PERENZIONE

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

PERENZIONE

Ernesto HEINITZ

. La perenzione significa l'estinzione del rapporto processuale che si verifica se per il corso di un determinato periodo di tempo non siasi fatto alcun atto di procedura (art. 338 cod. proc. civ.). Nel processo formulare romano una lex Iulia iudiciaria prescriveva un termine massimo di 18 mesi per la pronuncia della sentenza. Nel iudicium quod imperio continetur il rapporto processuale si estingueva col venir meno dell'imperium del magistrato che ne aveva autorizzata la costituzione. Nel processo giustinianeo era prescritto (la sfera d'applicazione della norma è, peraltro, discussa) che i processi non dovessero durare più di 3 anni a decorrere dalla litis contestatio (lex properandum) (Cod., III, 1, de ind., 13). Nel diritto intermedio la lex properandum lentamente andava in disuso, onde molteplici tentativi legislativi di colmare la lacuna con norme dirette a limitare la durata del processo. L'istituto della perenzione, come si trova nel diritto moderno, risale al diritto francese, in cui fin dal 1526 un'ordinanza lo aveva sancito, in modo però che la perenzione non fosse più comando al giudice o limite del suo impero, bensì sanzione dell'inattività delle parti.

Nel diritto vigente la perenzione è una sanzione specifica dell'inattività di quella parte, cui incombe l'onere dell'impulso processuale. La parte colpita dalla perenzione non ha perduto il diritto sostanziale, dedotto in giudizio, e neppure il diritto di proporre l'azione contro l'avversario; ma tutti gli atti processuali, svolti fino al momento della perenzione, a eccezione soltanto delle sentenze pronunziate e delle prove già assunte, sono divenuti inutili e debbono essere ripetuti con perdita di tempo e di spese. Tale sanzione ha una funzione importante in un sistema, come quello vigente in Italia, nel quale l'impulso processuale è lasciato interamente alle parti: se mancassero le norme sulla perenzione, sarebbe possibile che un processo rimanesse per anni in stato di pendenza.

La tendenza di risalire alla volontà reale o presunta delle parti per spiegare gli effetti che la legge ricollega al loro comportamento, era molto diffusa in passato; la dottrina più moderna è meno disposta a ricorrere a tali considerazioni, le quali troppo spesso urtano contro la realtà dei fatti senza spiegare sufficientemente gli effetti ricollegati dalla legge ai fenomeni in questione. Si tratta in realtà di una specie di decadenza, che si verifica nell'interesse pubblico indipendentemente dalla volontà delle parti: di una perdita di diritto, cioè, che colpisce la parte che non abbia soddisfatto all'onere processuale di promuovere il procedimento. Questa concezione non è priva di conseguenze pratiche. Se la perenzione è disposta nell'interesse dello stato, deve ritenersi invalida ogni rinunzia convenzionale al diritto di far valere la perenzione.

Presupposti della perenzione sono il decorso di un determinato periodo di tempo (3 anni per le cause civili, di corte o di tribunale, 1 anno per quelle di pretore e 6 mesi per quelle di conciliatore; i termini sono ridotti alla metà per le cause commerciali), e l'inattività delle parti. Perché si possa compiere la perenzione, occorre che spetti a una delle parti esplicare un'attività per promuovere il giudizio; quando, invece, non vi sia posto per alcuna attività delle parti, o perché pende un termine dilatorio, o perché l'impulso processuale dipende dal giudice (come avviene, ad es., nel giudizio di cassazione, o dopo la spedizione della causa a sentenza, prima della pubblicazione di quest'ultima) la perenzione non corre. Irrilevante è la ragione per cui la parte è rimasta inattiva; anche il fatto, che fra le parti pendono trattative per una transazione amichevole, non sospende la perenzione. A interrompere la perenzione basta qualsiasi atto di parte, diretto a mantenere o rimettere in attività il rapporto processuale, senza che sia necessario che l'atto stesso sia rivolto all'altra parte o che questa ne sia venuta a conoscenza. Interrompono, quindi, la perenzione, ad es., l'iscrizione della causa a ruolo, le istanze dirette a organi giudiziarî per far progredire l'istruzione, e perfino gli atti compiuti davanti al giudice incompetente, mentre agli atti nulli non potrà attribuirsi questo effetto.

La perenzione avviene di diritto (art. 340 cod. proc. civ.) senza che sia necessario un atto di parte o la pronuncia del giudice, la quale, quindi, quando avviene, ha carattere dichiarativo e non costitutivo. Per ottenere però la sentenza che accerti l'estinzione del rapporto processuale in conseguenza della perenzione, è prescritto che la parte che intende approfittarne la faccia valere espressamente prima di ogni altra difesa (art. 340 cod. proc. civ.).

La perenzione "rende nulla la procedura", cioè estingue il rapporto processuale e fa cessare così gli effetti, processuali e sostanziali, della litispendenza. Perenta la domanda, si ha come non interrotta la prescrizione (art. 2128 cod. civ.). Gli atti processuali compiuti anteriormente alla perenzione, a cominciare dalla prima citazione debbono eseguirsi di nuovo, come se il primo giudizio non avesse avuto luogo. Nell'interesse dell'economia dei giudizî, però, la legge ha apportato qualche temperamento al rigore del principio ora enunciato; la perenzione non dirime gli effetti delle sentenze pronunciate né le prove che risultano dagli atti.

La perenzione nei giudizî d'appello o di revocazione dà forza di cosa giudicata alla sentenza impugnata: ciò vale anche nel caso in cui la sentenza non sia stata notificata e quindi il termine per l'impugnativa non ancora scaduto. Questa norma è basata sulla considerazione che alla parte, gravata da una sentenza di primo grado, incomba l'onere giuridico di promuovere il giudizio di impugnativa; altrimenti essa perde l'aspettativa di veder riformata la sentenza di primo grado. Le stesse ragioni ricorrono di per sé anche nel procedimento di opposizione contumaciale e di terzo, ma nel silenzio della legge pare preferibile l'opinione che la perenzione dell'opposizione non faccia senz'altro acquistare forza di giudicato alla sentenza impugnata, ma rimuova semplicemente gli effetti dell'opposizione stessa, dimodoché questa possa essere riproposta, se la sentenza non è ancora stata notificata, e quindi non ancora decorso il termine. La perenzione del giudizio di opposizione a ingiunzione non estende i suoi effetti al decreto ingiuntivo, il quale, col verificarsi della perenzione, acquista ope legis efficacia di titolo esecutivo.

La sopravvivenza degli effetti delle sentenze non ha luogo quando nel giudizio d'impugnativa sia stata emanata una sentenza nuova che ne modifica gli effetti; il legislatore evidentemente ha ritenuto che tale modifica possa considerarsi come indizio di manchevolezza e ingiustizia della prima sentenza. In tal caso la perenzione ha lo stesso effetto che avrebbe se non fosse stata emanata nessuna sentenza. La sentenza impugnata deve considerarsi modificata tutte le volte che nel procedimento d'impugnativa sia stata emanata una sentenza la quale in qualche modo influisca sul merito, anche cioè quando disponga un'ulteriore istruzione della causa, perché anche in questa ipotesi è invalidata la presunzione di giustizia, che alla prima sentenza inerisce fin da quando il giudice di grado superiore non abbia espresso un suo diverso parere. Si noti però che la giurisprudenza è andata in opposto parere, ritenendo che non si ha modificazione attuale e concreta ai sensi dell'art. 341 cod. proc. civ., quando il giudice d'appello si limiti ad ordinare ulteriori mezzi istruttorî. È controverso altresì se dopo la perenzione del giudizio di appello cominci a decorrere un nuovo termine di perenzione per il giudizio di primo grado; la risposta affermativa è difesa dalla giurisprudenza mentre in dottrina prevale la teoria che considera unico e inscindibile il rapporto processuale, cosicché non si può parlare di inattività di una parte rispetto al processo di primo grado, mentre pende il giudizio di secondo grado; e ciò, anche quando la sentenza sia provvisoriamente esecutiva, essendo rimesso alla volontà della parte di valersi, o no, dell'esecutorietà provvisoria. D'altra parte, perento il giudizio d'impugnativa, è perento insieme anche il giudizio nel grado inferiore.

Lo stesso vale anche nel giudizio di rinvio. Dal principio del doppio grado di giurisdizione segue che la cassazione della sentenza d'appello non faccia rivivere la sentenza di primo grado, eliminata definitivamente dalla sentenza d'appello, e cioè tanto nel caso che questa riformi la sentenza di primo grado, quanto nel caso che la confermi respingendo l'appello. Nel processo d'esecuzione le norme sulla perenzione sono in parte derogate e sostituite da norme particolari (art. 566 e 581 cod. proc. civ.; 884 capov. 2 cod. comm.; 2085 cod. civ.), le quali entro la sfera della loro applicabilità escludono le norme sulla perenzione comune; queste conservano il loro valore sia per i presupposti sia per gli effetti della perenzione stessa in tutti i casi in cui ciò non sia escluso espressamente, o non esista un regolamento speciale.

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