Pechino

Il Libro dell'Anno 2008

Francesco Sisci

Pechino

La capitale del Nord

Pechino città olimpica

di

8 agosto

I Giochi della XXIX Olimpiade prendono il via a Pechino con la fastosa cerimonia di apertura nello stadio ‘Nido d’uccello’, uno degli avveniristici impianti costruiti nella capitale cinese per l’occasione. È dal 2001, quando il CIO l’ha scelta come sede olimpica, che la vita di Pechino è finalizzata a ospitare Beijing 2008, ma sull’accurata preparazione ha pesato negli ultimi mesi la questione tibetana.

Via l’inquinamento

Fino ai primi mesi del 2008, la questione che appariva più preoccupante nella preparazione dei Giochi olimpici era quella dell’inquinamento che da almeno 15 anni copre Pechino, denunciato con grande enfasi sui media occidentali. Per cercare di risolverlo le autorità cinesi hanno fatto ricorso a un gioco di prestigio: le fabbriche di ben sei tra province e grandi municipalità (quelle di Pechino, Tianjin, Hebei, Shanxi, Shandong e Mongolia interna) sono state chiuse o hanno lavorato a basso ritmo per dare aria pulita e belle giornate alla città che attendeva le Olimpiadi di agosto. È uno sforzo che solo l’organizzazione ferrea del partito ha potuto intraprendere. Le sei province coprono un’area più grande di Francia, Germania e Italia messe insieme, con una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti, quasi un quarto degli abitanti del paese. È come se in Italia tutte le attività dovessero essere ridotte in un’area industriale popolata da circa 12 milioni di persone.

Una serie di squadre olimpiche e lo stesso comitato olimpico, il CIO, nel 2007 si erano detti preoccupati per l’alto tasso di inquinamento della città, che avrebbe influenzato i risultati e danneggiato la stessa salute degli atleti. Il presidente del CIO, Jacques Rogge, aveva detto che, a causa del pesante inquinamento, a Pechino alcune gare olimpiche avrebbero dovuto essere rinviate, cosa che avrebbe rappresentato una grande ‘perdita di faccia’ per i leader cinesi.

Di conseguenza le autorità dell’ambiente della capitale, che guidano la campagna ‘Pechino pulita’, nel periodo a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 hanno messo sotto tiro le fabbriche piccole e medie che producono acciaio e cemento e alimentano le loro fornaci a carbone. «Il 70% delle imprese prese di mira dal nostro programma è stato eliminato» ha affermato Du Shaozhong, vicecapo dell’autorità dell’ambiente di Pechino in una conferenza stampa a fine gennaio 2008.

La capitale poi a marzo ha intrapreso drastiche misure per ridurre il traffico. Per un paio di giorni nel 2007 la municipalità aveva applicato la regola della circolazione a targhe alterne e le congestioni pesantissime di Pechino si erano ridotte di circa un terzo (taxi e autobus facevano più corse). Per il periodo delle Olimpiadi le autorità hanno disposto misure ancora più rigorose, come la sospensione di tutti i lavori di costruzione, per fare scendere le polveri dell’aria ed eliminare dalle strade betoniere e camion che inquinano e pesano sul traffico. Un programma di provvedimenti ancora più severi era stato approntato nel caso in cui i livelli di inquinamento fossero comunque cresciuti nei mesi seguenti: si è persino presa in considerazione la possibilità di chiudere le centrali elettriche di mezza Cina del Nord.

L’impatto economico di queste misure e la loro incidenza sul PIL cinese non sono stati rivelati. A livello nazionale è improbabile che la chiusura delle fabbriche deprima la crescita, che è stata dell’11,4% alla fine del 2007 e che è possibile nel 2008 arrivi intorno al 9%. Più importante l’impatto nella zona intorno alla capitale. Ben 18 fabbriche, con una produzione che andava dalla carta alle fornaci per cementifici, hanno scelto di chiudere volontariamente nel 2007, ricevendo un compenso pari a tre milioni di dollari. La cessazione dell’attività è toccata anche agli stabilimenti petrolchimici: ai 29 già chiusi nel 2007 se ne sono aggiunti 40 di Pechino, considerati ‘fortemente inquinanti’. Lo Shanxi, la provincia vicina a Pechino grande produttrice di carbone, in primavera ha annunciato di aver fermato 24 fabbriche. Per Tianjin, la metropoli che funge da porto di Pechino, l’impegno è stato quello di ridurre le emissioni di biossido di zolfo di 800 tonnellate entro maggio. Analoghe affermazioni sono venute dallo Shandong e dallo Hebei, due province con circa 100 milioni di abitanti l’una.

Dopo le Olimpiadi, nelle intenzioni ufficiali la maggior parte delle fabbriche inquinanti dovrebbe restare chiusa. Ma molte potrebbero riaprire, con la complicità dei governi locali che sanno di perdere tasse e posti di lavoro con queste chiusure. Insomma potrebbe essere stata solo una breve estate, una finta primavera, quella della Pechino olimpionica e pulita. Come in tutti i giochi di prestigio, l’illusione del trucco forse è durata poco.

Una preparazione al sorriso

Il governo e quella grande parte della popolazione che lo segue quasi ciecamente sono sembrati preda di una isteria collettiva per colpa delle Olimpiadi. Nessun paese che ha ospitato i Giochi ha fatto tanto per essi. Il fatto è che per la Cina questi Giochi avevano assunto l’aspetto di un test, paragonabile alla prova di ammissione agli esami imperiali che un tempo dovevano affrontare i ragazzi cinesi di 18 anni: se la superavano c’era il berretto da mandarino, se si veniva bocciati invece c’erano i sandali da contadino. Fuor di metafora, si trattava di entrare o meno nel salotto buono dei grandi paesi, che sono tutti occidentali o occidentalizzati, come il Giappone. Per di più la Cina, nazione grande e antica, non si voleva accontentare di superare gli esami con la sufficienza, voleva il massimo dei voti, o almeno un voto alto. Infine si trattava di esami che il ragazzo-Cina non aveva mai affrontato, pieni di incognite di ogni tipo.

Di fronte a questa sfida non c’era che un mezzo, quello antico dei ragazzi cinesi prima degli esami: studiare, studiare, studiare. Questo si è tradotto in un enorme sforzo per mettere in piedi una macchina ben oliata, tale da non scricchiolare o cedere durante le Olimpiadi. Le difficoltà inizialmente sembravano riguardare innanzitutto il livello e la qualità dei servizi umani offerti. Su questo terreno la sfida già sembrava difficilissima. Si trattava di addestrare decine di migliaia di tassisti a imparare qualche frase in inglese, migliaia di giovani e timidissimi volontari a muoversi con sicurezza e scioltezza con gli stranieri, pur avendo sulle spalle il senso di responsabilità di dovere fare bella figura per il paese.

Quello che la Cina su questo fronte poteva fare era approntare procedure rigide. Come i principi insegnati alla scuola che gli organizzatori delle Olimpiadi di Pechino hanno allestito per formare il gruppo delle 32 ragazze incaricate di porgere davanti agli occhi di tutto il mondo le 380 medaglie d’oro, argento e bronzo dei Giochi: per queste i requisiti tassativamente richiesti per essere selezionate erano un’età compresa tra i 18 e i 25 anni, un’altezza tra 1,68 e 1,72 m e una decisa bellezza. Poi hanno dovuto imparare a inchinarsi perfettamente a 45 gradi, a muoversi con precisione militare e grazia femminile, a rendere la loro voce squillante, acuta e dolce, ma soprattutto a sorridere: il sorriso doveva partire dagli occhi e illuminare la faccia. Il sorriso di quelle 32 ragazze alte ma non altissime, esili ma proporzionate, miaotiao, come vuole l’antico canone cinese di bellezza per il corpo della donna, doveva fare innamorare tutto il mondo, che le avrebbe seguite dai teleschermi nelle 380 cerimonie di premiazione. Per questo scopo occorreva un sorriso vero che, come spiegano gli esperti di lettura della psicologia dalla faccia, per essere sincero e commuovere deve riempire tutto il viso. Di sorrisi infatti ce ne sono molti e molto diversi, specialmente nell’Asia di tradizione confuciana: Cina, Giappone, Corea e Vietnam. Qui i diversi sorrisi trasmettono cose molto distinte fra loro. Ci sono i sorrisi di circostanza, quelli che vogliono dire in modo educato e cordiale «no, non si può fare»: partono e arrivano alla bocca, ma gli occhi non si accendono, anzi talvolta comunicano irritazione, fastidio. Ci sono quelli falsi, traditori, che nascondono un pugnale pronto a piantarsi dentro la schiena: raccolgono tutto il viso ma lasciano come un’ombra sotto le palpebre, una scossa del naso o delle orecchie, l’esitazione di un istante dopo un gesto cordiale. C’è poi il sorriso di imbarazzo, quando si commette un errore, si è colti in una situazione delicata; allora le labbra si muovono in piccolo riso ma dalle gote in su c’è tristezza, frustrazione, imbarazzo appunto. Per l’allegria la faccia cambia i lineamenti, la bocca si apre a mostrare i denti. È un’azione aperta, impudica, perché i sentimenti, quelli tristi ma anche quelli buoni, non andrebbero ostentati, dovrebbero essere tenuti riservati. Ancora oggi le Cinesi di una certa età mettono la mano davanti alle labbra a coprire quella cavità orale che appare loro quasi sconveniente. Insomma, è un intero arsenale di sorrisi, che usano un vocabolario molto diverso l’uno dall’altro, spesso incomprensibile e mistificante per chi come noi Occidentali nel sorriso vero o finto vede solo la gioia, autentica o presunta.

Ma il sorriso che parte dal cuore, di felicità, di entusiasmo, commuove tutti, scioglie gli animi più duri. Per questo le ragazze delle Olimpiadi di Pechino sono state scelte per le loro qualità personali, per il vero entusiasmo che mostravano di saper portare nella cerimonia. Erano questo entusiasmo e questa felicità che dovevano trasmettere nel loro sorriso. Le 32 prescelte si sono sentite come se avessero vinto una medaglia, anzi di più, perché i campioni olimpionici nelle varie discipline e premiazioni alla fine sarebbero stati molti di più di loro.

Non badare a spese

I Cinesi lo sanno, se si vuole dare felicità bisogna prima essere felici, non ci sono vie di mezzo ed è troppo difficile, essendo infelici, fingere la felicità. Come si sa anche da noi, solo i superficiali non badano alle apparenze; l’anima è intagliata sulle rughe di una faccia, basta saperla leggere. Le apparenze delle Olimpiadi vanno al di là delle belle ragazze: sono la folla di costruzioni con cui Pechino si è apparecchiata per mostrarsi al mondo. Sono stati costruiti 20 impianti sportivi, altri 11 sono stati interamente restaurati.

La prima, la più monumentale e avveniristica, di queste costruzioni è il ‘Nido d’uccello’, lo stadio nazionale, un monumento del postmoderno cinese progettato dallo studio svizzero Herzog & de Meuron e da un artista cinese. Al di là del progetto innovativo, i numeri di questo monumento sono stupefacenti. Lo stadio ha 258.000 m2 di superficie costruita, 80.000 posti fissi, 11.000 posti temporanei. Da nord a sud è lungo 333 m e da est a ovest 294 m. È alto 69 m, quanto un grattacielo di 23 piani, e per costruirlo sono state usate 42.000 t di acciaio, con strutture che spesso non sono unite tra loro ma indipendenti. Può resistere a un terremoto dell’8° grado.

Accanto c’è il palazzo adibito agli sport acquatici, il ‘Cubo d’acqua’, firmato dallo studio australiano PTW. È di ben 79.532 m2, con 4000 posti permanenti, 2000 rimovibili e 11.000 temporanei. Solo questi due progetti sono costati alla Cina più di un miliardo di dollari. Il conto delle spese della sola logistica per le Olimpiadi ha superato i 5 miliardi di dollari. Si sono dovute infatti trasportare circa 75.000 t di macchinari e strutture con oltre 2000 camion e mezzi. Le strutture di telecomunicazione di quello che è stato il più grande evento sportivo della storia cinese da sole sono costate oltre 400 milioni di dollari e per evitare, o minimizzare, gli incidenti le macchine hanno subito oltre 100.000 ore di test. C’è stata inoltre una divisione di persone, 3000 tecnici pagati e 3000 volontari ricompensati solo con i pasti gratuiti, che principalmente sono stati messi a disposizione dei circa 20.000 giornalisti arrivati a Pechino da ogni parte del mondo. Al servizio degli 11.028 atleti provenienti da 204 paesi c’è stata invece un’armata di personale, selezionato individualmente per questioni di sicurezza. Intorno a loro si è mobilitata quasi metà della polizia e dell’esercito cinese per evitare che qualcuno nella lunga lista di terroristi interessati a usare il palcoscenico delle Olimpiadi potesse approfittare della occasione.

Il successo delle vendite di biglietti è stato straordinario. Nella primavera del 2008 erano già stati venduti i circa 14 milioni di ingressi, di cui due terzi per i Cinesi e un terzo per gli stranieri. In entrambi i casi le autorità sono ricorse a una lotteria per la vendita: si comprava il diritto a partecipare a un’estrazione, che a sua volta dava il diritto a comprare il biglietto. Questi elementi già da soli spiegano l’enorme pressione sul costo dei biglietti, nonostante l’agenzia Nuova Cina spiegasse che questo era alla portata di tutti. Il prezzo dell’ingresso a uno dei tanti eventi sportivi andava da 30 a 1000 yuan (da 3 a 100 euro), alla cerimonia di apertura dei Giochi da 200 a 5000 yuan (da 20 a 500 euro). Un dato peraltro solo teorico perché in realtà già da metà del 2007, cioè da oltre un anno prima dell’inizio dei Giochi, i biglietti per la cerimonia di apertura erano esauriti. Tutta la Cina che conta – ministri, veterani della lunga marcia e loro parenti – ha fatto carte false, ha richiesto tutti i favori che poteva, per avere un posto a quella che per la Cina è considerata la cerimonia più importante del secolo. Da tempo si sapeva che oltre 10.000 attori e comparse avrebbero preso parte alla cerimonia di apertura, mentre sulla coreografia e la regia si è riusciti a mantenere il segreto fino all’ultimo momento.

Olimpiadi e politica

La cerimonia di apertura era vista da Pechino come il momento più importante di tutti i Giochi, l’occasione per lanciare il messaggio politico-culturale dell’evento, raffrontabile al discorso del segretario del partito all’inizio del Congresso ogni cinque anni o a quello del primo ministro all’inaugurazione della sessione plenaria del Parlamento ogni anno. In confronto, solo relativamente sarebbe contato il resto dei lavori.

Per questo la presenza del regista americano Steven Spielberg come consulente della cerimonia non era una semplice mossa pubblicitaria, fatta solo per avere un grande nome di Hollywood a fronte delle possibili critiche al ruolo internazionale e nazionale della Cina riguardo alla repressione dei diritti umani. Era un coinvolgimento ideologico-culturale della punta di diamante della cultura popolare americana, quella di Hollywood, nella stesura del discorso di apertura dei Giochi. In altre parole, l’occasione fondamentale per la formazione della politica-cultura popolare cinese, l’inaugurazione delle Olimpiadi, richiedeva il contributo americano. Questa era anche un’ammissione politico-culturale fondamentale: la cultura popolare cinese vuole andare sul canale indicato da quella americana e la Cina pensa, sogna, immagina, vuole una futura integrazione politico-ideologica con l’America. Per quanto l’affermazione possa sembrare lontana dalla realtà degli scambi diplomatici, la ‘proposta’ è chiara nel complicato linguaggio della liturgia politica cinese.

Solo che questa avance politica è avvenuta in un contesto molto complicato, dove la Cina olimpionica già dall’inizio era sotto osservazione per molti dei suoi rapporti internazionali. Paradossalmente anche questo sembrava entrare all’interno di un complesso scambio tra Cina, Stati Uniti e mondo occidentale. Prima che in marzo si aprisse la questione tibetana, i media occidentali non mettevano sotto pressione il governo cinese per la questione dei diritti umani all’interno del paese, ma invece sollevavano il problema di una serie di relazioni pericolose della Cina con i regimi di ‘Stati canaglia’. In qualche modo i media sembravano fare uno sconto alla Cina, come se il problema interno dei diritti umani non fosse così importante, come se riconoscessero la transizione sociale e politica in atto e non pressassero troppo sulla questione. Ma le relazioni di Pechino con regimi come il Sudan o Myanmar erano un’altra storia. In qualche modo l’atteggiamento cinese rispetto a questi governi poteva essere visto come la prova della volontà o meno della Cina di fare passi avanti sulla questione dei diritti umani, all’estero e all’interno.

O almeno questo era il messaggio che Pechino aveva recepito all’inizio del 2008, dopo le dimissioni di Spielberg come consulente delle Olimpiadi. Per questo da quel momento la diplomazia cinese si era messa in moto per provare la buona fede della Cina. Sulla controversa questione del Darfur il Ministero degli Esteri si era mobilitato, organizzando una serie di conferenze stampa per illustrare la posizione cinese e gli sforzi di Pechino per una soluzione. Anche sul Myanmar, che per la presenza dei monaci buddisti già rischiava di ricordare al pubblico la complicata e controversa questione tibetana, la Cina prendeva iniziative, sostenendo attivamente il lavoro dell’inviato dell’ONU Ibrahim Gambari ed esercitando pressioni sulla giunta birmana.

In questo senso il governo cinese voleva evitare che si ripetesse una situazione come quella della Conferenza internazionale delle donne del 1995. Quella occasione, pensata come un recupero di ‘faccia’ a livello internazionale dopo i fatti di Tienanmen del 1989, fu in realtà un enorme disastro di pubbliche relazioni e il governo dovette dividere la conferenza in due, con la parte delle delegazioni ufficiali a nord di Pechino, nella zona dell’attuale villaggio olimpico, e quella non ufficiale delle ONG fuori dalla città, nella vicina Huairou. Per le Olimpiadi di Pechino si voleva evitare il ripetersi di quegli eventi e perciò le autorità si sono mostrate molto più disposte, rispetto a prima, a seguire le richieste internazionali, accettando quindi regole del gioco globali, che non fossero semplicemente misurate sulla base delle esigenze cinesi. Quanto però la Cina debba accettare le regole internazionali o quanto il mondo debba adattarsi alle esigenze dettate da questo 22% della popolazione mondiale rimane una questione non conclusa.

La rivolta del Tibet ha mutato il quadro, rivelando ai Cinesi come le Olimpiadi siano un evento politico più grande e complicato di quanto pensassero. Dopo le violente proteste a Lhasa, dopo le dure contestazioni per il passaggio della fiaccola olimpica in giro per il mondo, dopo le minacce di attentanti da parte di estremisti della minoranza uigura, Pechino alla vigilia dei Giochi si è sentita in stato di assedio, impreparata per questa occasione che è sembrata essersi trasformata in una specie di tiro al bersaglio politico contro la Cina. Di certo, i leader si sono pentiti di avere vinto la qualificazione per ospitare le Olimpiadi e si sono resi conto che i Giochi prima di offrire un’occasione al paese ospitante di aprirsi al mondo in effetti creano una opportunità di gettare fango per tutti i critici di quel paese. Per la Cina la lista dei nemici è lunga, ben pochi sono gli amici assoluti, quelli disposti a passare sopra le mancanze cinesi e abbracciarli comunque, molti sono quelli che sono andati a Pechino tappandosi il naso, pensando che la scelta fosse quella ‘meno peggio’. La Cina infatti ha confuso la sua capacità economico-finanziaria di ospitare i Giochi con la capacità politico-mediatica di farlo. Se si fosse trattato di un computer la cosa si sarebbe potuta descrivere così: la Cina aveva le capacità di costruire l’hardware ma aveva pochissime conoscenze, quasi nessuna, sui software. Ma per quanto la macchina sia importante, senza il software è solo un pezzo di ferro. La confusione tra hardware e software è stata tale che Pechino non ha organizzato le gare in modo modesto e prudente, ma anzi si è esposta a mille rischi in più. Ha fatto girare la fiaccola olimpica per il mondo, un’occasione che si è trasformata in una Via Crucis: Pechino ha pagato per essere insultata pubblicamente dai suoi nemici. Anche i ripetuti inviti ai capi di Stato e di governo hanno offerto ai vari paesi l’occasione o di fare il bel gesto di non essere presenti, o di alzare il prezzo della richiesta per non assentarsi. Ulteriore circostanza di umiliazione e frustrazione.

La lezione del dopo

A volere essere ottimisti e positivi a tutti i costi, dopo le Olimpiadi la Cina dovrebbe avere imparato che nella sua ascesa a superpotenza globale la forza economica ‘bruta’ è necessaria ma è solo il primo passo, ben altro e ben di più serve nella crescita politica. Senza questo ‘altro’ e questo ‘di più’ la forza economica è solo un peso, quasi un ostacolo, perché da ricchi e incapaci non si ha nemmeno la simpatia che l’incapace e povero riesce a catturare.

In questo le Olimpiadi sono state senz’altro un momento di svolta. O la Cina non cambia il modo di operare e gestire la sua politica e soprattutto la sua immagine mediatica, e allora le complicazioni di queste Olimpiadi saranno state solo l’inizio di un calo di influenza e potere politico, a dispetto della crescita economica, oppure riesce a imprimere una svolta politica e mediatica per la quale sarà in grado di mostrarsi meglio preparata nel 2010, quando si terrà l’Esposizione universale a Shanghai, la sua prossima sfida politica internazionale. Dall’esterno possiamo tifare per l’uno o l’altro scenario, secondo le nostre simpatie. Ma al di là della simpatia ci sono anche altre considerazioni da fare, distinguendo il punto di vista internazionale da quello interno che è molto diverso. Le contestazioni globali a favore del Tibet libero contro la torcia cinese hanno infiammato i sentimenti nazionalistici cinesi e hanno rinsaldato il rapporto tra la gente e il governo. In venti anni sembra essersi compiuto un ciclo completo. Nel 1989, durante la contestazione di Tienanmen, la maggior parte dei Cinesi era contro il governo; dieci anni dopo, durante le proteste dei Falun gong, l’opinione pubblica era divisa più o meno a metà, metà con il governo e metà contro; venti anni dopo, con le Olimpiadi, davanti alle contestazioni esterne praticamente tutta la popolazione è per il governo. I Cinesi, quasi un quarto della popolazione mondiale in crescita economica verticale, afflitti da mille complessi e problemi di crescita e adattamento a un mondo che non è loro, si sentono assediati e odiati. Se questi sentimenti non sono placati e mutati la Cina può trasformarsi in un furioso mostro nazionalista, rosso e incontrollabile. Questo mostro, simile forse alla Germania guglielmina, potrebbe travolgere tutto davanti a sé, a cominciare dalla sua classe politica, giudicata troppo debole e accomodante con gli stranieri. Forse ora per la prima volta c’è un allineamento oggettivo tra interessi del governo cinese e interessi globali: occorre che la Cina riesca a parlare meglio al mondo, che sappia spiegarsi meglio. Alla fine la Germania guglielmina venne polverizzata nella sua realtà politica e nelle sue ambizioni. Ma per questo ci vollero due guerre mondiali e quasi 100 milioni di morti, cose che segnarono di fatto la fine della centralità politica globale dell’Europa. Senza quelle guerre e la devastazione politica dell’Europa forse oggi la crescita politica ed economica dell’Asia sarebbe stata diversa.

Una Cina aggressivamente nazionalista, che cerca lo scontro frontale con il resto del mondo, aprirebbe orizzonti al di là dell’immaginabile. Forse per questo tutti dovremmo avere interesse a che le lezioni delle Olimpiadi alla fine vengano davvero digerite.

repertorio

La vicenda storica e urbanistica di Pechino

Cenni di storia

Nel corso dei secoli, la capitale della Cina ha cambiato spesso nome, configurazione ed estensione. Il suo nome attuale, Beijing, in lingua hanyu significa «capitale del Nord». L’italiano Pechino deriva da Pékin, la forma diffusa dai missionari francesi nel 17° secolo, che corrisponde a un’antica pronuncia.

Nella regione di Pechino, nella grotta di Zhoukoudian, sono stati rinvenuti depositi di fossili datati a 460.000-230.000 anni fa: da essi provengono i resti dell’ominide Sinanthropus pekinensis, detto anche uomo di Pechino. I più antichi manufatti ritrovati sul sito della odierna Pechino risalgono tuttavia al 1000 a.C. e insediamenti umani di una certa importanza sono documentati dal 500 a.C., quando qui si sviluppò un centro commerciale per lo scambio delle merci fra tribù dello Shandong e popolazioni mongole. Situata in una posizione strategica ai confini settentrionali della Cina, Pechino iniziò ad assumere importanza come centro dello Stato feudale di Yan tra l’8° e il 3° secolo a.C. Occupata nel 936 d.C. dalla popolazione tungusa dei Kitai (o Khitan), che instaurarono la dinastia Liao, divenne la loro seconda capitale con il nome di Nanjing (capitale del Sud) o Yanjing, con riferimento all’antico stato di Yan. Nel 1122 passò nelle mani dei Nuzhen, fondatori della dinastia Jin, che ne fecero una delle loro cinque capitali, trasferendovi nel 1153 la residenza imperiale e chiamandola Zhongdu (città centrale). Dopo essere stata assediata, presa e semidistrutta dalle forze mongole di Gengis khan nel 1215, fu ricostruita in forme monumentali tra il 1264 e il 1269 da Qubilay khan, fondatore della dinastia Yuan, e assunse allora il nome di Dadu (città grande). In Occidente fu conosciuta con il nome di Khanbaliq (città dell’imperatore) ed è questa la Cambaluc descritta nel Milione da Marco Polo, che vi giunse nel 1275 con il padre Nicolò e lo zio Matteo, mercanti veneziani: «Dovete sapere che le case di Cambaluc – contando con la città interna i dodici ampi borghi che si prolungano dalla città in corrispondenza con le dodici porte – sono tante che non si riesce a calcolarle… la città del mondo dove arrivano più rarità, più cose di pregio e in maggior quantità di ogni altra città del mondo». Nello stesso periodo giunsero a Pechino i primi missionari francescani.

Durante i primi decenni della dinastia Ming, tra il 1368 e il 1417, la residenza degli imperatori cinesi era a Nanchino, ma dal 1417 Pechino, che aveva avuto nel frattempo il nome di Beiping (pace del Nord), ridiventò la capitale, con il nuovo nome di Beijing. I Ming fecero costruire la città proibita (1407-20) e diedero a Pechino la struttura concentrica protetta da mura che le rimase caratteristica per secoli. Nel 1601 vi giunse e vi fondò una missione stabile il gesuita Matteo Ricci, al quale il mondo occidentale dovette molto delle sue conoscenze sulla Cina. Caduti i Ming nel 1644, Pechino restò capitale dei Manciù, che fondarono la dinastia Qing, rimasta sul trono fino al 1911. Nell’ottobre 1860, durante la seconda guerra contro la Cina, la città fu occupata per alcune settimane dalle truppe anglofrancesi. Nel 1900 fu teatro dell’insurrezione dei Boxers, originariamente antimancese e rivolta poi contro gli stranieri: furono assediate le legazioni straniere, mentre nelle province, specialmente nello Shangxi, venivano massacrati gli stranieri e i cristiani cinesi. Una spedizione internazionale (formata da Giappone, Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Italia e Germania) pose fine alla rivolta, entrando a Pechino, abbandonata dalla corte mancese, e dettando dure condizioni di pace.

Dopo la rivoluzione del 1911 Pechino rimase nelle mani dei ‘signori della guerra’, fino al 1928, quando la riconquistò il Kuomintang, il Partito nazionalista della Cina, che però trasferì la capitale a Nanchino. Tra il 1928 e il 1949 Pechino fu di nuovo chiamata Beiping. Tornò a essere riconosciuta per dettato costituzionale capitale del paese e a prendere il nome di Beijing nel 1949, quando al termine della occupazione giapponese (1937-45) e della guerra civile tra nazionalisti e comunisti, fu fondata la Repubblica popolare di Cina.

Lo sviluppo urbanistico

Dal punto di vista dell’impianto urbanistico, Pechino (città imperiale realizzata per accogliere l’imperatore, i suoi funzionari e la sua corte) rispondeva ai principi della città ideale cinese, che riflettevano i rituali architettonici della dinastia Zhou (11°-3° secolo a.C.), secondo i quali la capitale doveva essere collocata al centro dello spazio occupato dalla civiltà, essendone il centro cosmico ideale.

Il nucleo antico di Pechino era costituito da tre città di forma rettangolare o quadrata, ciascuna cinta da mura, costruite una dentro l’altra, con centro nel Taihedian (Sala della Suprema Armonia): tre città concentriche, che nell’insieme formavano una città sola. La più interna delle tre era la zijin cheng (città purpurea o proibita), residenza imperiale e luogo dell’attività governativa. Essa si trovava al centro della huang cheng (città imperiale), residenza di funzionari civili e militari e luogo dell’attività amministrativa, che a sua volta era circondata dalla nei cheng (città interna), destinata al popolo, le cui mura (alte 12 m) furono terminate nel 1437. Già nel secolo successivo, però, un numero sempre maggiore di persone andò a stabilirsi a sud della città interna, tanto che nel 1564 anche questa zona, indicata come wai cheng (città esterna), fu cinta da mura. Pechino venne così a essere formata da quattro città distinte, con una superficie complessiva di 67 km2; questa configurazione e questa dimensione rimasero inalterate fino al 20° secolo. Infatti neanche i Manciù modificarono questa struttura, ma si limitarono a segregare i Cinesi nella città esterna, che da allora si chiamò anche ‘città cinese’, mentre gli invasori e i Cinesi rinnegati si stabilirono nella città interna, che da allora fu anche chiamata ‘città tartara’. Nel suo complesso l’impianto di Pechino si fondava su principi consolidati e sperimentati da una lunga tradizione urbanistica cinese e riconducibili ad alcuni elementi fondamentali: il recinto murario, l’ortogonalità della maglia viaria, la centralità del palazzo, l’asse processionale di direzione sud-nord, l’orientamento privilegiato a sud dell’edilizia, l’altezza simile degli edifici (quasi tutti a un piano), il tipo a corte (unico schema per tutte le costruzioni: palazzi, templi, luoghi per il commercio, case comuni ecc.). Il disegno urbano della città si organizzava quindi intorno a una direttrice in senso sud-nord lunga 7,8 km, sulla quale o intorno alla quale gli elementi urbani (strade, templi, edifici pubblici, aree commerciali) si allineavano o si disponevano simmetricamente; questa direttrice divideva la città in due parti distinte di dimensione quasi uguale. Il tessuto residenziale, a partire dal 10° secolo, fu suddiviso in distretti, serviti da hutong (vicoli su maglia ortogonale), lungo i quali si allineavano file di case a corte a un piano (siheyuan). Le dimensioni, il disegno e le decorazioni delle singole case seguivano una precisa normativa, che differenziava i dettagli architettonici a seconda del rango sociale del proprietario. La corte interna era il principale centro di attività domestica e l’unica sorgente di aria e di luce. Ogni casa ospitava più generazioni di una stessa famiglia, a capo della quale erano i più anziani, che abitavano nella parte della casa più importante, quella esposta a sud. L’impianto della città iniziò a modificarsi in conseguenza della rivolta dei Boxers del 1900. Alle quattro città già esistenti si aggiunse un’ulteriore cittadella fortificata, che ospitava le legazioni straniere, a sud-est della città interna, e si formò il primo nucleo dell’attuale piazza Tienanmen, con la demolizione di molti edifici pubblici prospicienti la piazza. A partire dal 1949, anno della proclamazione della Repubblica popolare, per Pechino è iniziata una fase di grande crescita, più controllata nel periodo della Rivoluzione culturale, fra la metà degli anni 1960 e la metà degli anni 1970, vertiginosa negli ultimi decenni del 20° secolo, quando è stata incrementata da consistenti flussi migratori dalla campagna. Nel 1949 Pechino contava 2,3 milioni di abitanti, al censimento del 1990 la popolazione dell’agglomerazione urbana aveva superato i 10 milioni, oggi è stimata in 17,5 milioni. Tale crescita, è evidente, ha creato notevoli problemi di congestione demografica e produttiva, difficoltà nell’approntamento degli alloggi e dei servizi e un’alterazione profonda degli equilibri tra ambiente rurale e urbano. Di fatto è cambiata la stessa struttura economica della città, dopo l’insediamento di imponenti impianti siderurgici, tessili, chimici e farmaceutici nella zona est e sud-est. Così Pechino, città politica e amministrativa, è divenuta una potente metropoli industriale, in grado di fornire un ampio e diversificato ventaglio di prodotti, anche ad alto valore aggiunto, e ha attirato numerose e importanti società estere desiderose di crearsi un primo punto d’appoggio nell’emergente mercato cinese. Le industrie pesanti (petrolchimica, siderurgia) hanno un ruolo di primo piano, ma di recente hanno conosciuto un notevole sviluppo anche i servizi terziari di livello elevato e le produzioni legate alle nuove tecnologie dell’informazione.

Tutto ciò ha stravolto l’assetto della città. Evidenti ragioni di economia di spazio hanno reso indispensabile l’adozione di modelli occidentali di edilizia intensiva. A un tessuto urbano di tipo estensivo e ad andamento prevalentemente orizzontale, legato ai tradizionali edifici a un piano, si è sostituito un modello a sviluppo verticale, privo di qualsiasi relazione con la struttura originaria della città. Immobili di notevole altezza, di solito collocati in posizione arretrata rispetto al filo stradale, hanno preso il posto dei caratteristici hutong, che sono stati progressivamente abbattuti, mentre i loro abitanti sono stati trasferiti dall’amministrazione in periferia per decongestionare il centro e fare spazio a nuovi edifici e grattacieli, complessi residenziali di lusso e grandi magazzini. In particolare dal 1990 in poi, in seguito alla ‘riforma delle quattro modernizzazioni’ promossa dal governo centrale e all’apertura ai capitali stranieri, l’edilizia di Pechino ha subito una brusca accelerazione. I primi tentativi di modernizzazione hanno condotto alla realizzazione di grandi complessi architettonici, frutto della commistione e citazione di elementi tratti dalla tradizione locale con tipologie derivate dalla consuetudine costruttiva delle metropoli occidentali. A partire dalla fine degli anni 1990 hanno iniziato a inserirsi nel mercato i maggiori studi di architettura statunitensi ed europei, per sopperire alla bassa qualità sia morfologica sia estetica delle opere che le agenzie pubbliche di progettazione andavano realizzando. Oltre 300 edifici per uffici hanno formato il nuovo Central Business District. Su tutti domina la terza torre del China World Trade Center a Guomao (2005-08; studio statunitense SOM, Skidmore, Owings & Merrill), che con i suoi 300 m d’altezza è diventata il nuovo landmark della città. Nella maggior parte dei casi, però, le trasformazioni si sono rivelate operazioni dal carattere fortemente speculativo, che hanno trasformano l’antico skyline della città in un condensato di torri residenziali, sia in periferia sia in centro, dove appare evidente l’utilizzo di tipologie mutuate direttamente dall’esperienza statunitense ma ‘densificate’ e drammatizzate, secondo la nuova consuetudine costruttiva in uso in molti paesi asiatici. Il programma di ricostruzione ha subito un’ulteriore accelerazione dal 2001, quando sono stati assegnati alla città i Giochi olimpici estivi 2008, e vi sono stati coinvolti i grandi protagonisti dell’architettura mondiale, per conferire a Pechino un’immagine nuova e accattivante. Il piano elaborato ha previsto una trasformazione drastica dell’assetto urbano: il progetto dell’asse olimpico ha ripreso infatti l’antica direttrice imperiale nord-sud. Elementi chiave dell’area sono lo stadio Nido d’uccello (2003-08; studio svizzero Herzog & de Meuron), la piscina Cubo d’acqua (2003-08; studio australiano PTW, Peddle, Thorp & Walker) e l’Info Center Digital Beijing (2005-08; studio cinese Urbanus). Anche molte infrastrutture sono state rinnovate, con l’apporto delle più prestigiose firme dell’architettura mondiale: è il caso dell’aeroporto internazionale, che si è dotato del terminal più grande del mondo (2003-08; studio inglese Foster + Partners). Ai grandi cantieri olimpici istituzionali si sono aggiunti molti altri interventi su larga scala, culminati in opere fortemente simboliche, come la nuova sede della televisione di Stato CCTV (2003-08; studio olandese OMA, Office for Metropolitan Architecture, di R. Koolhaas), il nuovo palazzo dell’Opera (2003-06; del francese P. Andreu), il museo dell’Accademia delle Belle arti (2003-08; studio giapponese Arata Isozaki & Associates).

Al nuovo assetto edilizio si è accompagnato il potenziamento delle strutture di comunicazione infraurbane. Già nel 1949 si iniziò a realizzare la Changan Jie, la Strada della pace duratura, un’immensa arteria con andamento est-ovest, che oggi è lunga 42 km e larga, in corrispondenza della città storica, 90 m. Il tradizionale impianto a scacchiera si è sviluppato secondo questo asse portante, integrato da circonvallazioni su pianta quadrata, le prime due realizzate al posto delle mura delle città imperiale e interna, già abbattute dopo la rivoluzione del 1911 per cancellare un segno visibile della secolare chiusura della capitale. Gli anelli di circolazione hanno raggiunto il numero di otto e sono completati da radiali, di cui una verso l’aeroporto, che connettono centro e periferie più esterne. Lo stesso schema seguono le linee metropolitane. Alla prima linea, di 23 km, inaugurata agli inizi degli anni 1970, ne sono seguite altre 6. Il programma è di portarle a 19, per complessivi 561 km, entro il 2015.

A fronte dello stravolgimento dell’antica struttura della città, è emersa in tempi recenti una maggiore sensibilità ai concetti di responsabilità e di limitazione dello sviluppo selvaggio, dall’abbassamento dei livelli di emissioni inquinanti al salvataggio della città storica. Operazioni isolate sono così riuscite a mantenere in vita brani di città, evitando violenti cambiamenti; è il caso del distretto artistico Dashanzi, con complessi come l’ex fabbrica 798, occupata a partire dal 1995 da atelier di artisti, librerie e negozi e diventata un importante punto di riferimento per la vita culturale cittadina, o come la galleria e centro esposizioni China art archive & warehouse, fondata nel 1993, la cui nuova sede è stata disegnata nel 2002 dall’architetto-artista Ai Weiwei. Comincia ad affermarsi la pratica del restauro, per cui i pochi siheyuan superstiti vengono rigenerati e ripuliti dalle aggiunte dei passati cinquant’anni. Si ristrutturano le antiche mura e le porte, mentre alcuni dei molti monumenti distrutti durante la Rivoluzione culturale vengono ricostruiti. Si tratta tuttavia di azioni tardive, che non fanno che accentuare i contrasti e le dissonanze peculiari di una società ancora in piena evoluzione. La Biennale di architettura di Pechino, inaugurata nel 2004, ha tentato di convogliare questi sforzi e di creare un punto d’unione tra progettisti orientali e occidentali, diventando un importante e fecondo terreno di confronto e di apertura.

I monumenti

La maggior parte delle mura di Pechino fu eretta in epoca Ming (1419-37). Nel 17° secolo sulle 16 porte di accesso, una al centro di ciascun lato delle quattro cerchia, furono innalzate costruzioni a più ordini di finestre con tetti sovrapposti. L’unica che si conservi quasi per intero è Qianmen sul lato meridionale delle mura della città imperiale.

Anche i templi più importanti della religione classica cinese risalgono nella forma attuale per lo più all’epoca Ming. Sono a nord il Ditan (Tempio della Terra, 1520 circa), a ovest il Yuetan (Tempio della Luna, 1530), a est il Ritan (Tempio del Sole, 1530), a sud lo Shejitan (Tempio dell’Agricoltura, 1422) e il Tiantan (Tempio del Cielo, 1420). Nell’insieme di costruzioni che costituisce il Tiantan si distingue il Qiniandian (Tempio del prospero anno agricolo), distrutto da un fulmine nel 1889 e ricostruito esattamente sul modello antico. Tutti questi templi, situati in mezzo a parchi ben curati, sono costruzioni a terrazze con altare. A nord si innalzano, uno accanto all’altro, il Kongmiao (Tempio di Confucio, eretto in epoca Yuan) e il Guozijian (Collegio nazionale del Maestro, istituito in epoca Ming per lo studio dei classici confuciani), entrambi risalenti, nella loro attuale struttura, all’epoca Qing. Il vicino Yonghegong (Palazzo dell’armonia e della pace), tempio e monastero lamaista, è stato incorporato in un palazzo imperiale di epoca Qing. Il complesso monumentale più famoso di Pechino è però la cosiddetta città proibita, l’area rettangolare di 1006 per 786 metri riservata esclusivamente all’imperatore e ai suoi funzionari. Ognuno dei quattro ingressi è formato da un portale tripartito sormontato, come i portali della grande cinta, da una larga costruzione a doppio tetto. L’ingresso principale, o Tienanmen (Porta della pace celeste), domina, verso l’esterno, la grande piazza omonima moderna, di cui segna il confine meridionale. Ai quattro angoli delle mura si elevano padiglioni. Gli edifici all’interno, risalenti in parte al periodo Ming, in parte al periodo Qing e che oggi ospitano un ricco insieme di musei, si articolano lungo tre assi paralleli, orientati da sud verso nord. L’asse centrale comprende i palazzi esterni (la Sala dell’armonia suprema, la Sala dell’armonia perfetta, la Sala dell’armonia protetta), i palazzi interni (una serie simile a quelli di rappresentanza ma a dimensioni più ridotte: il Palazzo della purezza celeste, la Sala dell’unione, il Palazzo della tranquillità terrestre) e il giardino imperiale. Sugli assi laterali si dispongono i quartieri abitati da eunuchi, concubine, personale di servizio, cucine, laboratori per la manutenzione, templi minori ecc. A nord sorge il Meishan (Collina del carbone), terrapieno artificiale coronato da cinque padiglioni, di epoca Ming, ora adibito a parco pubblico. A ovest della zona centrale si trova il sistema dei laghi e parchi, l’unico elemento urbano che non rispettasse il perfetto disegno geometrico dell’insieme. Lungo quasi 5,5 km e largo in media 200 m, si componeva di sei laghi che si susseguivano con andamento naturalistico da nord a sud, tre racchiusi nella città interna e tre in quella imperiale. Luogo di giardini e palazzi imperiali dall’inizio del 10° secolo (dinastia Liao) sino al 1911, il sistema assunse le sue principali caratteristiche formali sotto il regno di Qubilay Khan, che ingrandì, approfondì e abbellì i laghi esistenti. La piazza Tienanmen, che ha un’estensione di 40 ettari, è il centro della vita politica del paese: Mao Zedong vi proclamò il 1° ottobre 1949 la Repubblica popolare, trasformando il luogo in simbolo del potere del popolo, contrapposto alla città proibita espressione del potere imperiale. In anni più recenti, il nome della piazza si è legato alla violenta repressione dei moti studenteschi della primavera del 1989. Nella piazza, durante il periodo maoista sono stati edificati il Monumento agli eroi del popolo, il Museo della storia e della rivoluzione cinesi, il Palazzo dell’assemblea del popolo. Nel 1977-78 vi è stato realizzato il Mausoleo di Mao. Monasteri buddisti e taoisti sono conservati sui vicini monti a ovest di Pechino, detti Xiang shan (Colline profumate). I più importanti sono quello del Buddha dormiente (Wofosi) e quello delle Nuvole verdeazzurre (Biyunsi). A nord della città si trova invece il monastero lamaista Huangsi (Monastero giallo), eretto nel 1651, e in direzione sud-ovest il Wutasi (Monastero delle cinque pagode), derivanti entrambi dall’architettura indiana.

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