PERGAMO

Enciclopedia Italiana (1935)

PERGAMO

Giuseppe CARDINALI
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Goffredo BENDINELLI

. Antica città della Misia, a nord del Caico, a 120 stadî dal mare, su una collina di forma conica, della quale in origine occupò soltanto la cima, estendendosi poi, nell'età attalica, sui fianchi della medesima, e in quella romana nella pianura. Delle sue origini non si sa nulla, e di tarda formazione è la leggenda che la diceva fondata da Pergamo, nipote di Achille, e ne ricongiungeva la nascita con le genti arcadiche emigrate nella Teutrania sotto la guida di Telefo, figlio di Eracle e di Auge. La prima notizia storica è data da Senofonte, che nel 399 a. C. si incontrò in Pergamo con Hellas, vedova di Gongilo. Più tardi la città fu scelta come luogo di dimora di Barsine e del figliuolo Eracle, che ella aveva avuto da Alessandro Magno. Dopo la battaglia di Ipso (301 a. C.), Lisimaco, fortificatane l'acropoli, vi depositò il suo tesoro di 9000 talenti, e ne affidò la custodia a Filetero, che fu il fondatore della dinastia degli Attalidi. A questa spetta il merito di avere sollevato Pergamo allo splendore di una delle più importanti corti ellenistiche. Appunto perciò la storia della città non può essere separata da quella dell'intero regno di Pergamo e si troverà esposta qui appresso con la storia del regno; mentre per le vicende che tennero dietro alla morte dell'ultimo re, Attalo III, il quale, istituendo eredi del regno i Romani, volle però assicurata la libertà della città, v. asia minore: L'età romana. Certo Pergamo, passata sotto il dominio romano, dovette presto sperimentare, come le città consorelle nel periodo di assestamento, l'avidità dei pubblicani, contro la quale la vediamo già sul finire del sec. II a. C. elevare le sue proteste, che il senato romano accolse (v. Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes, IV, n. 262).

Scoppiata la prima guerra mitridatica, Pergamo vide nell'88 a. C. cercare rifugio tra le sue mura Manio Aquilio, sconfitto da Archelao, ma poco dopo dovette, almeno secondo il racconto di Appiano, assistere al supplizio del generale romano, e si associò con ardore all'eccidio dei Romani e degli Italici, ordinato dal re del Ponto: invano i perseguitati cercarono rifugio nei templi inviolabili di Atena Niceforo e di Asclepio. E fu proprio Pergamo che Mitridate, quasi successore degli Attalidi, si scelse a nuova capitale del regno ingrandito, e la mantenne per oltre due anni, fin quando Fimbria, dopo la vittoria di Miletopoli, lo costrinse a sgombrarla. Negli anni successivi Pergamo fu travagliata dalla crisi generale provocata nella provincia dalla crescente oppressione fiscale e dalle torbide mene di banchieri e di affaristi, e i mali toccarono il loro apice durante le guerre civili; ma la pace instaurata da Augusto segnò anche per l'Asia una rifioritura generale della produzione, dei commerci e delle industrie. E nei primi due secoli dell'impero Pergamo fu in prima linea. Capitale della provincia, luogo di residenza del governatore, in verità fu Efeso, ma Pergamo sino dal 29 a. C. ottenne di potere elevare un tempio a Roma e ad Augusto, privilegio che fu poi conteso a gara da altre città; inoltre fu posta alla testa di uno dei conventus iuridici, ed ebbe diritto al titolo di metropoli (evidentemente della Misia), e nel corteo dei giuochi panasiatici i suoi rappresentanti venivano in prima linea, subito dopo quelli di Efeso e di Smirna. Le sue condizioni economiche continuarono generalmente a prosperare e la città si ampliò verso la pianura. I suoi templi sfoggiavano ancora i loro tesori d'arte, che suscitarono l'ingordigia di Nerone, e Plinio la poteva ancora chiamare longe clarissimum Asiae Pergamum. In essa fu costituita una delle sette chiese menzionate dall'Apocalisse, e verso la metà del II sec. contava, pare, 120.000 abitanti. Continuarono a fiorirvi le industrie degli unguenti, della ceramica e della pergamena, con l'impiego di una considerevole mano d'opera (un'iscrizione ricorda una corporazione di cardatori, γναϕεῖς, Athenische Mitteilungen, 1902, p. 102) e un'altra (Inscr. Gr. ad res Rom. pert., IV, n. 262) conserva i frammenti di un editto d'un proconsole che prende provvedimenti contro operai, adibiti alla costruzione di un edificio pubblico della città, scioperanti. Al movimento commerciale recavano incremento le banche che prendevano parte all'emissione e alla distribuzione della moneta locale, ma è insieme da notare che i banchieri davano spesso occasione a speculazioni e profitti illeciti, provocando reclami della popolazione e conseguenti provvedimenti dell'autorità romana (v. Inscr. Gr. ad res Rom. pert., IV, n. 352).

Gli ordinamenti municipali della città si mantennero essenzialmente quelli dell'età ellenistica, e particolare interesse offre a questo proposito la cosiddetta iscrizione degli astinomi, che contiene disposizioni legislative dell'età regia, ripubblicate ai tempi di Traiano o di Adriano, concernenti la polizia delle vie, delle costruzioni e delle acque.

Nel sec. III comincia l'epoca della decadenza, attraverso la quale alla città greco-romana si venne a sostituire quella bizantina.

In epoca bizantina Pergamo fece parte dapprima del tema Opsikion, poi di quello di Samo e dei Trachici. Sotto Giustiniano II vi si stanziò una forte colonia armena; coinvolta nelle lotte acritiche fra Arabi e Bizantini, fu assediata ed espugnata nel 716 da Maslamali ibn ‛Abd al-Malik. Occmpata dai Franchi durante la 4ª crociata, seguì poi le sorti dell'impero di Nicea. Al principio del sec. XIV venne in potere dei Selgiuchidi di Rūm, e poi degli Osmanli. Attualmente non è che un villaggio.

Bibl.: E. Hesselmeyer, Die Ursprünge der Stadt Pergamos in Kleinasien, Tubinga 1885; E. Thrämer, Pergamos, Lipsia 1888; J. L. Ussing, Pergamos, Berlino 1899 (ed. tedesca); V. Chapot, La province romaine d'Asie, Parigi 1904, passim; G. Cardinali, Il regno di Pergamo, Roma 1906; id., L'amministrazione finanziaria del comune di Pergamo, in Memorie della R. Accademia delle scienze di Bologna, X (1916), p. 181 segg.; E. Ziebarth, Kulturbilder aus griechischen Städten, 3ª ed., Lipsia 1919; F. Sartiaux, Villes mortes d'Asie Mineure, Parigi 1911, p. 24 segg.; G. Corradi, Sull'amministrazione della città di Pergamo, in Studi ellenistici, Torino 1929; M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano (traduzione italiana), Firenze 1933, passim; H. Gelzer, Pergamon unter Byzantinern u. Osmanen, Berlino 1903.

Topografia. - La storia e la fortuna politica di Pergamo non si spiegano senza una precisa nozione del sito e della topografia della città: situata sopra una collina alta e scoscesa (m. 350 sul mare; 300 sulla pianura adiacente), protetta su due lati, est e ovest, da due fiumi. il Cezio e il Selino, affluenti di destra del Caico (odierno Bakïrçay); a sud, nella pianura, dal Caico stesso, che attraversa tutta la regione; guardata a nord da un sistema montuoso e impervio: quello del Pindaso.

Lo sviluppo edilizio di Pergamo in età classica comprende così la regione a valle, presso il Caico, come l'alta collina tra i due affluenti. La parte bassa, però, corrisponde soltanto alla Pergamo romana, della quale ancora poco si conosce, poiché sopra la città romana s'impiantò il moderno villaggio, che riproduce tuttora, ben riconoscibile, il nome antico: Bergama. I resti della fortezza e della città ellenistica, di Filetero e successori, occupano i fianchi e il sommo della collina.

Gli scavi vi furono iniziati dai Tedeschi nel 1879, in seguito alle scoperte di Karl Humann; già esplorate risultano un'ampia area di terreno sul fianco meridionale della collina, e la sommità di questa. Incominciati sulla vetta, con la demolizione della fortezza medievale, gli scavi furono proseguiti lungo le pendici, nel senso, cioè, in cui ebbero a realizzarsi le successive fasi di sviluppo urbano sotto i dinasti. Tali fasi sono indicate dai diversi muri di cinta. Già sotto Attalo III si distinguevano la fortezza (ϕρούριον), la città vecchia (ἀρχαῖα πόλις), la città: nuova (νεὰ πόλις).

L'irregolare struttura dei fianchi della collina richiese una preventiva sistemazione del suolo ad ampie terrazze artificiali pianeggianti. Così, all'ingresso principale della città fortificata, situato a sud-est, si ha un primo ampio spiazzo adattato a mercato (ἀγορά) per la città bassa; quindi ai lati di una via lastricata, a pendenza piuttosto forte e continua, resti di costruzioni private e di pubblici edifici, profani e sacri. A sinistra della detta via, e al principio, oltre alla casa del console Claudio Attalo, troviamo, su tre terrazze diverse le tre palestre (γυμνάσια), aggruppate e giustapposte, dei fanciulli (παῖδες), degli efebi (ἔϕηβοι), dei giovani (νέοι); e intorno pure, su distinte terrazze, le terme (romane) e i santuarî di Era, di Asclepio, di Demetra, con portici solenni e costruzioni minori.

Viene quindi il complesso edilizio, specialmente famoso, al sommo della collina, là dove sorgeva la fortezza originaria. Anche l'acropoli risulta di una successione di terrazze progressivamente più elevate, che distinguiamo numericamente dal basso: 1. Mercato o agorà della cittȧ alta, con porticato continuo e magazzini su tre lati. Sull'ala ovest, sgombra di portici, sono i resti di un tempio di Dioniso. 2. Terrazza a nord della precedente. È storicamente la più importante, come quella su cui sorgeva l'altare eretto, in onore di Zeus e Atena, da Eumene II. Si trovano tuttora, al centro della terrazza, i resti di un alto podio: esso misurava metri 37,70 × 34,60; era sontuosamente decorato da un alto fregio, e presentava ad ovest una gradinata dell'ampiezza di m. 20. Sopra il podio e al sommo della gradinata, una duplice corona di colonne ioniche costituiva una specie di cancello marmoreo monumentale intorno all'altare vero e proprio per i sacrifici. 3. Dopo un'area trapezoidale intermedia, segue, con accesso dalla porta turrita della fortezza originaria, la terrazza del tempio di Atena Poliade con i resti di un tempio dorico del sec. IV (età predinastica). Sviluppati intorno al tempio, con orientamento indipendente, portici con loggiato superiore, preceduti, a est, da un vestibolo, o propileo, pure a due piani. 4. Terrazza della biblioteca degli Attalidi l'edificio si sviluppava in vasti ambienti proprî, in comunicazione con l'anzidetto loggiato. 5. A est, davanti alla biblioteca, i resti della reggia di Eumene II, e, poco più a nord, quelli di un palazzo reale più piccolo e più antico. 6. Segue, lungo il ciglio della roccia, la spianata dell'altare di Zeus. 7. Più oltre, una distesa triangolare, detta "Giardino della regina", terminante alla punta nord, con i resti del tempio di Faustina iuniore. 8. Immediatamente a nord della biblioteca, su altra terrazza, sorgeva il Traianeum, o tempio di Traiano, costruzione romana fiancheggiata da portici.

Tutie le dette terrazze si succedono radialmente, nel senso dei raggi di un cerchio avente il centro ad ovest. Da questa parte, seguendo la conformazione dei fianchi della collina, furono ricavate nel masso la cavea e l'orchestra di un ampio teatro. Per la costruzione del proscenio e della scena si dovette preparare una lunga terrazza in muratura, su mensoloni e piloni colossali, poggiati direttamente sullo strapiombo della roccia. Di tale costruzione, alla cui estremità nord sorsero edifici minori, rimangono poche tracce.

Arte. - Abbondante materiale artistico scolpito - statue, rilievi - è stato ricuperato dagli scavi sin qui eseguiti. Per mezzo dei numerosi frammenti rinvenuti, si è potuto quasi integralmente ricostruire il fregio ad altorilievo che si sviluppava per cento metri di lunghezza, su due metri di altezza, lungo tutto il podio del grande altare. Su questo grande fregio, che oggi si vede rimesso insieme a Berlino, nel museo di Pergamo, è raffigurata la lotta degli dei e dei giganti, che costituisce un tema tradizionale nell'arte greca. Distribuite sulle diverse facce del podio, si seguono le divinità del mare e le divinità della terra (sugli avancorpi della fronte ovest); quindi le divinità del cielo e della luce, sul lato sud, le maggiori divinità olimpiche sul lato est; le divinità della notte e delle tenebre, sul lato nord.

La tradizionalità del soggetto è sopraffatta dalla vastità della composizione, dall'originalità dell'ordinamento compositivo e dello stile. I giganti sono qui, a volte, degli eroi che in nulla si differenziano dagli dei. Più spesso partecipano di una doppia natura, umana e ferina, in forma iconografica del tutto nuova, con frequente sviluppo degli arti inferiori in spire serpentine. Ciò permise agli artisti, di alcuni dei quali restano le firme sotto le singole lastre da loro scolpite, di realizzare una varietà eccezionale di motivi, avvincenti per interesse drammatico e artistico. I personaggi sono tutti non già presentati in pose plastiche studiate, ma anzi furono colti dagli scultori nella piena agitazione di un turbine di follia e di annientamento, che li muove, li agita, li sconvolge.

Assai esteso era anche il "piccolo fregio", (alto m. 1), che faceva parte, forse, della trabeazione del colonnato interno. I frammenti numerosi, ma anche molto lacunosi, hanno permesso di riconoscere negli episodî del fregio eseguiti a bassorilievo la leggenda di Auge e del figlio Telefo, mitico fondatore di Pergamo. Anche nel piccolo fregio la figurazione era continua, con una successione di episodî, da intendersi però, non simultanei ma successivi. Specie nel piccolo fregio si ammira la ricerca felice dell'effetto pittorico, ottenuta con la moltiplicazione dei piani in profondità, e con l'introduzione, non meno originale, dell'elemento paesistico.

Nell'area circostante al tempio di Atena si rinvennero basi statuarie appartenenti a doni votivi offerti da Attalo I, per le sue vittorie sui Galati. Una replica, in proporzioni ridotte, di quei doni votivi di guerra, fu offerta dallo stesso Attalo sull'Acropoli di Atene. Tale offerta si componeva di quattro gruppi statuarî: gigantomachia, amazonomachia, guerra contro i Galati, guerra contro i Persiani. A così vasto complesso, ripetuto poi in varie redazioni, si riferiscono oggi opere statuarie famose: come il gruppo colossale del Galata suicida dopo aver ucciso la moglie (Museo Nazionale Romano: v. fig.), il Galata morente del Museo Capitolino (supposta opera di Epigono: vedi grecia, XVII, tav. CLXXXIV), quattro statue del Museo Nazionale di Napoli, tre del R. Museo archeologico di Venezia, il gruppo dell'Amazzone che atterra un Galata, rinvenuta ad Anzio e conservata nel Museo Nazionale Romano (v. fig. a pag. 733)

Codeste opere statuarie, insieme con altre simili ora all'estero (Aix, Parigi, Berlino), sono accomunate dalla persistente concezione di una umanità eroica e superiore, travolta da un tragico fato: quindi corpi virili e giovanili atletici, fasci possenti e perfetti di tendini e di muscoli, e maschere atteggiate di dolore nel supremo sforzo di una difesa vana, negli spasimi di un'atroce agonia. Di qui hanno preso le mosse i critici per distinguere le caratteristiche dell'arte pergamena del periodo attalico, o "primo periodo", da quelle del periodo di Eumene, o "secondo periodo", che è contrassegnato da una maggiore ricchezza, e da una certa sovrabbondanza di elementi pittorici. I due periodi insieme risentono di un'esasperata tendenza a rappresentare gl'intimi sentimenti dell'anima in relazione con la scultura attica scopadea. In codesto "secondo periodo" dell'arte pergamena alcuni hanno voluto, sebbene impropriamente, identificare il periodo "barocco" dell'arte antica.

I portici, che circondavano su due lati - e forse su tre, meno che a est - il tempio di Atena Poliade, si adornavano, all'altezza del loggiato superiore, di una balaustrata fatta di lastre marmoree, portanti scolpiti a bassorilievo trofei d'armi barbariche di ogni genere, disseminate in pittoresco disordine. Motivo artistico, questo dei trofei d'armi, che, dovuto anch'esso alla fantasia degli scultori di Pergamo, si trasmette in eredità all'arte romana, e si protrae quindi lungamente nel tempo, in opere architettoniche, dal Rinascimento sino all'età moderna.

Bibl.: Königliche Museen zu Berlin, Altertümer von Pergamon, I-IV, Berlino 1885-1923; id., Führer durch die Ruinen von Pergamon, Berlino 1911; M. Collignon-E. Pontremoli, Pergame, Parigi 1900; A. von Salis, Der Altar von Pergamon, Berlino 1912; W. H. Schuchhardt, Die Meister des grossen Friesen von Pergamon, Berlino-Lipsia 1925; A. Della Seta, Il nudo nell'arte, I, Milano-Roma 1930, pag. 502 seguente e passim; A. Ruesch, Guida del Museo Naz. di Napoli, Napoli 1908, p. 99 segg.; C. Anti, Il R. Museo archeol. di Venezia, Roma 1930, p. 93 segg.; P. Ducati, Arte class., 2ª ed., Torino 1927, p. 509 segg.

Regno di Pergamo.

Storia. - Le origini del regno. - Fu fondato da Filetero, che in alcune iscrizioni è detto figlio di Attalo, e ciò dimostra la sua nascita libera. Madre gli fu una donna di Paflagonia, Boa, della quale si raccontava che fosse un'etera, suonatrice di flauto, col che certamente si esagerava, ma è altrettanto certo che fosse di origine barbara. E anche si diceva che per un incidente capitatogli da bambino Filetero fosse diventato eunuco; menzogna, pare, anche questa. Al suo primo apparire, lo troviamo al seguito di Docimo, luogotenente prima di Perdicca e poi di Antigono, e quando costui nella primavera del 302 a. C. si diede nelle mani di Lisimaco, questi conobbe Filetero, ne apprezzò le qualità e, vinto Antigono nella battaglia di Ipso, gli affidò la custodia di un tesoro di 9000 talenti depositati in Pergamo, allora città di poco conto. Scoppiate nel 283 a. C. le ostilità tra Lisimaco e Seleuco, Filetero passò dalla parte di quest'ultimo che lo compensò lasciandogli il possesso del tesoro, e consentendo che divenisse principe semiindipendente di Pergamo. Quando, dopo la battaglia di Corupedio e l'uccisione di Seleuco salì al trono Antioco I, Filetero riuscì a mantenere insieme la sua indipendenza di fatto e i suoi buoni rapporti con la corte seleucidica. Riscattato a grande prezzo il cadavere di Seleuco da Tolomeo Cerauno, ne inviò le ceneri al figlio, e parteggiò, pare, per questo nella guerra da lui impegnata con Nicomede di Bitinia. Dei Seleucidi riconobbe formalmente la sovranità col far coniare le sue monete in proprio nome, ma con l'effigie di Seleuco, e col datare gli atti ufficiali con l'era seleucidica; ma questi atti di omaggio altro non furono se non mezzi per rassodare la sua posizione. Tenne in particolar modo a mettersi in bella luce di fronte alle città greche, asiatiche e della madre patria; ed ecco aiuti e concessioni a Cizico e a Pitane, e donativi ai santuarî di Delo e di Tespie. Di Pergamo accettò la cittadinanza e ne fece pompa nelle sue dediche, cercando d'ingraziarsi i sudditi e in pari tempo di assicurare al suo principato basi di regolare ordinamento. Quando morì nel 263-2 in tarda età, poteva dirsi compiuta la sua sagace preparazione dei futuri destini della dinastia da lui fondata.

Gli successe Eumene, suo fratello, il quale si sentì subito forte abbastanza da mutar politica nei riguardi dei re di Siria, si alleò con l'Egitto, s'impadronì dei territorî circostanti a Pergamo, e, uscito con l'esercito dalla valle del Caico, si scontrò con Antioco sotto le mura di Sardi e lo sconfisse. Per questa vittoria il suo stato ebbe notevoli ampliamenti territoriali, sì da estendersi sulla costa dal Golfo Elaitico a quello Adramitteno, e da spingersi nell'interno sino al monte Pelecas e ai pressi di Tiatira. A difesa dei nuovi possedimenti Eumene fondò le fortezze di Fileteria all'Ida e di Attalia al Lico; ma la conseguenza più notevole della vittoria di Sardi fu che il principato pergameno uscì da ogni dipendenza, sia pure soltanto formale, rispetto ai Seleucidi, e ciò trovò espressione nel fatto che nelle monete all'immagine di Seleuco, apparsavi sino allora, fu sostituita quella di Filetero, fondatore della dinastia. Poco dopo la vittoria, Eumene dovette fronteggiare una rivolta delle milizie raccolte nelle due fortezze su nominate; il momento fu grave, poiché la rivolta era stata fomentata, a quanto pare, da un membro della famiglia, forse un cugino di Eumene che voleva Contrastargli il trono, ma Eumene riuscì a sedare ben presto il malcontento facendo le più ampie concessioni.

Di lui non abbiamo altre notizie, nelle complicazioni così intricate del tempo; ma è probabile che il suo principato sia stato talora minacciato dai Galati, perché per la sua estensione esso era ormai esposto alle loro scorrerie. Strabone inoltre ci assicura che questi barbari più volte avevano assalito lo stato pergameno; e pare che Eumene non riuscisse per altra guisa a tenerli a bada che acconciandosi a pagar loro un tributo annuo. Morì nel 241-40, lasciando il trono ad Attalo I.

Il regno di Attalo I. - Era questi figlio non di un fratello ma di un nipote di Filetero, e saliva al trono in un momento in cui maturava la crisi del regno seleucidico, dovuta all'eccessiva vastità dei dominî, alla molteplice e variopinta diversità di razza dei popoli sudditi, alla complicata struttura economica, ecc. L'elemento greco-macedone, l'unico sul quale i Seleucidi potessero fidare, era ormai completamente disperso, e risorgevano prepotenti gli antagonismi dei singoli interessi nazionali, o nelle forme antiche o in quelle nuove dell'ellenismo locale. Si aggiunga che tutti questi germi di dissoluzione interiore trovavano nella perenne rivalità con l'Egitto occasione di svilupparsi rapidamente e senza serio ostacolo, e inoltre a scuotere inesorabilmente il prestigio della casa seleucidica era sopraggiunta, nel torno stesso di tempo nel quale saliva al trono Attalo I, la guerra fraterna tra Seleuco Callinico e Antioco Ierace. Dopo una prima sconfitta nella Lidia, Antioco Ierace, aiutato da Mitridate del Ponto, batté su tutta la linea il fratello ad Ancira (239-8), ma mentre questi, ripassato il Tauro e raccolto un altro esercíta si volgeva contro le milizie egiziane che assediavano Ortosia e Damasco, i mercenarî galati, che costituivano la forza principale di Antioco, gli si ribellarono, mettendolo in grande pericolo. Sfuggito però alle loro insidie e avuti rinforzi da milizie tolemaiche, Antioco diede battaglia ai barbari, li vinse e, gratificatili con denaro, strinse di nuovo alleanza con loro. Era questo un fatto che non lo metteva in buona luce presso i connazionali greci, e Attalo intuì che si presentava un'occasione opportunissima per tentare di dar corpo al disegno, che forse era già balenato all'animo di Eumene I dopo la vittoria di Sardi, di sostituire la dinastia attalica alla seleucidica nel dominio d'Asia Minore, ma non agì precipitosamente; trascorsero anzi parecchi anni prima ch'egli passasse all'azione, e, conscio della forza morale che il principio di legittimità esercitava sul mondo ellenistico, non cercò un motivo diretto di rottura con Antioco, ma rifiutò invece (verso il 230 a. C.) il pagamento del tributo ai Galati, prevedendo che con ciò Antioco, loro alleato, sarebbe intervenuto, compromettendosi sempre maggiormente. E ciò infatti avvenne, e nella lotta che ne seguì Attalo poté atteggiarsi a vindice dei diritti dei Greci contro i barbari, il che molto gli giovò.

Al rifiuto del tributo, i Galli Tolostobogi (o Tolistobogi o Tolistoagi), le cui sedi erano più vicine al territorio pergameno che non quelle delle altre due stirpi dei Trocmi e dei Tectosagi, si avanzarono contro Pergamo, ma Attalo li affrontò ai confini del suo territorio, presso le fonti del Caico, e li sconfisse. Fu allora che intervenne Antioco Ierace, e in aiuto dei connazionali si avanzarono anche i Tectosagi. Una seconda battaglia ebbe luogo sempre nelle vicinanze di Pergamo, in prossimità del tempio di Afrodite, e si risolse anch'essa in una sconfitta dei barbari, che si ritirarono quindi dalla lotta, lasciando in asso Antioco; al quale la sorte fu avversa in altri tre scontri con Attalo, nella Frigia, nella Lidia e nella Caria - 229-8 e 228-7 -, sicché si vide costretto a ripassare il Tauro, lasciando l'Asia Minore seleucidica, con esclusione cioè della Bitinia, del Ponto, della Cappadocia e dei possessi egizî, nelle mani del dinasta di Pergamo. Fu allora che questi si cinse il capo della corona reale, e le sue vittorie sui barbari, universalmente celebrate e magnificate da opere d'arte eminenti, delle quali alcune ancora superstiti, lo innalzarono straordinariamente dinnanzi agli occhi dei contemporanei.

Circa le operazioni di Attalo contro i Galati isolati o uniti con Antioco Ierace molto si è discusso, alcuni insistendo sulla necessità di distinguere nettamente tra una grande vittoria del principe pergameno sui barbari (che sarebbe avvenuta proprio al principio del suo regno, e lo avrebbe subito spinto ad assumere il titolo di re), e le lotte contro Galati e Antioco uniti, che si sarebbero svolte circa un decennio dopo; e altri invece affermando che uno solo sia stato il ciclo delle guerre, e che esso vada datato intorno al 229-8. Meglio è accedere a questa opinione.

Ripassato il Tauro, Antioco Ierace riprese la guerra contro il fratello, ma fu sconfitto nella Mesopotamia da Andromaco e Acheo, capitani di Seleuco, e costretto a fuggire prima in Cappadocia e poi in territorio tolemaico. Qui arrestato, riuscì a evadere, e poco dopo morì in Tracia, ultimo avanzo dei suoi possessi, combattendo contro i Galati. Poco appresso, nel 226 a. C., scomparve pure il fratello, e gli successe Seleuco Cerauno, che, per riconquistare i territorî d'Asia Minore usurpati da Attalo, prima gli spedì contro alcuni suoi luogotenenti, poi intervenne personalmente, assistito dal cugino Acheo, come consigliere militare; ma, giunto nella Frigia, vi fu assassinato nel 223. Allora Acheo assunse il comando, e continuò la guerra con successo tale da ridurre Attalo al solo possesso della sua capitale e all'amicizia di poche città, rimastegli fedeli. Ma nel 218, il re di Pergamo, approfittando di una digressione dell'avversario e facendosi aiutare da Galli Egosagi, fatti venire di Tracia, poté riconquistare parte dei territorî perduti, varcare il Lico, prendere alcuni castelli, superare il monte Pelecas, porre il campo presso il Megisto. Abbandonato qui dai suoi Galli, tornò in Pergamo, e, riapparso Acheo, le ostilità continuarono sino al 216, quando con Attalo si alleò Antioco III, con un trattato del quale non conosciamo le condizioni. E nemmeno sappiamo se e in quanto Attalo partecipasse alle operazioni di Antioco, che portarono alla presa di Sardi, all'arresto e all'uccisione di Acheo: soltanto può ritenersi certo che Antioco non rinunciò che in ben piccola parte agli effetti della riconquista di Acheo, né dovette fare molto di più che riconoscere al re di Pergamo il possesso di quei territorî, di cui egli aveva goduto prima delle lotte contro Antioco Ierace, e che aveva riconquistato nel 218. A questi territorî aviti, il re di Siria forse altro non aggiunse nel suo trattato con Attalo, se non la Misia Olimpene. In egual modo il trattato lasciò intatte le relazioni che Attalo nel 218 era riuscito a ristabilire con alcune di quelle città greche, che aveva tratte nell'orbita della propria influenza al tempo della sua effimera conquista di gran parte dell'Asia Minore. Un complesso di elementi ci rendono certi che Mirina, Ege, Cime, Focea, Temno, Teo, Colofone alta e Colofone di Notio rimasero in stretta soggezione di Attalo, mentre Ilio, Lampsaco, Alessandria Troade e Smirne furono sue libere alleate.

Finora l'attenzione e l'opera di Attalo erano state assorbite completamente dagli avvenimenti locali dell'Oriente, ma a partire da questo momento la storia di Pergamo s'intreccia con quella di Roma e dell'Occidente. Poco dopo la battaglia di Canne, Filippo V di Macedonia si era stretto in alleanza con Annibale, e aveva tosto iniziato delle operazioni nell'Illiria, con la speranza di sloggiarne i Romani, il che per la Macedonia sarebbe stato di importanza vitale. I Romani affidarono la difesa dei loro possedimenti al pretore M. Valerio Levino con un reparto della flotta, e, poco dopo la presa di Siracusa nell'autunno del 212 a. C., indussero la Lega etolica a partecipare alla loro guerra contro la Macedonia. Ed ecco che in quest'alleanza, nel 212, entrò il re di Pergamo, allarmato dalla sete di dominio di Filippo, compiendo con ciò un passo che segnava tutta la politica futura del suo regno. In forza di questo patto egli partecipò alle operazioni della cosiddetta prima guerra macedonica, e fu compreso nella pace che nel 205 la chiuse. Eletto presidente della Lega etolica per il 209-8, nel 209 condusse la sua flotta in Egina e vi svernò insieme con quella romana; nel 208 saccheggiò con i Romani Pepareto, partecipò in Eraclea all'adunanza della Lega etolica, prese e saccheggiò Oreo, ma poi, mentre era intento a menar bottino, nei pressi di Cino, porto di Opunte, sorpreso improvvisamente da Filippo, solo a gran stento riuscì a sfuggirgli, ed essendo stato informato che Prusia di Bitinia aveva invaso il suo regno, si affrettò a tornare in Asia. Allora anche la flotta romana abbandonò il Mare Egeo, né vi riapparve l'anno successivo quando tutte le forze di Roma furono assorbite contro Asdrubale, sicché l'Etolia, trovandosi sola alla mercé di Filippo, fece nel 206 pace con lui, staccandosi da Roma e nel 205, con la mediazione dell'Epiro, fu conclusa a Fenice anche la pace tra Romani e Macedoni, nella quale furono compresi pure Attalo e Prusia. Le ostilità con la Macedonia riarsero pochi anni appresso, nel 201, essendosi Attalo alleato con Rodi, contro Filippo che andava operando contro i possedimenti tolemaici d'Asia Minore. Il re macedone fece allora audaci scorrerie nel territorio di Pergamo, ma in una battaglia navale combattuta nello stretto tra Chio e il continente subì perdite considerevolissimo, riuscendo soltanto a tagliare fuori dal resto e dei combattenti la nave di Attalo, e a farla depredare, mentre il re si salvava in Eritre per miracolo. Seguirono una rivincita di Filippo nella battaglia di Lade e il suo ritorno in Europa. Nel 200, inaspritesi le ostilità tra Filippo e gli Etoli, Attalo passa con le sue navi e con quelle rodie in Europa, è accolto con entusiasmo dagli Ateniesi, che istituiscono in suo onore la tribù Attalide, e s'incontra in Atene con un'ambasceria inviata da Roma. Poco tempo dopo i Romani dichiarano guerra a Filippo. È la seconda guerra macedonica, nel corso della quale Attalo rende agli alleati preziosi servigi sino alla sua morte. Un esercito romano ancora nel corso del 200 sbarca ad Apollonia, e fa incursione in Illiria, mentre Attalo e i Rodî riescono a prendere di sorpresa Calcide, del che Filippo si vendica devastando orribilmente l'Attica. Nell'estate del 199 i Romani irrompono nella Macedonia superiore, e gli Etoli si decidono a far causa comune con Roma, la cui flotta, congiuntasi nel Mare Egeo con Attalo e coi Rodî, assalta le spiagge macedoni e conquista alcune isole e Oreo nell'Eubea. Nell'inverno del 199-8 Attalo torna nel suo regno e subisce un assalto di Antioco, che però si ritira non appena un'ambasceria romana glie lo ingiunge. Nel 198 allorché i Romani, con T. Quinzio Flaminino, riuscirono a sloggiare Filippo dalle sue forti posizioni presso le gole dell'Aoo, e a penetrare dall'Epiro nella Tessaglia, il re di Pergamo si riunì con la flotta rodia e con quella romana, e partecipò all'espugnazione di Eretria e di Caristo, e poco dopo all'assedio di Corinto, che fu tosto però dovuto abbandonare, nonostante che anche gli Achei fossero ormai entrati nell'alleanza con Roma. Seguirono nell'inverno vane trattative di pace, dopo le quali Attalo venne prima in Sicione, ove mostrò la propria liberalità agli Achei, poi nella primavera in Tebe con T. Quinzio Flaminino per esortare i Beoti a far causa comune coi Romani, ma quivi fu colpito da apoplessia durante una sua arringa, e, ricondotto in Pergamo, vi morì pochi mesi dopo all'età di 72 anni, quando già la battaglia di Cinoscefale aveva deciso le sorti della guerra a favore dei Romani.

Attalo I non aveva territorialmente ingrandito di molto il proprio regno, ma l'aveva consolidato nella sua potenza interna e soprattutto ne aveva sviluppato il prestigio e accresciuto lo splendore, mercé la libera protezione concessa a letterati e artisti, l'ampliamento e l'abbellimento della capitale. Con l'alleanza di Roma aveva segnato la via migliore per assicurare al regno, oltreché la floridezza, il compimento di una grande missione nel contrasto delle superstiti forze degli stati greci.

Il regno di Eumene II. - Gli successe il fratello Eumene II, che continuò la via tracciata da lui. Antioco III, vincitore dell'Egitto nel 198 alla battaglia di Panion, aveva posto mano, nella primavera dell'anno successivo, alla riconquista dei possedimenti egiziani delle coste d'Asia Minore, e dopo la battaglia di Cinoscefale, anche di quelli macedoni, senza risparmiare le città della Ionia e dell'Eolia, che si trovavano in relazione di alleanza o di sudditanza con Pergamo, molte delle quali, del resto, pare che, profittando della situazione, si fossero liberate dal tributo dovuto agli Attalidi. Nei primi giorni del regno di Eumene, Antioco, procedendo liberamente verso il nord, era già giunto ad Abido, e nel 196, spedite truppe all'assedio di Smirne e di Lampsaco, senza però, come generalmente si crede, attaccare il regno di Pergamo nei suoi dominî indigeni, passava in Europa, soggiogando le città del Chersoneso e spingendosi sino a Lisimachia. Quivi lo raggiunsero ambasciatori romani, intimandogli di abbandonare le città tolemaiche e quelle tolte a Filippo, e di astenersi dalle città libere; Antioco rispose altezzosamente, e poco dopo, spintovi da false voci relative all'Egitto, lasciato l'esercito di terra al figlio Seleuco, abbandonò l'Europa, e per tutto il 195 sostò, pare, in Siria, sicché Eumene, libero di preoccupazioni da quella parte, poté validamente aiutare i Romani nella prima guerra contro Nabide. Nel 194, Antioco tornò in Europa e terminò la conquista della Tracia sino al confine macedone. I Romani non si acconciarono a ciò; mentre il re di Siria sosteneva che essi nessun diritto avevano d'intromettersi nelle cose dell'Asia e di farsi protettori della libertà delle città greche, essi ribattevano che da ciò si sarebbero astenuti soltanto quando Antioco avesse distolto il suo sguardo dall'Europa; e, non essendo stato possibile trovare una linea di accordo nei convegni di Grecia nel 193, di Asia (ad Apamea e ad Efeso) nel 192, si chiarì inevitabile la guerra, tanto più che gli Etoli, malcontenti della condizione che era stata loro fatta nei patti della pace che aveva conchiuso la seconda guerra macedonica, cercavano di sollevare l'intera Grecia contro Roma e, dopo aver incitato Nabide alla riconquista delle città litoranee laconiche, chiamarono Antioco a proteggere la libertà ellenica e lo elessero a capo del loro esercito.

Eumene, passato subito in Grecia, partecipò alle operazioni contro Nabide, avvertì i Romani dell'occupazione etolica di Demetriade, e, quando Antioco, accolto l'invito degli Etoli, sbarcò con l'esercito in Grecia e si apprestò alla conquista dell'Eubea, cercò invano di soccorrere Calcide. Tutta l'isola cadde nelle mani del re di Siria, e con lui fecero causa comune i Beoti, i Messenî, parte degli Acarnani, laddove fedeli ai Romani rimasero gli Ateniesi, gli Achei, Filippo; e gli stessi Etoli gli recarono aiuti molto minori di quelli che avevan fatto sperare. La conseguenza fu che, quando nel 191 un esercito romano al comando del console Manio Acilio Glabrione si avanzò sino alle Termopile, Antioco fu completamente sconfitto. A quella battaglia pare fosse presente anche Eumene, che poi prese viva parte alle operazioni della flotta alleata, la quale, al comando di C. Livio, si assicurò il predominio sul mare vincendo la flotta siriaca presso Corico, di fronte all'isola di Chio.

Nel 190, mentre Eumene continuava a collaborare attivissimamente con la flotta alleata, Seleuco figlio di Antioco irrompeva nel territorio di Pergamo e cingeva d'assedio la città, aiutato, poco dopo, dal padre con invio di mercenarî galli. Eumene, accorso in aiuto del fratello Attalo, chiuso in Pergamo, non riuscì a liberare la città, e, quando Antioco avanzò proposte di pace, si oppose ad esse energicamente, del che il re di Siria trasse vendetta facendo ulteriormente devastare il territorio di Pergamo, che poté essere liberata soltanto quando sopraggiunsero aiuti achei.

Nell'autunno dello stesso anno l'esercito romano al comando degli Scipioni traversava l'Ellesponto, e nella battaglia di Magnesia, nella quale Eumene combatté alla testa della cavalleria, sconfiggeva su tutta la linea Antioco, costringendolo ad accettare la rinuncia a tutti i suoi possedimenti al di qua del Tauro.

Dovendo i preliminari della pace essere discussi dinnanzi al senato, Eumene credette opportuno venire personalmente a Roma, dove, oltre agli ambasciatori di Antioco, erano venuti anche quelli di Rodi e di altri stati. Chiese che fosse attribuita a sé tutta l'Asia al di qua del Tauro, comprese le città greche che nella guerra avevano operato contro Roma. I Rodî invece perorarono per la libertà di tutte le città greche, e il Senato rimise la decisione al parere dei commissarî che avrebbe inviato in Asia. Questi giunsero in Efeso al principio dell'estate del 188, e s'incontrarono in Apamea con Cn. Manlio Vulsone, il successore degli Scipioni, che nell'anno precedente aveva intrapreso, insieme con truppe ausiliarie di Pergamo, una spedizione contro i Galati, mettendo il paese a ferro e a fuoco, facendo enorme bottino e sconfiggendo i barbari in due battaglie.

Tra i patti definitivi della pace fu stabilito che Antioco dovesse abbandonare tutta l'Asia Minore al nord del Tauro sino al fiume Halys, e la maggior parte di questo estesissimo territorio fu assegnata ad Eumene: il Chersoneso tracico con Lisimachia, le due Frigie, la Licaonia, la Miliade, la Lidia, la Caria al nord del Meandro, la Misia, la Pamfilia e parte della Pisidia. Quanto alle città greche della costa fu stabilito che pagassero tributo ad Eumene quelle che già l'avevano pagato ad Attalo, oltre quelle che l'avessero pagato ad Antioco e durante la guerra avessero per lui parteggiato. Le più importanti città della costa soggette a tributo furono pertanto: Focea, Magnesia al Sipilo, Teo, Colofone alta, Efeso, Telmesso; e attaliche furono anche le isole di Egina e di Andro.

Il regno di Pergamo, che aveva avuto così umili principî, veniva in tal guisa ampiamente accresciuto, sì da raggiungere una superficie complessiva, che con larga approssimazione può valutarsi a circa 180.000 kmq. e una popolazione di 4-5 milioni di abitanti. Ciò era accaduto col favore dei Romani, che in quel regno avevano visto un maneggevole strumento delle loro mire, ed Eumene alla subordinazione era perfettamente rassegnato, sapendone valutare nella giusta misura il prevalere dei vantaggi sugli svantaggi: ché, infatti, sul principio egli trovò sempre pronti i Romani a sostenerlo nelle lotte contro i vicini.

La prima delle quali scoppiò con Prusia di Bitinia, forse per contestazioni relative a qualche distretto territoriale dell'eredità di Antioco, conteso tra i due sovrani. È la guerra nella quale Annibale, ospite di Prusia, preposto all'armata bitina vinse per mare Eumene, e fu lì per catturarlo: vano successo, perché a questo punto Roma impose la pace con vantaggio, pare, di Pergamo (184 a. C.).

Dopo di ciò Eumene si volse contro i Galati, che avevano prestato aiuto a Prusia, e li vinse riducendoli in propria sudditanza, e portando il confine del suo regno a toccare quello del Ponto, che era stato costituito come regno autonomo da Mitridate I nei primi decennî del sec. III, e sul quale ora regnava Farnace. Questi, impadronitosi nel 183 a. C. di Sinope invase la Galazia, provocando la reazione da parte di Eumene, di Prusia e di Ariarate di Cappadocia, i quali invocarono l'intervento di Roma, che altro non poté fare se non inviare inutili ambascerie. Nel 180-79, mentre Eumene e Ariarate si apprestavano all'attacco decisivo, Seleuco IV Filopatore, succeduto ad Antioco III, e i Rodî simpatizzarono per Farnace, ma poi questi rimase di nuovo solo nella lotta, e dovette venire a patti, pagando un'indennità di guerra e abbandonando ogni pretesa sulla Galazia.

Nello stesso anno, 179 a. C., morto Filippo di Macedonia, gli era successo Perseo, che, pure essendosi preso la cura di rinnovare il trattato del padre coi Romani, ne ereditava però i sentimenti, e poneva tosto la mira a una politica di riscossa delle forze nazionali della Grecia. Se ne avvide meglio di ogni altro il re di Pergamo e, sul principio del 172, si recò personalmente in Roma per persuadere il senato ad affrettare la guerra con la Macedonia. Tra i motivi addotti per questa guerra fu anche l'attentato commesso contro Eumene, allorché egli, di ritorno da Roma, si era recato a visitare l'oracolo di Delfi, del quale attentato la responsabilità fu attribuita, a torto, a Perseo. Nella guerra, Eumene cooperò fedelmente coi Romani: nel 171, insieme col fratello Attalo alla testa delle sue truppe, 4000 fanti e 1000 cavalli, si congiunse con l'esercito romano comandato da Licinio Crasso nelle vicinanze di Larissa, e combatté nella battaglia di Callicino, contribuendo validamente ad arginare la rotta dei Romani delineatasi nel primo cozzo della battaglia. Nello stesso anno, un altro reparto di 2000 ausiliarî pergameni, che Eumene aveva lasciato in Calcide, al comando del fratello Ateneo, partecipò all'assalto e alla presa di Aliarto, diretta dal pretore romano C. Lucrezio. Nel 169 una squadra di venti navi pergamene, comandata da Eumene, congiuntasi con l'armata romana, guidata dal pretore C. Marcio Figulo cooperò ai non felici tentativi contro Cassandria e contro Demetriade. Nel principio del 168, navi pergamene incrociavano con quelle rodie presso l'isola di Tenedo, per sorvegliare l'uscita dal Ponto e per impedire il trasporto di granaglie in Macedonia, ma nulla poterono contro le navi macedoni, sopraggiunte agli ordini di Antenore, al quale poi sul principio della primavera riuscì di sorprendere nello stretto fra Eritre e Chio alcuni trasporti pergameni recanti in soccorso dei Romani un corpo ausiliare di cavalieri galati, uccidendone 800 e catturandone 200. Questo disastro fu forse una delle ragioni della ribellione dei Galati scoppiata poco dopo, ribellione che Eumene affrontò subito, ma con forze insufficienti, perché buon nerbo delle milizie pergamene era in Macedonia, onde il re fu battuto e corse persino il pericolo di cadere nelle mani dei barbari. Ma intanto la vittoria dei Romani a Pidna, ove Attalo aveva combattuto al seguito di Emilio Paolo, rendeva disponibili le forze impegnate in Macedonia.

Dopo la vittoria dei Romani, Eumene concluse un armistizio coi Galati, e inviò in Roma il fratello Attalo per chiedere aiuto contro i barbari e per sollecitare la più larga partecipazione possibile alle spoglie di Perseo. Ma in questo momento i Romani cominciarono a mostrare verso Eumene una diffidenza e una freddezza sempre crescenti, perché si diceva che egli avesse trattato segretamente con Perseo per ritirarsi dall'alleanza romana e farsi mediatore di pace, diceria della quale peraltro non fu mai possibile accertare il fondamento, onde acquista colore di verisimiglianza la supposizione che i Romani cominciassero invece ad allarmarsi della potenza pergamena accresciuta per opera loro e a temerne futuri fastidî. Il fatto è che essi cercarono persino di indurre Attalo a prendere posizione contro il fratello, e, non essendoci riusciti, trovarono il modo di far capire ai Galati che essi si disinteressavano delle loro beghe con Eumene, e non dissimularono la loro benevolenza ad altri rivali di lui, come Coti, re dei Traci Odrisi e Prusia II di Bitinia, sicché il re di Pergamo pensò di venire di persona a Roma per dissipare i malintesi, ma appena approdato a Brindisi, un questore gli presentò copia di un senatoconsulto che vietava a qualsiasi re di recarsi in Italia, onde gli fu giocoforza rimbarcarsi subito pel suo regno. E, qui giunto, gli riuscì, con un supremo sforzo, a ottenere brillanti successi sui Galati, ponendoli in condizione tale da dover mandare a Roma un'ambasceria per sollecitare il favore del senato, il quale assicurò loro l'autonomia entro le proprie frontiere, frustrando così i successi del re.

E Prusia II continuava a brigare, e nuove complicazioni insorgevano, le quali consigliarono al re di Pergamo di mandare in Roma i fratelli Attalo e Ateneo. Questi ebbero buone parole, ma i Romani continuarono a covare il loro sordo rancore verso Eumene, e lo sfogarono crudelmente quando, qualche anno appresso, gli inviarono un'ambasceria per spiarne il contegno, e il capo di essa, C. Sulpicio Gallo, giunse a invitare in Sardi quanti avessero lagnanze da presentare contro il re, e le ascoltò pubblicamente, con onta suprema al prestigio di lui. Morì nel 189 a. C., dopo aver continuato la tradizione paterna nella protezione di poeti, letterati e artisti, e nell'abbellimento della città con edifici e monumenti sontuosi, tra cui la biblioteca e il celebre altare.

Gli ultimi Attalidi. - Gli successe Attalo II (v.), che gli era stato fido e attivissimo collaboratore, senza però aver mai assunto veste ufficiale di correggenza. Attalo sposò la vedova del fratello, Stratonice, alla cui mano aveva già ambito, quando nel 172 Eumene, di ritorno da Roma, era stato assalito e ferito da masnadieri presso Delfi e si era diffusa la voce che fosse morto. E insieme Attalo assunse la tutela del nipote, il futuro Attalo III (sulle discussioni relative alla nascita di costui v. attalo ii attalo iii). Aiutò tosto il cognato Ariarate V a riconquistare il trono di Cappadocia, e fu più volte in guerra con Prusia II di Bitinia. Questi invase il territorio pergameno nel 155 e nel 154, costringendo Attalo ad appoggiarsi ad Ariarate e a Mitridate del Ponto, e ad armare un grosso esercito, ma nel 153 le ostilità, per l'intervento diplomatico dei Romani, cessarono con un trattato favorevole al regno di Pergamo. Riarsero però poco appresso, allorché Attalo aizzò contro il re di Bitinia il figlio di lui Nicomede e questi incontrò larghe simpatie tra i sudditi. Prusia fu costretto a rifugiarsi in Nicea e trovò poi la morte per tradimento in Nicomedia (149 a. C.). Seguì una guerra col principe tracio Diegili, che aveva aiutato Prusia, guerra che terminò, pare, con la meglio di Diegili. Anche Attalo II si distinse per il suo zelo verso i Romani, aiutandoli nelle guerre contro Andrisco e contro gli Achei, sì da poter partecipare alla preda di Corinto. Morì nel 138, dopo aver brillato, come i suoi predecessori, non meno nelle arti della pace che in quelle della guerra.

Gli successe Attalo III, che la tradizione, con molta esagerazione, dipinge come sovrano torbido e irrequieto. Di fatto ebbe attitudini artistiche, fu scrittore vario, e condusse anche qualche vittoriosa spedizione guerresca, il che non esclude che, specialmente negli ultimi tempi della sua vita, egli abbia avuto a patire qualche alterazione mentale. Morì nel 133 a. C. istituendo eredi del regno e di tutte le sue sostanze i Romani (v. asia minore: L'età romana; attalo III).

Ordinamento costituzionale e amministrativo. - La monarchia pergamena non fu di carattere assolutista, come la tolemaica e la seleucidica, ma, se non costituzionale come quella epirota, fu temperata come la siracusana.

Il potere. - Il re è soprattutto il capo dell'esercito, rappresenta lo stato nelle relazioni con l'estero, decide della pace e della guerra, dispone del pubblico tesoro, amministra in ultima istanza la giustizia.

Nel disbrigo degli affari più importanti, egli era coadiuvato da un consiglio composto di parenti, di dignitarî e di cortigiani: un embrione di Consiglio di stato, che aveva però carattere soltanto consultivo. Le funzioni del governo erano esplicate da un numeroso stuolo di funzionarî e di dignitarî. Il più alto di grado era lo ἐπὶ τῶν πραγμάτων, una specie cioè di primo ministro, che siedeva di diritto nel Consiglio della corona, e dirigeva gli affari esteri, l'istruzione dei processi di stato, il controllo sull'amministrazione provinciale. A fianco del primo ministro funzionava il segretario di gabinetto, che tra l'altro compilava le ordinanze reali, le muniva del sigillo di stato, e le trasmetteva ai funzionarî competenti o agl'interessati. Alla testa dell'amministrazione finanziaria stava nella capitale un intendente generale, da cui dipendevano gl'intendenti di ciascuna provincia e gran numero di funzionarî inferiori. All'esazione delle imposte governative provvedevano gli organi municipali, ove esistevano centri di autonomia amministrativa, mentre quei funzionarî accudivano alla collazione, al controllo, e, ove mancassero centri municipali, all'esazione stessa. Quanto, infine, all'amministrazione provinciale, troviamo traccia di una divisione in ὑπαρχίαι, che dovevano essere organi di maggiori circoscrizioni, corrispondenti alle satrapie, onde tutto fa credere che gli Attalidi avessero qui, come in altre branche, ereditati gli schemi degli ordinamenti Seleucidi.

Il culto dinastico. - Come nelle altre monarchie ellenistiche, in Pergamo si ebbe il culto dei sovrani sino dai primi tempi dell'istituzione del principato, e sino da allora esso appare come culto del re vivente, ma la liturgia e la solennità furono sviluppate in particolare guisa soltanto da Eumene II, che moltiplicò i sacerdoti, le cerimonie, le feste, i giuochi. Poiché tale culto, già dal tempo di Attalo I, aveva assunto un colorito dionisiaco, nel senso che la dinastia regnante si stimava appunto discendente da Dioniso e il re era considerato quasi immagine o rappresentazione di lui, Eumene strinse relazione coi tecniti di Teo e ne impiantò un ramo in Pergamo, ove poi fu fondata una corporazione detta degli Attalisti, particolarmente addetta al culto reale. La denominazione di ϑεός spettava soltanto al sovrano defunto, ma al vivente erano tributati, insieme con libazioni, anche sacrifici di vittime, e gli erano elevati altari e recinti sacri, di guisa che, in sostanza, il culto attalico, se si distingue in qualche forma da quello delle altre monarchie ellenistiche, sostanzialmente è conforme ad esso, e se nelle monete appare l'effigie del fondatore della dinastia, anziché quella del sovrano vivente, non si deve vedere in ciò l'indizio di una più mite applicazione del principio divino, ma piuttosto l'intento di non turbare, con cambiamenti, il credito acquisito alla monetazione. Col culto si riconnettono i cognomi, che vediamo assunti, come dagli altri sovrani ellenistici, dagli Attalidi: Evergete, comune a tutti e assunto o al momento della salita al trono o talora anche prima, Filadelfo comune ad Eumene II e ad Attalo II, Filometore attribuito a Attalo III, Sotere portato da Attalo I e da Eumene II in rapporto con le loro vittorie sui Galati.

L'autonomia delle città suddite greche e i loro rapporti con l'autorità centrale. - Le città greche, suddite del regno, conservano i loro organi municipali, senato e assemblea popolare, e per mezzo di essi legiferano e amministrano la cosa pubblica, entro la sfera municipale. Eppure sull'autonomia in tal guisa limitata il re influisce con varî mezzi, quali raccomandazioni amichevoli, rescritti categorici, nomina di proprî rappresentanti investiti di funzioni di controllo, col titolo di epistati.

Tra le città suddite una posizione speciale spetta alle colonie, sia fondate dagli Attalidi, sia ereditate dai Seleucidi, le quali ebbero talora carattere esclusivamente militare. Fileteria alle pendici meridionali dell'Ida, Gergita alle fonti del Caico, Attalia al Lico non lungi da Tiatira risalgono già al sec. III a. C., ma naturalmente l'attività colonizzatrice dei re di Pergamo si sviluppò specialmente dopo la battaglia di Magnesia, quando essi divennero signori di tanta parte dell'Asia Minore, e allora venne meglio in luce il carattere liberale del loro spirito colonizzatore. Mentre le colonie seleucidiche mostravano, per spiccati caratteri, di volere essere strumento di dominio straniero, quelle degli Attalidi mirarono soprattutto alla fusione degli elementi asiatici con gli elementi greci, ed ebbero un carattere che bene è stato definito greco-asiatico, in quanto gl'indigeni furono chiamati a parteciparvi in condizioni particolarmente favorevoli. Perciò le colonie attaliche, in confronto di quelle seleucidiche, appaiono quasi come nuovi centri di vita indigena risorgenti di fronte a quelli, prima imposti, di vita straniera: si pensi, p. es., a Eumenia, che incarna una specie di risurrezione del sentimento locale in opposizione allo spirito seleucidico dei Macedoni di Pelte.

Un posto a sé ha la capitale: quivi i rapporti tra gli organi dell'autonomia cittadina e l'autorità regia centrale assumono forme particolarmente interessanti, nelle quali si palesa una specie di compromesso tra i residui dell'antico ideale classico della πόλις e l'ideale nuovo della monarchia universale. Anche la capitale conserva i suoi organi legislativi, ma il controllo governativo su di essi si esercita in pieno, mediante la nomina reale dei cinque strateghi, che costituiscono la magistratura suprema, alla quale spetta la presidenza della bulè e il diritto di riferimento delle proposte di questa all'assemblea popolare. Con ciò rimaneva al popolo l'apparenza d'una qualche libertà democratica, ma era tagliata la via a qualunque proposta poco gradita ai sovrani.

Non pare invero che fosse precluso ai singoli il diritto di avanzare proposte al popolo, ma questo diritto doveva sempre esercitarsi attraverso gli strateghi. Si aggiunga che il re poteva far valere direttamente la sua volontà sugli organi cittadini o rivolgendo loro inviti amichevoli e cortesi a votare questo o quel provvedimento che gli stesse a cuore, o emanando direttamente questi provvedimenti; anche in quest'ultimo caso però le apparenze costituzionali erano salve in quanto le ordinanze regali dovevano essere riconosciute dal popolo e inserite tra le leggi: era una formalità, ma che pure aveva il suo significato. Comimque, è possibile, soprattutto sulla base dei copiosi materiali epigrafici forniti dagli scavi, cogliere le invadenze progressive del re sulla competenza del popolo. A un certo momento accanto agli strateghi vediamo apparire un funzionario, che ha il titolo ὁ ἐπὶ τῆς πόλεως, una specie di governatore, che dobbiamo credere anch'esso nominato dal re. Tutti gli altri magistrati erano sì di nomina popolare, ma dovevano essere presentati e raccomandati dal senato, che è quanto dire dagli strateghi; e vediamo come il re influisse sulle concessioni di onoranze, d'immunità e di privilegi d'ogni genere, e invigilasse su tutti i rami dell'amministrazione, specialmente su quella finanziaria, non soltanto per mezzo degli strateghi ai quali ne spettava l'alta sopraintendenza, ma, nella sfera delle finanze sacre, anche per mezzo di uno speciale funzionario (ὁ ἐπὶ τῶν ἱερῶν προσόδων) investito di attribuzioni ispettive e di controllo, probabilmente anche lui di nomina regia. Più liberamente ancora il re interveniva nella sfera religiosa avendo facoltà così d'introdurre nuovi culti, come d'ingerirsi in quelli cittadini, sia nella parte rituale, sia in quella finanziaria.

Tuttavia, per quanto notevole potesse essere l'ingerenza regia nella vita della capitale e delle altre città suddite greche, la monarchia degli Attalidi si distinse sempre per il rispetto formale delle autonomie municipali; e l'insieme dei modi e delle regole, che governano i rapporti tra questa autonomia e l'autorità centrale della corona, ebbe dal punto di vista storico molta importanza, perché i Romani si attennero a quei modi e a quelle regole quando ordinarono il proprio dominio nella provincia d'Asia, e anzi alcuni degli elementi del diritto pubblico pergameno furono adottati nell'organizzazione romana di tutto l'Oriente greco.

In questa ripercussione delle istituzioni attaliche nell'impero di Roma e in questo perpetuarsi della loro vitalità sta la massima parte della loro importanza storica e la prova della felice e organica combinazione del loro sistema.

Le finanze. - Le fonti principali di entrata erano: l'imposta fondiaria dei dominî indigeni, che doveva essere determinata in una percentuale fissa del reddito medio e non in un'aliquota del prodotto annualmente variabile; i tributi di alcune delle città suddite greche, tributi che dovevano corrispondere presso a poco al reddito che l'imposta fondiaria fruttava alle città stesse, e alle dogane. Oltre alle entrate ordinarie ve ne erano di carattere straordinario, quali contribuzioni speciali in caso di guerre particolarmente pericolose, il ricavato di eventuali confische di patrimonî privati ecc. Assai elevato doveva essere inoltre il reddito dei demanî reali, quei demanî che, in massima parte, gli Attalidi avevano ereditato dai Seleucidi, e che a loro volta passarono poi agl'imperatori romani: ve ne erano nella Troade, nel Chersoneso Tracico, nella Frigia, nella Pisidia, coltivati da masse di contadini (βασιλικοὶ λαοὶ), legati alla gleba in una condizione che permette di considerarli come i precursori dei coloni dei predî imperiali romani. Appartenevano alla corona anche fabbriche di pergamena, stoffe e tessuti varî, tegole e mattoni, e tali manufatti probabilmente erano anche oggetto di monopolio. Vano sarebbe il tentativo di fissare, sia pure approssimativamente, il gettito complessivo delle entrate annue, né a tale scopo giova l'arzigogolare sulle notizie incerte e contraddittorie che si hanno circa i tributi della provincia romana dell'Asia. Ma a tale tentativo si può facilmente rinunciare, paghi di una certezza generica intorno alla grande floridezza del regno, e alla dovizia del tesoro attalico, rimasta proverbiale nei secoli. E fu gloria della dinastia avere usato di queste ricchezze con saggia munificenza per accrescere il prestigio, lo splendore e la fama del regno. I re che si successero sul trono fecero a gara per ampliare, adornare e abbellire la capitale, ma non trascurarono le altre città suddite e non suddite d'Asia Minore, e vollero diffondere il rispetto e l'ammirazione del loro nome nei centri più venerandi della Grecia madre: Delfi, Delo e, sovrattutto, Atene che era sempre il simbolo della gloria antica, e che essi abbellirono di statue, di giardini, di portici.

L'esercito. - Era costituito soltanto in piccolissima parte di volontarî, e nella massima parte di mercenarî, e quindi gli effettivi ne variavano secondo le esigenze, ma rilevante ne doveva essere la forza media, trattenuta normalmente sotto le armi per i bisogni della difesa, che si facevano sentire specialmente alle frontiere. I mercenarî erano di ogni provenienza: le iscrizioni ne ricordano di Tracia, di Misia, di Paflagonia, e, col proeedere del tempo, furono distinti in due categorie: semplici stipendiati e veri e proprî coloni militari, provveduti di lotti di terreno, non soltanto a servizio terminato, ma ancora in attività di servizio. Un'iscrizione pergamena, dei primi tempi del principato, mostra come la durata dell'anno militare fosse di dieci mesi, senza pregiudizio dei mesi intercalari, e quali provvidenze fossero prese pel trattamento di quiescenza e per la tutela degli orfani dei militari; ma si tratta di una convenzione firmata in un momento pericoloso per il nascente principato, e non siamo perciò autorizzati a considerare tali misure come permanenti.

Le lettere e le arti. - La dinastia pergamena è celebre per l'amore delle arti, delle scienze e delle lettere, e per la conseguente protezione offerta ad artisti e sapienti, onde a ragione è stata paragonata alla corte dei Medici. Già vediamo Eumene legato da amicizia col filosofo peripatetico Licone e con Arcesila di Pitane, divenuto in Atene scolaro dell'Accademia, e Attalo I con Lacide, successore di Arcesila. E per opera degli Attalidi, Pergamo diviene uno dei grandi centri spirituali dell'ellenismo, tale da poter competere con Alessandria e con Antiochia; anzi questo piccolo regno asiatico, risalendo il suo splendore non oltre la metà del sec. III a. C., è il rappresentante dell'ellenismo più puro e più genuino. Il focolare principale della cultura pergamena fu la grande biblioteca, fondata da Eumene, e ampliata e arricchita dai suoi successori che fecero di tutto per portarla rapidamente al livello di quella di Alessandria, con la quale sorsero rivalità, che trovarono drastica espressione in curiosi aneddoti della tradizione, rivalità che avrebbero dato anche sprone all'invenzione e alla diffusione della pergamena, in concorrenza col papiro egiziano. Della ricchezza raggiunta dalla biblioteca pergamena è indice il fatto che quando nel 47 a. C. una delle biblioteche di Alessandria fu distrutta da un incendio, occasionato da un combattimento tra Cesare e Achilla, Antonio donò a Cleopatra, per compensarla della perdita, duecentomila volumi tolti alla biblioteca degli Attalidi.

Due nomi personificano meglio di ogni altro il movimento intellettuale del quale la biblioteca è il centro: Antigono di Caristo e Cratete di Mallo (v.).

La biblioteca pergamena non fu soltanto un deposito di libri, il cui uso fu agevolato da cataloghi diligentissimi, ma fu anche un museo, come è stato dimostrato dalle opere d'arte, che gli scavi hanno rimesse alla luce. Quei principi illuminati, infatti, uno dei quali, Attalo I, aveva voluto abbellire il suo appartamento con le statue delle Cariti di Bupalo, e un altro, Attalo II, aveva offerto 100 talenti per il Dioniso di Aristide, che faceva parte del bottino di Corinto, e aveva inviato suoi messi a ricercare amorosamente opere d'arte per le diverse città della Grecia, ordinando tra l'altro la copia delle pitture di Polignoto, che decoravano la Lesche; quei principi diedero a Pergamo una grande collezione di opere d'arte, fatta naturalmente con quegli stessi criteri di lusso e di diletto, che mossero in altre età le collezioni dei papi e dei Medici, e non già con criterî scientifici: tuttavia il museo pergameno divenne nelle mani di eruditi del tipo di Antigono di Caristo un potente strumento di lavoro per il quale essi poterono ricostruire i primi capitoli della storia dei grandi maestri greci e fare l'esame critico delle loro opere, stendendo una lista di nomi atti a rappresentare i principali periodi dell'arte ellenica: il cosiddetto canone della scuola di Pergamo, che acquistò poi in Roma grande autorità, e cui s'ispirarono egualmente Cicerone e Quintiliano.

E con le opere più antiche raccolte nelle loro grandi collezioni gareggiavano quelle contemporanee, sorte in Pergamo, per il volere e sotto la protezione dei re, specialmente di Attalo I e di Eumene II. Sono questi i due nomi che segnano i due periodi principali di quella che si suole chiamare la scuola pergamena, periodi dei quali il primo culmina nel grande monumento trionfale in cui furono eternate le vittorie di Attalo sui barbari; il secondo nel famoso altare della Gigantomachia. Appartengono al primo periodo, tra gli scultori, Epigono, Piromaco, Stratonico, Antigono; al secondo Teorreto, Dionisiade, Menecrate, Oreste. E della scultura della scuola pergamena il quadro di sviluppo è da tempo fissato con sufficiente precisione: essa rappresenta non un decadimento, ma un ulteriore sviluppo dell'arte classica, e fonde i motivi e le reminiscenze di questa con un potente sforzo di rinnovamento, che tutta la pervade e la nobilita, facendo passare in seconda linea quelle che possono essere le sue ombre e i suoi difetti: l'esagerazione patetica, il manierismo, l'enfasi; con la scultura andava di pari passo lo sviluppo della pittura, della quale purtroppo non si hanno avanzi, e quella delle arti minori: musaico, incisione in pietre dure, oreficeria, avorî.

L'arte pergamena esercitò influenza ed ebbe ripercussioni sullo sviluppo dell'arte romana, non minori di quelle esercitate dalla sua letteratura e dalle sue istituzioni politiche.

In conclusione, qualunque lato si prenda in esame della vita e dell'attività del regno di Pergamo, se ne discopre una triplice funzione che mette in luce tutta l'importanza che a questo regno ellenistico compete nella storia universale: 1. esso fu un fattore di primaria importanza della cultura e della civiltà ellenistica, e salvò le sorti dell'ellenismo nell'Asia Minore; 2. contribuì in particolar modo all'espansione del dominio romano in Oriente; 3. fu strumento capitale di quel processo pel quale la civiltà e la cultura greca giunsero a esercitare sul mondo romano il loro influsso trasformatore.

Bibl.: Opere generali: B. Niese, Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten seit der Schlacht bei Chäroneia, II e III, Gotha 1899 e 1903; E. R. Bevan, The House of Seleucus, voll. 2, Londra 1902; A Bouché-Leclerq, Histoire des Lagides, voll. 4, Parigi 1903-1907; id., Histoire des Seleucides, voll. 2, Parigi 1913, 1914; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, i, Torino 1923; J. Kaerst, Geschichte des Hellenismus, Lipsia e Berlino, I, 3ª ed., 1927; II, 2ª ed., 1926; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, IV, i e ii, 2ª ed., Berlino e Lipsia 1925 e 1927; E. Pais, Storia di Roma durante le grandi conquiste mediterranee, Torino 1931. Opere speciali: U. Pedroli, Il regno di Pergamo, Torino 1896; M. Collignon (e E. Pontremoli), Pergame, Parigi 1900; G. Cardinali, Il regno di Pergamo, Roma 1906; M. Rostovtzeff, in Cambridge Ancient History, VIII (1930), p. 590 e seguenti.

Memorie ed articoli più notevoli: Brinkgreve, De regno Pergameno deque eius dynastis usque ad Attalum, I, Utrecht 1893; C. Meischke, Symbolae ad Eumenis II Pergamenorum regis historiam, Lipsia 1892; H. Swoboda, Zu den Urkunden von Pergamon, in Rheinisches Museum, 1891, p. 497 segg.; J.P. Mahaffy, The royalty of Pergamum, in Hermathena, 1896, p. 389; C. Wachsmuth, Das Königtum der hellenistischen Zeit, insbesondere das von Pergamon, in Historische Vierteljahrschrift, 1899, p. 297 segg.; P. Ghione, I comuni del regno di Pergamo, in Memorie dell'Accademia di Torino, 1905, p. 67 segg.; G. Cardinali, La morte di Attalo III e la rivolta di Aristonaco, in Saggi di storia antica e di archeologia offerti a G. Beloch, Roma 1910; id., La genealogia degli Attalidi, in Memorie della R. Accademia delle scienze di Bologna, 1913, p. 77 seg.; id., Ancora sull'albero genealogico degli Attalidi, ivi 1914, p. 37 segg.; id., L'amministrazione finanziaria del comune di Pergamo, ivi 1916, p. 181 seg.; M. Rostovtzeff, Notes on the economic policy of the Pergamene Kings, negli Anatolian Studies presented to Sir William Ramsay, Manchester 1924, p. 359 seg.; G. Corradi, Studi ellenistici, Torino 1929, p. 347 segg.