Patriziato e giurisdizioni private

Storia di Venezia (1997)

Patriziato e giurisdizioni private

Sergio Zamperetti

Un ceto eterogeneo

Nella tarda primavera del 1646 i fratelli Ottoboni patrizi veneziani non lo erano ancora diventati. Anzi, la complessa trattativa mirante alla loro aggregazione incontrava gravi difficoltà, seconde solo a quelle in cui si dibattevano gli aspiranti patrizi nel tentativo di reperire il denaro necessario al buon compimento dell’operazione. Tuttavia nei frequenti e sovente estenuanti conciliaboli familiari già si disquisiva circa l’opportunità di acquistare una giurisdizione feudale. Così, tanto per provare ad iniziare comunque, e magari per completare nel migliore dei modi, l’agognata scalata sociale. E nemmeno di un posto qualsiasi si discorreva in quei giorni in casa Ottoboni: visto che da quelle parti già detenevano cospicue proprietà fondiarie, oggetto dei loro desideri era addirittura la giurisdizione di una cittadina vera e propria come Pordenone, della quale, a sancire e agghindare i loro poteri, ritenevano beninteso irrinunciabile anche il conferimento del titolo di marchesi (1).

Alla fine, pur tra le proverbiali mille peripezie, gli ambiziosi cittadini riuscirono a mettere assieme la somma necessaria, i 100.000 ducati capaci di schiudere le pagine del Libro d’oro e consentire l’approdo nei ranghi del patriziato. Deluse andarono invece le loro ambizioni feudali. La somma destinata allo scopo, 7-8.000 ducati proprio a voler scialare, sarebbe a malapena bastata per acquisire qualcuna tra le ville, friulane per lo più, la cui giurisdizione era oggetto di quella vendita generalizzata già decisa e di lì a poco estesa a tutto il Dominio da parte del governo marciano. Sicché le loro smodate velleità giurisdizionali — già progettavano di ricostituire in quei luoghi e magari di ampliare le pressoché plenarie prerogative in passato esercitatevi dai d’Alviano — si sgonfiarono fin dai primi approcci informali, nemmeno riuscendo ad assurgere alla dignità di una richiesta ufficiale (2).

Assai significativa appare nondimeno questa loro pur solo vagheggiata ambizione signorile. Anche perché, in quei turbinosi frangenti, furono proprio le famiglie come gli Ottoboni, vale a dire le nuove o le di lì a poco aggregate, le uniche nell’eterogeneo ambito del patriziato veneziano a valutare con interesse, ad accarezzare e talora anche a realizzare prospettive di tale natura.

Non che le principali casate avessero fino a quel momento manifestato scarsa inclinazione all’esercizio privato di prerogative giurisdizionali. Anzi, come vedremo, furono proprio le più cospicue famiglie patrizie a costituire in precedenza, sovente ricercando per esse espliciti caratteri di extraterritorialità, le principali signorie locali a quella data presenti nei territori del Dominio veneto. Tuttavia, quasi a distinguersi da quell’ansia ascendente, nessuna tra quelle che avrebbero potuto sostenerne la spesa cercò allora di acquistare una giurisdizione feudale. E sì che mai come in quegli anni le occasioni e le opportunità apparivano in questo senso a tal punto propizie.

Nell’agosto del 1651, nel redigere l’usuale parere circa l’ennesima richiesta di acquisto di una giurisdizione, il consultore in iure per le materie feudali Gasparo Lonigo era addirittura giunto ad ammettere, neppure troppo velatamente, la sostanziale inutilità pratica del suo arrovellarsi intorno a dottrine e puntuali riferimenti giuridici. Quello, era infine sbottato, era un periodo in cui l’unica cosa che veramente contava era l’inequivocabile tendenza da parte dello stato a «vender, per così dire, il non vendibile» (3). E infatti, da qualche anno, gravissime erano le urgenze finanziarie della Repubblica e molte, di conseguenza, le possibilità di suffragare le più mirabolanti e svariate inclinazioni signorili che parevano essersi offerte a tutti coloro che, anche indipendentemente da quarti di nobiltà e limpidezza genealogica, avessero potuto semplicemente disporre dell’adeguato supporto economico.

Al principio dell’estate del 1645 i Turchi avevano portato il loro temuto attacco a Candia. Ne avevano subito conquistato la principale città, Canea, e anche ai più irriducibili tra gli ottimisti appariva sempre più difficile capire come sarebbe stato possibile impedire loro di impossessarsi in breve dell’intera isola. Impegnate altrove a farsi la guerra, le maggiori monarchie europee avevano dimostrato subito scarsissima disponibilità a distogliere forze e finanze dagli scenari reputati più importanti. Né da Roma, dati i rapporti al solito non proprio idilliaci con la Santa Sede, era in quei frangenti ragionevole aspettarsi alcunché (4). L’onere pesantissimo della difesa di Candia, ci si era dovuti ben presto convincere, ricadeva insomma per intero sulla Repubblica di Venezia. Ed era solo sulle sue forze che lo stato marciano doveva pertanto contare per mantenere l’ultimo vero caposaldo dei suoi Domini «da mar». L’unico, come aveva sostenuto il futuro doge Giovanni Pesaro nel 1657 — quando si era discussa in senato l’opportunità di por termine ad un conflitto che stava producendo guasti gravissimi e probabilmente vani —, in grado di consentire a Venezia di conservare il proprio irrinunciabile spazio «tra le Corone d’Europa» (5).

Come la Serenissima Repubblica ritenne di poter affrontare il problema è noto. Solo radicali misure di finanza straordinaria, è già stato da più parti osservato, apparvero ben presto in grado di contenere le autentiche voragini che l’incessante bisogno di uomini e armi apriva ogni giorno di più nei bilanci dello stato (6). Nel breve volgere di pochi anni, di conseguenza, vennero messi in vendita i beni comunali e anche i pubblici uffici (7). Si aprirono, benché con molte attenzioni di carattere formale, i ranghi del patriziato a quanti avessero generosamente offerto allo stato la somma di 100.000 ducati. E appunto anche la vendita di giurisdizioni feudali, prima praticata solo in particolari ed episodiche circostanze, e comunque dagli anni Venti del Cinquecento solo in caso di devoluzione allo stato per l’estinzione della famiglia precedentemente investita, divenne oggetto di un particolareggiato provvedimento legislativo (8).

Gli sforzi di accentramento e riorganizzazione amministrativa intrapresi dal potere centrale negli ultimi decenni del Cinquecento e nei primi del secolo successivo subirono insomma dapprima una contrazione e poi un nettissimo ridimensionamento (9). Taluni dei principali risultati in tal senso conseguiti risultarono pressoché vanificati dai rivolgimenti innescati da questo inestinguibile bisogno di denaro. Lo spazio «da mar», proprio in questo disperato e forse tardivo tentativo di preservarne le ultime vestigia, tornava insomma dopo oltre un secolo di lento e progressivo oblio a riacquistare il suo ruolo di tradizionale preminenza negli interessi della Repubblica di Venezia (10).

Un po’ tutti i provvedimenti forzatamente assunti dal governo marciano in quel periodo, conclusosi nonostante tutto nel settembre del 1669 con la dolorosa e definitiva perdita dell’isola di Candia (11), ebbero effetti pesantissimi sull’assetto complessivo dello stato regionale veneto. Praticamente smembrato dalle alienazioni a privati il patrimonio fondiario demaniale, sensibilmente scossa la prassi politico-istituzionale e giudiziaria dalla vendita degli uffici e dalla necessità di elargire grazie e condonare pene in cambio di denaro, cresciuto in ogni caso il debito pubblico oltre l’ingente somma di 12.000.000 di ducati in obbligazioni ordinarie. Addirittura ritrattati, ad esempio con la riammissione nel 1657 dell’ordine dei Gesuiti, alcuni principi chiave della precedente concezione circa l’indipendenza e la pienezza della sovranità statale (12). Di particolare rilievo, per quanto qui ci riguarda, appaiono tuttavia i provvedimenti per così dire nobilitanti cui fece abbondante ricorso il governo veneto in questo periodo. Se gli anni della guerra di Candia produssero da un lato non pochi sussulti nello stato e nelle sue strutture, spalancarono infatti dall’altro anche spazi e prospettive di grande ed inusuale rilievo ad alcune tra le sue componenti.

Concentrando il nostro interesse sulla prospettiva signorile e feudale, e più in generale su quella delle ansie di scalata sociale, appare infatti evidente che le deliberazioni del potere centrale di ammettere nuovi membri nell’esclusivo ambito del patriziato e di mettere in vendita feudi e giurisdizioni prospettarono a chi avesse nutrito in questo senso ambizioni e capacità economiche per suffragarle possibilità quasi insperate. E sono pertanto questi provvedimenti che occorre approfondire con maggior interesse. Soprattutto perché, lo si è già anticipato, appaiono intimamente legati nel dar conto circa il rapporto tra patrizi veneziani e giurisdizioni ad amministrazione privata, oggetto principale di questo intervento.

Estesa nel 1647 a tutto il Dominio, l’alienazione di ville e giurisdizioni, con la possibilità concessa agli acquirenti di erigerle in contea, era stata introdotta sin dal 1645 per il Friuli, riguardando un numero considerevole di comunità. Non era questa, di per sé, una decisione inaudita. Negli stessi anni, indicate da simili urgenze economiche, identiche vie per reperire denaro erano state intraprese anche altrove: in Piemonte, nei ducati padani o nel contermine stato di Milano, tanto per limitare il nostro interesse all’Italia centro-settentrionale (13). Si trattava tuttavia, dopo la fine delle guerre d’Italia e oltre un secolo di sostanziale ristagno, del primo momento in cui il numero e la consistenza delle giurisdizioni private all’interno dello stato regionale veneto venivano interessati da un non lieve incremento, le cui dimensioni vennero peraltro contenute molto più dalle resistenze delle città e delle comunità rurali di volta in volta interessate che da quasi del tutto assenti ritrosie governative (14).

Ebbene, scorrendo gli elenchi delle giurisdizioni effettivamente vendute in quel periodo, nonché quelli delle richieste in tal senso prodotte senza esito, appare possibile affermare, è stato già anticipato, che all’interno del patriziato veneziano solo i nuovi o i di lì a poco aggregati furono di fatto coinvolti in questa rincorsa onerosa al potere di giudicare. Il 24 settembre 1648, per la verità, Camillo Malipiero aveva bensì offerto 1.000 ducati per la giurisdizione civile e penale di Crespignaga, presso Asolo. Aveva però sostenuto di essersi presentato «a nome di persona secreta», e in ogni caso, fosse o non fosse questione di pudico riserbo, la cosa era finita lì (15). Tranne forse costui, e in parte Benetto, Stefano, Nicolò, Francesco e Giovanni dei Capello di Santo Stefano che, devoluta allo stato per la morte dello zio arcivescovo Benetto la giurisdizione istriana di Sant’Andrea di Calicetto, «vulgo dicitur Giroldia», avevano deciso di non privare la loro famiglia di quella distinzione comprandola all’incanto il 3 marzo 1668 (16); tranne dunque questi casi comunque particolari, durante i decenni in cui proseguì la vendita di giurisdizioni feudali, grosso modo coincidenti con quelli della durata del conflitto, nessun altro patrizio veneziano mostrò di nutrire la benché minima inclinazione ad investire qualcosa per entrare a far parte della prestigiosa schiera dei feudatari giurisdizionali. Mentre altra sensibilità ai richiami e alle lusinghe dell’ingresso nei ranghi della feudalità parevano appunto dimostrare i nuovi patrizi, sovente con risultanze di gran lunga più appaganti di quelle toccate invece agli Ottoboni.

Ad esempio Giovan Francesco Labia, che versando i 100.000 ducati per primo ottenne, il 29 luglio 1646, la riapertura del maggior consiglio e l’elevazione al rango patrizio della sua famiglia. E che poco più di due anni dopo, il 20 ottobre 1648, ne offrì altri 180.000 per il feudo della Frattesina, in Polesine, con vastissime proprietà fondiarie, ampi e redditizi diritti signorili e plenaria giurisdizione. Solo le sue particolari e ulteriori richieste — in evidente disaccordo con il maggiore dei suoi figli pretendeva di stabilire per il feudo una rigida primogenitura maschile e però di decidere personalmente, e non secondo l’ordine naturale, da quale dei suoi discendenti dovesse iniziare — ritardarono per un po’ l’operazione, conclusasi comunque con l’investitura ufficiale, e con l’accoglimento di tutte le pretese del neogiusdicente, l’11 dicembre 1649 (17).

E oltre a questo altri casi si potrebbero citare. Simili aspirazioni finirono per appagare anche i Giovanelli, mercanti di origine bergamasca divenuti patrizi nel dicembre del 1668, acquirenti nello stesso torno di tempo, per circa 200.000 ducati, di enormi proprietà fondiarie e della metà della plenaria giurisdizione di Morengo, nella loro provincia d’origine, che conferiva bensì loro il titolo di conti, ma che dovevano tuttavia condividere col vescovo del luogo (18). O i Crotta, bellunesi che mediante le enormi ricchezze accumulate col commercio del rame avevano dapprima comprato, il 23 aprile 1649, il rango patrizio, e poi il loro bravo carato della giurisdizione friulana di Frafloreano (19). Oppure Pietro Zenobio, mercante e prestatore veronese, patrizio dal marzo 1647, che giusto un anno dopo si rivolse addirittura ad un «Principe externo», l’arciduca Ferdinando Carlo conte del Tirolo, per acquisire la giurisdizione dinastica di Monreale, Salorno, Enna e Caldivo, in Val d’Adige (20). E ancora i friulani Manin, nobili veneti dal giugno del 1651, che giusdicenti lo erano già diventati dall’inizio del secolo subentrando in alcune circoscrizioni feudali a titolari alquanto impoveriti, ma che si diedero comunque da fare per acquisirne di nuove (21). Mentre i mercanti cremaschi Sangiantoffetti, patrizi dal giugno 1649, le provarono davvero proprio tutte per celebrare degnamente l’evento epocale con l’acquisto della giurisdizione civile e criminale di San Bernardino e Vergonzone, nel loro territorio d’origine. Neppure i progressivi aumenti della loro «volontaria essibitione» valsero tuttavia ad indurre il pur bendisposto governo centrale ad ignorare le vibranti e generalizzate proteste suscitate in quei luoghi dal profilarsi di tale eventualità (22).

Certo, come si è visto, le lusinghe dell’acquisto di un feudo giurisdizionale attirarono in quei decenni solo i nuovi patrizi, le cui, sovente, amplissime disponibilità economiche, così come avevano consentito l’ingresso nell’élite aristocratica, rendevano anche possibili tali ulteriori e costosi onori, del tutto preclusi per assoluta mancanza di mezzi a molte famiglie patrizie la cui unica ricchezza consisteva ormai nell’orgogliosa rivendicazione dell’antichità e della purezza del proprio sangue. Sarebbe tuttavia eccessivo concludere in base a ciò che l’acquisizione di feudi, il possesso e l’esercizio di giurisdizioni private nei territori del Dominio fossero considerati a Venezia alla stregua di una semplice e tutto sommato vacua vanità, riservata alle smanie aristocratiche dei nuovi venuti e sdegnata in quanto tale dalle casate più antiche e potenti, che non avevano bisogno di tali orpelli per consolidare o accrescere una grandezza già di loro esclusiva pertinenza. Anzi, proprio la particolarità del ceto nobiliare veneziano induce ad ipotizzare come i comportamenti dei nuovi ammessi riflettessero in realtà tendenze ed orientamenti decisamente più diffusi nell’ambito del patriziato, si ispirassero, tentando di assimilarne ed emularne convinzioni ed atteggiamenti, alle non numerose famiglie che ne occupavano da tempo il vertice.

Tutt’altro che statico e rigidamente conchiuso in se stesso, il ceto aristocratico e nobiliare in tutte le società d’antico regime fu interessato da rimodellamenti e rinnovamenti continui, di cui sono testimonianza evidente anche le stesse e sempre più nette chiusure ideologiche relative alle origini, alla concezione e alle caratteristiche precipue della «vera nobiltà». Ovunque principi e regnanti impinguavano senza posa le loro finanze concedendo patenti e titoli di nobiltà, allargando il novero degli uffici statali che la conferivano ai loro acquirenti, istituendo feudi o addirittura accogliendo ambizioni provenienti da sudditi di altri stati col dispensare loro titoli ridondanti quanto difficilmente esercitabili (23). Da tre secoli e mezzo, dalla Serrata del maggior consiglio, l’appartenenza all’élite patrizia era a Venezia, tranne alcune rarissime e comunque poco più che onorifiche eccezioni, privilegio esclusivo dei discendenti di coloro che già ne facevano parte. Anche perché, se negli altri stati la nobilitazione poteva garantire ai beneficiari una vasta ma tutto sommato vaga gamma di privilegi, che rendevano possibili diversi e comunque mai troppo ampi coinvolgimenti nell’esercizio del potere, nell’aristocratica Repubblica di Venezia accogliere nuovi membri nell’ambito del patriziato comportava invece il loro automatico inserimento in un corpo politico al cui interno tutti, anche se solo teoricamente, detenevano ed esercitavano in egual misura l’intero potere sovrano, consistendo proprio nell’uguaglianza di diritti e doveri tra tutti i patrizi che ne erano membri la base stessa del sistema aristocratico-repubblicano (24).

Uguaglianza formale, dunque. Ma, com’è ormai noto, da molto tempo non certo sostanziale. Al di là delle differenze fra case «longhe» e «curte», «grandi» e «piccole» descritte ad esempio nella Venezia del Rinascimento (25), erano soprattutto le disparità di ricchezze e potere a creare e consolidare fratture sempre più profonde, via via destinate ad intaccare profondamente i principi stessi dell’uguaglianza repubblicana. Fino a quasi tutto il Quattrocento, quando i commerci e la mercatura erano ancora le attività economiche prevalenti all’interno del patriziato, il sistema della navigazione di stato, controllata dal senato, se non concorreva ad uniformare rischi e conseguenti profitti, certo garantiva benefici e protezioni alquanto generalizzati (26). Le attività commerciali, se non impedivano il crearsi di divaricazioni profonde in quanto a fortune e patrimoni, e di conseguenza nelle possibilità di ottenere o meno successi ed onori dentro e fuori le istituzioni statali, consentivano insomma anche ai patrizi più poveri una qualche opportunità e comunque speranze di arricchimento. Soprattutto, di per sé non stabilivano quelle differenze non solo economiche, ma quasi di status e dignità sociale, prodotte invece dalla proprietà fondiaria.

Furono proprio gli investimenti nella terra, che un contrariatissimo Girolamo Priuli già nei primi decenni del Cinquecento stimava eccedessero i 3.000.000 di ducati (27), a creare progressivamente all’interno del patriziato veneziano, con la costruzione di ville e dimore signorili da un lato e con la ricerca spasmodica di sovvenzioni e uffici minori dall’altro, quello che sempre di più si veniva palesando non solo come «un diaframma economico, ma psicologico, il senso di una diversa condizione umana» (28).

E si trattava di una trasformazione profonda. Con gli strati più floridi del patriziato via via sempre più inclini ad adeguarsi anche culturalmente ed ideologicamente al sistema di valori proprio delle altre aristocrazie europee, con la diffusione di strumenti, quali il fedecommesso, espressamente volti alla conservazione e alla trasmissione della ricchezza, col crescere dell’interesse familiare a scapito di quello pubblico, con la ricerca di ambiti di potere eccentrici e talvolta conflittuali rispetto a quelli statali, con il diffondersi di politiche matrimoniali mirate a sancire la definizione e la cristallizzazione di esplicite gerarchie sociali. E, soprattutto, con le strutture governative ed istituzionali che finivano fatalmente per conformarsi a queste divisioni non solo patrimoniali. Fino a scuotere profondamente, si pensi ai sommovimenti suscitati dal patriziato povero capeggiato da Renier Zeno nel terzo decennio del Seicento, le fondamenta stesse del mito della perfezione del sistema costituzionale misto veneziano, in teoria basato proprio sull’uguaglianza politica di tutti i membri del patriziato (29).

Proprio nel dibattito suscitato dalla summenzionata proposta governativa di concedere la nobiltà veneta in cambio del versamento di una prestabilita somma di denaro, tale spaccatura tra ricchi e poveri era emersa in tutta la sua rilevanza, confermando le diverse concezioni e i diversi interessi che pervadevano il patriziato marciano. Per gli strati più poveri e generalmente esclusi dalle magistrature preminenti, rappresentati dall’avogadore di comun Angelo Michiel, che in maggior consiglio aveva avversato la proposta, solo la purezza del sangue poteva giustificare la presenza nel corpo patrizio, specie considerando che con essa costoro difendevano del resto l’unica virtù ormai in grado di connotare la propria condizione, di consentire la rivendicazione di quella uguale porzione di sovranità che solo l’antichità dei natali poteva ancora assicurare loro. Per i grandi, le cui posizioni erano state espresse dal consigliere della Serenissima Signoria Giacomo Marcello, che sempre in maggior consiglio aveva invece sostenuto l’ineluttabile necessità delle nuove aggregazioni «per prezzo», erano altri i problemi che occorreva risolvere: quello del calo demografico del proprio ceto, e più ancora quello della prioritaria necessità di denaro per fronteggiare l’attacco del Turco.

Per costoro, al di là delle effettive urgenze finanziarie, era in realtà lo stesso status patrizio a non rappresentare più un elemento di distinzione sufficiente. A contare, provata e pubblicamente certificata dalla ricchezza, dall’esclusivo monopolio delle cariche politiche e religiose più importanti, dalle frequentazioni araldicamente prestigiose, dai poteri esercitati anche al di fuori e talvolta contro le istituzioni statali, era ormai solo la grandezza. Quella sedimentata, rafforzata e blindata di generazione in generazione, quella che garantiva quel titolo di principe con cui costoro proprio nel corso del Seicento avevano preso ad affermare la loro preminenza, quella, soprattutto, che la parte contrastata non avrebbe comunque potuto mettere in vendita (30).

Tra febbraio e marzo del 1646 il decreto relativo all’aggregazione onerosa venne molto significativamente approvato in senato e respinto in maggior consiglio. Le ragioni dei grandi finirono tuttavia per prevalere, benché si convenisse alla fine di evitare un’apertura generalizzata, e invece di socchiudere il Libro d’oro solo volta per volta, a beneficio di chi, 100.000 ducati alla mano, ne avesse fatto singolarmente reverente richiesta (31). Così come apparvero ben presto evidenti i reali significati sottesi alle nuove aggregazioni. Ben presto il titolo appena acquistato si rivelò infatti per i nuovi patrizi in tutta la sua sostanziale e tutto sommato prevedibile irrilevanza politica.

Sovente con disponibilità economiche straordinariamente maggiori, i nuovi venuti finirono pertanto per trovare il proprio spazio negli ambiti delle magistrature minori, da sempre riservate al patriziato più povero. Ricavandone, nello stridente e frustrante contrasto tra realtà ed aspirazioni, delusioni alquanto cocenti (32).

Non avevano avuto tutti i torti i Gambara, aristocratici bresciani che, espressamente invitati dal governo centrale a presentare l’offerta per conseguire cotanto onore, avevano fieramente risposto di avere bensì a cuore gli interessi del loro «Serenissimo Principe», ma che per quanto concerneva il resto loro ritenevano di essere già nobili più che a sufficienza (33). Il rango patrizio di per sé significava ormai ben poca cosa. Per i più ambiziosi e doviziosi tra coloro che lo avevano appena conseguito appariva evidente che occorreva molto di più per tentare di elevarsi dal loro inappagante anonimato, di avvicinarsi in qualche modo a quei requisiti di grandezza che costituivano la loro reale aspirazione.

Certo, quello signorile e feudale rappresentava un po’ in tutta Europa un approdo assai ambito per tutti coloro che solo in tempi recenti avevano coronato le più svariate carriere con l’assurgere tra la nobiltà (34). Poche cose parevano in grado di mondare l’origine non sempre ineccepibile di fortune e patrimoni come l’esercitare tali prerogative. Se tutto questo è vero, e nelle aspirazioni feudali dei nuovi nobili veneziani aveva probabilmente avuto una qualche rilevanza, occorre tuttavia ribadire che era ai valori e agli atteggiamenti del patriziato più ricco ed influente che costoro prima di tutto cercavano di ispirarsi nel tentativo di acquisire poteri ed onori all’interno del loro nuovo ceto. E ciò comportò, oltre a strategie complessive che spaziavano dalle scelte matrimoniali a quelle edilizie (35), anche la ricerca delle summenzionate prerogative signorili e feudali.

La mancata presenza di patrizi veneziani nel novero degli acquirenti di feudi di nuova costituzione, lo abbiamo già anticipato, non significava in realtà che tali prospettive fossero considerate di scarso interesse, né che il possesso di giurisdizioni private non rientrasse tra gli atouts con i quali adornare ed accrescere la propria preminenza. Lo stesso titolo di «Principi del sangue», con il quale i grandi del Seicento solevano appunto connotare la specificità della loro condizione, aveva oltre tutto una chiara origine feudale, spettando in origine alle famiglie, come i Sanudo, insignoritesi di svariate località in Levante dopo la quarta Crociata e la conquista di Costantinopoli (36). Più semplicemente, i non numerosi membri del patriziato che erano in grado di poterseli permettere, questi privilegi, li detenevano già da tempo. E se comparivano dinanzi ai provveditori sopra feudi non era tanto per richiederne di nuovi, quanto piuttosto per ampliarne la pregnanza.

Come fece ad esempio Giovan Francesco Querini. Quella che il determinato patrizio voleva comprare il 31 marzo del 1648, prima per 800 e poi per 1.200 ducati, non era infatti la giurisdizione di Giaon, presso Cologna. Quella già l’aveva da tempo. Ma insopportabilmente ristretta, limitata com’era alle sole cause civili e senza nemmeno la possibilità di «far mercato». Proprio per questo si era sentito in dovere di chiedere di comprare, oltre al diritto «a far mercato» un giorno alla settimana, anche «il criminale minore e maggiore» (37). E se Giovan Francesco Querini aveva perlomeno rispettato la prassi ordinaria, proponendo di acquistare quanto desiderava, in altri casi questi tentativi di accrescimento di prerogative e poteri seguivano logiche assai meno ineccepibili.

Presentando qualche decennio dopo, nel settembre del 1673, la richiesta di reinvestitura relativa ai carati di loro competenza del feudo di Frafloreano, i fratelli Francesco, Giovanni Battista e Giovangiuseppe Molin avevano ad esempio del tutto arbitrariamente aggiunto al loro diploma l’ambita formula «con mero et misto imperio, pena di sangue et ultimo supplicio in prima et seconda instanza» (38).

Quando i Labia pretendevano per la loro giurisdizione feudale espliciti caratteri di assolutezza, o quando i fratelli Ottoboni si entusiasmavano all’idea di fare di quella che un giorno avrebbero posseduto una circoscrizione caratterizzata da un’esplicita extra-territorialità, esente ed immune da interventi statali (39), non disvelavano insomma convinzioni e proponimenti individuali o del tutto eccentrici. Nello stato regionale veneto erano infatti da tempo presenti giurisdizioni patrizie ampiamente dotate di poteri pressoché assoluti, da dove erano provenuti gli attacchi più decisi alla pienezza della sovranità statale, e all’interno delle quali non pochi dei titolari si erano a lungo ostinati persino a negare la derivazione da uno stato, che pur essi stessi impersonavano, dei diritti squisitamente pubblici che vi esercitavano. E proprio in quegli anni, ad ispirare e forse a condizionare le velleità dei più ambiziosi tra i nuovi venuti, molti di questi patrizi «iurisdictionem separatam habentes» avevano ripreso a rivendicare per i loro poteri privati quei caratteri, di totale ed assoluta indipendenza appunto, perseguibili solo e necessariamente attraverso l’affermazione della propria superiorità e la conseguente negazione di quella statale.

Ritorneremo in seguito su queste dinamiche, che di questo intervento costituiranno anzi una sorta di epilogo. Per ora è tempo di soffermarci a dar conto di queste circoscrizioni ad amministrazione privata detenute da membri di spicco del patriziato veneziano. Una loro disamina appare infatti necessaria per approfondire temi e problemi fin qui prospettati.

Poteri pubblici e poteri privati

Da un punto di vista strettamente giuridico i patrizi veneziani non avrebbero potuto detenere giurisdizioni feudali. Fin dal 1328 una legge del senato lo aveva loro esplicitamente vietato (40). E tale principio era stato oltre tutto ribadito anche in seguito. Il 17 giugno 1403, quando si era ormai profilata la prospettiva dell’espansione in Terraferma, benché non ad amplissima maggioranza, in maggior consiglio era stata approvata una parte con cui si proibiva ad ogni veneziano di ricevere feudi, terre, provvigioni o qualsiasi altro beneficio da signori territoriali o semplici comuni, nonché di esercitare le cariche di podestà, capitano o ufficiale in qualsivoglia luogo non direttamente soggetto alla Repubblica (41).

Tali preclusioni, specie quelle sancite al principio del Quattrocento, riflettevano in realtà questioni di ben più ampia portata. Assumendole, il comune veneziano aveva di fatto rinunciato a continuare a percorrere le vie principali attraverso le quali aveva fino ad allora irradiato la propria influenza nei territori contermini o comunque ritenuti importanti, palesando pertanto quel mutato orientamento che doveva di li a poco sfociare nella loro conquista diretta (42). E da questo punto di vista che propri membri intrattenessero rapporti diretti, addirittura di sudditanza vassallatica, con potenziali futuri nemici, il governo marciano certo non poteva permetterlo.

Tuttavia anche in seguito, in un contesto decisamente cambiato, tali dettami vennero in ogni caso confermati. Il 26 febbraio 1425 la proposta del savio del consiglio Francesco Loredan, che aveva chiesto l’immediata abolizione delle leggi che impedivano ai Veneziani il conseguimento di feudi in Terraferma, messa ai voti risultò nettamente bocciata con quattordici suffragi a favore e ben centosei tra contrari e dubbiosi (43). Né miglior sorte incontrò qualche anno più tardi l’iniziativa di un altro patrizio, Lazzaro Mauro, che il 22 novembre 1431 proprio mettendone in luce gli evidenti anacronismi aveva a sua volta tentato di far revocare quegli stessi divieti, rimasti del resto in vigore anche nei secoli successivi (44).

Mai formalmente abrogati, i decreti antifeudali fin da principio mostrarono comunque tutti i loro limiti nell’affrontare un fenomeno, appunto quello della ricerca da parte delle principali famiglie patrizie di poteri e distinzioni anche al di fuori delle istituzioni statali, ben presto apparso fisiologicamente arduo da arginare.

Senza soffermarci sui domini marittimi, dove già al principio del Duecento cospicue famiglie veneziane, ad esempio i Sanudo, i Dandolo, i Querini o i Giustinian, avevano conseguito baronie, feudi e vere e proprie signorie (45), occorre infatti specificare che già nel corso del Trecento non erano mancate più o meno tacite infrazioni. Che propri patrizi conseguissero feudi in zone ritenute strategicamente importanti, come il Ferrarese (46), a Venezia era in fondo tollerato di buon grado. Ma non solo nessuno ebbe ad esempio nulla da eccepire sul feudo dei Falier a Trisigallo, non suscitarono censure di sorta nemmeno quello trevigiano di Valmareno, sempre dei Falier (47), o ancor più quello dei Foscari a Noventa e Zelarino, derivante da una solenne investitura con cui Giovanni re di Boemia e Polonia, il 21 giugno 1331, aveva deciso di beneficiare gli avi del futuro doge Francesco Foscari (48). Soprattutto, forse a giustificare il sostanziale oblio in cui queste leggi finirono per cadere nei secoli successivi, e la conseguente assenza di ulteriori proposte per abrogarle, dai primi decenni del Quattrocento tutti gli interessati avevano ben presto verificato, in un panorama instabile e in continuo sommovimento come quello dello stato «da terra» fino alla pace di Lodi prima e alla fine delle guerre d’Italia poi, che quella dell’investitura feudale, mediante la quale il sovrano attribuiva per grazia ad un proprio prescelto un beneficio più o meno immunitario ricevendone in cambio omaggio vassallatico e giuramento di fedeltà (49), non era certo l’unica via per conseguire giurisdizioni private.

Il governo marciano, che nel suo Dominio di Terraferma ripeteva de iure la legittimità della propria dall’autorità dell’Impero, dal 1437, dopo un lungo corteggiamento, aveva ottenuto bensì da Sigismondo la concessione del vicariato imperiale; e con esso, tra le altre cose, la possibilità di riconoscere come propri i feudi preesistenti e di istituirne di nuovi (50). Se tutti i precedenti detentori videro pertanto confermate le loro prerogative, e se nuovi feudi giurisdizionali vennero creati soprattutto a favore di comandanti militari (51), bisogna infatti sottolineare che tra le famiglie patrizie che comunque riuscirono a conseguire prerogative di tale natura nessuna le ottenne in virtù di una diretta investitura statale.

Certo, messi subito in vendita i beni e i diritti già appartenuti alla Fattoria scaligera, il territorio veronese, tra le stizzite proteste della città, si riempì ancor più di vicariati ad amministrazione privata. E attraverso il loro acquisto non poche famiglie patrizie, come i Grimani di San Girolamo a Pontepossero, gli Emo a Fattolè di Mezzo o addirittura un consorzio nella podesteria dei Lessini, ascesero ipso facto, benché senza sottomissioni o investiture di sorta, alla schiera dei giusdicenti feudali (52). Così come feudali erano gli iura regalia acquisiti ad esempio in Friuli e in Istria dai Tiepolo a Bando di Scutelle, dai Dolfin dal Banco a Scodovacca o dai Contarini a Piemonte (53). Oppure quelli conseguiti in seguito per via matrimoniale dai fratelli Anzolo e Cristoforo Gabriel, che attorno al 1509, avendo sposato le due figlie di Lancillotto da Tolentino, subentrarono a quella schiatta di condottieri nella giurisdizione friulana di Aviano e in quella trevigiana di San Polo (54). Furono nondimeno altre le modalità che presiedettero alla costituzione delle più rilevanti giurisdizioni patrizie. Tali, oltre tutto, da accentuare anche giuridicamente i caratteri di pressoché totale assolutezza dei diritti pubblici che vi venivano esercitati, e tali, inoltre, da sottolineare ancor più l’ormai diversa condizione di alcune famiglie rispetto a tutte le altre.

Frutto a loro dire di una «concession remuneratoria», preteso compenso per la generosa rinuncia con cui, nel 1358, i loro avi pare avessero accettato di sacrificare il proprio contado di Curzola e Meleda sull’altare della pace stipulata in quell’anno tra Venezia e il re d’Ungheria, dall’aprile del 1422 agli Zorzi venne ad esempio attribuito il contado di Zumelle. E se è vero che in origine la concessione prevedeva alcuni obblighi, era limitata a soli sei anni e riguardava personalmente un unico membro di quella famiglia, Giorgio Zorzi, occorre tuttavia aggiungere che i poteri dei neogiusdicenti, che tra l’altro prevedevano la possibilità di giudicare in civile e penale fino all’ultimo grado in sede di appello, non furono subordinati in nessun modo mediante un’investitura, che fin dall’anno dopo, quando Giorgio ottenne che il figlio Giacomo potesse succedergli, superarono gli originari limiti temporali e personali, e soprattutto che da allora in avanti vennero considerati dai detentori alla stregua di un patrimonio allodiale, libero da vincoli e trasmissibile secondo le sole norme del diritto privato (55).

Questa sorta di transazioni tra stato e propri membri di spicco non necessariamente dava origine a signorie destinate a divenire pressoché perpetue come quella degli Zorzi. Davvero personale e temporaneo, nonostante in questo caso la «concession remuneratoria» sia documentariamente davvero provata, fu infatti il dominio assoluto di Asolo «donato in vita sua» dal senato, il 20 giugno 1489, alla rinunciataria regina di Cipro Caterina Corner (56). In ogni caso non solo mediante la rivendicazione di crediti più o meno provati, e dei conseguenti risarcimenti, prestigiose famiglie patrizie ebbero modo di ritagliarsi ambiti territoriali nei quali affermare incontrastate la propria particolare e privata preminenza.

C’era sempre la possibilità di opportuni legami parentali, e infatti i Venier, grazie al matrimonio di uno di loro con una delle figlie di Gentile da Leonessa, nella seconda metà del Quattrocento si impadronirono di un carato della plenaria giurisdizione veronese di Sanguinetto, che il condottiero aveva da poco ottenuto dovesse essere considerata «libera et non più feudale» (57). Principalmente, c’erano le potenzialità finanziarie. Beneficiarie di una supremazia prima di tutto economica, fu soprattutto attraverso la forma dell’acquisto che queste casate suffragarono infatti le loro ambizioni.

Nel giugno del 1483, per 10.000 ducati d’oro, Angelo Trevisan e Francesco Marcello comprarono ad esempio, presso il magistrato delle rason vecchie, la «giurisdizional Gastaldia» di San Donà, che già possedevano a livello dal 1475. E se tutto sommato limitati, benché a loro volta esercitati senza alcuna delega statale, erano i diritti pubblici di loro pertinenza (58), di ben altra ampiezza apparivano quelli conseguiti altrove da altre famiglie, specie se si trattava di zone tuttora caratterizzate da persistenti incertezze giuridiche relative a confini e prerogative sovrane.

Nel tentativo di aggirare de facto i diritti che tuttora i conti di Gorizia vi detenevano, e di sottrarre quei luoghi alla loro legittima influenza, dal 1457 fu lo stesso governo veneto a caldeggiare e favorire la costituzione della signoria dei Vendramin nel distretto di Latisana. Sicché l’acquisto del futuro doge Andrea, uno dei patrizi allora più ricchi e potenti, diede luogo ad una giurisdizione plenaria e del tutto illimitata, dove poteva ad esempio tranquillamente risiedere suo figlio Andrea, bandito per omicidio da tutti i territori dello stato, e dove il dominio dei signori era considerato anche in seguito «senza alcuna superiorità» (59). Simile del resto a quello conseguito da un’altra delle più cospicue famiglie patrizie nei territori ai confini delle province di Padova e Rovigo che una donazione di Federico II, nell’ormai lontano 1200, aveva conferito al marchese Azzone d’Este.

Fu infatti di nuovo in virtù di un acquisto, quello che Almorò e il figlio Francesco perfezionarono il 12 agosto 1468 versando 210 lire di grossi ai deputati alla cura e alla messa in vendita dell’eredità di Taddeo e Bertoldo d’Este, che i Pisani di Santo Stefano e Santa Maria Zobenigo si insignorirono di una vasta area comprendente i comuni di Solesino, Stanghella, Vescovana e Boara (oggi appunto Boara Pisani). Conseguendovi a loro volta assolute e plenarie prerogative e beneficiando, come al principio del 1486, all’indomani della guerra con Ferrara, di interessate protezioni statali, destinate a prolungarsi ben oltre le contingenze che le avevano all’inizio consigliate (60). Come nel caso dell’altra signoria patrizia riscontrabile nel Padovano, quella dei Morosini a Sant’Anna.

Nel dicembre del 1503, per ricompensarlo con un vero e proprio scambio alla pari della cessione a suo favore di Rimini, il governo veneto aveva ceduto a Pandolfo Malatesta l’intero distretto di Cittadella. Costui, da signore assoluto qual era inconfutabilmente diventato, procedette senz’altro ad esercitare svariati atti sovrani. Tra questi, la «donazione» con cui, l’8 aprile 1509, veniva concessa a Pietro Morosini la villa di Sant’Anna, con «merum et mixtum imperium, et omnimodam iurisdictionem civilem et criminalem et gladii potestatem», nonché tutti i diritti ad ogni imposizione da esigersi in quel luogo, in cambio di 125 ducati d’oro. E se gli eventi connessi alla guerra di Cambrai, con l’inevitabile e forse tardiva restituzione alla Santa Sede dei territori di Romagna, avevano in breve posto fine al dominio su Cittadella di Pandolfo Malatesta, di ben altra durata ebbe invece a beneficiare la signoria patrizia, le cui prerogative continuarono anzi a mantenere quello status a tutti gli effetti allodiale che le stesse magistrature statali anche in seguito avrebbero avuto modo di riconoscere come giuridicamente inoppugnabile (61).

La palese tendenza da parte dei giusdicenti patrizi ad esercitare praticamente in proprio gli iura regalia acquisiti, senza investiture a subordinare la loro autorità a quella del proprio stato, è ancor più evidenziata dal caso dei Pisani dal Banco a Bagnolo. Già dei dal Verme e poi dei Nogarola, la giurisdizione vicentina fin dal 1505 era infatti divenuta senza ombra di dubbio feudale, quando Girolamo Nogarola, il 3 marzo di quell’anno, vi aveva conseguito da Venezia conferme di poteri e titolo comitale. Messa in vendita in seguito alla confisca ai danni del titolare ribelle, Bagnolo fu quindi acquistata nel settembre del 1523 dai Pisani dal Banco. Che per essa sborsarono bensì circa 12.000 ducati; ma che ottennero tuttavia di detenere liberamente, senza investiture né formali deleghe statali, i pur non amplissimi diritti pubblici di cui erano entrati in possesso (62).

Risolto fin dalla metà del Quattrocento in altri stati, come quello visconteo-sforzesco, che pure nell’attribuzione a privati di prerogative giurisdizionali aveva largheggiato ben più di Venezia (63), il problema di sopprimere nei territori statali ogni autorità che non fosse quella sovrana o che da essa espressamente non promanasse per il governo marciano non costituì insomma un gran cruccio fino ai decenni a cavallo tra Cinquecento e Seicento (64). In precedenza, soprattutto ad assecondare l’intraprendenza e la ricerca di grandezza delle più potenti casate patrizie, era stata tuttavia consentita la creazione di vere e proprie enclaves a pieno titolo non feudali, nelle quali l’esercizio di poteri territorializzati da parte dei domini non era mai stato oggetto di alcuna investitura né di alcun altro atto giuridico intervenuto a sancirne la dipendenza da qualsivoglia superiore autorità. E se è vero che già nel corso del Quattrocento ciò non aveva impedito al governo centrale di esercitare in talune di esse espliciti atti di alta sovranità (65), è tuttavia altrettanto vero che queste iniziative statali non avevano risolto che in parte la sostanziale ambiguità di questo rapporto. Anzi, il risultato più rilevante consisteva nella conferma di un equilibrio instabile basato, più che su di una chiara definizione di ambiti e competenze, sulla perpetuazione di rapporti di forza e condizioni complessive invece variabili. Sicché dai primi decenni del Cinquecento in avanti le rivendicazioni indipendentistiche dei domini patrizi erano destinate a rientrare oppure a riproporsi a seconda del manifestarsi o meno delle istanze accentratrici statali, in una situazione in cui molti di costoro si trovavano per forza di cose ad interpretare contemporaneamente entrambi i ruoli.

Fino agli ultimi decenni del Cinquecento, nell’ambito dei rapporti tra Repubblica di Venezia e giurisdizioni a vario titolo separate, il dato di maggior rilievo fu infatti costituito non tanto dalla tendenza di signori o feudatari a conseguire prerogative e poteri più ampi rispetto al passato, quanto piuttosto dalla rivendicazione per essi di caratteri di esplicita assolutezza. E questi attentati alla pienezza della sovranità statale, volti ad istituire nei territori del Dominio vere e proprie isole giurisdizionali immuni dalla sua autorità, provennero proprio da alcune delle più doviziose e potenti famiglie patrizie, che di quello stato, al cui interno si erano ritagliate ambiti di distinzione ed autonomia, e al quale cercavano di erodere sempre maggiori poteri, rappresentavano nel contempo elementi di assoluto rilievo.

Accanto a quelle già delineate, ad accrescere la propria preminenza assommando onori sacri e profani, a disposizione delle famiglie più cospicue del patriziato c’erano oltre tutto anche le signorie ecclesiastiche. In cambio della sua «quietanza» circa il Friuli, il 18 giugno 1445 al patriarca di Aquileia era stato ad esempio attribuito l’«assoluto dominio» di Aquileia, San Vito e San Daniele (66). E non meno pregnante era poi il potere del vescovo di Ceneda sull’omonimo distretto (67). Fu proprio impadronendosi di queste circoscrizioni in teoria ecclesiastiche che alcune casate patrizie finirono per evidenziare, con una chiarezza pressoché brutale, l’ormai nettissimo divario tra interessi pubblici e interessi privati, tra la propria superiore condizione e quella di tutti gli altri membri del loro ceto.

Circa un secolo dopo, alle prese con gli strascichi che di quei tentativi costituivano l’inevitabile portato, Paolo Sarpi non aveva nutrito il benché minimo dubbio, individuando in quella dei Grimani di Santa Maria Formosa, palesata a partire dai primi decenni del Cinquecento, una chiara volontà di creare per sé «un principato supremo o più tosto due o tre in mezo la Patria del Friuli» (68). E fu proprio da questa ricchissima famiglia, il cui capo Antonio, dopo l’infamante accusa di codardia per i fatti dello Zonchio, aveva riguadagnato credito e riabilitazioni fino ad assurgere nel 1521 alla suprema carica dogale (69), che provennero infatti, basate appunto su irrisolte ambiguità giuridiche, le più determinate pulsioni indipendentistiche dell’intero periodo.

Mai definitivamente chiariti, i rapporti tra governo centrale e giurisdizioni ad amministrazione patrizia, laiche o ecclesiastiche, avevano in realtà lasciato in vita appigli ed interstizi giuridici senz’altro più che sufficienti, qualora fossero stati gestiti da posizioni di forza ragguardevoli, per consentire ambiti di manovra di straordinario rilievo. Ed è appunto quanto era capitato quando il cardinale Domenico Grimani aveva in breve acquisito, per sé e i suoi nipoti, le più cospicue giurisdizioni ecclesiastiche dell’intero stato veneto.

Non è il caso di soffermarci dettagliatamente, cosa del resto già fatta assai puntualmente da altri autori, sul vorticoso intrecciarsi di nomine, rinunce con diritto di regresso e subentri, su quell’abile gestione che permise insomma ai Grimani di disporre per circa mezzo secolo, alla stregua di un patrimonio familiare, dei più importanti benefici ecclesiastici con prerogative temporali dell’intero Dominio veneziano, dal patriarcato di Aquileia al vescovado di Ceneda, dall’abbazia di Rosazzo a quella di Sesto al Renghena (70). E nemmeno mi sembra opportuno ripercorrere uno per uno tutti gli atti sovrani di cui nelle varie sedi si resero protagonisti i prelati della famiglia, dal divieto di ricorrere in appello all’imposizione di tributi, dalla promulgazione di statuti all’abbattimento delle insegne marciane, all’interno di quello che lo stesso doge Andrea Gritti, nel 1533, aveva denunciato come un palese tentativo d’insignorimento di tutta la parte nord-orientale dello stato marciano (71). Quello che occorre soprattutto sottolineare è che quello dei Grimani di Santa Maria Formosa, pur nella sua particolare rilevanza, non fu in questo senso l’unico esempio relativo a quegli anni.

Quasi tutte le signorie locali presenti nello stato veneziano erano, come si è visto, detenute da famiglie patrizie, e in molte di esse l’atteggiamento dei domini non fu a ben vedere granché diverso. Costantemente vigili nel rivendicare per le loro prerogative particolaristiche quella conformazione allodiale che dal punto di vista giuridico appariva assai arduo disconoscere, alcuni di costoro scelsero in realtà, specie quando la consistenza delle loro giurisdizioni separate non era tale da poter suscitare chissà quali ambizioni, la strada della più pacifica e interessata concordia con il proprio governo. Pietro Morosini, ottenuto nel novembre del 1520 quanto gli interessava, vale a dire il riconoscimento del titolo di signore di Sant’Anna e la sanzione della totale separazione della sua villa in materia di dazi, fazioni e contributi, non aveva poi mancato di improntare ad una proficua e quasi mai conflittuale collaborazione con i diversi rettori veneziani del Padovano l’amministrazione della giustizia nel suo distretto (72). E simili pratiche erano state fatte proprie anche da altri suoi pari. Ad esempio dai Pisani nella loro signoria di Solesino, Stanghella, Vescovana e Boara (73). O dai Venier, visto che Marco Antonio, a nome suo e degli altri consorti, nell’agosto del 1546 non si era astenuto dal perfezionare un’analoga convenzione col podestà di Verona circa la persecuzione dei «casi atroci» nella sua giurisdizione di Sanguinetto (74). Ciò nonostante, furono numerosi i patrizi giusdicenti che nello stesso torno di tempo palesarono invece aspirazioni di ben altro tenore.

Determinato a conseguire a tutti i costi il titolo comitale cui ambiva, Angelo Trevisan, contitolare della gastaldia di San Donà, nel 1531 giunse addirittura a chiedere, senz’altro ottenendolo, il relativo diploma all’imperatore Carlo V (75). Soprattutto, una disarmante tendenza a distinguere sempre più le proprie dalle prerogative statali dimostravano i  patrizi titolari delle signorie più ampie e prestigiose. Come gli Zorzi, che attorno agli anni Trenta del secolo avevano ripreso ad affermare che loro era «il sommo imperio» e che nel contado di Zumelle le sentenze non «havean appellation» (76). I Vendramin, che stabilendo nel 1528 l’ordinamento giudiziario della loro signoria di Latisana neppure facevano menzione della Repubblica e delle sue leggi (77). E anche i Pisani dal Banco, che pur con difficoltà erano riusciti ad ottenere che la loro giurisdizione di Bagnolo, unica in tutto il Vicentino, conservasse il suo status di «separatezza» (78).

Non mancarono nel corso del Cinquecento ulteriori acquisti di giurisdizioni da parte di famiglie del patriziato. Antonio Malipiero, per 28.000 ducati e il 5% delle entrate per i primi tre anni, nel 1579 comprò ad esempio quella di Albaredo di Cologna dall’indebitatissimo precedente titolare Marco Antonio da Sarego (79). E tentativi di acquisire l’ambito potere di giudicare vennero ostinatamente prodotti anche dai Michiel alla Meduna o dagli Emo a Vestena (80). Più che in un tutto sommato esiguo ampliamento quantitativo, durante il Cinquecento il fenomeno più significativo consisteva tuttavia nella perdurante mancata subordinazione giuridica delle prerogative di buona parte dei patrizi «iurisdictionem separatam habentes». Che talvolta erano stati bensì costretti a scendere a patti, ma che neppure in quelle circostanze avevano mancato di rimarcare la particolarità della loro condizione. Come i Vendramin, che nel gennaio del 1572, ordinata dal senato una descrizione di galeotti senza eccezioni per «esenti, privilegiati et così separati», erano giunti ad offrirne volontariamente quaranta pur di non consentire l’ingresso di alcun ufficiale governativo nella loro signoria di Latisana (81). E si trattava di un problema destinato ad emergere in tutta la sua complessa rilevanza proprio negli ultimi decenni del Cinquecento e nei primi del Seicento, quando da parte del governo centrale, e soprattutto di alcuni tra i suoi principali esponenti, si esplicò quella più ampia concezione circa la pienezza e l’assolutezza della «sopranità» dello stato che non poteva non scontrarsi con tali realtà locali, e che proprio in esse incontrò del resto gli ostacoli di maggior consistenza.

La stessa «Legge Feudale» del 13 dicembre 1586, primo provvedimento generale mai emanato dal governo marciano in tema di diritti e giurisdizioni feudali, esplicitamente volto ad affermare il carattere giuspubblicistico del vincolo feudo-vassallatico e la superiore facoltà dello stato di esercitare atti sovrani in ogni ambito delle sue competenze territoriali, produsse infatti, a parte l’istituzione di una magistratura permanente, i provveditori sopra feudi appunto, risultati alquanto modesti. Praticamente nulli relativamente alle giurisdizioni patrizie. Tra tutti, solo i Gabriel si presentarono infatti per ricevere la debita investitura (82); e probabilmente, a motivare la loro pronta obbedienza, più che la natura indiscutibilmente feudale delle giurisdizioni in loro possesso, grande importanza ebbero le vertenze in cui la comunità di Aviano aveva preso da qualche tempo a coinvolgerli (83).

Quanto agli altri patrizi in possesso di prerogative giurisdizionali in Terraferma, la conformazione tuttora «libera» delle loro signorie li aveva senz’altro esentati dal considerarsi in qualche modo interessati dal provvedimento. E la bontà della loro interpretazione pareva oltre tutto essere riconosciuta dalle principali magistrature statali. Nonostante tutto presentatisi nel 1624, i Morosini avevano ad esempio fatto del tutto gratuitamente una gran bella figura. Gli stessi provveditori competenti, lodandone la squisita disponibilità, avevano dovuto ammettere che la loro non era proprio una giurisdizione feudale (84).

Nessun titolare di signorie a pieno titolo non feudali aveva insomma accettato di compiere quel formale atto di sottomissione cui neppure molti effettivi vassalli avevano mostrato di voler sottoporsi con eccessivo entusiasmo (85). Ciò, in quel particolare periodo, non impedì alla Serenissima Signoria di arrogarsi comunque quella superiorità che via via con maggior decisione andava ovunque rivendicando. Eletto provveditore inquisitore in Friuli e nel Trevigiano, a Ottaviano Bon, all’epoca esponente di spicco del gruppo dei giovani che con Paolo Sarpi condivideva convincimenti e programmi, tra giugno e novembre del 1611 era stato ad esempio affidato un compito di grande rilievo: quello di affermare anche fisicamente la superiore autorità dello stato entrando nelle giurisdizioni private di maggior consistenza e prestigio. E gli Zorzi o il consorzio patrizio nel frattempo subentrato per via ereditaria ai Vendramin dovettero pertanto consentire il suo ingresso a Mel (capoluogo del distretto di Zumelle) o a Latisana (86). Né gli interventi statali si limitarono a questi gesti simbolici, ripetendosi con regolarità fino a dar luogo a vertenze assai note relative alle terre patriarcali (87) e soprattutto, nel 1625, ad una legge che avrebbe dovuto risolvere una volta per tutte il problema, stabilendo senza perifrasi che «tutte le giurisdizioni di qualunque natura che si trovano nello Stato della Signoria nostra sono et si debbono intendere che siano pure feudali, per essere quelle di sola ragione della Repubblica nostra» (88). Nondimeno, la predisposizione delle più potenti famiglie patrizie ad ampliare consistenza e natura delle proprie prerogative particolaristiche era stata solo momentaneamente circoscritta. Sostanzialmente rientrate le istanze statali più scopertamente accentratrici, ridotta l’influenza di coloro che maggiormente le avevano propugnate, queste tendenze centrifughe finirono infatti quasi ineluttabilmente per riemergere.

I Pisani di Santo Stefano e Santa Maria Zobenigo, per la verità, ormai privi di ogni possibile giustificazione, nel 1626 avevano finito per accettare di comparire a ricevere la loro ormai inevitabile investitura (89). Angelo Dolfin e Giovan Battista Donà, da qualche tempo impadronitisi praticamente motu proprio delle giurisdizioni polesane di Villa del Buso e Villa del Dose, acconsentirono di buon grado di riconoscerne il carattere feudale (90). E pure i discendenti dei Vendramin a Latisana accondiscesero poi, benché non prima del 1659, a presentare in questo senso la loro domanda (91), imitati del resto solo nel secolo successivo da tutti gli altri (92). Dai decenni centrali del Seicento, periodo da cui ha preso le mosse questo intervento, le affermazioni indipendentistiche avevano tuttavia ricominciato a caratterizzare convinzioni ed orientamenti dei patrizi titolari di giurisdizioni private, che anzi, a confermare la più blanda determinazione statale a questo proposito, mostrarono di curarsi assai poco della più o meno avvenuta subordinazione formale delle loro prerogative.

Già nel 1634 il Territorio di Verona aveva elevato vibrate proteste per le pratiche dei Grimani, dei Tron o dei Capello, ostinati nel negare ogni coinvolgimento in tassazioni e tributi pubblici delle loro comunità di Roncà e Levà (93). Anzolo Morosini, dal 1657 al 1661, si era dato ripetutamente da fare per pretendere che a Sant’Anna non fossero consentite descrizioni di abitanti o imposizioni di sorta, pratiche che egli riteneva lesive dei suoi privilegi (94). Mentre ancor più significativo appariva il mutato atteggiamento dei Pisani. Nel 1626, non paghi di essersi presentati a ricevere l’investitura statale, costoro avevano mostrato di volersi adeguare alla situazione del momento cedendo al governo centrale il giudizio sui «casi atroci» commessi nella loro giurisdizione di Solesino, Stanghella, Vescovana e Boara. Nel maggio del 1679 questa clausola appariva ai loro eredi del tutto inaccettabile, tale da rendere inevitabile quell’esplicita abolizione che infatti pretendevano (95). E le cose non erano destinate a mutare in seguito. Verso la metà del Settecento, provvedendo a far redigere gli statuti delle loro giurisdizioni, sia i signori patrizi di Latisana che i Gabriel neppure facevano menzione della Repubblica di Venezia (96).

Intorno alla metà del Seicento proprio uno dei Pisani già di Santa Maria Zobenigo, Francesco, aveva sostenuto sprezzante che nel patriziato veneziano «vi erano trenta Principi del Sangue», un centinaio di gentiluomini e «tutto il restante era Plebe». Allora questa affermazione era costata a lui e al fratello l’esclusione dal senato nell’elezione annuale. Un paio di decenni dopo questi concetti si erano diffusi, diventando quasi un luogo comune (97). Così come notevole era il potere di seduzione che certo esercitavano sui più ambiziosi tra i nuovi ammessi.

I Labia o gli Ottoboni, lo abbiamo già visto, che una giurisdizione per essere davvero prestigiosa doveva essere il più possibile libera da condizionamenti, lo avevano compreso subito (98). Nell’aprile del 1670, due anni dopo averle acquistate, anche i Giovanelli, chiedendo che almeno le proprietà fondiarie di Morengo fossero considerate non più feudali ma allodiali, dimostravano a loro volta di averlo capito (99).

1. Antonio Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia 1996, pp. 53 ss.

2. Ibid., pp. 53-56. Pordenone era stata infeudata da Venezia al comandante generale delle sue truppe Bartolomeo d’Alviano nel giugno del 1508. Nel 1515, alla sua morte, gli successe il figlio Livio. L’ampiezza delle sue prerogative giurisdizionali suscitò tuttavia aspri dissensi da parte della locale comunità, che infatti nel 1537, alla morte senza eredi di costui, ottenne la devoluzione del feudo. Su ciò v. Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni del ’600, Venezia 1991, pp. 221, 239-242. Sono state analizzate a questo proposito le due serie archivistiche relative alle giurisdizioni acquistate o richieste senza esito in questo periodo, senza trovare traccia degli Ottoboni: A.S.V., Provveditori sopra Feudi, bb. 776 e 754.

3. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 754, c. 244.

4. Per una recente rivisitazione di questi avvenimenti cf. Gaetano Cozzi, Venezia nello scenario europeo (1517-1699), in Id. - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 2), pp. 117-127 (pp. 5-200).

5. Ibid., p. 123.

6. Da ultimi cf. ibid., pp. 124 ss. e Roberto Sabbadini, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia (sec. XVII-XVIII), Udine 1995, pp. 14 ss.

7. G. Cozzi, Venezia nello scenario europeo, p. 124; Mauro Pitteri, La politica veneziana dei beni comunali (1496-1797), «Studi Veneziani», n. ser., 10, 1985, pp. 57-80.

8. Il primo decreto, del 31 ottobre 1645, riguardava solo la messa in vendita di alcune circoscrizioni friulane, quali quelle di Tricesimo o Tolmezzo. Il secondo, del 12 settembre 1647, estendeva il provvedimento a tutto il Dominio. Entrambi sono riportati nel Codice Feudale della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1780 (riprod. anast. Bologna 1970), pp. 106 e 110-111.

9. Cf. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 333 ss.

10. Alberto Tenenti, The Sense of Space and Time in the Venetian World of the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973 (trad. it. Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano nei secoli XV e XVI, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra medioevo e età moderna, Bologna 1978, pp. 75-118), pp. 17-46.

11. G. Cozzi, Venezia nello scenario europeo, pp. 126 ss.

12. Ibid., pp. 161-162.

13. Enrico Stumpo, La vendita degli uffici nel Piemonte del Seicento, «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 25-26, 1973-1974, pp. 175-273; Lino Marini, Lo stato estense, in AA.VV., I Ducati padani. Trento e Trieste, Torino 1979 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVII), pp. 79 ss. (pp. 3-211); Domenico Sella, L’economia lombarda durante la dominazione spagnola, Bologna 1982, pp. 247-286. Più in generale si v. anche Karl O. von Aretin, L’ordinamento feudale in Italia nel XVI e XVII secolo e le sue ripercussioni sulla politica europea. Un contributo alla storia del tardo feudalesimo in Europa, «Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico in Trento», 4, 1978, pp. 51-94; e Renata Ago, La feudalità in età moderna, Bari 1994, pp. 181 ss.

14. Sergio Zamperetti, Stato regionale e autonomie locali: signorie e feudi nel Dominio veneziano di Terraferma in età moderna, «Studi Veneziani», n. ser., 21, 1991, pp. 111-136.

15. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 754, c. 661.

16. Ibid., b. 762, fasc. 2, cc. 2v-3. Una «portione» di questa giurisdizione fu poi acquistata, con investitura ufficiale in data 24 maggio 1672, da Francesco Califfi di Zara per 11.000 ducati: ibid., b. 776, cc. 165-174.

17. Per l’aggregazione cf. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 16. Per l’acquisto feudale cf. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 776, cc. 95v-106.

18. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 172 per la data dell’aggregazione; A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 762, fasc. 2, cc. 3-4 per il resto.

19. Per l’acquisizione del rango patrizio cf. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 171; per il feudo, A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 755, c. 1.

20. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 173, p. 185 per la genealogia della famiglia; Ettore Tolomei, Patrizi veneti in Val d’Adige. Zenobio e Albrizzi, «Archivio per l’Alto Adige», 37, 1942, pp. 219-243.

21. Per le giurisdizioni di Polcenigo o Fagagna, nelle quali i Manin si erano introdotti con la forza del denaro all’inizio del Seicento, tentando subito di accrescerne le prerogative a scapito delle comunità locali, cf. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 326, 350 e 372. Nel 1647 i Manin avevano acquistato, in consorzio con gli Antonini, i Pianesi e i Camozzi, le centocinquantaquattro ville della gastaldia di Tolmezzo per 40.000 ducati; qualche anno dopo la vendita venne tuttavia revocata: A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 776, cc. 15-24. Nel 1683 Ottaviano Manin, procuratore di San Marco, pretendeva la conferma di controversi diritti relativi al castello di Antro: ibid., b. 762, cc. 28-30. Ancora il 21 luglio 1742 palesavano tali aspirazioni. In quell’anno comprarono infatti, per 436.699 lire, ben sei ville friulane, acquisendo in esse mero e misto imperio e facoltà di sentenziare fino all’ultimo grado in sede di appello, nonché il diritto di estendere tali prerogative ad altre cinque ville di cui erano già in possesso: ibid., b. 774, alla data.

22. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 173 per la data dell’aggregazione; A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 754, cc. 2-28 per la lunga e vana trattativa.

23. Per l’Europa, tra molti altri lavori, si può vedere Jean Pierre Labatut, Le nobiltà europee. Dal XV al XVIII secolo, Bologna 1982. Per l’Italia cf. Claudio Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Bari 1988; e Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di Maria Antonietta Visceglia, Bari 1992. Anche numerosissimi sudditi veneti acquisirono svariati titoli nobiliari da sovrani europei, che poi, dagli anni Sessanta del Seicento, iniziarono a presentare a Venezia per ottenere per essi un formale riconoscimento statale: cf. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, bb. 1147 e 1148 (Libro d’Oro della veneta Nobiltà), passim.

24. Piero Del Negro, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 407-436; Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958.

25. Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, pp. 113 ss.

26. Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 15 ss.

27. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1938-1941, p. 50.

28. Gaetano Cozzi, Venezia, una Repubblica di Principi? «Studi Veneziani», n. ser., 11, 1986, p. 143 (pp. 139-157).

29. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 229-283; Franco Gaeta, Venezia da «Stato misto» ad aristocrazia «esemplare», in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 437-494.

30. Il dibattito è sintetizzato da G. Cozzi, Venezia, una Repubblica di Principi?, pp. 151-153; James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, pp. 106-108 e ora A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune, pp. 47-48 e R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, pp. 16-19.

31. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, pp. 19 ss.

32. Ibid., pp. 33 ss.

33. Ibid., p. 38. In seguito, nel 1653, gli aristocratici bresciani vennero tuttavia aggregati al patriziato: ibid., p. 172. Sulle prerogative di questa schiatta, tra le più antiche e prestigiose della feudalità veneta, cf. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 157, 168, 169, 172-174, 234, 235, 285, 294, 301-303, 337, 345, 351, 354.

34. J. P. Labatut, Le nobiltà europee.

35. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, pp. 71-82 e 141-156.

36. Distintioni Secrete che corrono tra le casate nobili di Venetia, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciano, ms. it. cl. VII. 2226 (= 9205), c. 40. Per la datazione di quest’opera, di cui esistono due versioni, la prima del 1675-1676 e la seconda, qui citata, del 1684-1686, cf. P. Del Negro, Forme e istituzioni, p. 411. Sui feudi in Levante fondamentali David Jacoby La féodalité en Grèce médiévale. Les Assises de Romanie: sources, applications et diffusions, Paris-Le Haye 1971 e Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Age. Le développement et l’exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XIVe siècle), Paris 1959.

37. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 754, cc. 392-399. L’episodio è citato anche in Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII). Materiale per una ricerca, «Quaderni Storici», 43, 1980, p. 172 (pp. 162-193). Si v. anche Id., Un problema aperto: Venezia e il tardo feudalesimo, «Studi Veneziani», n. ser., 7, 1983, pp. 183-196.

38. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 762, fasc. 2, cc. 55v-57.

39. Per le ambizioni di Marcantonio Ottoboni, cf. A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune, p. 53.

40. Codice Feudale, p. 1.

41. S. Zamperetti, I piccoli principi, p. 25.

42. Ibid., pp. 15 ss.

43. A.S.V., Senato, Misti, reg. 55, c. 93.

44. Ibid, reg. 58, c. 88. Per i periodi successivi cf. Codice Feudale, passim.

45. Giorgio Cracco, Venezia nel Medioevo: un «altro mondo», in AA.VV., Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Torino 1987 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VII, 1), pp. 61-66 (pp. 3-357). Su Michele Giustinian, che ancora al principio del Quattrocento deteneva, a quanto pare assai male, il «castrum Caristi», a Negroponte, cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 46, c. 12.

46. Vittorio Lazzarini, Possessi e feudi veneziani nel Ferrarese, in Id., Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carcerati in antiche leggi veneziane, Roma 1960, pp. 31-48.

47. Sul feudo di Trisigallo cf. Vittorio Lazzarini, Marino Falier e un feudo dei Falier nel Ferrarese, «Archivio Veneto», ser. V, 38-41, 1946-1947, pp. 77-85; su quello di Valmareno cf. invece G. Cracco, Venezia nel Medioevo, p. 137.

48. La prima investitura veneziana fu concessa nel novembre del 1658; nell’agosto del 1751 i Foscari vendettero i loro diritti su Zelarino per 2.353 ducati: cf. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 677, fascc. 2, 3 e 5.

49. Va detto che gli stati regionali fecero propria, dell’istituto feudo-vassallatico, soprattutto quella delega di autorità sovrana che in origine gli era estranea: tra tutti, cf. Marc Bloch, La società feudale, Torino 1977; Robert Boutruche, Signoria e feudalesimo, II, Signoria rurale e feudo, Bologna 1974 e François Louis Ganshof, Che cos’è il feudalesimo?, Torino 1989.

50. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 36-38.

51. Ibid., pp. 51-222. Si v. anche Gina Fasoli, Lineamenti di politica e legislazione feudale veneziana in Terraferma, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 25, 1952, pp. 70-71 (pp. 61-94).

52. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 121-148. Un dettagliato elenco dei vicariati privati veronesi in Gian Maria Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento. Vicariati del Comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980, pp. 188-193.

53. Ricorda le due giurisdizioni friulane Girolamo da Porcia, Descrizione della Patria del Friuli, con l’utile che ne cava il Serenissimo Principe e le spese che ne fa [1597], Udine 1897, p. 80. Per quella di Piemonte, in Istria, cf. A.S.V., Collegio, Secreta, Relazioni, b. 54, fasc. 2, c. 1 e fasc. 3, c. 47. Sulle giurisdizioni private in Istria cf. Sergio Zamperetti, Investiture feudali e conflitti locali nell’Istria del ’700: il caso dei conti Becich e della città di Parenzo, «Acta Histriae», 3, 1994, pp. 71-82.

54. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 86-87.

55 Ibid., pp. 87-90.

56. Ibid., pp. 90-91.

57. Ibid., pp. 143-145.

58. Ibid., pp. 92-93.

59. Per tutte queste vicende cf. Sergio Zamperetti, Autorità statale, poteri signorili e comunità soggette nello Stato regionale veneto del ’700: il caso di Latisana, in Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1989, pp. 155-184. La frase è citata in G. da Porcia, Descrizione della Patria del Friuli, p. 82.

60. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 120-121. Si v. anche Giuseppe Gullino, I Pisani «dal Banco» e «Moretta». Storia di due famiglie veneziane in età moderna e le loro vicende patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma 1984, pp. 70 ss.

61. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 118-120.

62. Ibid., pp. 105-106, 231-232; v. anche G. Gullino, I Pisani «dal Banco» e «Moretta», pp. 30 ss.

63. Giorgio Chittolini, Infeudazioni e politica feudale nel Ducato visconteo-sforzesco, in Id., La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado, Torino 1979, pp. 36-100.

64. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 333 ss.

65. Ibid., pp. 51-222.

66. Ibid., pp. 208-209. Per il testo dell’accordo cf. A.S.V., Libri Commemoriali, XIII, cc. 171-173.

67. Gaetano Cozzi, Paolo Paruta, Paolo Sarpi e la questione della sovranità su Ceneda, «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano», 4, 1962, pp. 176-237.

68. S. Zamperetti, Ipiccoli principi, pp. 271-272.

69. Ibid., p. 272 e bibl. ivi riportata.

70. Pio Paschini, Domenico Grimani cardinale di San Marco († 1523), Roma 1943; Id., Il cardinale Marino Grimani e i prelati della sua famiglia, Roma 1960.

71. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 273-277. Per l’opinione di Andrea Gritti cf. G. Cozzi, Paolo Paruta, Paolo Sarpi, pp. 185-186.

72. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 681, fascc. 4-6.

73. Ibid., b. 682, fascc. 7-18.

74. Ivi, Senato, Terra, reg. 34, c. 136v.

75. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 278-279.

76. Ibid., pp. 279-280.

77. Ibid., pp. 280-281, e n. bibl.

78. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana, Archivio Torre, b. 362, fasc. 2 e b. 811.

79. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 705, fasc. 2. Il 23 agosto 1638 i provveditori sopra feudi, dopo varie lamentele di Giovanni Malipiero, scrivevano al podestà di Cologna invitandolo ad intimare agli abitanti del vicariato di Albaredo di recarsi presso il tribunale del giusdicente patrizio: ibid., b. 921, alla data.

80. S. Zamperetti, I piccoli principi, rispettivamente pp. 329-330 e 370.

81. Ibid., p. 331.

82. La legge è pubblicata nel Codice Feudale, pp. 42-45. L’investitura dei Gabriel: A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 778, cc. 143-152, 22 maggio 1588.

83. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 264 ss.

84. A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 773, fasc. 2, c. 14, 27 giugno 1624.

85. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 343 ss.

86. Ibid., p. 359.

87. Per esempio quella relativa al feudo di Taiedo, o ancor più quella, dal 1612 in avanti, riguardante la sovranità su San Daniele: cf. ibid., rispettivamente pp. 337-338 e 363-366. Fondamentale tuttavia Giuseppe Trebbi, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca d’Aquileia, Udine 1984.

88. Codice Feudale, pp. 72-75, 11 marzo 1625.

89. Probabilmente stimolati anche dalle mire di Este sulla loro comunità di Boara: A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 825, 22 gennaio e 6 settembre 1626, alle date, per le scritture in causa, che non modificarono comunque la situazione, tra Este e i giusdicenti patrizi; ibid., b. 682, fasc. 19, 14 settembre 1626, per l’investitura.

90. Ibid., b. 965, fasc. 1 e fasc. 4, cc. 20-21.

91. Ibid., b. 791, 9 maggio 1659. Il 14 maggio 1646 una denuncia «secreta» aveva informato i provveditori che i consorti di Latisana non avevano ricevuto investitura e non consentivano appelli alle loro sentenze; costoro però, mentendo, avevano sostenuto l’infondatezza delle accuse: ibid., b. 747, alla data.

92. Per esempio nel 1709 dai titolari della gastaldia di San Donà: ibid., b. 1074, c. 26; o nel 1757 dai Morosini per Sant’Anna: ibid., b. 681, fasc. 18.

93. Verona, Archivio di Stato, Comune, b. 243, fasc. 2849, c. 1. Queste pratiche per i consorti di Roncà non costituivano una novità: S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 289, 291, 295 e 307 per analoghi atteggiamenti sia nel Quattrocento che nel Cinquecento. Il 18 ottobre 1638 i provveditori scrivevano in ogni caso al capitano di Verona perché impedisse alla città di angustiare quei giusdicenti: A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 921, alla data.

94. E i suoi eredi continuarono anche in seguito: ibid., b. 681, fasce. 13-20.

95. G. Gullino, I patrizi veneziani, p. 173.

96. Statuti della giurisdizione della Tisana, Venezia 1760; A.S.V., Miscellanea Codici, ser. II, 27, Leges Municipales comitatus Sancti Pauli. 1778.

97. Distintioni Secrete, c. 40.

98. Gli Ottoboni, per la verità, una seppur parziale prerogativa giurisdizionale erano poi riusciti a conseguirla. Il 21 luglio 1685, comunicando ai provveditori competenti una sorta di compendio circa le giurisdizioni di quel territorio, il podestà di Pordenone Anzolo Barbaro sosteneva che nelle ville di Cordenons, Rorai e Villanova i giudizi in civile in prima istanza venivano esercitati dai giurati locali, assistiti da un gastaldo. Ebbene, gli Ottoboni, assieme ai cittadini veneziani Podavini, pare avessero facoltà di eleggere appunto questo gastaldo: A.S.V., Provveditori sopra Feudi, b. 965, fasc. 1.

99. A Gian Andrea e Carlo Vincenzo Giovanelli, zio e nipote, veniva tuttavia risposto che prima di avanzare pretese era forse il caso che finissero di pagare il dovuto. Fino a quel momento avevano infatti versato solo 144.000 dei 200.000 ducati: ibid., b. 762, fasc. 2, cc. 3-4.

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