Perugia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Perugia

Attilio Bartoli Langeli
Pier Vincenzo Mengaldo

Tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento P. occupò una posizione di assoluto rilievo tra i comuni dell'Italia centrale e di egemonia incontrastata nell'Umbria, compresa allora in gran parte nello stato della Chiesa. Tale posizione, corrispondente al più alto livello di sviluppo toccato dalla città in tutta la sua storia, fu il risultato di una condotta politica che si svolse fin dal tempo della " recuperatio " da parte di Innocenzo III (1198) nell'ambito di una sostanziale fedeltà alla Chiesa e ai programmi dei ponteici.

Il comune fu infatti a capo della resistenza umbra a Federico II, sostenne la venuta di Carlo d'Angiò, inviò contingenti militari a Martino IV contro il Montefeltro, partecipò alla crociata contro i Colonna e appoggiò le missioni fiorentine di Matteo d'Acquasparta e di Carlo di Valois: a tal fine nell'agosto 1301 partì da P. la spedizione " en servitio de messer Carlo Sençaterra " (non in aiuto ai Bianchi fiorentini come intende il Davidsohn [III 225]: cfr. la cronaca perugina pubblicata da Bonaini, Fabretti e Polidori, in " Arch. Stor. Ital. " XVI [1850] I 59, e poi F.A. Ugolini, Annali e cronaca di P. in volgare dal 1191 al 1336, in " Annali Facoltà Lettere e Filos. Univ. di Perugia " I [1963-64] 164) di un corpo di cavalleria, quello stesso che rese omaggio al Valois al suo ingresso in Firenze (Compagni II 9).

L'impressione di un allineamento incondizionato da parte dei Perugini alla politica della Chiesa era accentuata agli occhi dei contemporanei dall'assiduità con la quale i pontefici dimorarono in P., da essi considerata come la città più sicura del loro stato.

Importa tuttavia sottolineare che la linea direttrice della politica cittadina fu non la fedeltà alle direttive papali, bensì l'interesse particolare del comune, considerato in modo autonomo e senza pregiudiziali ma anche, ovviamente, in rapporto alla situazione nella quale P. agiva; interesse che poteva coincidere o no con quelli più ampi della Chiesa nel settore. Interprete dell'esigenza di uno sviluppo cittadino non condizionato dall'esterno fu la classe dirigente di estrazione artigiana, che improntò la propria fisionomia istituzionale a imitazione di quella fiorentina - fatto normale nell'Umbria - attraverso l'introduzione delle magistrature del capitano del popolo (1255 circa) e dei priori delle Arti (1299). La posizione di potere raggiunta sotto l'impulso di questo ceto dirigente maturo e abile si manifestò all'esterno con l'ampliamento del contado, la sottomissione o controllo dei comuni rivali, la libertà nei rapporti economici e commerciali, la partecipazione diplomatica di primo piano ai grandi avvenimenti di politica italiana, e all'interno della città con un notevole incremento urbanistico, edilizio e artistico nonché con l'istituzione dello Studium generale.

D. doveva conoscere bene questa P., tanto per motivi di carattere personale (probabilmente vi soggiornò; ebbe rapporti con persone che la frequentarono, come Guido da Polenta, che vi fu podestà nel 1284), quanto per l'attenzione che gli ambienti praticati da D. dovevano dedicare alla città in forza di due circostanze precise: la frequenza della corte pontificia, che tra l'altro, insieme con la presenza dell'università, conferiva a essa un carattere di apertura culturale e d'internazionalità; la vicinanza geografica e gl'intensissimi rapporti diplomatici con Firenze (da menzionare, per limitarci al periodo dell'attività politica di D., le podesterie del perugino Bonifacio Giacani a Firenze nel 1297-1298 e di Niccolò dei Cerchi a P. nel 1298-1299, una " compagnia ", probabilmente di natura commerciale, stipulata dai due comuni nel 1297 [Ugolini, Annali e cronaca, cit., p. 164] e le tre ambasciate perugine ai priori nel bimestre in cui D. ricoprì questa carica, come si rileva dalle riformanze comunali del periodo).

Una conoscenza precisa di P. e dell'ambiente che la circonda è infatti dimostrata in Pd XI 43-48, nell'articolata localizzazione della patria di s. Francesco; la città è uno dei punti di riferimento per indicare la fertile costa d'alto monte (v. 45) sulla quale giace Assisi, e per effetto della quale P. sente freddo e caldo / da Porta Sole (vv. 46-47).

Quest'ultima, la più alta tra le cinque porte perugine, è volta a levante e da ciò prende il nome, essendo illuminata per prima dal sole, nascente da dietro il Subasio. Di porte in verità al tempo di D. ne esistevano due, quella della cinta etrusco-romana (presso la piazza del Sopramuro [oggi Matteotti], distrutta durante la costruzione della Rocca Paolina) e quella medievale, spostata verso l'esterno della città in corrispondenza con l'ampliamento del circuito murario (da identificarsi con quella detta del Giglio o di fra Raniero o dei Montesperelli, ancora oggi esistente). Ma non occorre domandarsi quale delle due D. intendesse citare: il riferimento è senza dubbio al rione che dalla porta prendeva il nome, nel senso attestato dall'uso documentario perugino; è infatti tutta la parte alta della città, il cosiddetto Monte di Porta Sole, a subire con maggiore intensità le variazioni termiche causate dalle correnti d'aria provenienti da est.

Se questo è il solo riferimento esplicito al rione perugino, un altro e più significativo rapporto sembra legarlo a tutto il passo. A chi guarda dalla sommità di Porta Sole si offre infatti un panorama che corrisponde fedelmente alla descrizione dantesca: sulla pianura umbra domina isolata la massa ricurva del Subasio, al centro della quale è Assisi, che appare adagiata sul declivio del monte. La presentazione del luogo natale di s. Francesco sembra cioè risultare, più che da un ragionato calcolo topografico, da un'esperienza viva e reale, appunto dall'impressione visiva della mole solitaria del Subasio. Alla posizione apparente degli elementi nell'insieme di quel particolare scorcio di paesaggio vanno anche ricondotte le imprecisioni che il quadro presenta (in particolare Gualdo Tadino non è di rietro al Subasio, ma al prolungamento montuoso di esso verso nord), imprecisioni che hanno indotto il Guardabassi a proporre l'identificazione nell'alto monte di tutto il massiccio montuoso che culmina nel Subasio (cfr. Sapegno, ad l.): osservazione che può essere giusta dal punto di vista strettamente geografico, ma non tiene conto dell'impostazione visiva della descrizione.

Anche l'accenno all'influsso termico che il Subasio eserciterebbe sulla parte orientale della città dev'essere spiegato postulando un'esperienza diretta da parte di D. dell'ambiente perugino. Si tratta di una tradizione locale, dettata appunto dalla posizione del Subasio rispetto a Porta Sole; in realtà le variazioni che si risentono con intensità alla sommità del colle perugino dipendono (oltre che dalla natura del luogo, scosceso su tre lati e perciò esposto a tutti i venti) dalle correnti d'aria calda e fredda provenienti dalla massa montuosa degli Appennini, non dalla presunta funzione del Subasio di ‛ serbatoio ' termico.

Questa concretezza descrittiva s'inserisce perfettamente nel procedimento simbolico che anima tutto il passo. L'inserzione freddo-caldo a proposito di P. completa l'andamento binario che presiede alla triangolazione, i cui altri termini sono i binomi Tupino-Chiascio e Nocera-Gualdo, in consonanza con la serie di parallelismi simbolici su cui sono imbastiti Pd XI e XII; inoltre, sebbene la porta perugina intitolata al sole sia nominata per inciso e senza alcun rapporto con le formulazioni successive, tuttavia la semplice evocazione del nome sembra voler introdurre il simbolismo solare attorno al quale ruota l'esordio della biografia poetica di s. Francesco. Soprattutto, l'angolazione particolare da cui è guardato il paesaggio umbro fornisce a D. un aggancio concreto per la doppia similitudine Francesco-sole e Assisi-oriente, immagini già adottate e svolte dalla letteratura francescana esclusivamente sulla base dell'identificazione del santo con l'" angelus ascendens ab ortu solis " di Apoc. 7, 2.

Un altro passo del medesimo brano dà luogo a una discussione riguardante P.: si tratta del v. 48, a proposito del quale alcuni (in particolare il Morici) hanno visto nel grave giogo per cui ‛ piangono ' Nocera Umbra e Gualdo Tadino un accenno al dominio oppressivo che P. (non certo gli Angioini, come vogliono il Lana, l'Ottimo e il Buti) esercitava su di esse, rispettivamente dal 1202 e dal 1208. Proprio nel periodo di D., la supremazia perugina veniva riaffermata con la forza su Gualdo nel 1292, su Nocera nel 1295, 1305 e 1320 (quando la sottomissione fu operata da Cante dei Gabrielli). Anche se l'ultimo dato cronologico è troppo tardo rispetto alla composizione del canto XI del Paradiso, resta il fatto che se le due città - specie Nocera - si agitavano tanto, doveva essere forte il loro malcontento: il riferimento, se ci fosse, a una mala segnoria perugina sarebbe perciò perfettamente corrispondente alla realtà storica. La gran parte degli studiosi (sull'autorità di Pietro e Benvenuto) rifiuta però l'interpretazione politica dei vv. 47-48 e propende per una spiegazione topografico-climatica, che " molto più naturalmente si adatta a tutto il contesto " (Bassermann, Orme 629 nota 17): il passaggio da una notazione fisica, come quella sul freddo e caldo perugino, a un significato metaforico sarebbe troppo brusco e arbitrario (Salvatorelli). A ciò si può aggiungere che Nocera e Gualdo, collegabili per la vicinanza geografica, non lo erano dal punto di vista politico: la prima rientrava nella sfera d'influenza folignate, la seconda in quella eugubina, e l'una o l'altra erano impiegate da P. in funzione volta a volta antifolignate o antieugubina. Il ‛ pianto ' delle due città sarebbe dunque, in opposizione alla fertilità della costa occidentale del Subasio e in rapporto alle variazioni termiche subite da P., un'allusione alla rigidezza del loro clima, condizionato dalla sovrastante massa montuosa o del Subasio, che non le proteggerebbe dalla tramontana e toglierebbe loro alcune ore di sole, o più probabilmente degli Appennini, la cui costa occidentale, sulla quale sono Nocera e Gualdo, è meno ridente (per usare un termine attinente al ‛ pianto ') e più scoscesa di quella corrispondente del Subasio.

Va segnalata l'esegesi del Ciacci che, superando le difficoltà presentate dalla posizione di Gualdo rispetto ad Assisi e abbracciando decisamente l'interpretazione politica del grave giogo, fa assumere un significato metaforico anche al di rietro del v. 47 e lo riferisce a P., non alla fertile costa del Subasio. Il passo andrebbe così inteso: dietro a P., seguendola in buon ordine in quanto sottomesse e domate, piangono Nocera e Gualdo.

D'altronde anche se si accetta, in tutto o in parte, l'esistenza dell'allusione politica (ad es. l'Apollonio coglie nel brano " una animazione storico-politica sottintesa e pregnante "), il rilievo storico di P. sembra non richiamare l'attenzione di D.: essa sarebbe sì ricordata come città dominante nella regione, ma più come termine di riferimento per indicare Assisi e sottolineare per contrasto la forza pacificatrice che ne emanò, che non per la sua effettiva importanza (Manselli). Non è sufficiente addurre, a ragione di questa valutazione, la diametrale opposizione tra il guelfismo di P. e le aspirazioni di D. (il quale quando disapprova veramente, lo fa con ben maggiore severità); si può credere piuttosto che egli dovette concepire la politica perugina a tal punto allineata alle direttive papali (in particolare bonifaciane) da non porsi come elemento autonomo di giudizio. Ma soprattutto si dovrà rilevare che D. " guarda, per quel che concerne l'Umbria, al di là dei valori contingenti, per coglierne e indicarne la forza di santità, culminata in Francesco " (Manselli, p. 171 n. 2).

In altri luoghi dell'opera dantesca, P. è ricordata solo per inciso e di sfuggiata. All'assedio subito da parte di Ottaviano nel 40 a.C. è fatto cenno nel discorso di Giustiniano sull'aquila imperiale (e Modena e Perugia fu dolente, Pd VI 75): la reminescenza di Lucano (" Perusina fames Mutinaeque labores ", Phars. I 41) è evidente dall'abbinamento col fatto d'arme di Modena del 43 a.C., abbinamento che - sempre comunque sulla scia di Lucano - si ritrova anche nel poema perugino di Bonifacio da Verona (Eulistea II 101 " iacturas Mutinae "; al verso successivo è introdotta la formulazione del ‛ dolore ' della città: " concives doluere tui [di P.] partesque tulerunt "). P., infine, non è nemmeno nominata nelle espressioni con cui D. ricorda il conclave ivi tenuto nel 1304-1305, nella lettera ai cardinali italiani (Ep XI 23-25).

Sembra inaccettabile, per la sua genericità, la notizia data dal Filelfo di un'ambasceria che D. avrebbe compiuto a P. per conto del comune fiorentino nel 1300 circa (cfr. Le vite di D., Petrarca e Boccaccio, a c. di A. Solerti, Milano 1904, 184). Un viaggio a P. andrebbe piuttosto collocato nel periodo dell'esilio. Una datazione 1304-1306 è stata proposta dal Fedele che ha notato la stretta corrispondenza tra le parole di esecrazione dell'attentato di Anagni in Pg XX 85-93 e quelle di un discorso di papa Benedetto XI, che risiedeva stabilmente a P., riportato dal continuatore dei Flores historiarum di Matteo da Westminster (Mon. Germ. Hist., Script. XXVIII 501), il cui tenore è anche ravvisabile nella bolla Flagitiosum scelus del 7 giugno 1304, e ne ha dedotto che D. si trovava a .P. in quel periodo; ma non esistono elementi determinanti per sostenere questa tesi.

Fortuna di D. a Perugia. - Fattori di rilievo di una diffusione in P. della conoscenza di D. dovettero essere l'insegnamento tenutovi da Cino da Pistoia negli anni 1327-1333 (lasciando impregiudicata la questione dei sonetti antidanteschi a lui attribuiti) e la vicinanza di Gubbio, uno dei centri più attivi di diffusione della Commedia nell'Italia centrale. Una presenza popolare di D. nei cinquant'anni successivi alla sua morte è indiscutibile (Marti, pp. 202-203) anche se non documentata; precise sono le tracce della conoscenza dantesca nell'ambiente letterario e colto, come si rileva dalla produzione in versi di Neri Moscoli, attivo tra il 1320 e il 1350 circa (reminiscenze del D. stilnovista, dei primi canti dell'Inferno e soprattutto delle rime pietrose); dalle discussioni di Bartolo da Sassoferrato, che era stato allievo di Cino, sulla Monarchia e sulla teoria della nobiltà; e dall'atteggiamento chiaramente imitativo di D. nella poesia politico-moraleggiante perugina, rappresentata dai Cinque canti d'anonimo e dal capitolo di Domenico Scolare (di cui è caratteristico il rozzo allegorismo, che prende lo spunto dalla processione di Pg XXIX), entrambi in terzine. Nessun rapporto, neppure linguistico, con D. mostrano invece i laudari perugini, la più alta espressione letteraria del periodo (cfr. I. Baldelli, La lauda e i Disciplinati, in Il movimento dei Disciplinati nel settimo centenario dal suo inizio [Perugia 1260], Perugia 1962, 364, ora in Medioevo volgare da Montecassino all'Umbria, Bari 1971, 358).

Le testimonianze di un'ampia popolarità dell'opera dantesca e specialmente della Commedia s'infittiscono alla fine del Trecento, mentre si esaurisce il filone imitativo nella non eccelsa produzione poetica perugina. Questo successo ci si mostra in due direttive precise: da un lato la diffusione a tutti i livelli del " libro di D. ", attestata dal dazio di due soldi che la Commedia pagava nel 1379 per entrare nella città, e dalla citazione di tre esemplari del poema (uno dei quali copiato dal notaio perugino Lorenzo Nicolini) in due inventari di beni, del 1406 e del 1417; dall'altro la popolarità delle letture di D. nella città: nel 1400-1401 ve ne tenne una Giovanni Bertoldi da Serravalle, mentre a P. studiarono e acquistarono fama il maestro Biagio lettore a Bologna nel 1395, Giovanni di Buccio da Spoleto che lesse D. a Siena dal 1396 al 1445 e a Pistoia dal 1421, e Bartolomeo Lippi da Colle Val d'Elsa, commentatore e traduttore della Commedia.

Allo stesso periodo (seconda metà del sec. XIV - inizio del XV) risalgono gli esemplari del poema (non i frammenti di esso) conservati in P.: i due codici più importanti - non solo di P., ma dell'Umbria - sono i manoscritti 81 (proveniente dalla biblioteca di Prospero Podiani) e 240 (che ha in appendice i capitoli di Iacopo e Bosone) della bilioteca Comunale; solo l'Inferno, col commento del Lana e l'accoppiata finale Iacopo-Bosone, contiene il codice 818, e vari passi delle due prime cantiche il 3181 della stessa biblioteca. Se nessuno di questi può dirsi con sicurezza di provenienza perugina, certamente risalgono all'ambiente scrittorio cittadino - oltre al già ricordato esemplare di mano di Lorenzo Nicolini, perduto o non identificato - i nove frammenti dell'Inferno risalenti alla prima metà del Trecento, rinvenuti nella copertina del bastardello del notaio quattrocentesco Antonio di Baldo (Arch. di Stato di Perugia, ora in Frammenti di copertine, n. n.), e il codice XIII. e. 7 della Nazionale di Napoli, contenente la Commedia trascritta tra l'8 luglio e il 13 agosto 1463 a Città della Pieve da Francesco di Baldo (che questi fosse perugino è dimostrato dalle sottoscrizioni di eminenti personaggi della città, nell'interno del foglio di guardia anteriore). Un frammento trecentesco, forse andato perduto, era stato segnalato da G. Degli Azzi nella seconda busta della Miscellanea historica del Giudiziario perugino (Perugia, Archivio giudiziario antico, in G. Mazzatinti, Gli archivi della storia d'Italia, V, Rocca S. Casciano 1907, 15: " foglio frammentario d'un codice dantesco, del sec. XIV, in perg., rubricato a colori [If XVII] "): in quella collocazione si conserva oggi solo la prima busta (cfr. Gli archivi dell'Umbria, Roma 1957, 42).

Molto più tarda (anni 1529-1531) è la miscellanea cartacea conservata presso l'archivio del monastero di S. Pietro, contenente gl'inizi dell'Inferno (cc. 474-488) e del Paradiso (cc. 593-603).

Alla fortuna manoscritta di D. appartengono altri episodi interessanti: due esemplari del cosiddetto Credo si trovano presso l'Archivio di Stato (Notarile, protocollo di ser Giuliano di Pietro di Torgiano [1472-1494], CC. 65-69) e nella biblioteca Comunale (ms. 496, cc. 124-127); due sonetti apocrifi di D. (Se gli occhi miei saettasero quadrella e Giovinetta gentil, poi che tu vede) sono nello stesso manoscritto, alla c. 133v; in un elenco dei terziari francescani compilato all'inizio del '400 (Bibl. Comunale, ms. .1122, f. 16r) figura " D. da Fiorenza chiamato poeta vulgare ".

Nel secolo XVI, in mancanza di espressioni di un interesse specificamente culturale, si riscontrano tracce di un entusiasmo sincero e fervido: come in Pier Vincenzo Danti (1480-1522), della famiglia dei Rainaldi (cfr. G.B. Vermiglioli, Biografia degli scrittori perugini, I, Perugia 1828-1829, 370-371). È il caso anche del Pellini che, pur scrupoloso e severo rispetto ad altra storiografia contemporanea, raccolse ingenuamente una fantasiosa tradizione (forse locale, ma di cui non risultano altri ricordi) secondo la quale D. avrebbe parlato della fondazione di P. da parte degli Etruschi " nel libro ch'egli fece delle lodi dell'Italia, dedicato all'imperatore " (pp. 1-2), senza dimenticare d'inserire un alto elogio del " poeta fiorentino famosissimo " all'anno 1321 della sua Historia (p. 452).

Episodi più significativi si hanno dall'inizio dell'Ottocento, per merito dei personaggi più eminenti della vita culturale perugina. Dimorò qualche tempo nella città l'abate Giuseppe Di Costanzo, che mise in dubbio l'originalità della visione dantesca sopravvalutando in essa l'influsso di quella di Alberico da Montecassino - cosa che sembrò agli stessi editori della sua " lettera ", firmata con lo pseudonimo di Eustazio Dicearcheo, " poco men che sacrilega " (Le principali cose appartenenti alla D.C., Roma 1817, p. IV; la lettera del Di Costanzo, col titolo Di un antico testo a penna della D.C. di D., è alle pp. 17-107). Nel 1832 Francesco Morlacchi musicò una parte di If XXXIII per voce di basso e accompagnamento di pianoforte. Ariodante Fabretti e Adamo Rossi si provarono a sollevare le celebrazioni perugine del VI centenario dantesco dalla bruttura dei componimenti d'imitazione che inondarono la città nel 1865: il primo partecipando alla silloge di studi su D. e il suo secolo (Firenze 1865) con un saggio sull'Analogia dell'antica lingua italica con la greca, la latina e co' dialetti viventi a illustrare il libro della Volgare Eloquenza di D. Alighieri; il secondo descrivendo i codici danteschi della Comunale e presentando i due sonetti apocrifi di cui si è detto. Nel primo Novecento merita di essere ricordato solo Francesco Guardabassi, che dedicò a D. alcune delle sue Note letterarie del 1912 e in seguito discusse col Fedele sulla presenza di D. a Perugia.

Bibl. -Mancando una moderna storia di P. nell'età comunale, si ricorre ancora a P. Pellini, Dell'historia di P., I, Venezia 1664; e a L. Bonazzi, Storia di P. dalle origini al 1860, ibid. 1860 (rist. Città di Castello 1959). Sull'atteggiamento politico di P. si vedano: D. Segoloni, Bartolo da Sassoferrato e la civitas Perusina, in Bartolo da Sassoferrato. Studi e documenti per il VI centenario, II, Milano 1962, 513-671 (spec. pp. 578-637); R. Manselli, L'Umbria nell'età di D., in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " LXII (1965) [Atti del VII Convegno storico regionale: D. e l'Umbria] 156-176; l'Introduzione di U. Nicolini alla sua edizione delle Reformationes comunis Perusii quae extant anni MCCLXII, Perugia 1969; e A.I. Galletti, Considerazioni per una interpretazione dell'Eulistea, in " Arch. Stor. Ital. " CXXVIII (1970) 305-334. Sui rapporti con Firenze si veda, oltre a Davidsohn, Storia, ad indicem: G. Degli Azzi Vitelleschi, Le relazioni tra la Repubblica di Firenze e l'Umbria nei secoli XIII e XIV, Perugia 1904-1909. Sull'assetto urbanistico della città, con riferimenti a Porta Sole: S. Siepi, Descrizione topologico-istorica della città di P., Perugia 1822; U. Nicolini, Le mura medievali di P., in Storia e arte in Umbria nell'età comunale, ibid. 1971, 695-769 (partic. le note 35 e 43).

Sulle citazioni dantesche di P.: M. Morici, Il " greve giogo " di Nocera Umbra e Gualdo Tadino (Paradiso XI 46-47), in " Giorn. d. " VII (1899) 353-371 (cfr. " Bull. " VII [1899-1900] 45); Bassermann, Orme 254-256; F. Guardabassi, D. e P., in Note letterarie, Perugia 1912, 103-115 (ripubblicato col titolo D. a P., in " L'Umbria. Rivista d'arte e letteratura " III [1920] 27-30); O. Ciacci, Interpretazioni dantesche, Perugia 1971, 120-124. Ampiamente studiato è il paesaggio umbro descritto da D. in Pd XI, per il quale, oltre ai vari commenti e letture, v. M. Apollonio, D. e l'Umbria, in L'Umbria nella storia nella letteratura nell'arte, Bologna 1954, 213-231; L. Salvatorelli, D. e san Francesco, in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " LXII (1965) 235-247. Sul conclave che elesse Clemente v: G. Fornaseri, Il conclave perugino del 1304-1305, in " Riv. St. Chiesa in Italia " X (1956) 321-344; per i riferimenti ad esso in Ep XI: A. Frugoni, D. tra due conclavi. La lettera ai Cardinali italiani, in Letture classensi, II, Ravenna 1969, 71 ss. (con bibliografia aggiornata). Sul soggiorno perugino di D.: P. Fedele, in Per la storia dell'attentato di Anagni, in " Bull. Ist. St. Ital. Medioevo " XLI (1921) 211-212 (e cfr. " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " XXV [1922] 313-315).

Sulla fortuna perugina di D., notizie e dati generali si hanno per l'inizio del Trecento in M. Marti, D. e i poeti perugini del Trecento, in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " LXII (1965) 190-211 (ora in Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 95-126); per il Tre-Quattrocento in U. Nicolini, Il " libro di D. " in due inventari perugini dell'inizio del sec. XV, in " Annali Fac. Lettere e Filos. Univ. di Perugia " III (1965-66) 653-668; per la fortuna manoscritta, in G. Petrocchi, Codici umbri e in Umbria della " Commedia ", in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria ", cit., pp. 211-214; A. Rossi, I codici danteschi della Biblioteca Comunale e Due sonetti che il codice perugino attribuisce a D. Alighieri, costituenti i Lavori su D. pubblicati a cura del Municipio di P. in occasione del VI centenario, Perugia 1865. Su altri argomenti particolari: per Neri Moscoli: P. Tommasini Mattiucci, Nerio Moscoli, in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " III (1897) 1-159 (particolarm. pp. 48-59); I. Baldelli, Lingua e letteratura di un centro trecentesco: P., in " Rass. Lett. Ital. " LXVI (1962) 3-21 (ora in Medioevo volgare da Montecassino all'Umbria, Bari 1971, 385-417). Sulla poesia perugina di carattere politico: L. Salvatorelli, La politica interna di P. in un poemetto volgare della metà del Trecento, in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " L (1953) 5-110. Il documento sul dazio del 1379 è pubblicato da A. Fabretti, Documenti di storia perugina, II, Torino 1892, 27. Attestazioni perugine su Giovanni Bertoldi, in F. Novati, Nuovi documenti su frate Giovanni da Serravalle, in " Bull. " VII (1891) 11-15; ID., Frà Giovanni da Serravalle professore predicatore, ambasciatore in P., in " Giorn. stor. " XXIX (1897) 565-566; e U. Nicolini, Il " libro di D. ", cit., p. 654 n. 3. Su Biagio da P.: G. Livi, D. e Bologna, Bologna 1921, 59 (cfr. " Boll. Dep. Storia Patria per l'Umbria " XXV [1922] 319-320); su Giovanni di Buccio da Spoleto, in P. Rossi, La " Lectura Dantis " nello studio senese..., in Studi giuridici dedicati e offerti a F.S. Schupfer, Torino 1898, 153-174; A. Zanelli, Del pubblico insegnamento in Pistoia dal XIV al XVI secolo, Roma 1900 (cfr. " Boll. Dep. Storia Patria per l'Umbria ", rispettivamente V [1899] 168 e VI [1900] 355); su Bartolomeo Lippi, v. E. Matteoni Vezzi, Fra Bartolomeo da Colle commentatore della D.C., Siena 1922; B. Bughetti, in " Arch. Francisc. Hist. " X (1917) 250. Sul codice napoletano (descritto da G. Guerrieri, I codici danteschi della Biblioteca Nazionale di Napoli, ibid. 1965) v. le osservazioni di U. N[icolini], in " Boll. Dep. St. Patria per l'Umbria " LXVII 1 (1970) 102-103. Per il " Credo di D. " nel notarile perugino: Mostra di documenti per il VII Congresso dell'Assoc. Naz. Archivisti Ital., Perugia 1957. Catalogo, Assisi - S. Maria degli Angeli, s. d., p. 41 nr. 110. Sul Morlacchi: G. Ricci Des Ferres-Cancani, Francesco Morlacchi. Un maestro italiano alla corte di Sassonia (1784-1841), Firenze 1958, 76-77 e 187-199.

Lingua. - D. ne condanna sbrigativamente il volgare, assieme a quello di altre città della Tuscia (Orvieto, Viterbo, Civita Castellana), in VE I XIII 2, a causa dell'affinità che presentano con le brutte parlate di Romani e Spoletini, già eliminate nel capitolo XI dello stesso libro. Per quanto sia difficile ragionare ex silentio, colpisce questo sommario disinteresse per l'importante fioritura di lingua letteraria umbra, a conferma che l'orientamento strategico del De vulg. Eloq., nei consensi e nelle polemiche, è polarizzato verso il genere dell'alta produzione lirica di tradizione cortese.

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