PELLONI, Stefano, detto il Passatore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PELLONI, Stefano, detto il Passatore

Dino Mengozzi

PELLONI, Stefano, detto il Passatore. – Nacque il 4 agosto 1824 al Boncellino, frazione del comune di Bagnacavallo, in Romagna, borgo di mille abitanti sulla riva sinistra del fiume Lamone, da Girolamo e da Maria Francesca Errani, ultimo di dieci figli.

I genitori erano contadini in proprio, appartenenti a una famiglia industriosa, che arrotondava le risorse del podere con lavori di falegnameria – fabbricavano zoccoli – e con l’esercizio del traghetto. Mancando il ponte, infatti, una barca collegava le due sponde del Lamone all’altezza del paese. I Pelloni ne guadagnarono ininterrottamente il pubblico appalto fin dalla prima metà del Settecento e, con il mestiere, il soprannome di ‘passatori’. Nel 1830 Girolamo si aggiudicò dal Comune anche l’incarico di custode della riva sinistra del fiume, per un compenso modesto ma sicuro, lo stesso di uno scrivano municipale. In cambio egli doveva sorvegliare gli argini da furti di pali, da tagli e pascoli abusivi, ingaggiare manodopera per il mantenimento degli argini e sorvegliare le acque, specie durante le piene. Morto Girolamo nel 1845, la famiglia perse la custodia dell’argine, ma conservò il servizio della barca, affidato alla vedova e poi al figlio Matteo. Il servizio del traghettatore rendeva: ottenuto con un’offerta di otto scudi, ne incassava in un anno dieci volte tanti.

Non era dunque una famiglia povera, quella di colui che sarebbe stato ricordato come il Passatore, tanto che da bambino poté frequentare una scuola privata di Cotignola, dove svolse il triennio elementare. Solo verso i vent’anni avrebbe imparato, però, a firmare con nome e cognome.

Durante l’estate del 1833, ancora adolescente, Pelloni era stato mandato dalla madre, per rinforzarlo in salute, alle Acque termali di Riolo, un centro frequentato da ricchi personaggi provenienti dalle Legazioni. La circostanza sarebbe stata poi ripresa da alcuni biografi che imputarono allo spettacolo del gran mondo sul contadinello di nove anni l’origine della sua vocazione a rivalersi sui ‘signori’. In verità, una certa attitudine alla violenza sembrava propria della famiglia. Così il primo atto che iscrisse il quindicenne nelle cronache giudiziarie. A motivo di un diverbio con una ragazzetta, figlia di un contadino, che lo aveva sorpreso a fare erba nel proprio campo, Pelloni reagì scagliandole contro dei sassi che le fratturarono un braccio. Ma una scuola ben più efficace fu senz’altro quella dei due fratelli maggiori, Matteo e Vincenzo. Il primo, in particolare, più anziano di undici anni, era entrato e uscito dal carcere più volte, per episodi di violenza e per rapine, fra il 1842 e il 1846. Non godevano di buona fama neppure il fratello Vincenzo, che aveva un anno in più di Matteo, né lo zio Stefano Errani e il cugino Antonio Errani, tutti praticanti una vita sopra le righe, che lasciò molteplici tracce nelle cronache criminali dell’epoca.

Di certa inclinazione alla violenza, peraltro, Pelloni portò il marchio. Non solo per lo «sguardo truce», che compariva fra le caratteristiche personali, nella sua scheda segnaletica, già a vent’anni, ma più intimamente perché nella parte destra del viso, dal naso all’occhio, la sua pelle era punteggiata da granelli di polvere da sparo, ricordo di una lite del 1841.

La sua carriera criminale iniziò precocemente, a diciotto anni, nel settembre 1842, con un furto di fucili a danno di alcuni braccianti e in combutta con altri due compari più esperti di lui. E coincise con una fase di gravi disordini nelle campagne, specie nella bassa Romagna, tra Lugo, Faenza e Ravenna, dove una quarantina di malviventi, divisi in squadre, prendevano di mira contadini e possidenti estorcendo – sotto minaccia di incendi e violenze – denari, preziosi e cibarie. Arrestato dalla colonna mobile di Russi il 10 ottobre 1843 e rinchiuso nelle carceri locali, Pelloni evase un mese dopo. Ripreso dai carabinieri, il minorenne bandito fu incarcerato a Bagnacavallo e infine a Ferrara, ma con alcuni complici scappò ancora due volte. La prima da Bagnacavallo il 29 gennaio 1844: percorsi pochi tratti di strada, fu riconsegnato alla prigione da un muratore, al quale egli avrebbe poi fatto pagare con la vita quel gesto di civismo. La seconda alle porte di Cattolica, durante la tradotta ai lavori forzati presso il porto di Ancona, cui era stato condannato dal tribunale di Ferrara. Da quei primi di agosto del 1845 non sarebbe più uscito dalla clandestinità, fino alla morte.

Il muratore di Bagnacavallo non fu la prima vittima a cadere sotto la doppietta di Pelloni, nel 1847. Pochi mesi prima, infatti, aveva sparato a due carabinieri, entrati inavvertitamente in un’osteria dell’Agro ravennate, dove stava rifocillandosi. L’assassinio del muratore inaugurò quella che sarebbe diventata una caratteristica distintiva dell’azione criminale di Pelloni, ovvero una rivalsa sadica e personalistica, soprattutto contro «spie» e militi della civica, colpevoli di «averlo cercato». Al di là del sentimento di vendetta, al Passatore mancò uno scopo ideale o politico. Le sue vittime furono popolani e borghesi, patrioti e filantropi, militi della guardia civica e carabinieri pontifici. Su costoro mise in scena rituali di efferatezza (dallo smembramento dei corpi alla decapitazione) che fecero in breve schizzare il suo nome al primo posto nella gerarchia della criminalità, come confermava l’entità della taglia messa sulla sua testa dal governo pontificio. Nel 1851 toccò i 3000 scudi, ovvero da sei a sessanta volte più alta di quelle degli altri banditi. Tuttavia Pelloni non agiva da solo. Fin dal 1847 si formò la masnada che fu detta impropriamente ‘banda del Passatore’, della quale, tuttavia, egli non fu il capo, bensì un leader di crudeltà.

La banda, oscillante fra dieci e quindici elementi, non ebbe mai un organigramma fisso. Si formava volta a volta intorno a un progetto di rapina e si scioglieva dopo averla compiuta. Vi si avvicendarono fra il 1847 e il 1851 almeno una settantina di individui, tutti giovani, per lo più celibi, di ogni mestiere e professione. La banda disponeva di una fitta rete di manutengoli, spie, dritte (gente dedita a mestieri mobili sul territorio), e di basi in campagna, presso mezzadri, la cui ospitalità era pagata uno scudo a testa. La divisione del bottino, in parti eguali, incluse le dritte, confermava la caratteristica della delinquenza brigantesca del periodo. Il che la rese particolarmente difficile da reprimere.

Nel corso del 1848, la banda si attestò fra rapine di strada, specie a danno di contadini del Lughese e dell’Imolese, e assalti a gruppi di persone, sequestrate in luoghi pubblici. Prima canoniche, come quella di San Prospero nell’Imolese, il cui arciprete morì dallo spavento, poi la diligenza pontificia e palazzi in città, come quello dell’avvocato Antonio Bettazzoni, nel centro di Bagnacavallo. Un salto di scala si ebbe dal 1849, nel pieno della crisi politica dello Stato pontificio, rimasto senza guida dopo la fuga di Pio IX a Gaeta e rivoluzionato dagli eventi della Repubblica Romana. Iniziarono allora gli assalti alle città romagnole, di piccole e medie dimensioni.

Prima Bagnara, cittadina di cinquecento abitanti, nei pressi di Lugo (16 febbraio 1849), alleggerita di circa 1000 scudi; poi Cotignola il 17 gennaio 1850, altra cittadina del Lughese, di millecinquecento abitanti, per una somma intorno ai 4500 scudi; il 27 gennaio Castel Guelfo, nei pressi di Imola, di seicento abitanti, ma assente Pelloni; il 7 febbraio Brisighella, nell’alto Faentino, di duemila abitanti, rapinata di oltre 4000 scudi; il 28 maggio 1850 Longiano, di novecento abitanti, per 6600 scudi; il 9 gennaio 1851 Consandolo di Argenta, nel Ferrarese, per più di 1500 scudi; il 25 gennaio toccava a Forlimpopoli, di duemila abitanti, per un bottino di 5600 scudi. La tattica fu sempre pressoché la stessa. Penetrati entro le mura urbane e messo fuori gioco il presidio della forza pubblica, i briganti prendevano in ostaggio i cittadini più facoltosi, che si trovavano nei pubblici ritrovi, locande, caffè, sale da ballo, teatri, e i cui nomi già avevano provveduto a elencare in un foglietto, informati da dritte del posto. I sequestrati erano quindi usati come scudi, per penetrare nelle loro abitazioni, dopo di che i briganti aprivano i mobili a colpi d’accetta e arraffavano di tutto, dalle monete ai preziosi, dagli oggetti di valore ai vestiti, perfino le reliquie; facevano poi confluire su un tavolo il bottino, come a Forlimpopoli, facendo dunque sfoggio, pubblicamente, della ricchezza accumulata.

Un malloppo di 1500 scudi fu rinvenuto, non a caso, sul corpo esanime del Passatore, morto a ventisei anni nelle vicinanze di Russi la domenica mattina del 23 marzo 1851.

A seguito di una soffiata, Pelloni e il compagno Giazzolo (Giuseppe Tasselli) furono circondati da una pattuglia di militari, mentre si trovavano a dormire in un capanno venatorio vicino a Russi. Giazzolo, ferito a una gamba da un colpo d’arma da fuoco, riuscì a fuggire. Pelloni, invece, raggiunto da una fucilata alla schiena, cadde e fu freddato, mentre cercava di rialzarsi, da un colpo alla nuca, sparato a bruciapelo. Il cadavere, caricato su un biroccio, fu fatto sfilare per due giorni, lungo le strade e i paesi di Romagna, da Lugo a Forlì e poi lungo la via Emilia fino a Bologna, dove fu sepolto nella notte fra il 26 e il 27 marzo nella Certosa, in un recinto appartato detto ‘campo dei traditori’. Nella notificazione con la quale monsignor Gaetano Bedini annunciava l’uccisione del brigante, il commissario pontificio delle quattro Legazioni (Bologna, Forlì, Ravenna, Ferrara) lo condannava alla dannazione eterna, in quanto empio «che la esecrazione generale accompagna anche al di là del sepolcro» (Costa, 1993, p. 343).

Ma morto Pelloni, viveva il Passatore. Nonostante la maledizione, la sua memoria non ne fu pregiudicata. Fu trasformata in mito positivo da una serie impressionante di romanzi da bancarella, dal teatro dei burattini e delle marionette, da racconti e saggi, da canzoni e poemetti, dall’oralità e infine dal cinema (del 1947 è il film Il Passatore diretto da Duilio Coletti con Rossano Brazzi, Valentina Cortese e Alberto Sordi) e dagli sceneggiati televisivi (nel 1977 la RAI mandò in onda le tre puntate dell’omonima serie diretta da Piero Nelli). Il Passatore divenne così, definitivamente, un ‘brigante sociale’, secondo una leggenda iniziata, costruita e propagata già al tempo della sua avventura più celebre, la presa della cittadina di Forlimpopoli, nel 1851. Fra i romanzi, se ne contano almeno una trentina, a partire dal 1860, trascurando le numerose ristampe. I più sono improntati a costruire una storia eroica, di tipo popolare, per riempire il decennio (pressoché vuoto) che precedette l’unificazione. Un’aspettativa, peraltro, già espressa da Giuseppe Garibaldi durante il secondo esilio americano, in una lettera del 10 dicembre 1850 a Eliodoro Specchi, nella quale auspicava di essere fra i «soldati del Passatore» in lotta contro gli austriaci (pubblicata nella rivista Il Comune di Bologna nel dicembre 1934, la missiva è ora in Epistolario di Giuseppe Garibaldi, III, 1850-1858, a cura di G. Giordano, Roma 1981, pp. 35 s.). «Vissuto da brigante», ma «morto da soldato», lo diceva il poeta Francesco Dall’Ongaro (Il Passatore, in Id., Stornelli italiani, Milano 1862, cit. in Costa, 1993, p. 339). Il mito del Passatore si strutturò con un forte accento anticlericale grazie a un’anonima Rapsodia o storia di Stefano Pelloni, detto il Passatore, in versi di pregevole fattura, pubblicata a Firenze nel 1862, poi confermata quattro anni dopo dallo scrittore Antiodo Agnolucci (Stefano Pelloni detto il Passatore, ossia Il figlio del Papa, Firenze 1866). Secondo questa trama biografica il Passatore, figlio naturale di Pio IX, fu indotto al malaffare dalla lussuria di un prete, che gli carpì con l’inganno la bella Carmela, di cui era innamorato. Come uno Jacopo Ortis ferito al cuore e un Garibaldi esule, il Passatore viaggiò all’estero, imparò le lingue, ma soprattutto, quasi un Montecristo minore, preparò la vendetta. Per la penna di Agnolucci, il bandito resse la bandiera della rivolta in anticipo sui tempi, quando intorno a lui nessuno era ancora disposto a ribellarsi, salvo i malavitosi; smuovendo al contempo la coscienza sociale, secondo la sua divisa: «tolgo al ricco superbo ed avaro il superfluo, e rendo al povero la roba sua» (p. 168).

In questa versione, di lì a poco, il bandito poté facilmente transitare fra i «malfattori» di Andrea Costa, o figurare come «Passator cortese» nei versi del socialista Giovanni Pascoli che, nell’ode Romagna del 1880, ne scoprì l’animo sentimentale (Poesie, I, Milano 1969, pp. 25-27). Amato dalle donne, da lui rispettate come un cavaliere antico, il Passatore diventò leader non più solitario e un po’ ‘dandy’, ma capo di una squadra di «compagni» nei romanzi di fine secolo, allo scopo d’insegnare loro come vendicarsi dei ricchi esosi. Intanto un capanno, impresso anche su una cartolina, fu spacciato per la sua casa natale sulle rive del Lamone, nei pressi del Boncellino, e – come quello della trafila di Garibaldi a Magnavacca – oggetto di visite devote.

All’inizio del Novecento, lo scrittore Renato Zalgari gli fece assaltare Cotignola nel mentre istruiva politicamente i suoi: «Compagni, so bene che voi avete dei diritti; vedete questi poveri sterratori che si son dimostrati nostri amici; rispettate le loro case. Il resto ve lo abbandono» (Il Passatore (Stefano Pelloni celebre bandito), Firenze 1904, p. 359). Il tacito accordo intorno al mito del ‘bandito sociale’ venne meno durante il fascismo, che preferì l’immagine di una Romagna tornata all’ordine. Prontamente nel romanzo Il Passatore (Milano 1929) di Bruno Corra fu il valoroso capitano dei carabinieri e con lui tutta la Romagna popolare a dare la caccia al bandito sulle cime del Montefeltro. Nacquero in quel periodo le prime opere ibride, come quella di Francesco Serantini (Fatti memorabili della banda del Passatore in terra di Romagna, Faenza 1929), caratterizzate per un verso dall’uso delle carte d’archivio e per l’altro dal tentativo di accordare i documenti con il mito, la cui supposta radice popolare venne messa in dubbio, nello stesso periodo, dallo storico Augusto Campana. Il mito perse progressivamente di coerenza e si sfrangiò in rivoli diversi a documentare ora la crudeltà estrema, ora il gesto generoso e cavalleresco. Con queste caratteristiche il Passatore sbarcava sul palco dell’Orchestra Secondo Casadei e sull’etichetta dei vini romagnoli dal 1967, emblema di ospitalità, antica e genuina. Più di recente, un revival di interesse verso la figura immaginata del Passatore si deve alla commedia musicale La leggenda del Passatore scritta e diretta da Gabriele De Pasquale nel 2007, e soprattutto alla canzone Son Passator cortese di Massimo Bubola, eseguita dalla Barnetti Bros Band e inserita nell’album Chupadero del 2009.

Fonti e Bibl.: La biografia più seria e documentata del Passatore è stata scritta da uno storico dilettante, Leonida Costa, insegnante di Riolo Terme, che nel 1974 diede alle stampe a Faenza una ricerca intitolata Il rovescio della medaglia (III ed. ampliata, Mezzano-Ravenna 1993) e improntata – come suggerisce il titolo – a smitizzare la figura del brigante, anche attraverso la pubblicazione di ampi brani provenienti da documenti d’archivio, estratti di processi, confessioni. Era stata preceduta dal primo scavo – citato – di F. Serantini del 1929, del quale si veda la IV ed. riveduta (Ravenna 1977) e dalla critica alla letteratura da bancarella avanzata da A. Campana, Letteratura passatoresca, in La Piè. Rivista bimestrale di illustrazione romagnola, X (1929), 6, pp. 1-4 (estratto). La ricerca storica più recente è ripartita da Costa con gli studi di R. Balzani, Il brigantaggio nella Romagna napoleonica e pontificia. Un’ipotesi interpretativa, in Una società violenta. Morte pubblica e brigantaggio, a cura di D. Angelini - D. Mengozzi, Manduria-Bari-Roma 1996, pp. 41-71; e di D. Mengozzi, Gli Artusi, il Passatore e la follia. Il bisogno di sicurezza e la crisi del 1849-51, in Id., Sicurezza e criminalità. Rivolte e comportamenti irregolari nell’Italia centrale, 1796-1861, Milano 1999 pp. 152-188. Da ultimo, realtà e leggenda del Passatore sono state rivisitate da R. Finzi, Segni particolari: sguardo truce. Il Passatore e la sua fama, in Storia di Russi. Dalla città alla villa, a cura di E. Baldini - D. Bolognesi, Ravenna 2014, pp. 533-549.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Giuseppe garibaldi

Repubblica romana

Stato pontificio

Giovanni pascoli

Augusto campana