Pianificazione centralizzata

Dizionario di Economia e Finanza (2012)

pianificazione centralizzata

Vera Zamagni

Sistema economico alternativo all’economia di mercato, introdotto da J.V. Stalin in URSS nel 1928. La p. c. sostituì le decisioni produttive prese dagli imprenditori privati nell’economia di mercato ‒ instaurata, dopo il cosiddetto comunismo di guerra, con la NEP (➔) nel 1921 ‒ con un piano produttivo determinato dagli obiettivi strategici stabiliti dal Partito comunista sovietico e resi operativi con matrici input-output costruite in termini fisici. I prezzi erano amministrati e non svolgevano alcun ruolo nel determinare l’incontro della domanda e dell’offerta, mentre la moneta aveva solo un compito passivo. Tutti i Paesi che nel secondo dopoguerra furono soggetti all’influenza politica dell’URSS, ricalcarono il modello del sistema economico sovietico e, così facendo, ne ripresero il ‛dirigismo’. Un tale sistema si dimostrò sostenibile nella fase di sviluppo ‘estensivo’ (dal 1928 a fine anni 1960, con la sola interruzione dell’economia di guerra), quando cioè occorreva moltiplicare gli investimenti in direzioni facilmente identificabili (elettrificazione, infrastrutturazione, acciaierie, industria militare), ma del tutto inefficiente per la produzione di beni di consumo e, soprattutto, per la fase di sviluppo ‘intensivo’ (anni 1970-80), quando l’incentivazione delle innovazioni divenne cruciale.

Limiti del sistema sovietico

Le imperfezioni del sistema si evidenziano a partire dalla parzialità delle informazioni che affluivano presso l’Ufficio centrale della pianificazione (GOSPLAN), costretto a lavorare sulla base di conoscenze parziali, che permettevano di elaborare solo obiettivi di elevata aggregazione. I prezzi amministrati, non potendo riflettere il rapporto continuamente mutevole tra offerta e domanda, non mettevano a confronto l’interesse dei produttori e quello dei consumatori. I redditi delle imprese (salari e profitti) non dipendevano dai risultati di mercato, ma dall’adempimento formale dei piani. Le aziende potevano quindi raggiungere gli obiettivi globali del piano anche nel caso in cui la produzione non corrispondeva alla domanda. Essendovi una forte eccedenza di potere d’acquisto non soddisfatto, esse potevano senza difficoltà smerciare tutti i prodotti, anche quelli non apprezzabili. Non c’era alcuna concorrenza all’interno di uno stesso settore. Le imprese non erano quindi spinte né ad aumentare la loro efficienza né a progredire sul piano qualitativo e tecnologico. Esse tentavano, al contrario, di massimizzare le entrate con un minimo di cambiamenti e di sforzi innovativi. Il risultato complessivo di questo sistema di pianificazione era una produzione non adeguata alla domanda e non al passo con il progresso tecnologico del resto del mondo. Questa realtà emergeva chiaramente dalle file davanti ai negozi, dallo sviluppo del mercato nero, dalla corruzione e dai furti di massa nelle imprese. La scarsa efficienza economica del sistema provocò scontento generalizzato, creando le premesse per diversi tentativi di riforma, fino al collasso (1991) del sistema stesso.