PASOLINI, Pier Paolo

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

PASOLINI, Pier Paolo

Arnaldo Bocelli

Scrittore, nato a Bologna il 5 marzo 1922; ha vissuto in varie regioni d'Italia; fra l'altro, dal 1943 al 1949, nel paese materno di Casarsa (Friuli); laureato in lettere, risiede da parecchi anni in Roma, lavorando anche per il cinematografo, sia come sceneggiatore e soggettista, sia come attore (Il gobbo, 1960) e regista (L'accattone, 1961).

Fornito di singolari qualità critiche, oltre che liriche e narrative, la sua posizione nella letteratura e cultura del secondo dopoguerra può considerarsi tipica per il tentativo d'innestare un filologismo di ascendenza ermetica sul tronco dell'ideologismo marxista, d'ispirazione gramsciana: con conseguente valorizzamento del dialetto, quale espressione di una realtà popolare non ancora giunta a identificarsi con la vita nazionale, di contro alla lingua, propria della classi "privilegiate". Valorizzamento da lui propugnato in studî critico-storici e stilistici (che molto risentono del Contini, dello Spitzer e dell'Auerbach: cfr. Passione e ideologia, Milano 1960) e in antologie (Poesia dialettale del Novecento, in collaboraz. con M. Dell'Arco, Parma 1952; Canzoniere italiano, ivi 1955; La poesia popolare italiana, Milano 1960); e direttamente tentato, sul piano creativo, nei romanzi Ragazzi di vita (Milano 1955), Una vita violenta (ivi 1959), ricorrendo all'ibrido gergo, più che dialetto, delle borgate romane; così come le poesie giovanili (raccolte in La meglio gioventù, Firenze 1954) erano ricorse al friulano. Ma se per quest'ultimo si trattava di un dialetto legato a ricordi o tradizioni familiari, nel caso del romanesco si tratta di un'adozione o "traduzione" volontaristica, di natura letteraria (influssi del Belli, del Gadda del Pasticciaccio, di Moravia), che finisce col perpetuare, sotto travestimento popolaresco, quell'estetismo e decadentismo (la parolaccia invece della parola eletta) che il marxismo condanna, sboccando in un realismo di maniera, ben lontano dalla vagheggiata genuinità espressiva. Non per nulla questa è raggiunta da P. nei componimenti in lingua: in qualche poemetto di Le ceneri di Gramsci (Milano 1957), di L'usignolo della chiesa cattolica (ivi 1958), e di La religione del mio tempo (ivi 1961), dove quel narcisiaco amore di sé, che caratterizza le sue poesie giovanili, si amplia in amore di vita, anzi in vitalismo, e questo, per effetto di quella concezione del popolo italiano e della sua storia, mette capo ad una visione baroccamente suggestiva di città, regioni, contrade, popolazioni, che le particolarità dialettali riassume, appunto, nell'universalità della lingua nazionale.

Bibl.: G. De Robertis, in Tempo (Milano), 21 luglio 1955; G. Titta Rosa, in L'Osservatore politico e lett., luglio 1955; A. Bocelli, in Il Mondo, 11 ottobre 1955, 24 sett. 1957, 18 agosto 1959; E. Cecchi, Libri nuovi e usati, Napoli 1958, pp. 199-201; G. Manacorda, in I narratori di L. Russo, 3ª ed., Milano-Messina 1958; P. Citati, in L'Approdo lett., n. 6, aprile-giugno 1959 e in Il Giorno, 13 giugno 1961; F. Fortini, in Il menabò, n. 2, Torino 1960, p. 730 segg.

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