IX), tuttavia notizie ancora utilizzabili si possono leggere in Ch. Mirzio, Chronicon Sublacense, a cura di P. Crostarosa e L. Allodi, Roma 1885, pp. 415, 420, 424, 442, 444, 447; in Gallia Christiana, I, col. 931; VI, coll. 260-261, 402; in F. Ughelli-N. Coleti, Italia Sacra, I, Venetiis 1717, coll. 1474 s.; in P. Della Valle, Storia del Duomo di Orvieto, Roma 1791, pp. 38-40; insufficiente è invece J. F. Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts, II, Stuttgart 1877, p. 256. Gli studi che in maniera scientifica si sono direttamente interessati della figura del B. sono iniziati con L. Allodi, che alla pubblicazione del secondo commento della Regola, Petri Boherii in regulam S. Benedicti Commentarium nunc primum editum, Subiaco 1908, premette un'ampia prefazione, in cui riprende e discute con nuovi apporti i dati biografici già noti (si veda pure la recensione di P. Lugano, Un commento quattrocentesco della Regola benedettina..., in Riv. stor. benedettina, IV [1909], pp. 56-65); una recensione dell'Allodi è, in fondo, anche l'articolo di B. Heurtebize, P. B., bénédictin, évêque d'Orvieto, in Revue Mabillon, V (1910), pp. 459-473, che però delinea un profilo della vita del B. con qualche altra acquisizione di dati biografici. Nuovi importanti apporti hanno recato le edizioni di F. Bliemetzrieder, Un'altra edizione del trattato di Alfonso Pecha vescovo resignato di Iaën sullo scisma (1387-1388), con notizie di P. B., benedettino, vescovo di Orvieto, in Rivista storica benedettina, IV (1909), pp. 74-100; Id., Le traité de P. B., évéque d'Orvieto, sur le projet de concile général (1379), in Les Questions Ecclésiastiques, II (1909), pp. 40-51; si veda inoltre L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, II, Paris 1892, pp. XXVII s., XXXVII; N. Valois, La France et le grand Schisme d'Occident, Paris 1896, I, pp. 325-326, 398; II, pp. 129-130; L. Delisle, Recherches sur la librairie de Charles V, I, Paris 1907, pp. 3, 82, 385; Catalogue gén. des manuscrits des bibliothèques publiques de France, Dép. XXVII, Avignon, I, a cura di M.-L.-H. Labonde, Paris 1894, pp. 385-387. Una nuova notizia relativa ai rapporti di B. con N. Vener offre H. Heimpel, Der Benediktiner und Kanonist Nikolaus Vener aus Gmünd..., in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Kanonistische Abteilung, LIII (1967), pp. 61-68. Per la sua opera di visitatore e riformatore dei monasteri di Subiaco, P. Egidi, I Monasteri di Subiaco, I, Notizie storiche, Roma 1904, pp. 133-135; P. Carosi, Il primo monastero benedettino, in Studia Anselmiana, XXXIX (1956), p. 77. Per alcune notizie della sua attività di vescovo, L. Fumi, Statuti e regesti dell'opera di S. Maria di Orvieto, Roma 1891, pp. XII-XIV; G. Buccolini, Serie critica dei vescovi di Bolsena e di Orvieto, in Bull. della Deputaz. di Storia Patria per l'Umbria, XXXVIII (1941), pp. 57-63. Una prima analisi del pensiero ecclesiologico del B. è offerta da U. Prerovsky, P. B. vescovo, riformatore, all'inizio dello Scisma d'Occidente, in Salesianum, XXVIII (1966), pp. 495-517; Id., P. B., difensore della dignità episcopale all'inizio dello Scisma d'Occidente,ibid., pp. 626-671. Tra le voci a carattere enciclopedico, buona quella del Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., IX, coll. 514-516, dovuta a B. Heurtebize, che vi riassume l'articolo cit.

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