PATERNO MONCADA D'ARAGONA, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PATERNO MONCADA D'ARAGONA, Antonio

Lina Scalisi

PATERNÒ MONCADA D’ARAGONA, Antonio. – Nacque a Palermo nel 1587 da Francesco II Moncada e Maria Aragona e La Cerda, figlia del duca di Montalto, che a sua volta aveva sposato la madre di Francesco, Aloisia Luna, vedova di Cesare Moncada.

La doppia alleanza si espresse, in maniera efficace, nel doppio cognome, segno della lealtà e riguardo che il casato Moncada proclamava verso gli Aragona, grandi di Spagna e che determinò un ragguardevole trasferimento di titoli, patrimoni e parentadi illustri, reso possibile solo dopo lunghe trattative con la corte spagnola consapevole della valenza politica ed economica delle due unioni. Il casato controllava, infatti, una vasta compagine territoriale: gli Stati feudali dei Moncada (il principato di Paternò, Adernò, Centorbi e Biancavilla, la baronia di Motta Santa Anastasia e la contea di Caltanissetta), i possedimenti e i territori degli Aragona-Cardona (la ducea di Montalto nel Regno di Napoli e la contea di Collesano, le Petralie, le baronie di Belici e San Filippo in Sicilia); e gli Stati che Aloisia aveva ricevuto nel 1584 dal fratellastro Giovanni Luna e La Cerda (la ducea di Bivona, Caltabellotta, Sclafani, le baronie di Castellammare, di Caltavuturo e numerosi altri feudi). Si trattò di una operazione condotta con maestria da Aloisia per il figlio che ella desiderava ai vertici della corte spagnola e che pure modificò allorché, nel 1592, il giovane principe morì di malaria. Una scomparsa prematura, alla quale Aloisia sopperì con la reggenza degli Stati e con la tutela dei nipoti-eredi, educati in una corte profondamente ispanizzata sia nei modi sia negli atteggiamenti.

Ma il successo pieno arrise solo quando, nel 1607, la famiglia si recò presso la corte madrilena dove rimase fino al 1613, intessendo e portando a compimento i matrimoni di Paternò e della sorella Luisa con i nipoti del duca di Lerma, il potente ministro di Filippo III. Antonio e Luisa sposarono, infatti, Giovanna La Cerda, figlia del cognato di Lerma, Giovanni La Cerda, VI duca di Medinaceli; ed Eugenio Manrique de Padilla, figlio del fratello della duchessa di Lerma, Mariana Manrique de Padilla. Sempre a Madrid, nel 1609 Paternò guadagnò ai Moncada l’ambita collana del Toson d’oro, desiderata dal padre Francesco, che vent’anni prima aveva commissionato un trattato sull’onorificenza a Giovanni Francesco Pugnatore (Origine del nobilissimo ordine del Tosone, Palermo 1590). Un successo preparato con cura da Aloisia poiché già dal 1595, la duchessa pagava a Madrid ‘salariati di nostra casa e famiglia’, e prima di partire dalla Sicilia, in accordo con il nipote, aveva affidato la gestione degli Stati a Vincenzo Giustiniani e Giovanni Carnisecchi per finanziare la ‘missione’ spagnola.

Paternò fu più pratico di politica che di amministrazione giacché il governo della nonna lo liberò per lungo tempo dalla fatica degli affari quotidiani, consentendogli di dedicarsi ad altri, interessanti negozi. Dalla Sicilia a Napoli, a Roma e a Madrid, fu così coinvolto nelle complesse attività diplomatiche della monarchia, riscuotendo vivo apprezzamento per le sue doti di mediatore. Lo testimonia il rammarico con cui il duca di Lerma accolse la notizia della sua partenza – quando già era nato il primo figlio e la duchessa era nuovamente incinta – e gli elogi rivoltigli per il contributo dato nelle trattative con i francesi dei quali conosceva bene pretese e inclinazioni.

D’altra parte, fin dal suo primo arrivo in Spagna, Paternò era stato tenuto in grande considerazione: il suo matrimonio e quello della sorella gli avevano permesso di entrare a pieno titolo nel gioco delle fazioni cortigiane, e di rafforzare una serie di legami personali e familiari con la grande aristocrazia spagnola. Il che volle dire condividere il sistema di titoli e di trattamenti riservati all’entourage regio, e coronare con successo il progetto di Aloisia, ovvero la proiezione del casato al di là degli oramai ristretti confini isolani. Ma, come è ovvio, la permanenza a Madrid costava molto. Si trattava di mostrare ai sovrani la liberalità dei grandi titolati, e per fare ciò i Moncada non lesinarono denari nei frequenti viaggi alla corte spagnola. Tra il 1607 – anno del matrimonio con la sedicenne Giovanna – e il 1613, i conti tenuti dal maggiordomo Geronimo Salazar, fedele criado nelle corti di Napoli, Sicilia e Spagna, documentano il fasto e la prodigalità richiesti dal teatro cortigiano.

L’attività diplomatica di Paternò si svolse tra Napoli e Madrid; fra gli ambienti gesuiti e la Curia pontificia, dove egli godeva la personale amicizia del cardinale Girolamo Colonna e del cardinale Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII; tra Caltanissetta e Palermo dove frequentava assiduamente l’arcivescovo Giannettino Doria, ma anche i parenti e sodali Settimo, Barresi, Branciforte, Ventimiglia. Spostamenti continui condotti insieme con la sua corte che nella penisola ebbe come punto di riferimento la dimora di Napoli, ricca di mobilio e arredi. Lì il duca soggiornava con i suoi criados più fedeli – Gaspare e Fabrizio Romano, Agostino Bonsignore – e lì conciliava la dimensione pubblica con le frequentazioni dei figli Francesco, Luigi, Ignazio, Marianna e Ferdinando.

Fu proprio a Napoli nel 1626, al rientro dalla Spagna – dove la fazione di Lerma aveva ceduto il passo al partito del conte-duca Olivares, mentre sullo scenario europeo cresceva l’ostilità con la Francia – che Paternò e la moglie Giovanna decisero l’abbandono dal mondo secolare, ponendo entrambi le loro vocazioni nel solco delle scelte religiose di famiglia; e sostituendo i legami della carne con quelli dell’anima. È noto che la duchessa scelse l’Ordine carmelitano e il duca quello gesuita, ma va rilevato come quest’ultima vocazione fu stimata dall’Ordine così impegnativa da richiedere prolungate trattative.

Le fonti recitano che la vocazione di Paternò fu improvvisa e determinata, ma certo essa non fu presa senza tenere conto delle ricadute. Prima di lasciare il secolo, il principe nominò suo erede universale il figlio Luigi Guglielmo – affidato alle cure di Carlo Agliata procuratore generale dei suoi Stati –, e ne programmò il matrimonio con María Afán de Ribera, figlia del duca di Alcalá Fernando con l’intento di consolidare l’integrazione della famiglia con la grande aristocrazia spagnola. L’abbandono del mondo non intaccò quindi il significato intrinseco di un ruolo che Paternò sentiva ancora come proprio, e la complessa dimensione di interessi e di ambizioni che tutto ciò comportava.

Risoluto a vivere la perfezione, la vita che Paternò condusse dal momento in cui scelse la religione fu tuttavia simile al passato: ininterrotti viaggi tra Roma, Napoli e la Sicilia, con i soli limiti impostigli dalla salute precaria. Certo, la sua corte fu meno numerosa di prima: l’assenza della duchessa e i viaggi ne ridussero la consistenza. Eppure fu sempre la corte di un grande nobile, dove la sobrietà andava di pari passo con l’eleganza e la raffinatezza e dove ebbero grande spazio la musica, lo svago preferito di Paternò, e i cavalli di razza, che egli considerava merce preziosa più di quadri, argenti e tessuti.

Fu solo dopo l’arrivo di Alcalá a Napoli in veste di viceré, che il peggioramento delle condizioni fisiche lo trattenne nella città. Un sacrificio alleviato dalla vicinanza al viceré – a lui legato da solida amicizia –, e a una corte oltremodo intrigante e affollata dei letterati inesauribilmente proposti dalle accademie del secolo; e degli artisti che da Roma, Madrid e Palermo arrivarono richiamati dalla fama di raffinato intenditore d’arte di Paternò, che presso la Curia pontificia aveva rivestito la carica di ambasciatore straordinario. I nomi sono quelli notati nelle fonti di artisti appartenenti allo splendore del barocco europeo: Artemisia Gentileschi, Diego Velàzquez, Bernardino Azzolino, Jusepe de Ribera (lo Spagnoletto).

Per Paternò, che dal 1629 aveva acquistato al casato la nuora María, «amatissima figlia», si trattò così di vedere crescere – di concerto alla maestosità degli Afán de Ribera – l’efficacia della sua politica matrimoniale; soprattutto per l’affetto che il duca mostrò per il giovane Luigi Guglielmo, che fece da subito partecipe degli affari di governo insieme con i suoi due figli, il legittimo erede marchese di Tarifa e il figlio naturale Ferdinando.

Fu con ogni probabilità la consapevolezza di questo legame che mosse Paternò ad affidare al viceré la guida morale del figlio nel momento in cui si apprestò a comunicare le sue ultime volontà e a riordinare le priorità dei suoi affetti; lascito morale che era, al tempo, testimonianza della qualità del legame tra i due capifamiglia. Paternò abbandonò così il mondo per entrare in perfetta comunione con quella Chiesa, dichiarata sua principale ricchezza.

Apparentemente dimentico del secolo, nondimeno egli fu attento al suo lascito materiale. La «disposizione di miei beni» di Paternò ebbe, infatti, come filo conduttore la divisione fra quanto egli ritenne giusto lasciare all’erede, quanto destinò alla moglie, che continuava a considerare tale, nonostante lo scioglimento papale del vincolo, agli altri figli, ai parenti, agli amici e ai suoi fedeli criados. Una straordinaria celebrazione della parentela e delle solidarietà – propria dei riti di passaggio e dei cerimoniali – il cui elemento centrale fu l’appartenenza al lignaggio e le relazioni personali. Ne sono prova, in particolare, i codicilli successivi all’atto rogato a Napoli dal notaio palermitano Andrea De Volva, in cui egli chiarì quanto dimenticato o trascurato: l’obbligo per il figlio Ignazio, qualora decidesse di scegliere il convento, di rinunciare a «vita et militia» e alla sua parte della dote materna; la libertà per i suoi schiavi; lasciti ai gesuiti di Napoli, Palermo e Caltanissetta; il destino della galera in Sicilia; e catene d’oro a cortigiani e amici, legati così per l’eternità ai destini del casato. Solo quando finì di elencare affetti e oggetti – anche il letto in cui giaceva morente e che destinò all’abate Antonino Castiglione a Palermo –, Paternò decise del suo ultimo avere: le spoglie terrene che affidò ai padri gesuiti affinché fossero inumate presso la Casa professa di Napoli.

Paternò morì a Napoli il 15 aprile 1631.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Palermo, Archivio Moncada, voll. 1937, 2742, 2753, 3249, 3250; A. Cingale, Epithalamium in nuptias Francisci Moncatae paternionis principis et Mariae Aragonae Montalti ducis, Palermo 1584; G.A. Della Lengueglia, I ritratti della prosapia et heroi Moncadi, Valenza 1657, pp. 626-669; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, II, Palermo 1924, pp. 97 s.; J. Gonzáles Moreno, Don Fernando Enríquez de Ribera, tercer duque de Alcalá de los Gazules (1583-1637), Sevilla 1969, passim; A. Marrone, Bivona città feudale, I, Caltanissetta-Roma 1987, passim; F. Benigno, L’ombra del Rey. Ministri e la lotta politica nella Spagna del Seicento, Venezia 1992, pp. 54 ss.; V. Abbate, Due opere un contesto, in Pittura e mito: due acquisizioni per Palazzo Abatellis, a cura di V. Abbate, Palermo 2006, pp. 13-52; L. Scalisi - R.L. Foti, Il governo dei Moncada (1569-1672), in La Sicilia dei Moncada. Le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, a cura di L. Scalisi, Catania 2006, 35-37; L. Scalisi, Giovanni Agostino Della Lengueglia: l’artefice e i suoi Heroi, ibid., pp. 62-64; M.R. De Luca, Musica e musici alla corte dei Moncada, ibid., pp. 188-190; R. Pilo Gallisai, Gli esordi della carriera di un ministro della monarquía católica: Luigi Guglielmo Moncada e il governo della Sicilia (1635-1639), Caltanissetta-Roma 2008, passim.

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