Perugia

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Perugia

Alessandro Campi

Il primo riferimento a P. che s’incontra nelle Istorie fiorentine (d’ora in avanti Ist. fior.) riguarda la decisione di Urbano IV (1261-64) di promuovere una spedizione militare contro re Manfredi, il figlio dello scomunicato Federico II, e di ritirarsi nella città umbra, già all’epoca fedele dominio ecclesiastico, in attesa di capire quali e quante forze avrebbero aderito alla sua crociata (I xxii 8). Ma, ormai malato, il papa morì lungo il cammino che lo portava a P., dove fu poi sepolto. Questo primo richiamo basta a evidenziare il fattore che più di altri ha segnato la storia politica perugina a partire dal 13° sec.: il suo profondo, ma problematico e spesso conflittuale, rapporto con il potere pontificio. La dedizione del governo cittadino (quello municipale-repubblicano, come quello tirannico-signorile dei Bracceschi e dei Baglioni) all’autorità papale fu infatti accompagnata, come lo stesso M. registra a più riprese nei suoi scritti, da fasi di scontro e di contrapposizione, anche violente, dalla ricerca di un difficile equilibrio tra lealtà alla Chiesa e autonomia cittadina. Solo nel 1540 il rapporto tra le due entità trovò una soluzione a suo modo stabile: al culmine della ‘guerra del sale’ P. fu assediata dalle milizie di Pierluigi Farnese (il figlio di Paolo III), costretta alla capitolazione e definitivamente privata delle sue libertà civiche: il potere passò interamente nelle mani del legato pontificio, anche se furono mantenute in vita alcune delle antiche magistrature, a partire dai priori. La costruzione nel 1540-43 dell’imponente Rocca Paolina sulle macerie dei quartieri dove sorgevano le case dei Baglioni divenne il simbolo di una dominazione che sarebbe terminata soltanto nel 1860.

La dominazione dei Bracceschi

P. entra nelle opere di M. in particolare attraverso i condottieri e gli uomini d’arme che ne hanno segnato la storia tra i secc. 15° e 16°, a partire dal più celebre: Andrea Fortebracci, detto Braccio da Montone. Di nobile famiglia perugina costretta all’esilio dal governo popolare, divenuto capo di una potente compagnia di ventura, Braccio – che pure si era schierato dalla parte di Giovanni XXIII contro i propositi espansionisti del re di Napoli Ladislao I – era poi entrato in urto con il papa «per avergli occupata Perugia e alcune altre terre» (Ist. fior. I xxxviii 4). Ciò era avvenuto nel 1416: approfittando dei contrasti interni alla Chiesa, che avevano portato due anni prima alla convocazione del Concilio di Costanza, Braccio si era insignorito di P. dopo aver sconfitto le milizie comunali in battaglia (12 luglio). Aveva poi occupato l’Alto Lazio e si era spinto, favorito dalla vacatio papale, sino a prendere possesso di Roma (16 giugno 26 agosto 1417). M. racconta del coinvolgimento di Braccio nelle lotte di successione del Regno di Napoli (al soldo prima della regina Giovanna II contro il marito Giacomo di Borbone, poi di Alfonso V d’Aragona contro la stessa Giovanna), dei suoi contrasti con il nuovo papa Martino V (che saranno mediati proprio da Firenze: Ist. fior. IV vii 5) e della sua fine in battaglia nel giugno 1424:

Braccio, non sbigottito per essersi abbandonato Alfonso, seguitò di fare la impresa contro alla reina, e avendo assediata l’Aquila, il papa, non giudicando a proposito della Chiesa la grandezza di Braccio, prese a’ suoi soldi Francesco figliuolo di Sforza, il quale andò a trovare Braccio a l’Aquila dove lo ammazzò e ruppe. Rimase dalla parte di Braccio Oddo suo figliuolo, al quale fu tolta da il papa Perugia e lasciato nello stato di Montone (Ist. fior. I xxxviii 8-9).

La reggenza su P. di Oddo – che sarebbe morto nel febbraio 1425 mentre combatteva per Firenze contro Guidantonio Manfredi, signore di Faenza e alleato del Visconti (Ist. fior. IV xiii 1-3) – durò in effetti meno di due mesi: il 6 agosto il commissario papale aveva già ripreso il controllo della città.

Quanto agli altri eredi di Braccio, del nipote Niccolò della Stella M. ricorda che fu al servizio di Firenze per reprimere la ribellione di Volterra e tentare la conquista di Lucca (Ist. fior. IV xviii 20) e che, «mosso da l’antica nimicizia che Braccio avea sempre tenuta con Chiesa» (Ist. fior. V ii 5) e che gli era costata la scomunica, assaltò Roma costringendo alla fuga verso Firenze papa Eugenio IV; mentre del figlio legittimo Carlo, rimasto per gran parte della sua carriera militare al soldo dei veneziani, rammenta il tentativo – in una pausa della condotta per la Serenissima, nell’estate 1477 – di riprendersi P. con le armi e con il sostegno di alcuni membri della fazione nobiliare che ancora rimpiangevano la signoria del padre. Ma la spedizione – «trovando [Carlo] le cose di Perugia difficili, per essere in lega con i Fiorentini» (Ist. fior. VII xxxii 5) – si risolse in uno scacco: dopo aver razziato per settimane i territori dell’Umbria e del Senese e aver ottenuto un’effimera vittoria a danno delle milizie guidate da Antonio di Montefeltro, richiamato d’urgenza dalla Serenissima alle prese con la minaccia turca, alla fine perse il controllo del castello di Montone (occupato dal delegato di Sisto IV il 23 ottobre) e con ciò sancì il tramonto delle ambizioni politiche del partito braccesco. Alla notizia della sua morte, avvenuta due anni dopo in battaglia, «a’ Perugini si fermò l’animo», stando a quanto si legge in un appunto di M. ricompreso nei suoi spogli cancellereschi (Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, t. 2, 2010, p. 957), dal quale però non si evince chiaramente se si trattò di sgomento per la scomparsa di chi, sulla scia di Braccio, avrebbe potuto rendere P. nuovamente potente e indipendente dalla Chiesa o di soddisfazione per il venir meno di una minaccia armata alle libertà comunali già sin troppo insidiate dai rappresentanti papali.

La Perugia dei Baglioni

Condottieri e membri dell’oligarchia nobiliare cittadina, ma diversamente dai Fortebracci sempre formalmente sottomessi all’autorità della Chiesa, furono anche i Baglioni, la cui signoria de facto su P. durò dalla metà del 15° alla metà del 16° sec., sebbene sempre contrastata da un’endemica lotta con le altre fazioni (in particolare quella degli Oddi) e resa debole dai violenti scontri interni alla stessa famiglia. Tra i membri di questo casato, il più citato nei testi machiavelliani (in particolare in quelli diplomatico-cancellereschi) è Giampaolo (→). Mercenario al soldo di Firenze sin dal 1493, per la campagna contro Montepulciano, e ancora nel 1498 nella guerra contro Pisa e Venezia, nel 1500 – dopo essere sfuggito alla strage dei suoi fratelli e cugini organizzata da Carlo e Grifonetto Baglioni al termine di un convivio nuziale – Giampaolo passò al servizio di Alessandro VI e, successivamente, del Valentino, al cui disegno espansionistico finì tuttavia per opporsi organizzando a Magione, nel settembre-ottobre 1502, la Dieta alla quale parteciparono tutti quei signorotti che, dopo aver sostenuto l’avanzata militare del Borgia, se ne erano poi sentiti minacciati nei possedimenti e nella vita. Scampato alla strage di Senigallia e alla vendetta del Valentino, dopo la malattia di quest’ultimo e la morte del papa (agosto 1503) aveva ripreso possesso di P. (che le truppe borgesche gli avevano tolta nel gennaio 1503) ed era tornato al servizio di Firenze, salvo poi assumere nei confronti di quest’ultima, che ne sollecitava i servigi nella sua lotta contro Pisa, un atteggiamento attendista e sospettoso. A quest’epoca, aprile 1505, risale la missione condotta da M. presso Baglioni, il cui obiettivo era comprendere le ragioni dei suoi dinieghi e rinvii rispetto agli impegni militari assunti con la Signoria. L’unica lettera ai Dieci scritta dal Segretario in occasione di questa legazione (datata 11 aprile) riassume bene, nell’interpretazione che ne ha dato Gennaro Sasso, «i risultati essenziali del pensiero machiavelliano» (Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, 1980, p. 183), oltre a illuminare la figura del condottiero perugino: mentre Firenze, per essere una potenza politica effettiva, ha poco da perdere dalla defezione improvvisa di Baglioni, quest’ultimo, per essere venuto meno alla sua parola di uomo d’arme ed essersi macchiato «d’ingratitudine e d’infedeltà» (LCSG, 4° t., p. 417), condurrà alla rovina sé stesso e la sua città. In politica l’infedeltà non paga, come non paga l’errore o il calcolo approssimativo quale che ne sia la giustificazione addotta. Dal che M. conclude, prendendo l’apparente furbizia di Giampaolo a modello negativo, «che li òmini debbono fare ogni cosa per non si avere mai ad iustificare perché la iustificazione presuppone errore o opinione d’esso» (LCSG, 4° t., p. 418).

Un equivoco filologico e un enigma storico

Al nome di P. è legata la disputa filologica, nella quale sono stati coinvolti i maggiori studiosi italiani del Fiorentino (da Carlo Dionisotti a Mario Martelli, da Roberto Ridolfi a Sasso), su un testo machiavelliano che, tra quelli cosiddetti minori, è tra i più conosciuti e importanti. Si allude ai Ghiribizzi al Soderino (→) il cui valore risiede nelle significative anticipazioni concettuali, rispetto al Principe, sul tema della fortuna e sulla difficoltà di considerare l’azione umana come sottoposta a un controllo razionale, se è vero che il mutare delle circostanze e delle contingenze procede con un ritmo diverso rispetto al mutare degli atteggiamenti e comportamenti degli uomini. A lungo quest’abbozzo di lettera è stato conosciuto come Ghiribizzi scritti a Raugia al Soderino: se ne riteneva destinatario l’ex gonfaloniere, riparato a Ragusa dopo la fuga da Firenze nell’agosto 1512. Ma dopo il ritrovamento dell’autografo (a opera di Jean-Jacques Marchand) e i successivi approfondimenti critici si è potuto stabilire che la lettera fu scritta in risposta a una missiva di Giovan Battista Soderini, nipote di Piero, datata 12 settembre 1506 (e indirizzata a M. «a Perugia, o dov’e’ sia»). In quei giorni M. si trovava al seguito di Giulio II, che il 26 agosto, «per gittarne ogni tirann’in terra, / abbandonando la sua stessa soglia, / a Bologna e Perugia [aveva mosso] guerra» (Decennale II, vv. 91-93). Ma lo scontro militare con quest’ultima fu evitato, nell’interesse di entrambi i contendenti, grazie all’atto di pubblica sottomissione compiuto da Baglioni (13 settembre). L’episodio di cui si rese protagonista un tiranno, con fama di crudele e spietato, che avendo alla sua mercé il pontefice «venuto per torgli lo stato» (LCSG, 5° t., p. 465) ne riconobbe invece l’autorità, si trova narrato nei Discorsi e, già prima, nel dispaccio alla Signoria scritto la stessa sera del fatto. Nei due testi il giudizio risulta tuttavia diverso. Nei Discorsi si dice che al carattere temerario e tumultuoso di Giulio II corrispose la «viltà di Giovampagolo» (I xxvii 5), il quale si astenne dal compiere un gesto sacrilego – la presa in ostaggio o l’uccisione di un papa – non per misericordia o bontà, ma perché un atto crudele e politicamente necessario, come quello che gli avrebbe consentito di mantenere il dominio su P., richiedeva pur sempre grandezza, volontà e forza d’animo: tratti del carattere che evidentemente mancavano al tiranno perugino. Nella lettera ufficiale, la rinuncia alla forza da parte di Giampaolo era stata accreditata, oltre che alla «sua buona natura e umanità» (LCSG, 5° t., p. 465), a una scelta tutta politica nel segno dell’umiltà e della prudenza: e in effetti, quella mossa consentì a Baglioni, oltre che di salvare la vita, di mantenere la propria influenza su P. pur perdendone il controllo formale. Giampaolo, che già era sfuggito alla rappresaglia del Valentino cogliendone in anticipo gli intendimenti, riuscì anche nel 1506 a salvarsi dalla furia conquistatrice del papa-soldato: dimostrò così doti di abilità politica non inferiori ai suoi meriti di soldato, riconosciute da M. a caldo, mentre nei suoi scritti post res perditas il giudizio sulla sua condotta risulta molto più severo.

Nei Discorsi si trova narrato un altro episodio della storia perugina, peraltro emblematico delle lotte tra fazioni nobiliari che per decenni sconvolsero la città, che a M. ha suggerito significative riflessioni sul peso della contingenza e degli imprevisti nelle cose umane. Risale al 1495 e si riferisce al tentativo degli esuli partigiani degli Oddi di penetrare nottetempo in città, grazie all’aiuto di alcuni loro fautori, e di prenderne il controllo dopo aver eliminato i capi e sostenitori della consorteria dei Baglioni. Ma a un passo dalla piazza e dai palazzi del potere, un ordine mal inteso, scambiato per un invito a ritirarsi, gettò lo scompiglio tra le fila degli aggressori, facendo fallire l’azione. Dal che si ricava, secondo M., «che non tanto gli ordini, in uno esercito, sono necessari per potere ordinatamente combattere, quanto perché ogni minimo accidente non ti disordini» (Discorsi III xiv 9). La massima sembra attinente alla tecnica militare e all’arte del comando, ma in realtà riguarda l’ordine naturale e il mondo umano: basta un minimo caso, un semplice imprevisto, per produrre esiti inaspettati e spesso incontrollabili.

Bibliografia: A. Fabretti, Biografie dei capitani venturieri dell’Umbria, 2 voll., Montepulciano 1842-1843; L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860, 2 voll., Perugia 1875-1879; A. Grohmann, Città e territorio tra Medioevo ed età moderna (Perugia, secc. XIII-XVI), Perugia 1981; Braccio da Montone e i Fortebracci, Atti del Convegno internazionale di studi, Montone 23-25 marzo 1990, a cura di M.V. Baruti Ceccopieri, Narni 1993; A. Capata, I Ghiribizzi al Soderini: un’anticipazione del Principe?, in Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, a cura di A. Campi, catalogo della mostra, Roma, Complesso del Vittoriano, 25 aprile-26 giugno 2013, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2013, pp. 97-100.

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