PATOLOGIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

PATOLOGIA

Massimo Aloisi
Gaetano Crepaldi-Maurizio Muraca
Leonardo M. Savoia

(XXVI, p. 509; App. III, II, p. 376)

Patologia medica. − I grandiosi progressi conseguiti nelle scienze biologiche, e in particolare in quelle biomediche, non solo hanno aggiunto nuovi esempi di p. e nuove interpretazioni e chiarimenti dei processi che portano agli stati patologici, ma hanno anche contribuito a ordinare più razionalmente il concetto stesso di avvenimento patologico, riportandolo e sistemandolo, com'è giusto, nell'alveo dell'accadere naturale.

Quando si parla della variabilità dei viventi s'intende non solo che essi sono una congerie quasi sterminata di specie diverse, animali e vegetali, ma anche che ogni singolo individuo di una data specie non ha e non può avere, come sarà chiaro tra poco, caratteristiche costanti nel tempo. È noto che la variabilità individuale è anzi un fattore essenziale nello schema darwiniano dell'evoluzione delle specie. Il variare individuale intorno allo schema generale della specie può avere diversa origine: essere genetico, ossia determinato ereditariamente, per le mescolanze geniche nella riproduzione sessuata, o per mutazione, oppure epigenetico, determinato da eventi insorti durante la vita del fenotipo (l'individuo concreto esistente e vivente, dalla nascita, anzi dalla fecondazione, alla morte). Tale variabilità può essere un segno permanente nel fenotipo (e allora lo differenzia dagli altri individui appartenenti alla specie), oppure può essere mutevole nel tempo nello stesso soggetto: anzi questo accade di regola, poiché proprio lo sviluppo fenotipico comporta tutte le variazioni ontogenetiche dalla nascita alla morte, l'accrescimento, la maturità e la senescenza.

A queste variazioni di larga durata che disegnano il ciclo della vita, e di durata assai diversa a seconda della specie del vivente (si pensi alle enormi differenze fra gli animali e ancor più fra animali e vegetali), si aggiungono variazioni cicliche più ravvicinate, come quelle legate al ripetersi delle attività sessuali e riproduttive (in modo clamoroso basti pensare alle piante) o, più comunemente e universalmente, quelle del ciclo attività e riposo, giornaliere o circadiane: anzi, come vedremo, v'è una fondamentale ciclicità e ritmicità del modo di essere dei viventi, che si ritrova fino nelle più elementari operazioni biofisiche e biochimiche che realizzano la loro complessa fenomenologia.

La variabilità della natura è naturalmente misurabile e valutabile, ed è comprensibile che tali misure abbiano valore solo se eseguite con criteri statistici rigorosi e applicate a popolazioni apparentemente omogenee: c'è per questo tutto un corpo di dottrine e di tecniche che va sotto il nome di biometria. Si ricorda questo perché tale considerazione dà modo di presentare l'accezione più semplice, ma anche la più schematica, di ciò che consideriamo eccessivamente deviante dal normale ed è quindi meritevole della qualifica di anormale o patologico.

La biometria mostra come ogni carattere di una popolazione peraltro omogenea di viventi oscilli secondo una curva gaussiana variamente simmetrica o asimmetrica, la cui moda o norma (e quindi non sempre la media) rappresenta la misura più frequente e quindi quella che a buon diritto consideriamo ''normale''. Ma anche tutti i valori che sono assai vicini a quello della moda debbono essere e sono considerati egualmente normali o paranormali a seconda della loro distanza dalla pura norma (distanza misurabile secondo una convenzione matematico-statistica). Oltre queste minime oscillazioni consentite all'intorno del valore astratto normale si passa a misure così poco rappresentate nella specie da meritare il nome di ''anormali''.

Quando la distanza dalla norma risulta troppo grande, essa quasi sempre risulta anche incompatibile con la vita. È così che tale valutazione diviene una prima approssimazione al concetto di anormalità, si tratta cioè di un'approssimazione statistica, la quale anche se viene accettata e riportata perché più obiettivamente basata, resta tuttavia chiaramente insufficiente in un linguaggio più esteso e concreto, quando non porti a patenti incongruenze, come nel caso della valutazione di un atleta mondiale, che diverrebbe il più anormale degli uomini, almeno per alcuni caratteri, a seguito dell'incongruenza di voler omologare (o sempre omologare) il termine ''anormale'' con quello di ''patologico''. Infatti, già la parola greca, pàthos, indica sofferenza, passione, mentre pàthema indica anche avversità, evento contrario. Con ciò si vuol far capire che p. e anormalità non sono sinonimi, bensì due aspetti, spesso (ma non sempre) combacianti, delle oscillazioni nel modo di essere del vivente, nel caso in cui tali oscillazioni superino l'estensione normale e anzi creino alterazioni strutturali-funzionali, talvolta compatibili ma con una diminuita efficienza dei processi vitali, talaltra invece del tutto incompatibili con essi. Va anche detto che per la naturale reattività delle cellule e degli organismi, di cui tra poco brevemente ci occuperemo, l'anormalità e la p. non si definiscono solo per la natura e l'estensione delle oscillazioni anzidette, ma che a ciò si aggiungono o possono aggiungersi aspetti apparentemente nuovi, come creati dalla deviazione o sofferenza stessa e che non sono sempre facilmente commisurabili col normale, se non attraverso una riflessione critica: infatti concluderemo che niente si verifica in p. che non sia in potenza anche nell'assetto e nella funzione normale, ma spesso in misura, in tempi e luoghi inusitati. Ne consegue che la deviazione patologica investe solo individui, e dunque non si può qualificare una specie come patologica, anche se può darsi il caso di un'affezione talmente diffusa da coincidere con la quasi totalità della popolazione di una specie in un settore ecologico, e anche se talora l'estinzione di una specie può dipendere dall'eccessiva diffusione di una determinata patologia.

La scoperta più importante della moderna biologia, è che l'organismo è, sì, una macchina, ma una macchina estremamente autoregolata e in equilibrio dinamico con l'ambiente. In quanto macchina permette d'indicare con quasi sicurezza i settori, gli ingranaggi, le inefficienze o le esuberanze nell'operatività dei vari livelli di cui si compone la macchina. In quanto sistema fortemente autoregolato rende invece difficile stabilire sempre con esattezza tempi e luoghi degli accadimenti patologici all'interno della macchina, la quale appunto modifica le lesioni primarie e in buona parte crea il quadro patologico.

Una prima distinzione di massima nello studio della p. è quella di stabilire se il danno primario alla macchina, ossia all'organismo (danno in generale, detto anche noxa) derivi da un alterato rapporto col mondo o l'ambiente esterno, con il quale il vivente è naturalmente collegato − ed è la p. da cause esterne − oppure derivi da una disfunzione primaria dei meccanismi interni, ereditari o congeniti (il modo con cui la macchina è costruita), ed è la p. da cause interne. Ma nella realtà una tale distinzione è, come si diceva, solo di massima, perché la reattività propria degli organismi produce ad abbondanza (a meno di lesioni immediatamente mortali) una mediazione complessa dell'effetto concreto del danno, sia nell'uno che nell'altro tipo di patologia. In effetti, gli organismi viventi sono fortemente omeostatici, vale a dire che sono costruiti con meccanismi autoregolati, tanto all'interno di ogni singolo apparato, quanto tra i diversi apparati. La mediazione di questa fortissima omeostasi si svolge a tutti i livelli, a cominciare da quello molecolare, per cui ogni noxa riesce a dare segni manifesti di p. solo quando la sua intensità o la sua durata supera la capacità attenuante omeostatica. Esempi noti a tutti degli effetti di questa omeostasi sono la relativa costanza della temperatura corporea, della concentrazione dei metaboliti nel sangue e in genere della composizione del sangue, della pressione arteriosa, della produzione degli ormoni, che a sua volta è condizione stessa dell'omeostasi, così come lo è l'attività dell'altro sistema di correlazione, che è quello nervoso.

Non si trovi una contraddizione con quanto si diceva prima circa la ciclicità, lungo tutta la vita del fenotipo, delle funzioni organismiche: qui il termine di costanza va modulato lungo le curve della fenomenologia biologica, sia comprendenti la vita intera dell'organismo, sia riguardanti periodi temporali più brevi fino a quelli giornalieri. L'omeostasi è appunto un'omeostasi ciclica che rende molto più duttile e adattabile all'ambiente l'intero organismo e così provvede alla sua sopravvivenza. Anzi, proprio questa inerente ciclicità fa sì che esista anche una p. dei cicli temporali che va sotto il nome di cronopatologia: ma ogni evento patologico risente più o meno della ciclicità del funzionamento organismico. Così esiste una particolare p. del neonato, dell'infanzia, della maturità e della senescenza, oltre a quelle inerenti alle diversità sessuali.

Nel passato si è molto discusso su un'altra distinzione che, proprio per l'analisi approfondita che è possibile fare della fenomenologia biologica, è oggi accettabile solo per alcuni aspetti pratici e come valutazione di prevalenza: la distinzione tra lesioni strutturali e lesioni funzionali delle cellule, degli organi e degli apparati. L'analisi morfologica dei tessuti dei viventi, a tutti i livelli, e soprattutto a quello submicroscopico e molecolare, dimostra ad abbondanza che le strutture sono il mezzo, perfezionato dall'evoluzione, col quale si realizzano le funzioni, dalle reattività molecolari (enzimatiche, ormonali, secretive, neurotrasmettitrici, anticorpali, ecc.) a quelle integrate delle cellule, dei tessuti e degli organi. Così si può e si deve dire che la funzione è la struttura nel tempo. Tuttavia, nella pratica, avviene che una certa p., per es. del cuore, di certi aspetti del metabolismo, del sistema endocrino e soprattutto del sistema nervoso (che è il sistema più complesso e meno conosciuto), non abbia un riscontro documentabile, o non lo abbia provvisoriamente, come alterazione di determinate strutture. Allora rimane d'uso il termine di p. funzionale, di lesioni solo funzionali: ma c'è certamente un livello dell'analisi possibile nel quale si può constatare l'impegno strutturale. Del resto, a livello molecolare, che è quello che più interessa per tracciare la storia dell'evento patologico, struttura delle molecole e loro reattività fanno tutt'uno.

Tale storia dell'evento patologico (e delle sue conseguenze, anche lontane) è detta patogenesi, mentre con etiologia si designa l'insieme delle cause che provocano l'evento patologico. Da quanto detto prima, la patogenesi è sempre molteplice (talora estremamente complessa) per le risposte e le interazioni omeostatiche con le quali l'organismo tende a limitare il processo patologico; ma anche l'etiologia non è semplice, o per lo meno non lo è sempre: talora, come nel caso delle grandi e violente epidemie, nelle morti improvvise da traumi, da emorragie, in certi avvelenamenti, ecc., la causa patologica è unica e semplice; ma più spesso l'ammalarsi è invece il risultato di diversi fattori tra loro in sinergismo o in contrasto, i quali finiscono per realizzare la malattia. Tale insieme di fattori causali è detto costellazione etiologica.

Da quanto ora esposto non è difficile concludere che anche la fenomenologia patologica, tutta permeata dalle interazioni omeostatiche (salvo i casi prima citati d'insidia improvvisa e incompatibile con la vita), non può non essere essa stessa frutto di operazioni omeostatiche relative agli equilibri dinamici appunto spostati nella malattia: la p. allora non è che l'altra faccia della fisiologia, e ciò si lega bene con la persuasione che il mondo dei viventi, proprio per come sono essi costruiti, è accompagnato inevitabilmente dalla malattia come dalla senescenza e dalla morte, condizioni stesse dell'evoluzione. Il processo omeostatico che vige nell'accadere patologico, e che crea un equilibrio in varia misura spostato rispetto a quello fisiologico, o porta alla guarigione completa (ritorno totale all'equilibrio fisiologico) oppure si arresta a un nuovo equilibrio, molto spesso menomato rispetto a quello di partenza; ma talora il nuovo equilibrio rappresenta invece il costituirsi di una memoria dell'evento patologico, onde l'organismo viene in seguito a trovarsi più preparato e più difeso di prima: è il caso delle malattie (per es. infettive) che lasciano immunità per maggiore resistenza acquisita e produzione duratura di anticorpi. Essendo l'organismo una macchina a livelli omeostatici diversi (tessuti, organi, apparati) tra loro gerarchicamente dipendenti, il risultato finale della guarigione più o meno parziale dipenderà da come la fenomenologia patologica ha intaccato la dipendenza gerarchica del settore colpito, e da questo dipenderà anche la maggiore o minore disponibilità a un nuovo, similare processo patologico.

Quanto sopra esposto riassume i lineamenti primi ed elementari di una p. generale. L'aspetto che ha assunto questa disciplina nel corso dei secoli era ed è il risultato del modo di vedere e interpretare la macchina organismica: dal Settecento, cioè dall'epoca di Morgagni, che era quella del primo consapevole contatto visivo con le alterazioni macroscopiche dell'anatomia patologica, si è passati nell'Ottocento, con il perfezionamento del microscopio, a descrizioni più minute, cioè a una p. cellulare (R. Virchow), la quale poteva anche pretendere di possedere elementi sufficientemente minuziosi da permettere una ricostruzione patogenetica dei vari fenomeni patologici. Ciò di fatto avvenne per una buona misura, ma col difetto di non valutare che già la cellula − come oggi si sa − è di per sé un universo fenomenologico, e che d'altronde l'organismo non era e non è la somma delle sue cellule, ma un complesso sistema integrato.

Lo sviluppo immenso che nel Novecento hanno avuto la biochimica, la biochimica cellulare e molecolare, l'enzimologia e l'immunologia ha reso possibile un reale approfondimento degli eventi patogenetici fino ai loro meccanismi molecolari, e quindi arrivando agli ingranaggi più semplici con la ricerca della cosiddetta lesione biochimica. Tuttavia rimane ancora il difficile problema di risalire tutta la gerarchia dei fenomeni per spiegarci molti dei modi della p. dell'organismo integrato e quindi in definitiva dell'ammalato. Accanto all'indagine minuta e molecolare dei fenomeni di base si possono oggi utilizzare tecniche speciali per studiare i risultati delle alterazioni intervenute mediante analisi a organismo integro o quasi integro, come le analisi radiologiche mirate, l'analisi della risonanza magnetica nucleare, le derivazioni elettrofisiologiche, le prove di funzionalità.

Fin dalle prime constatazioni analitiche sulla varia natura dei processi patologici fu nota ai vecchi patologi la distinzione esistente tra processi regressivi e processi progressivi, spesso succedentisi temporalmente o anche coesistenti in una stessa complessa situazione.

Sono fenomeni regressivi tutti quelli caratterizzati da una tendenza alla omogeneizzazione dei processi metabolici delle cellule, con un indirizzo monotono, il quale, appunto perché tale, finisce per arrivare presto a un punto di non ritorno in cui i processi biochimici residui non sono più accompagnati da immagazzinamento di energia, che serve a mantenere un minimo di omeostasi; all'opposto essa non solo diminuisce, ma viene anche dispersa senza utilizzo e segna l'anticamera della morte cellulare. Anche sul piano morfologico la cellula può apparire rigonfia, ma omogenea o sede di accumuli metabolici vari, che è il quadro definito dai classici come degenerazione. Apparirà ovvio che questo risultato che prima, in mancanza di un'analisi biochimico-metabolica, veniva considerato espressione caratterizzante la p. cellulare, era in realtà il punto di arrivo di processi antecedenti differenziati, molti dei quali ancora oggi oscuri; in effetti, divenne chiaro che allo stesso epifenomeno degenerativo si poteva giungere da noxae anche molto diverse. Sul piano tessutale fenomeni regressivi si manifestano per es. con ipotrofia o atrofia, quando vi è solo diminuzione volumetrica degli elementi costitutivi (cellule, fibre), o ipoplasia, quando vi è diminuzione anche numerica di quegli elementi: ciò accade specialmente per quei tessuti in cui la popolazione cellulare è in continuo equilibrio moltiplicativo. Ma molto spesso i due aspetti coesistono. Sul piano degli apparati e dei sistemi i fenomeni regressivi si traducono in deficienza o incapacità funzionale, ma naturalmente qui assumono caratteri molto specifici che invece non sono rintracciabili ai livelli assai più elementari della gerarchia organismica. Le cause dei fenomeni regressivi sono notevolmente varie, dai fattori esterni fisici e chimici lesionanti alle carenze nutritive generali o a un diminuito apporto di sangue attraverso le arterie (per lesioni di queste o per insufficienze di cuore).

Fenomeni progressivi sono invece quelli in cui è aumentata la vivacità e il ritmo delle operazioni metaboliche, le cellule appaiono ben differenziate con tutti i loro organuli in attività e in particolare il nucleo. Si ha allora il quadro della ipertrofia, in cui vi è aumento volumetrico delle cellule e dei tessuti, ma senza aumento numerico della popolazione cellulare, chiamandosi invece iperplasia quando v'è anche aumento numerico: va da sé che ipertrofia o iperplasia possono anche essere fisiologiche, quando sono il normale frutto di una stimolazione, per es. ormonica (la mammella in gravidanza); e anche atrofia o ipoplasia possono essere fisiologiche, per es. degli organi genitali in menopausa. Vi sono due aspetti molto caratteristici dei fenomeni progressivi: quello della rigenerazione e quello dell'infiammazione o flogosi (v.infiammazione, in questa Appendice). Le cellule e i tessuti, in certi animali perfino gli organi interi, possono rigenerarsi, sempre per quella omeostasi organismica che tende a riprodurre se stessa. Il fenomeno è chiaro nel regno vegetale e negli animali inferiori; nell'uomo è limitato ad alcune rigenerazioni soltanto, per es. dell'epidermide e annessi, ma non di altri tessuti, meno fra tutti del tessuto nervoso. Una ferita o l'asportazione di una parte può ripararsi per sola rigenerazione: ma il processo è abbastanza lento e corre sempre il pericolo di essere sopravanzato dall'ingresso nefasto di un'infezione dalla porta d'ingresso della ferita o dell'amputazione. È così che negli animali superiori e nell'uomo più veloce e protettiva della rigenerazione è in molti casi l'infiammazione, processo complesso di mobilitazione vascolare e cellulare che chiude rapidamente e definitivamente la ferita. Ma processi infiammatori si determinano anche per lesioni o stimoli interni, per es. attorno alle colonizzazioni microbiche. Infiammazioni di grande mole sono di regola accompagnate dalla febbre, che pure è da considerarsi, negli omeotermi, un fenomeno patologico progressivo.

Le neoplasie sia benigne sia maligne escono fuori da questo schema, poiché rappresentano, specie le maligne, popolazioni cellulari che vivono e si moltiplicano in modo anarchico, proprio perché gradualmente o subitamente perdono ogni legame omeostatico con il resto dell'organismo e anzi finiscono per colonizzarlo e quindi ucciderlo; esse ben presto nella loro rapida evoluzione non rispettano più nemmeno un'omeostasi tra loro stesse, occupate solo a crescere numericamente: appare evidente che qui l'elemento patologico e patogenetico (a parte l'etiologia scatenante, che può essere assai varia) è lo svincolo da ogni controllo sulla funzione riproduttiva che ha la sua primaria sede nel nucleo cellulare. A proposito del nucleo cellulare e del suo DNA, non può far meraviglia che vi sia una p. direttamente e primariamente legata ad alterazioni, ereditabili o no, del genoma, a parte le neoplasie.

Le conoscenze attuali sulle leggi e i meccanismi genetici hanno fatto aumentare moltissimo il numero delle malattie in varia guisa ereditabili, anche se esse sono per lo più assai rare, o i tratti di natura genetica in molte sindromi peraltro acquisite. Questo quando l'alterazione genomica è presente nelle cellule germinali. Ma c'è anche tutto il settore delle alterazioni epigenetiche del genoma cellulare, cioè quelle che si possono verificare dopo la fecondazione, a cominciare dallo sviluppo embrionale, e che sono causa di malformazioni strutturali e funzionali, spesso presenti fin dalla nascita, ma naturalmente non trasmissibili. In fondo, anche i tumori potrebbero rientrare in questa categoria, poiché v'è in qualche modo in essi un'alterazione del genoma e della sua espressività, ma nella maggior parte dei casi questa lesione richiede il concorso di fattori esterni, ambientali, fisici, chimici, virali.

Apparirà evidente come una comprensione volta a volta unitaria di tutti i complessi rapporti nella reattività fenotipica nella creazione della malattia, e cioè ai fini di chiarire sempre l'iter patogenetico, rimanga difficile ancor oggi, poiché ancora ci sfugge la logica del vivente che non è una logica lineare e soprattutto non segue il semplice sommarsi algebrico degli eventi di base e di quelli gerarchicamente di maggior livello. Un primo chiarimento diviene quello di distinguere, quando esiste, un elemento etiologico ambientale, per poi passare all'esame delle conseguenze e delle risposte al livello organismico. Questo era il maggior compito dello studio delle malattie infettive, che una volta costituivano una gran parte della p., mentre oggi, in particolare negli adulti della specie umana, sono molto ridotte; ma anche nel campo delle malattie a etiologia infettiva rimane essenziale il contributo etiopatogenetico dell'organismo infettato. Sulle malattie infettive, oggi in buona parte del mondo industrializzato debellate a opera di pratiche vaccinali preventive e terapeutiche e per effetto di più razionale igiene, prevalgono ora le malattie degenerative, cioè quelle caratterizzate dal venir meno, in alcuni settori, dell'omeostasi interna e della sorveglianza immunitaria, e quelle dovute al modo di vita e alle consuetudini alimentari: malattie del ricambio, arteriosclerosi, malattie degenerative miocardiche, invadenza delle ipersensibilità allergiche, e altre. Ma altre malattie virali sorgono o si diffondono oggi invece delle batteriche di un tempo, com'è per es. il caso a tutti noto dell'AIDS, dovuto a un retrovirus.

Un altro grande problema è oggi quello dei tumori maligni: pur essendo stato scoperto che essi, almeno in grande misura, dipendono anche da un materiale di origine virale che si alloga nelle strutture genomiche delle cellule, rimane vero che la loro etiopatogenesi, cioè l'occasione e il mezzo con cui si manifesta fenotipicamente la neoplasia, dipende molto spesso da fattori aggiuntivi: quelli già noti, per es. ormonali, ma anche altri molto importanti ecologicamente, perché provenienti dai veleni industriali o da agenti fisici, radiazioni, ecc.

La minore incidenza delle comuni malattie infettive, la maggiore efficienza delle norme igieniche e la disciplina del lavoro nel mondo industrializzato hanno fatto salire l'età media e arricchire le popolazioni di anziani. Anche per questo cresce l'incidenza delle malattie degenerative, cardiovascolari e neoplastiche, insieme al complicarsi dei relativi problemi sociali che il fenomeno comporta.

Una particolare trattazione meriterebbe la p. del sistema nervoso: in quanto composto da organi determinati e specifici, esso è sottoposto a tutte le esperienze patologiche, infiammatorie, degenerative e neoplastiche che si verificano altrove; ma le conseguenze sul suo funzionamento non possono non essere incommensurabili. La struttura-funzione del sistema nervoso è tale che le sue produzioni fisiologiche vanno dalle comuni reattività tessutali e di livello fisiologico elementare (alterazione o cessazione localistica di una determinata funzione, coinvolgente determinati nervi e determinati effettori, o ricettori, periferici) all'interessamento di quella più elevata e complessa funzione del sistema stesso che non è propriamente macchinale, ma trapassa in manifestazioni la cui genesi è difficile non solo da definire ma persino da immaginare, anche se le teorie e l'esperienza dei computer ci fanno dire con una certa arditezza che questo è l'esempio più vicino. La tendenza a voler risolvere tutto in termini di biologia e quindi di p. molecolare (e possibilmente di biologia molecolare genetica) spinge molti a trovare la ragione molecolare delle disfunzioni psichiche (la lesione biochimica di esse) anche quando taccia ogni reperto somatico quali quelli trovabili nelle anomalie genetiche che coinvolgono il sistema nervoso o associate a un tale coinvolgimento. La sublimità della fioritura psichica e mentale dalla fisiologia nervosa sottostante nella gerarchia del sistema non consente di ridurre tutto linearmente e piattamente al gioco delle membrane cellulari e delle molecole trasmettitrici di impulsi interneuronici, le quali cose rimangono alla base, certamente, ma come le regole grammaticali e sintattiche rispetto a un discorso filosofico o poetico. A questo livello, l'indagine di quel fisiologico fiorire e delle sue devianze patologiche − quando siano realmente patologiche, e non è sempre facile dimostrarlo − non è ancora oggi iniziata, ma certamente non potrà essere di biologia molecolare né di fisiologia elementare.

Bibl.: Biologia, a cura di B. Nicoletti, G. Chieffi e B. Baccetti, Bologna 1984; M. Aloisi, Trattato di patologia generale, Torino 1986-88; A.C. Guyton, Trattato di fisiologia, Padova 1987.

Patologia iatrogena. - Per p. iatrogena s'intende in generale qualunque effetto deleterio sull'organismo umano derivante da un procedimento diagnostico o da un provvedimento terapeutico. Si tratta di una vasta gamma di eventi morbosi, che comprende le reazioni indesiderate da farmaci e da prodotti biologici, le complicanze secondarie a procedimenti diagnostici e terapeutici, a interventi chirurgici e a terapia radiante. Uno dei problemi più gravi con cui si è dovuta confrontare la pratica medica di tutti i tempi è infatti l'eventualità di procurare danno al paziente. Questo rischio, che già Ippocrate aveva ben presente (primum non nocere), è tuttora in continua espansione, principalmente per la diffusione di farmaci sempre più potenti. I casi di riscontro più frequente sono infatti dovuti a effetti indesiderati da farmaci, che secondo recenti casistiche statunitensi si osservano nel 10÷20% dei pazienti ospedalizzati e nel 2÷5% dei pazienti ambulatoriali. Questo tipo di reazioni si manifesta nella grande parte dei casi in seguito all'assunzione di un ristretto gruppo di farmaci di uso frequente.

Sono ben note al medico le reazioni allergiche agli antibiotici beta-lattamici (penicillina e cefalosporine), le lesioni gastriche da acido acetilsalicilico (la comune aspirina), la tossicità epatica e midollare da acetaminofen, le alterazioni idroelettrolitiche da diuretici, il maggior rischio di incidenti tromboembolici e di calcolosi biliare associato all'uso di contraccettivi orali. Un classico esempio di p. iatrogena è costituito dalla sindrome di Cushing secondaria all'assunzione protratta di corticosteroidi, caratterizzata da caratteristiche modificazioni della distribuzione del grasso sottocutaneo (obesità centripeta), irsutismo, osteoporosi, fragilità vascolare, iperglicemia, dislipidemia, lesioni gastrointestinali, alterazioni oculari (cataratta e glaucoma), e alterazioni del comportamento fino a veri e propri quadri psicotici.

Di fronte a conseguenze potenzialmente così gravi, è chiaro che notevole è la responsabilità del medico nel decidere d'intraprendere trattamenti così impegnativi per il paziente. Moltissimi procedimenti medici, sia diagnostici che terapeutici, sono potenzialmente lesivi; d'altra parte, sarebbe impossibile trarre vantaggio da molti benefici della medicina moderna senza mettere in conto i possibili rischi. Un approccio ragionevole consiste nell'attenta valutazione dei benefici e dei rischi da parte del medico, concludendo su basi razionali se il procedimento in questione sia comunque consigliabile per il miglioramento delle condizioni del paziente o per la guarigione della malattia.

Per es., il trattamento prolungato con corticosteroidi del lupus eritematoso sistemico, una grave malattia del tessuto connettivo, finisce inevitabilmente per produrre una sindrome di Cushing, ma in genere gli effetti positivi del trattamento superano gli inconvenienti legati alla p. iatrogena. Più difficilmente giustificabile è che un evento grave si verifichi in conseguenza di trattamenti i cui reali vantaggi siano dubbi o quando il provvedimento terapeutico è eccessivo rispetto alla p. presentata. È il caso di reazioni allergiche gravi che si verifichino in seguito a terapia antibiotica somministrata per modeste sindromi simil-influenzali, o di emorragie gastriche secondarie all'uso di corticosteroidi per il trattamento di artralgie banali.

Va tenuto peraltro presente che la p. iatrogena non è necessariamente causata da un sanitario, ma che, dato il consumo sempre maggiore di farmaci da banco acquistabili dal comune cittadino senza ricetta medica, essa è spesso conseguenza di un'erronea autosomministrazione senza cognizione dei rischi ai quali ci si espone. È il caso del paziente colpito da grave emorragia gastrica per avere assunto acido acetilsalicilico con l'intento di alleviare una sintomatologia dolorosa addominale legata a lesioni delle prime vie digestive. I fattori che maggiormente predispongono a soffrire di effetti indesiderati da farmaci sono l'età avanzata, il sesso femminile, la presenza di una grave malattia, le disfunzioni degli organi deputati all'eliminazione dei farmaci dall'organismo (fegato e rene) e l'assunzione contemporanea di più farmaci con possibilità di interazioni nocive non sempre prevedibili.

La possibilità di prevenzione della p. iatrogena da farmaci è legata principalmente alla conoscenza dei loro possibili effetti collaterali e del grado di probabilità che essi insorgano. Tuttavia, l'immissione continua sul mercato di nuovi prodotti impedisce questa conoscenza corretta e inevitabilmente aumenta il rischio di reazioni indesiderate non note all'atto della commercializzazione. Infatti, nel corso dello sviluppo di un nuovo farmaco, non vengono generalmente classificati come effetti collaterali quelli che si manifestano con un'incidenza inferiore a un caso su mille. Inoltre, nella fase di messa a punto i farmaci vengono sperimentati su pazienti con p. ben caratterizzata, e non vengono solitamente somministrati a gestanti, bambini e anziani. Per questi motivi, alcuni effetti collaterali vengono scoperti solo dopo l'immissione nel mercato, quando il nuovo farmaco viene assunto da un numero sempre più elevato di individui con distribuzione statistica su tutte le età e in svariate condizioni fisiologiche e patologiche. Il problema è particolarmente delicato per le gestanti, come ha dimostrato la drammatica esperienza della talidomide negli anni Cinquanta.

Oltre ai farmaci, anche la somministrazione di derivati biologici può causare rilevanti effetti collaterali: appartengono a questa categoria le reazioni allergiche da somministrazione di proteine eterologhe e le insorgenze di epatite virale e di AIDS secondarie a trasfusioni di sangue infetto o a somministrazione di emoderivati. Molti procedimenti diagnostici e terapeutici che prevedono l'inserzione di aghi, cateteri o sonde possono provocare una p. iatrogena legata generalmente a lesioni meccaniche o infezioni. Nel caso di interventi chirurgici, le cause di possibile danno per il paziente sono legate non solo all'atto operatorio, ma anche agli effetti indesiderati degli anestetici. Un capitolo importante della p. iatrogena è infine costituito dalle complicanze della terapia radiante. Le radiazioni ionizzanti, efficaci nel trattamento di molti tumori maligni, possono causare ovviamente danni ai tessuti sani circostanti. Questo tipo di terapia richiede dunque un'attenta valutazione della dose di radiazioni necessaria e della sua distribuzione sulla superficie corporea.

Bibl.: Cecil-textbook of medicine, a cura di J.B. Wyngaarden e L. Smith, Filadelfia 1988; The principles and practice of medicine, a cura di Mg. Harvey, R.J. Johns, V.A. McKusick, A.H. Owens, R.S. Ross, Norwalk 1988; Farmacosorveglianza, a cura di G. Casadei e A. Silva, Milano 1989; Harrison's principles of internal medicine, a cura di E. Braunwald, K. Isselbacher, R.G. Petersdorf, J.D. Wilson, J.B. Martin e A.S. Fanci, New York 1990; P.P. Lamy, Adverse drug effects, in Clinics in geriatric medicine, 6, 2 (1990).

Patologia del linguaggio. - Lo studio delle afasie, cioè dei disordini del linguaggio dovuti a lesioni al cervello in parlanti adulti, costituisce un dominio fondamentale della neuropsicologia e rappresenta anche storicamente il punto di partenza per l'indagine sui correlati neurali della facoltà di linguaggio e in generale del comportamento umano. L'afasia può colpire le diverse componenti del processo linguistico: la comprensione del linguaggio parlato (disturbi recettivi); i livelli dell'organizzazione della frase (disturbi espressivi); gli aspetti ''periferici'' del linguaggio (disartrie e disturbi della produzione: velocità, ritmo, temporalizzazione della sequenza; Lenneberg 1971); i disturbi afasici determinano generalmente danni alla capacità di scrivere (agrafia) e di leggere (alessia). Circa le p. del linguaggio dei bambini possiamo parlare di afasia solo nel caso di menomazioni del linguaggio già sviluppato fino a quel momento. Diverso è il caso delle alterazioni e del ritardo nel normale sviluppo linguistico del bambino dovuti a processi morbosi dei due emisferi (afasia di sviluppo o disfasia congenita), a cui molti neurologi rifiutano lo status di afasie. Peraltro, come sottolinea Sabbadini (1968), le disfasie, in quanto disturbi ''centrali'' del linguaggio, presentano strette affinità con l'afasia degli adulti per ciò che riguarda le caratteristiche del disturbo (espressivo vs recettivo) e per la sua specificità. I modelli di tipo neuroanatomico implicano la correlazione selettiva di complessi di sintomi (anomalia nel linguaggio espressivo e/o recettivo) a specifiche porzioni del cervello (Pizzamiglio 1968; Geschwind 1978; Vignolo 1978), associando i disturbi espressivi (afasia motoria) a lesioni alle regioni motorie (area di Broca) e quelli recettivi (afasia sensoriale) a lesioni alle regioni sensorie (area di Wernicke) del cervello (v. figura).

Tale correlazione, per quanto oggetto di numerose critiche, porta tuttavia a una classificazione corrente dei disordini afasici. Nell'afasia motoria la comprensione risulta relativamente integra, mentre l'espressione linguistica presenta anomalie di diversa intensità e relative a diversi aspetti del sistema linguistico: disturbi dell'articolazione (sindrome di disintegrazione fonemica), sillabazione e ridotta fluidità dell'eloquio, riduzione drastica degli elementi funzionali della frase (agrammatismo). La ripetizione è generalmente compromessa. Lettura e scrittura presentano alterazioni corrispondenti. Nelle afasie di tipo sensoriale il danno più specifico consiste nella difficoltà di comprensione dei messaggi linguistici; inoltre a questo sintomo si accompagna sempre un'espressione linguistica fluente, ma con anomalie che la rendono generalmente priva di significato. Nei casi più gravi gli enunciati di questi afasici consistono in sequenze di parole e di elementi gergali, di neoformazioni (neologismi) e di parafasie (per es. l'uso scorretto degli elementi funzionali [paragrammatismo]). Le abilità di lettura e scrittura presentano deficit corrispondenti alla natura dei danni del linguaggio orale.

Con gli stessi criteri sono individuate anche altre sindromi: l'afasia motoria transcorticale (compromissione specifica dell'iniziativa linguistica), l'afasia di conduzione (inibizione specifica della ripetizione), l'afasia transcorticale sensoriale (danno nella comprensione accompagnato da parafasie nell'espressione). Infine, vengono collegate a danni della regione temporoparietale sinistra, e quindi in sostanza con le funzioni di riconoscimento delle unità linguistiche, altre sindromi di tipo recettivo, come l'afasia amnestica e l'alessia con agrafia (Vignolo 1978; per un approccio complessivo alle alessie, v. Sartori 1984). L'alessia pura senza agrafia, i cui correlati autoptici sono stati descritti per la prima volta da Dejerine (1892), risulterebbe dall'incapacità del paziente di associare le informazioni visive con i centri del linguaggio a causa di danni alla corteccia visiva dell'emisfero sinistro.

A titolo di esempio diamo due campioni di linguaggio afasico prodotti da due pazienti nel corso di un test di valutazione della menomazione afasica come risposta alla domanda ''Descriva come si fa la barba''. Afasico di Broca: "Ah... il pennello... la barba radere... radere, radere, così ogni giorno... se alzare poi il pennello e la saponata. Poi mi lavo con acqua e... la saponata va via"; afasico di Wernicke: "Sì questa sera quando faccio la barba accendo ca cosa... accosa questa giù e fegnendo la nessa... che mi esce questa cosa che so proprio fare due volte" (da una ricerca di tesi condotta presso l'Ospedale di S. Chiara di Pisa).

Usualmente si fa risalire la neurologia dei processi cognitivi alle ricerche di P. Broca su pazienti con disturbi linguistici acquisiti. Occorre notare che l'opera di Broca s'inscrive in un quadro culturale e scientifico dominato dalle idee della scuola frenologica di F. Gall, il cui assunto fondamentale era la localizzazione delle facoltà superiori in porzioni specifiche del cervello (Caplan 1987). Così, l'esame autoptico del cervello del suo primo paziente afasico indusse Broca a confermare la localizzazione nei lobi frontali della facoltà di linguaggio, anche se egli introdusse molti elementi di novità nella ricerca in campo neurologico: il dettaglio dell'indagine anatomica, il formulare ipotesi sulla base di dati, l'osservazione che la localizzazione di specifiche funzioni cognitive riguarda le circonvoluzioni della corteccia cerebrale. In effetti gli scritti che illustrano i risultati delle sue ricerche (Broca 1861a, 1861b, 1865) stabilirono per la prima volta con criteri scientifici il rapporto tra sindromi afasiche e il danneggiamento di un'area specifica della corteccia cerebrale, cioè il piede della terza circonvoluzione frontale sinistra. È comunque il lavoro Der aphasische Symptomencomplex (1874), di K. Wernicke, che delinea il quadro teorico della neurologia dei processi afasici a cui si riconnette tutta la tradizione di studi di afasiologia clinica fino ai nostri giorni. Wernicke mise in rapporto disordini linguistici di tipo diverso con specifiche aree del cervello, differenziando accanto alla sindrome di Broca casi di pazienti che presentavano sintomi opposti (difficoltà di comprensione del linguaggio e una produzione linguistica fluente ma con forti anomalie che la rendevano priva di senso) correlati a un danno nella regione temporale sinistra (primo giro temporale sinistro). Tale area, contigua all'area corticale acustica, era ritenuta direttamente coinvolta nell'elaborazione dell'informazione sensoriale (Caplan 1987). In realtà Wernicke configura un modello della facoltà di linguaggio sufficientemente elaborato per rendere conto delle funzioni linguistiche fondamentali e dei disturbi corrispondenti, basato sulla nozione di flusso d'informazione. In questo modello il processo linguistico coinvolge componenti neurologici diversi che interagiscono attraverso il passaggio del flusso d'informazione dall'area temporale, sede delle rappresentazioni uditive, a quella frontale, sede delle rappresentazioni motorie delle parole, attraverso la regione cerebrale intermedia che permette l'associazione dell'informazione uditiva con quella sensoria. Le funzioni complesse dipenderebbero quindi dalla connessione di più componenti del cervello, sulla base di uno schema concettuale di tipo associazionistico. Proprio l'integrazione dei fenomeni dell'afasia in un modello globale delle caratteristiche neurologiche del normale processo linguistico permise di predire un terzo tipo di afasia, successivamente riscontrato, cioè l'afasia di conduzione, correlata a un danno dell'area intermedia (buona comprensione combinata a un'espressione fluente con parafasie). Il modello ''connessionista'' delineato da Wernicke venne successivamente perfezionato ad opera di Lichteim (1885), che sostenne la rilevanza di un componente neurale preposto alla concettualizzazione, ed è tuttora quello prevalente in ambito neurologico (Geschwind 1978).

Questa sistemazione presenta tuttavia vari punti deboli, in particolare nella visione fortemente semplificata del processo linguistico e dei suoi correlati neurologici (Lenneberg 1971): corrispondenza fra sintomi e localizzazione del danno cerebrale, selettività del disturbo (per es. sindromi diverse possono contenere uno stesso sintomo e, viceversa, sintomi diversi possono comparire in sindromi considerate analoghe), esistenza di tipologie afasiche difficilmente riconducibili al modello (Gainotti 1983; Caplan 1987). Per quanto riguarda la difficoltà a trattare un sistema cognitivo complesso come il linguaggio, è stato ampiamente notato che gli schemi associazionistici del connessionismo e dei modelli recenti da esso derivati (Benson e Geschwind 1971) fanno riferimento in maniera indistinta a ''facoltà'' linguistiche (produzione, comprensione, lettura, scrittura, denominazione, ripetizione), sulla base di un atteggiamento preteorico, intuitivo, verso le categorie del linguaggio. Infatti questi modelli, come anche quelli di tipo funzionalista basati sull'organizzazione dei flussi d'informazione fra componenti (Grodzinsky 1990), non sono in grado d'integrare proprio i risultati raggiunti dalla linguistica e dalla psicolinguistica nell'interpretazione della natura e dell'organizzazione dei sistemi linguistici.

Lo sviluppo degli studi sull'afasia ha fatto comunque tesoro dell'apporto della linguistica, almeno a partire da Jackson (1878), che fra l'altro identifica nella proposizione l'unità fondamentale del linguaggio e assegna un'organizzazione gerarchica alle categorie e alle funzioni linguistiche, integrando aspetti psicolinguistici e neurali. Durante il Novecento inoltre emergono approcci influenzati dai modelli olistici della psicologia della Gestalt che interpretano il linguaggio come una capacità intellettuale globale (scuola ''noetica''): per es. Goldstein (1948) spiega l'afasia in termini prevalentemente psicologici, come menomazione di un'attitudine astratta implicata dal linguaggio. A Jackson (1878) e ai modelli psicologici ''globali'' si collega l'interpretazione dei disturbi afasici come danni alle funzioni linguistiche individuate dallo strutturalismo formulata in Jakobson (1941). Queste categorie, per quanto esprimano relazioni di tipo superficiale, permettono di stabilire corrispondenze interessanti fra tipologie sintomatiche apparentemente diverse, rivelando una certa forza descrittiva. Proprio allo schema di Jakobson rinvia il modello neurolinguistico proposto da Lurija (1975). Tale modello, che si propone come una versione di connessionismo elaborata in un sistema complesso di componenti neurali, assume la distinzione jakobsoniana fra deficit dell'organizzazione sintagmatica e deficit dell'organizzazione paradigmatica. L'interazione fra teorizzazione linguistica e psicologia cognitiva ha determinato comunque negli ultimi decenni un approccio allo studio dell'afasia via via più illuminante e adeguato alla complessità dei dati. Occorre sottolineare che il combinarsi di queste diverse prospettive ha offerto alla linguistica importanti elementi di conoscenza tanto nel campo dei modelli teorici quanto in quello della comprensione dei processi di acquisizione e di cambiamento del linguaggio. Del resto, l'idea che l'analisi del linguaggio afasico e delle sue proprietà potesse influenzare la spiegazione linguistica appare già formulata con chiarezza in Baudouin de Courtenay (1972): "Lo studio del comportamento biologico abnorme (organico e linguistico) spiega i mutamenti normali che hanno luogo nel corso di generazioni".

Tuttavia sono gli scritti di Jakobson (1941) sull'interpretazione ''linguistica'' dell'afasia e dell'acquisizione del linguaggio a costituire la prima elaborazione di un modello complessivo dell'organizzazione e del funzionamento del linguaggio sulla base dei principi strutturali di distintività, similarità e contiguità. Centrale nella visione jakobsoniana è la gerarchia ''inversa'', che lega le leggi del processo di acquisizione alle modalità di manifestazione dell'afasia, accanto all'ipotesi che queste stesse leggi siano rispecchiate dalle condizioni del cambiamento linguistico. Si noti che il confronto tra afasia e processo di acquisizione è stato successivamente messo in discussione da approcci neuropsicologici più sofisticati (si vedano per es. le critiche in Lenneberg 1971 e in Caplan 1987), anche se una visione integrata delle forme ''devianti'' di linguaggio (afasia e acquisizione) sembra comunque poter offrire elementi d'interesse dal punto di vista teorico (Grodzinsky 1990).

Le ricerche recenti assumono generalmente che la comprensione dei fenomeni afasici debba risultare coerente con l'apparato teorico della linguistica e con i modelli di funzionamento del linguaggio normale (Caplan 1987). In effetti, l'estensione al dominio delle sindromi afasiche di categorie teoriche sufficientemente ricche sul piano concettuale permette di fare previsioni e d'individuare relazioni che a sistemazioni concettualmente più deboli sfuggirebbero (Rizzi 1985; Grodzinsky 1990). Un esempio interessante riguarda la relazione fra agrammatismo e paragrammatismo. Com'è noto, le proprietà morfosintattiche degli enunciati agrammatici determinate dall'omissione di elementi funzionali sono state considerate da Jakobson (1941) come un disturbo del rapporto di contiguità, cioè delle relazioni sintagmatiche. Peraltro alcuni modelli psicolinguistici recenti e le categorie della teoria generativa integrano un'interpretazione dettagliata di queste proprietà in una teoria del linguaggio. In particolare, anche se il disordine sintattico è ben noto nei suoi tratti essenziali, non appare semplice correlarlo in maniera adeguata a basi di principio. Così, si sono succedute proposte che coinvolgono livelli d'analisi parzialmente diversi. Una spiegazione che mette in gioco il rapporto fra informazione morfosintattica e fonologia è data in Kean (1977): essa attribuisce le proprietà dell'agrammatismo alla tendenza del paziente a utilizzare solo elementi che costituiscono parole fonologiche, escludendo quindi gli elementi clitici. In realtà questa discriminante può apparire adeguata in rapporto alle caratteristiche strutturali delle frasi di una lingua come l'inglese, ma fallisce per lingue con struttura flessiva ricca e/o con organizzazione morfologica diversa, per es. le lingue semitiche, con flessione interna (Grodzinsky 1990).

Altri autori correlano invece l'incapacità di usare gli elementi funzionali all'incapacità di mantenere separati gli elementi di classe chiusa (elementi funzionali) dagli elementi di classe aperta, e all'estensione generalizzata delle strategie di accesso sensibili alla frequenza (Bradley, Garrett e Zurif 1980). Un altro aspetto delle produzioni agrammatiche attentamente indagato è la maniera in cui la struttura sintattica realizza le relazioni semantiche: secondo alcuni ricercatori (Saffran, Schwartz e Marin 1980; Schwartz, Saffran e Marin 1980) la produzione e la comprensione di questi afasici dipende da una strategia di animatezza che governa la posizione dei nomi in rapporto al verbo, escludendo che nel linguaggio agrammatico trovi posto la valutazione dei ruoli tematici (agente, paziente, ecc.). In altre parole, questi afasici avrebbero perso le nozioni linguistiche corrispondenti. Peraltro, la revisione dei dati di Saffran e altri operata da Caplan (1987) induce a considerare operanti tre restrizioni − verbo all'attivo, nomi animati prima del verbo, nomi con ruolo tematico di agente o strumentale prima del verbo − che interagiscono nel determinare gli schemi sintattici agrammatici, incluse quindi considerazioni di ordine tematico. Poiché nell'agrammatismo, indipendentemente dal sistema morfosintattico interessato, risultano danneggiati (cancellati o ridotti) il sistema dell'accordo e gli elementi morfologici che esprimono le relazioni sintattiche, cioè il materiale non-lessicale (Grodzinsky 1990), alcuni autori (per es. Rizzi 1985) osservano che la teoria dei ruoli tematici in effetti interpreta le condizioni rilevanti dell'agrammatismo: sarebbero colpite le espressioni che ''non'' sono coinvolte nell'assegnazione delle relazioni tematiche della frase. Ora, questo quadro interpretativo può essere esteso (Caplan 1987) anche ai paragrammatismi (sindrome di Wernicke), trattando le caratteristiche morfosintattiche di questo disturbo come l'effetto di una cattiva selezione di unità non-lessicali, pur in presenza di una restrizione che esclude elementi fonologicamente nulli. In conclusione, una teorizzazione concettualmente sofisticata consente generalizzazioni su domini di fenomeni apparentemente non collegati.

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