CAIRO, Pier Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CAIRO (del Cairo), Pier Francesco

Giovanna Grandi

Nacque in Santo Stefano in Brivio, presso Varese, il 26 sett. 1607, da Pietro Martino. La famiglia si trasferi poi, per poco tempo, a Varese, e non sappiamo se il C. vi lasciasse qualche prova della sua primissima attività di pittore. Lo ritroviamo più tardi a Milano, dove la tradizione lo dice allievo di P. F. Morazzone: chiaramente legato al maestro si mostra infatti nelle prime opere, che risultano già esistenti nel 1635.

L'impianto iconografico e insieme l'attenzione a scavare drammaticamente nel personaggio rappresentato, la violenza del gesto e del colore gli provengono dal Morazzone; e insieme non è insensibile alla visione più umanamente dolorosa del Cerano, in forme e situazioni tormentate e febbrili. Lo dimostrano le tre versioni dell'Erodiade: quelladi Torino (Pinacoteca sabauda), già attribuita al Morazzone, impastata di tonalità verdastre, quella ancor più febbricitante di Vicenza (Pinacoteca) e quella di Boston (Museum of Fine Arts), carica d'orrore (cfr. Brunori, 1967); o ancora il S. Sebastiano di una raccolta privata (Testoni, 1952). Sembrerebbero frutto di esperienze tragicamente vissute durante la peste milanese del '30, traducenti in pittura l'angoscia e la tragedia di quei giorni.

Fu forse proprio allo scoppio della pestilenza che il C. fuggì da Milano, tra il 1629 e il '30, per rifugiarsi a Torino; qui dovette aggiungere altre testimonianze pittoriche di questa sua situazione sentimentale, che peraltro poteva a buon diritto tingersi di fosco per il ricordo di un delitto di cui s'era reso colpevole non sappiamo con precisione quando né come. Sono infatti realizzati con intelaiature disegnative e cromatiche nate da profonda sofferenza soggetti come il Sogno di s. Giuseppe (Museo di Berlino Dahlem) in cui rimedita iconograficamente il Morazzone; il Cristo nell'orto (Torino, Pinacoteca sabauda; Milano, Castello Sforzesco, e Novate, racc. Testori), dove propone soluzioni più personali, in chiave appunto più simbolica ed allusiva. Agli anni del primo soggiorno torinese, a parte un Crocifisso documentabile nel 1635 che sarebbe stato interessante conoscere (già in SS. Processo e Martiniano), spettano ancora altri quadri, già oggetto di lunghe discussioni attributive: i due S. Francesco di Brera (Nicodemi, Zuppinger: Morazzone) e del Castello Sforzesco (attribuito al Morazzone da G. Frizzoni, in Rassegna d'arte, VII [1907], 5, p. 65, Nicodemi, Zuppinger; e dal Testori, 1952, al C.), i due S. Francesco a mezzo busto della Pinacoteca sabauda e quello del Museo civico di Torino; e ancora la Testa del Battista (Castello Sforzesco), il B. Andrea Avellino (Milano, S. Antonio Abate: F. Mazzini, in Arte lombarda, III [1958], 2, p. 13); e il S. Francesco della chiesa di S. Tommaso a Torino (citato da N. Pevsner, in Repertorium für Kunstwissenschaft, LI [1930], pp. 260-263, come del Morazzone; dalla Gregori, 1962, p. 186, come di artista tra il C. e il Morazzone). Se non tutte, almeno una parte di queste opere dovettero essere dipinte dal C. prima di entrare al servizio dei Savoia, che appunto attraverso esse dovettero stimar conveniente valersi della sua opera. Nel 1633 risulta già pittore di corte.

Sono di questi anni tele in cui rimedita il tema della tragicità più violenta in figure femminili a mezzo busto che non lasciano spazio, nel quadro, altro che ai loro gesti carichi e tormentati: la Lucrezia e la S. Agnese della Pinacoteca sabauda, le due tele raffiguranti la Morte di Cleopatra (Pinacoteca ambrosiana, Milano; Galleria Harrach, Vienna); opere queste non sempre di livello elevato, ma dove è possibile seguire anche l'evoluzione culturale del C., dal Morazzone, al Cerano, al Tanzio. Quest'ultimo anzi gli dové essere tramite ad una conoscenza di Caravaggio, che agì certo più a fondo ora, mediatamente, che non forse quando il C. poté vedere direttamente a Roma, le opere caravaggesche. Accanto, compare una disponibilità ad accogliere, di quest'ansia tormentosa, l'aspetto più facile, ad alleggerirla almeno per quanto conceme il colore, corposo, morbido, procedendo parallelamente allo svolgimento del lombardo C. F. Nuvoloni, suo coetaneo. In questo stemperarsi della pittura in motivi più accessibili e anche più malinconici sarà da ricercarsi pure il contatto coi genovesi, con lo stesso Van Dyck che da Genova veniva fatto conoscere, tramite G. C. Procaccini, in Lombardia.

Non che la vita quotidiana del C. segni un risvolto più pacato, anzi l'investitura del titolo di cavaliere ottenuta dal duca Vittorio Amedeo I, nonché considerazione, stipendio, regalie gli permettono una vita agiata e anche un tantino scioperata, se il duca, alla fine del 1635, lamenta che la cattiva condotta del pittore sta destando scandalo, per la sua convivenza con la figlia di un certo Filippo Pelignino, da cui ha avuto una bambina. E anche se più tardi il C. s'imparenterà con la nobiltà locale, sposando Ludovica Piossasco, figlia del conte Marco Andrea di Scalenghe, una vita non troppo giudiziosamente amministrata lo costringerà ad implorare a più riprese aiuti in denaro o in favori da parte di Madama Reale, Cristina di Francia, vedova di Vittorio Amedeo. Ma intanto, dopo la morte del duca (1637) e dopo aver lavorato anche per il cardinal Maurizio e per il principe Tommaso Francesco, il C. parte per Roma: vi resta solo due anni, non troppo interessato a quel clima pittorico, se non come aggiornamento culturale, lontano però dai suoi veri interessi. Assai più importanti, semmai, il ritorno a Milano intorno al '44 e i continui viaggi e soggiorni fra Torino, Milano, Varese: a questa data poteva trovare in Lombardia un ambiente fervido di ripensamenti che dal tardo manierismo ceranesco e procaccinesco andava a quelli provenienti dalla Liguria (Van Dyck e anche Rubens), dal Veneto e dall'Emilia. Ne sono frutto tele come la S. Caterina (Périgueux, Museo), o la S. Teresa (Milano, Pinacoteca di Brera, dono Testori), o la Comunione di una santa, un po' più tarda (New York, coll. Hamilton), insieme con la variante a Leningrado, Ermitage (Brunori, in Commentari 1964). Nel settembre '44 lavora a una Maddalena portata dagli angeli (perduta), che, essendo in pessime condizioni finanziarie, offre a Madama Reale per averne aiuto.

I soggetti sono ricorrenti: se ne vedono esempi nella Maddalena del Museo di Pavia, forse però di qualche anno più tarda, o in quella della raccolta Testori (Novate). Anche la Lucrezia viene riveduta in altre versione: una a Brera (già a palazzo Litta), una al Prado. due in raccolta privata (pubblicate dal Testori, 1952, e, dalla Brunori, 1964), mentre la Lucrezia di Londra (T. Agnew and Sons) è in realtà replica della Cleopatra della Gall. Harrach di Vienna (cfr. Burlington Magazine, CVIII[1966], suppl. giugno, tav. V). Il tema del Cristo nell'orto risulta assai addolcito nella versione del Museo civico di Torino. E anche il Ritrovamento di Mosè (ora nella Pinacoteca sabauda), che venne dipinto probabilmente a Torino (nello sfondo sono raffigurati il duomo e il campanile), è ormai una più accomodata rappresentazione di un fatto biblico come ritratto di corte. Stilisticamente vicina, sarà forse da collocare in questi anni la Strage degli Innocenti, la cui attribuzione ad anonimo lombardo, nel Museo provinciale di Saragozza, sarebbe da spostare al Cairo. E della stessa pasta pittorica sembrano la Pandora, il Ritratto di donna, la Donna con amorino (tutti alla Pinacoteca di Pavia). 2 un modo di intendere il ritratto: aggimgendogli significati che possono alludere a una "storia", ormai non più, comunque, quella terribile di Erodiade, ma che è ora pura pittura, per quanto sensuale e retorica, come in un veneto del '500 fattosi barocco. Non è poi così grossolana perciò la confusione, che si faceva ai primi del '700 e di cui riferisce l'Orlandi, tra ritratti del C. e di Tiziano. Certo più spagnoleschi che veneti gli Autoritratti a Brera o agli Uffizi, o il Don Silverio de Matanza (Milano, Ospedale Maggiore), un autentico hidalgo seppure appesantito, proprio in questi attributi, da successive ridipinture; e anche il ritratto di Fulvio Testi (Milano, Brera) riflette caratteri di analisi, oltre che storica, acutamente umana; di esso è una replica a Roma (Galleria nazionale) che la Brunori (1967) sostiene essere copia di quello di Milano; il Giubboni (in L. Scaramuccia, La finezza dei pennelli italiani [1674], Milano 1965) ritiene il contrario.

Comunque l'assimilazione della tradizione veneta è chiaramente visibile intorno e dopo il 1645; non sappiamo se avvenuta direttamente o attraverso i numerosi e notevoli esempi presenti in Lombardia: il secondo '500, da Tiziano a Veronese, a Palma il Giovane attrae l'artista specialmente per quanto concerne l'impasto corposo, il colore tonale che il C. sperimenta già nel Ritrovamento di Mosè, poi nella Strage degli innocenti (ma questo stesso soggetto ripreso nel duomo di Varese, insieme all'Adorazione dei Magi, lo riavvicina al Morazzone, poiché l'attenzione si sposta sul gesto e sul colore violento). Dai veneti, la sua capacità ad adeguarsi lo conduce facilmente alla cultura emiliana, soprattutto al Correggio, che traspare nella Madonna col Bambino (Milano, Arcivescovado), nelle figure di Venere, Apollo e Amore (Dresda), non per nulla già attribuite a G. C. Procaccini. Al 1645 è documentata la tela per la chiesa di S. Salvario a Torino: il Salvatore adorato dai ss. Cristina e Valentino, risultato di un ripensamento di soluzioni e temi già suoi, ma come filtrati attraverso le nuove attenzioni ai veneti e agli emiliani. Il 16 sett. 1646 Cristina di Savoia gli concede il feudo di Peglia, oggetto poi di lunghe discussioni e litigi; l'anno dopo gli commissiona una tela, ex voto, da dedicare alla Vergine che appare a Petrina Tesio (Savigliano, santuario dell'Apparizione). Anche i Quattro santi in finte nicchie (Milano, S. Vittore) dipinti dopo il 1648, quando il C. si stabilisce a Milano, sono intesi in chiave veneta: certo un viaggio a Venezia era presto fatto, e anche più d'uno; e quadri del C. nel Veneto, forse dipinti in loco, saranno certo reperibili, a parte la S. Teresa in S. Maria degli Scalzi, che risulta però pagata a Milano nel 1654 dagli Scalzi di S. Carlo (cfr. Matalon, che cita la quietanza di pagamento, del 3 luglio 1654, dell'Arch. di Stato di Venezia). Ma intanto una conferma di tali interessi è ancora nel S. Carlo che comunica s. Luigi (Casalpusterlengo, chiesa prepositurale: pubblicato dalla Brunori, in Commentari, 1964) o nel Commiato di s. Giovanni Battista dai genitori (Aicurzio, parrocch.), che probabilmente risale alla tarda attività del C. (A. Ottino Della Chiesa, in Boll. d'arte, XLIX [1964], p. 371). Un ripiegamento, quasi un ritorno alle origini, è segnato verso la fine dal Martirio di s. Stefano (Casale Monferrato, chiesa di S. Stefano) del 1660, di nuovo più febbrile nel gesto, ma più livido e opaco nel colore, mentre ancora squillante ed opulenta, tra i veneti e Correggio, è la bella pala con la Vergine, il Bambino e due sante alla certosa di Pavia, documentata anchessa nel 1660. Le si può avvicinare cronologicamente il S. Francesco Saverio predica agli Indiani (Modena, S. Bartolomeo), che con un'ultima impennata - intenso, modernissimo - sembra chiudere l'attività del pittore.

Il C. morì a Milano il 27 luglio 1665, lasciando nove figli, nessuno dei quali, a quanto si sa, fu pittore.

Fonti e Bibl.: Oltre alla bibl. in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 365, si veda per i docc. non altrimenti indicati, Schede Vesme, I, Torino 1963, pp. 233-239; ma vedi anche: P. A. Orlandi, Abecedario pittorico, Bologna 1704, p. 114; G. De Conti, Ritratto della città di Casale [1794], a cura di G. Serrafero, Casale 1966, pp. 40, 48; S. Ticozzi, Diz. degli architetti, scultori, pittori, Milano 1830, pp. 245 s.;V. Ruffo, Gall. Ruffo nel sec. XVII in Messina, in Boll. d'arte, IX-X (1916), p. 311; S. Matalon, F. dei C., in Rivista d'arte, XII(1930), pp. 497-531; E. Zuppinger, Dei S. Francesco del Morazzone, in Commentari, II(1951), p. 114; G. Testori, SuF. del C., in Paragone, III(1952), n. 27, pp. 24-43; Id., Manierismo piemont. e lombardo del '600 (catal.), Torino-Ivrea 1955, pp. 35-38, 60-63; G. A. Dell'Acqua, Due inediti del '600lombardo, in Critica d'arte, XVIII(1956), pp. 585-588 (lo stesso, in Studi in onore di M. Marangoni, Pisa 1957, pp. 267-270); G. Nicodenli, La pittura lombarda dal 1630al 1706, in Storia di Milano, XI, Milano 1959, pp. 498-504; M. Gregori, Mostra del Morazzone (catal.), Varese-Milano 1962, pp. 107-114, 174, 178, 180, 184 ss.; M. T. Brunori, Considerazioni sul primo tempo di F. del C., in Boll. d'arte, XLIX(1964), pp. 236-245; Id., Per F. del C. (dal 1639 al 1665), in Commentari, XV(1964), pp. 232-245; G. Grandi, L'ultimo C. a Torino, in Boll. della Soc. piemontese di archeol. e BB. AA., XVIII(1964), pp. 110-119; M. T. Brunori, Spigolature in margine al del C., in Pantheon, XXV(1967), pp. 105-111.

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