PIETRA

Enciclopedia Italiana (1935)

PIETRA

Giorgio ROSI
Raffaello BATTAGLIA
Nicola TURCHI

. Architettura. - L'uso della pietra come materiale da costruzione risale ai più remoti periodi della preistoria. Il nome infatti di civiltà megalitica, con il quale si designano le prime apparizioni dell'attività edificatoria dell'uomo, deriva appunto dall'aspetto degli avanzi che ce ne sono giunti sotto forma di costruzioni fatte di massi naturali e di dimensioni enormi. Tali avanzi hanno avuto nomi varî, tratti dalla lingua del paese in cui si trovano, che designano ormai alcune forme caratteristiche, come i dolmen, i cromlech, i menhir, ecc. (per le caratteristiche e la datazione di tali monumenti si vedano le rispettive voci). Si attribuiscono i più antichi di tali avanzi, intorno alla cui destinazione si possono solo fare ipotesi, al periodo neolitico ed eneolitico; a periodi remoti appartengono pure numerosissimi altri avanzi, sparsi un po' dovunque, composti analogamente di massi non lavorati, ma di dimensioni assai più ridotte, e tenuti insieme da fango, ma scelti e disposti con una certa cura, specialmente nel caso di costruzioni particolari, come pozzi, porte, lastricati, ecc.

Del resto l'uso della pietra non lavorata non è limitato a periodi così remoti, ché anzi si protrasse, nei luoghi ove la qualità delle rocce è tale che esse possano essere adoperate allo stato naturale, anche nei tempi storici ed è oggi ancora adottato; basti ricordare i tetti di bevola delle valli alpine, e le coperture coniche dei trulli pugliesi, ottenuti gli uni e le altre mediante lastre risultanti dallo sfaldamento naturale delle rocce. Senza dire che da per tutto, per certe costruzioni molto modeste, specialmente rurali, si adoperano correntemente pietre e ciottoli naturali, adattati e tenuti insieme con il fango e presso i popoli selvaggi è questo necessariamente l'unico uso corrente della pietra nelle costruzioni.

Quali potessero essere i sistemi usati nei periodi precedenti l'apparizione dei metalli per la posa in opera dei blocchi, talora, come si è detto, di rilevantissime dimensioni, non è possibile dire; ma è lecito supporre che nei casi più comuni la loro applicazione si limitasse alle parti inferiori degli edifici, in funzione di basamento, sul quale si poggiassero più leggiere strutture forse di legno, di foglie e di fango; è infatti assurdo supporre che muri di pochi decimetri di spessore, costruiti di pietre rozze e spesso di ciottoli rotondeggianti, tenuti insieme da semplice fango, potessero elevarsi a un'altezza maggiore di quella d'un semplice zoccolo. Solo quando gli spessori erano rilevanti, anche l'altezza poteva svilupparsi maggiormente, ed è questo il caso di costruzioni di sostegno o di difesa, come le mura che fino da allora recingevano gli abitati.

Con l'apparizione del bronzo sorge l'uso di lavorare la pietra, non più per rottura o per sfregamento, come nei periodi precedenti, ma secondo forme prestabilite e più adatte alla costruzione, in vista specialmente del loro combaciamento e quindi della maggiore resistenza della struttura. Appartengono al primo periodo di quell'età i nuraghi (v.) sardi, enormi torri di blocchi in parte rozzamente lavorati e disposti a filari orizzontali aggettanti l'uno sull'altro in modo da formare una specie di cupola, simile a quelle realizzate poi con ammirevole perfezione dai Micenei. Nel secondo millennio a. C. l'Egitto conosceva a fondo l'arte di lavorare la pietra, come dimostrano gli obelischi monolitici e tutta l'architettura monumentale egiziana, basata sull'uso di grandi blocchi di pietra. E non minore doveva essere l'abilità tecnica necessaria al trasporto e alla posa in opera di così colossali elementi, che si pensa fossero fatti salire per mezzo di piani inclinati e grandi terrapieni sino al livello a cui dovevano rimanere. Dalle caratteristiche pratiche di tali materiali derivò il carattere massiccio e statico dell'arte egiziana, poiché la scarsa resistenza alla flessione dei blocchi di copertura determinò la frequenza dei piedritti, e la durezza alla lavorazione non permise intagli e modanature profonde nelle forme decorative, che furono larghe stilizzazioni di elementi vegetali e figurati.

Un uso più limitato della pietra lavorata fu invece caratteristico dell'architettura cretese-micenea (v. cretese-micenea, civiltà), che ne restrinse l'applicazione alle parti più importanti degli edifici, sia dal punto di vista costruttivo, come i basamenti dei muri, costruiti al disopra con blocchi rozzi misti a fango e intelaiati di armature lignee, sia da quello decorativo, come le colonne, i pavimenti, i gradini, ecc. Invece per opere utilitarie, come le fortificazioni, si preferirono blocchi enormi appena regolarizzati. Così si vedono a Micene e a Tirinto i conci accuratamente tagliati dei palazzi e delle tombe reali, coperte da cupole struttivamente simili, come si è detto, ai nuraghi, vicino ai corridoi dei bastioni coperti da grossissimi blocchi appoggiati a capanna. L'origine delle forme decorative fu qui la stilizzazione di elementi strutturali lignei, come appare da varie figurazioni, dove il capitello delle colonne mostra ancora la sua struttura di tronchi cilindrici avvicinati.

Analoga fu l'origine delle forme dell'architettura greca che, al pari dell'egiziana, adottò la pietra da taglio come materiale esclusivo delle sue mirabili creazioni. Ma già prima che il progredire e il diffondersi della tecnica avessero generalizzato quest'uso, i Greci avevano adoperato la pietra nelle opere di pubblica utilità, nelle quali era necessaria una speciale resistenza, come le fortificazioni, i muri di sostegno, le sostruzioni e simili. In quel primo periodo la lavorazione delle varie qualità di rocce, di cui è così ricca la Grecia, seguì un sistema comune anche ad altri popoli agl'inizî di tali applicazioni, il sistema che oggi si dice genericamente poligonale e che in passato, per le dimensioni che spesso i blocchi presentano, fu noto sotto il nome di ciclopico. In esso la lavorazione è ridotta al minimo necessario per regolarizzare i blocchi in modo da ottenere, oltre la faccia esterna, varie altre facce piane per il combaciamento reciproco, ma seguendo per quanto era possibile la loro forma naturale e quindi senza cercare di raggiungere una forma geometrica prestabilita. L'aspetto esterno dei giunti fra i blocchi adiacenti risulta così un poligono qualunque, donde il nome. Non si deve considerare questo sistema come un regresso rispetto a quello parallelepipedo seguito tanti secoli prima dai costruttori cretesi-micenei, in quanto, se pure può essere stato ispirato dal desiderio di ridurre al minimo la lavorazione, esso presenta vantaggi reali, quali l'utilizzazione al massimo del materiale e un migliore concatenamento dei varî pezzi, a causa dell'adattamento preciso dell'uno all'altro. E per questo adattamento occorre d'altra parte un'abilità tecnica notevolissima.

Allo stesso sistema, adoperato simultaneamente ai Greci dalle popolazioni italiche preromane, appartengono anche costruzioni in regioni lontanissime, quali quelle, di qualche secolo posteriori, dovute alla civiltà fiorita nel Perù prima della conquista degl'Inca.

Presso i Greci la struttura poligonale fu la più diffusa fino al sec. VI a. C. e anche in seguito non fu mai del tutto abbandonata, negli usi su accennati, diventando anzi in qualche caso d'una tale perfezione ed eleganza da poter essere considerata come una raffinatezza estetica. Nell'architettura monumentale greca la pietra da taglio fu invece adoperata in blocchi parallelepipedi e disposti in strati orizzontali, come già presso gli Egiziani; non però di dimensioni così enormi, ché anzi si preferirono conci di grandezza più maneggevole, tranne, s'intende, i casi nei quali per le proporzioni dell'edificio o la destinazione specifica del pezzo, non fossero necessarî elementi monolitici rilevanti; e i varî conci, lavorati con meravigliosa maestria, si collegarono reciprocamente mediante grappe metalliche, le cui forme variarono secondo i tempi. Blocchi più lunghi formarono gli architravi, le coperture dei peristilî, i lacunari e simili, mentre il tetto, sostenuto da incavallature lignee, si arricchiva talvolta di tegole marmoree.

La perfezione raggiunta dai Greci nella lavorazione della pietra fu straordinaria. Per ottenere un combaciamento completo fra le facce dei blocchi si usò in ciascuna di esse di limitare la superficie di contatto alla sola striscia più esterna, lavorata con estrema esattezza, arretrando, con un sistema detto anathyrosis, la parte più interna lasciata rustica. Analoga raffinatezza di esecuzione e di disegno si ricercò nelle parti decorative, le cui forme, come si è accennato, furono il risultato di un processo di stilizzazione di forme strutturali lignee. La corrispondenza in questo campo fra le linee dei varî blocchji è così perfetta, che si è pensato che la loro lavorazione definitiva fosse fatta in opera, come pure l'esattezza generale ha fatto spiegare alcune leggerissime anomalie riscontrate nelle linee di alcuni monumenti, come tentativi di correggere le opposte deformazioni ottiche o prospettiche (curve di Ictino nel Partenone di Atene, ecc.). Come ricerche di effetti chiaroscurali possono considerarsi le zone lasciate sbozzate e leggermente sporgenti sulla faccia finita, dalle quali derivò poi la decorazione a bugna tanto usata dai Romani e durante il Rinascimento. I sistemi adottati per il trasporto, il sollevamento e la posa in opera dei pezzi possono talora ricostruirsi osservando alcune particolarità della loro lavorazione, come i solchi e le intacche praticate nelle facce destinate a restare invisibili, o le sporgenze lasciate in quelle esterne, gli uni e le altre destinati a offrire un punto di presa alle funi e agli attrezzi appositi.

L'architettura romana usò la pietra da taglio quasi sempre come paramento esterno. Salvo il caso delle parti ornamentali, derivate anche struttivamente dall'arte greca, i blocchi lapidei, fossero essi i massi dell'opus incertum o i piccoli cunei dell'opus reticulatum o i conci parallelepipedi dell'opus quadratum, furono usati, a partire almeno dal II-I sec. a. C., solo per la superficie esterna delle strutture, il cui nucleo era in conglomerato e collegato al paramento grazie alla scabrosità della superficie interna di questo o da elementi disposti in profondità. Perfezionatosi l'uso dei laterizî per la costruzione dei paramenti, la pietra divenne un semplice materiale da rivestimento, di spessore relativamente piccolo, applicato al nucleo murario ad opera ultimata e assicurato ad esso mediante grappe metalliche. In tale nuova funzione, costruttivamente secondaria, la pietra servì al gusto fastoso del tardo impero sotto forma di tarsie, d'incrostazioni, di effetti coloristici dovuti ai materiali rari e preziosi, che poi si continuarono con l'arte bizantina, nella quale l'influsso decorativo orientale accentuò la ricerca della decorazione di superficie, restringendo sempre di più l'uso di elementi costruttivi in pietra, che si limitarono alle colonne, di preferenza monolitiche, alle cornici, ai pulvini. Solo nelle regioni più ricche di pietre adatte alla lavorazione, e quindi anche di tradizioni e di maestranze esperte, la pietra rimase in uso per tutte le parti della costruzione, comprese le vòlte, per le quali occorre una non comune abilità tecnica, quale è quella dimostrata dai monumenti siriaci.

Anche in seguito la scelta del materiale rimase questione non più di capacità nell'uso, ma di opportunità economica e pratica. Così l'arte del Medioevo realizzò i suoi monumenti ora in pietra ora in altro materiale, per lo più in mattoni, senza altra regola che le tradizioni costruttive locali e senza che per questo il gusto artistico e le soluzioni costruttive proprie del tempo venissero ad essere modificate. Il periodo gotico predilesse in modo speciale la pietra, per la stessa sapienza tecnica e l'esile eleganza delle sue forme, che richiedevano materiali molto resistenti e suscettibili di essere foggiati secondo le funzioni specifiche dei varî pezzi. La perfezione allora raggiunta dalla lavorazione, sia nei complicati intagli ornamentali, sia nella complessa stereotomia costruttiva, sia nella stretta aderenza delle forme decorative alle membrature strutturali, ricorda quella dei Greci.

Dal Rinascimento in poi, ritornando a fiorire le forme classiche romane, si usarono gli stessi sistemi costruttivi, e la pietra concia riprese il suo ufficio decorativo nelle facciate, nei portici, nei cortili, nelle chiese e simili, mentre le pareti e le vòlte si ricoprirono d'intonachi dipinti o no. Ma la limitazione nel campo tecnico non ostacolò l'evoluzione in quello ornativo, dove al contrario gli artisti del Rinascimento seppero variare in modi infiniti e impreveduti gli schemi classici e, specie nel Quattrocento, seppero trasformare gli stessi elementi architettonici in finissime opere di scultura decorativa.

Analoga tendenza, e più accentuata ancora, seguirono i secoli successivi, che anche per le parti decorative ricorsero ai rivestimenti e ai rilievi di stucco, mentre d'altra parte nessun altro periodo, dopo il romano, seppe servirsi con altrettanta abilità e fantasia delle possibilità delle pietre come elementi cromatici e pittorici. Oggi poi, con i procedimenti tecnici che separano nettamente la costruzione dalla decorazione, e le possibilità della lavorazione meccanica, la funzione della pietra si restringe sempre più a quella di un semplice rivestimento di leggerissimo spessore.

Un uso proprio, specialmente dei paesi orientali e dei popoli venuti di là, ma che in un certo senso tiene più della scultura che dell'architettura, fu quello della lavorazione in forme architettoniche delle rocce vive. L'uso fu più che altro funerario, data anche la difficoltà di scavare molti ambienti nell'interno delle rocce stesse. Ricordiamo infatti le necropoli egiziane della Valle dei Re, le tombe dell'Etruria e quelle tardo-romane della Siria. Ma nell'Oriente più remoto, e specialmente in India, furono talora scavati o ricavati da caverne già esistenti, . lavorandone le pareti, interi e vasti santuarî, non diversi nelle loro forme massicce e sovraccariche dagli edifici costruiti.

V. tavv. LXI-LXIV.

Per la civiltà della pietra, v. paleolitica, civiltà; miolitica, civiltà; neolitica, civiltà.

Industrie litiche attuali.

Presso molte popolazioni incolte - prima che queste venissero a contatto con gli Europei o con altri popoli civili, come i Cinesi o gl'Indù - la lavorazione della pietra, materia da cui ricavavano armi, utensili, ornamenti, ecc., era molto diffusa. L'uso degli oggetti di pietra presso queste popolazioni non è del tutto scomparso neppure ora (come non è scomparso presso le classi rurali dei popoli civili), per quanto le antiche tecniche tradizionali cadessero più o meno rapidamente in disuso a mano a mano che si diffondeva e si generalizzava l'uso degli oggetti metallici, ottenuti mediante scambî dagli Europei e dagli altri popoli che li possedevano o li producevano.

La lavorazione della pietra non è molto diffusa tra le popolazioni in possesso d'una cultura veramente primitiva, come i Pigmei, i Boscimani, i Tasmaniani, i Fuegini o gli Eschimesi. Presso queste genti la materia prima viene ricavata principalmente dal legno nelle regioni tropicali ed equatoriali, dall'osso e dal corno nei territorî artici. La lavorazione della pietra raggiunse invece un grande sviluppo in seno a popolazioni in possesso d'una civiltà più elevata. Tra queste vanno ricordati in modo particolare i Melanesiani e i Polinesiani, i quali al tempo dei celebri viaggi di L.-A. de Bougainville, J. Cook, J.-F.-G. de La Perouse, J.-S.-C. Dumont d'Urville, vivevano ancora in piena civiltà litica. Secondo E. H. Giglioli la maggior parte degli oggetti di pietra adoperati dagli attuali Melanesiani sono opera di generazioni passate. Gli indigeni continuarono a servirsi di questi manufatti, i quali venivano passati da padre in figlio; ma pochi conoscevano ancora il modo di lavorarli. Nei distretti interni della Nuova Guinea, però, ancora al principio del secolo XX venivano lavorate armi di pietra, e nella Nuova Britannia la fabbricazione delle palao, le micidiali teste di mazza sferoidali, rifiorì dopo il 1884, in seguito alla proibizione da parte delle autorità coloniali di vendere agl'indigeni fucili e altre armi di provenienza europea. Questi prodotti moderni sono però inferiori tecnicamente a quelli del passato.

Largamente diffusa era l'industria della pietra anche tra gli indigeni dell'America, come dimostra il ricchissimo materiale trovato nelle vecchie cave, negli accampamenti abbandonati e nelle antiche tombe.

Nell'eroica difesa del loro paese i Pellirosse abbandonarono ben presto le frecce e le lance dalla punta di quarzo o di selce, le mazze dalla testa litica e i coltelli silicei per adottare le stesse armi dei loro nemici. Tra gl'Indiani del nord-ovest, le selvagge tribù della bassa California e dell'America Meridionale, l'uso degli oggetti di pietra si perpetua ancora.

Come abbiamo detto, tra i primitivi i manufatti di pietra non sono molto comuni. Alcune di queste popolazioni, anzi, impararono a servirsi molto presto di oggetti di ferro. I Pigmei africani e i Boscimani armano spesso le frecce con punte di ferro, che si procurano dai fabbri negri. I Boscimani usano anche piccole accette di questo metallo, come i Sakai di Malacca, i quali le ottengono dai Malesi della costa. I Vedda si fanno fare le cuspidi per le frecce e le accette dai fabbri singalesi, mentre gli Andamanesi, prima ancora che venissero a contatto con gl'Inglesi, ricavavano il ferro dalle navi naufragate e lo lavoravano martellandolo a freddo.

Armi e arnesi ricavati da schegge litiche di varie forme, adoperati a mano senza immanicatura, fabbricavano i Tasmaniani. Caratteristiche sono le asce ovali o i picchi triangolari degli Australiani, fissati con mastice a un manico di legno piegato intorno all'oggetto. Tali armi sono ricavate per lo più da rocce quarzitiche mediante scheggiatura. Accanto a queste esistono anche asce levigate di diorite con il taglio arrotondato. Di pietra sono pure i coltelli laminari appuntiti con i margini lisci o scheggiati, adoperati specialmente dalle donne. L'impugnatura è formata da una massa globulare di mastice fissata all'estremità più larga. Gli Andamanesi possiedono cinque diversi strumenti di pietra: martello, incudine, lisciatoio, lamette per rasarsi o tatuarsi e pietre per riscaldare le vivande. Piccoli punteruoli litici per forare i dischetti di uova di struzzo, di cui si adornano, usano i Boscimani. Molto scarsi sono pure i manufatti litici tra i primitivi abitanti della Terra del Fuoco. Si possono segnalare i coltelli di conchiglia con il manico di pietra e le cuspidi di freccia. Ben noto è il coltello a taglio semicircolare di rocce silicee, di nefrite o di ardesia, fissato a un manico d'osso adoperato dalle donne eschimesi. La lama di pietra viene ora volentieri sostituita con una di ferro. Di pietra scheggiata sono anche i raschiatoi, le punte di trapano, le cuspidi di freccia e quelle di lancia adoperate da queste tribù artiche per la caccia delle balene e dei caribù. A questi prodotti dell'industria litica eschimese sono da aggiungere ancora le lampade di steatite e i martelli levigati di pectolite, simili a quelli usati anche dagl'Indiani del Canada e dai Ciukci. Gl'Indiani dell'America boreale sanno ricavare anche grandi recipienti da blocchi di ardesia, che scavano con picchi e raschiatoi di quarzo ed altre rocce dure. I Delaware scolpivano in pietra qualche volta anche maschere rituali.

Svariati e pregevoli per la perfezione della tecnica sono i prodotti dell'industria litica dei Melanesiani e dei Polinesiani, consistenti in asce, scalpelli, coltelli, pestelli, teste di mazza, lance, frecce, pietre da fionda, ornamenti personali e amuleti. Tra i prodotti più comuni e caratteristici di queste popolazioni sono le asce e le teste di mazza levigate. Si possono distinguere tre tipi di accette e di asce: da lavoro, da combattimemo e da parata. Queste ultime si distinguono per la perfezione della politura e per la grandezza (per es., le gigantesche emaiopu di Kiwau nella Nuova Guinea, lunghe fino a mezzo metro), oppure per la decorazione dell'impugnatura o del sostegno. Le teste di mazza - armi e oggetti da parata - sono egualmente di varie fogge, tra le quali prevalgono quelle sferiche e discoidali. I Papua della Nuova Guinea possedevano anche bellissime e rare clave con testa litica sferoidale, munite di eminenze bugniformi e piramidali disposte a stella. Questi oggetti sono ricavati da rocce dure, come giadeite, nefrite, diorite, basalto, porfido e più raramente da granito, arenaria o calcare. Anche il quarzo e altre rocee silicee vengono utilizzate. Notevolissime sono le cuspidi scheggiate di ossidiana, con le quali gli abitanti delle Isole dell'Ammiragliato armavano i loro giavellotti. Oggetti di ossidiana usavano anche gli abitanti dell'isola della Pasqua. Tra i manufatti di pietra dell'Oceania sono da ricordare anche i dischi litici forati del diametro da pochi cm. a quattro metri e che nell'isola di Yap servivano da moneta.

Il grande sviluppo che ebbe la lavorazione del ferro presso i Negri africani, già in tempi remoti, portò all'abbandono dei manufatti di pietra, pur tanto abbondanti nei depositi pleistocenici e anche neolitici dell'Africa. Tra i Negri, come tra gli Etiopi e i Berberi, i pochi oggetti di pietra ancora in uso sono persistenze di tempi passati, allo stesso modo che presso le popolazioni rurali europee o i popoli civili dell'Asia. Di pietra sono ancora le incudini e i martelli con i quali alcune tribù negre lavorano il ferro. Più generale è l'uso delle macine e dei macinelli di pietra. Nello Yatenga questi oggetti sono fabbricati dalle donne. Di quarzo e di altre pietre sono spesso i bastoncini e i dischi, che vengono introdotti nelle labbra, ornamento molto frequente tra i Negri. Braccialetti di pietra portano qualche volta i Tuareg.

I procedimenti tecnici con cui i popoli incolti moderni lavorano o lavoravano la pietra non sono diversi da quelli usati dalle generazioni preistoriche, che li precedettero. Rari sono, come abbiamo visto, i popoli che ignorano la levigazione della pietra (Tasmaniani, Fuegini, Pigmei). Già tra alcune tribù australiane del centro e del settentrione troviamo in uso la levigazione, che viene largamente praticata dagl'indigeni dell'Oceania e dell'America. Le pietre tenere venivano segate o scavate con arnesi di pietra dura. Varî utensili, pestelli, mortai, macine non venivano levigati, ma soltanto martellati. Con questa tecnica sono lavorati anche i blocchi di pietra con cui i Polinesiani costruirono le piattaforme e i grandi recinti sacri, di cui si conservano tuttora le rovine.

Nelle isole dell'Oceania gl'indigeni in luogo di materiale litico adoperavano anche valve di conchiglie, che venivano lavorate e levigate con lo stesso sistema della pietra, e dalle quali ricavavano accette, raschiatoi e ornamenti personali. Per questi lavori sceglievano di preferenza la Tridacna gigas e la Meleagrina margaritifera. Anche gli Andamanesi e i Fuegini, come pure gli antichi abitatori delle isole Bahama, ricavavano utensili da conchiglie marine. Gli Australiani lavorano pure, mediante scheggiatura, il vetro di bottiglia e la porcellana degl'isolatori telegrafici. Manufatti ricavati da vetro di bottiglie e di bicchieri usavano anche i Fuegini.

Bibl.: E. H. Giglioli, Le mazze con testa sferoidale di pietra della Nuova Brettagna, in Arch. antr. etn., XXVII (1897); id., Lo strumento primitivo chelléen dell'uomo quaternario in uso attuale nell'Australia, ibid., XXX (1900); id., Materiali per lo studio dell'età della pietra dai tempi preistorici all'epoca attuale, ibid., XXXI (1901); A. C. Haddon, A classification of the stone clubs of British New Guinea, in Journ. Anthrop. Inst., XXX (1900); H. Klaatsch, Die Stein-artefakte der Australier u. Tasmanier, in Zeitschr. für Ethn., XL (1900); O. T. Mason, L'origine delle invenzioni, Torino 1909; O. Schoetensach, Tasmanische Steininstrumente, in Zeitsch. für Ethn., XXVII (1905).

Pietre sacre.

Il culto delle pietre è universale e lo si trova o in atto o allo stato di sopravvivenza sotto ogni latitudine. Una pietra può assumere per il primitivo un valore mistico, e quindi sacro, a seconda della forma e della qualità (pietre piccole ma di particolare valore e lucentezza: quarzo, cristallo, gemme) ed essere ritenuta come incorporazione di spiriti possenti, capaci di produrre, se abilmente provocati, gli effetti più mirabili.

Le pietre pertanto sono adoperate come mezzo magico di primo ordine. Possono provocare la pioggia in tempo di siccità, se gittate nell'acqua, come fanno i Samoani, o se spruzzate di acqua, come facevano i Romani con il lapis manalis nella cerimonia dell'aquaelicium; ovvero possono procurare fertilità agli alberi, ai campi, ecc. La sua stabilità rende la pietra garante del mantenimento delle promesse e dei patti: perciò su essa si pronunciano i giuramenti. Così il novizio brahmano tenendo un piede su una pietra giura di mantenersi saldo nel suo proposito; e in Atene gli arconti innanzi a una pietra giuravano di salvaguardare le leggi della città.

Il culto delle pietre è documentato fino dall'epoca preistorica, come dimostrano i monumenti megalitici (v. megaliti). È noto anche il culto che i preistorici ebbero per l'ascia (e che si trova ampiamente documentato anche nella civiltà minoica), culto dimostrato anche dal folklore, nel quale le asce di pietra e le cuspidi di freccia sono considerate di provenienza celeste e chiamate "pietre di fulmine".

Il culto della pietra, sia aniconica (a forma di cilindro o di cono o squadrata), sia rozzamente scolpita, si trova diffuso in tutto l'Oriente semitico anche in epoca storica (v. betilo). Gli Arabi antichi avevano come luogo essenziale di culto un recinto, in mezzo al quale si ergeva una pietra che veniva unta d'olio e su cui si versava il sangue della vittima sacrificata. Presso i Cananei era diffuso il culto dei "luoghi alti", su cui si ergevano pietre sacre (massebah), alle quali si diresse, nonostante la protesta dei profeti, il culto dei figli d'Israele. Il simulacro di Afrodite a Pafo era una pietra conica e tale era anche la pietra nera di Emesa. Una pietra nera (aerolito) era il simulacro di Cibele, pure un aerolito è la pietra adorata dagli Arabi pagani nella Ka‛bah alla Mecca e il cui culto si è perpetuato nell'islamismo. Sull'abbondanza di simulacri di pietra nei santuarî di Grecia ci è testimonio Pausania. Una pietra sacra conica a punta ovoidale era anche l'omfalo (v.) a Delfi.

In Roma dal tempio di Giove Feretrio si prendeva la pietra sacra (lapis silex), che i feciali portavano con sé recandosi a stringere trattati, e per Iovem lapidem si giurava. Sacre erano anche le pietre (termini) che segnavano il confine della proprietà: ad esse si rendeva culto nelle Terminali.