Passione

Dizionario di filosofia (2009)

passione


Termine filosofico, corrispondente al gr. πάϑος, che in generale designa lo stato di «sofferenza» o «passività» (da πάσχειν, «subire, soffrire»), e in partic. si riferisce all’esperienza spirituale nella quale l’animo si sente dominato e soggiogato dalla tendenza affettiva, pratica.

Il pensiero antico

Platone postula un contrasto radicale tra ragione e p.; egli colloca infatti le passioni nell’anima concupiscibile (posta nel ventre) e in quella irascibile (situata nel fegato), affidando all’anima razionale, che ha sede nella testa, il compito di disciplinare e guidare le azioni umane. In Aristotele, p. è una «perturbazione delle parti inferiori dell’anima connessa agli organi corporei» (De anima, I, 403 a e segg.) e come tale capace di estendersi anche al corpo. Come giusta medietà tra le opposte tendenze estreme (la quale quindi non esclude il loro contenuto passionale, ma lo misura e regola), Aristotele definisce la virtù etica. La teoria filosofica delle p. si definisce con maggiore precisione con lo stoicismo, che, sviluppando gli analoghi motivi del cinismo, considera tutto il mondo affettivo come una sorta di legame, per cui l’animo subisce la schiavitù delle cose: il problema morale si presenta quindi come problema della vittoria sulle p., e della conseguente restaurazione dell’impassibilità autarchica o «apatia» (➔). P. originarie e fondamentali sono, nello stoicismo classico, il piacere e il dolore, il desiderio e la paura (I frammenti degli stoici antichi, III, 378): le prime due relative al presente e le altre due al futuro, rispettivamente nei riguardi di ciò che si sente buono o cattivo, cioè degno di essere conquistato o di essere fuggito. Già nel pensiero classico si delinea così l’antitesi, che resta poi fondamentale nella dottrina delle p., tra la concezione che scorge in esse solo negatività e passività, che l’azione morale deve quindi escludere, e quella che le considera invece coessenziali all’attività pratica, anche nella sua forma etica. Nel cristianesimo coesistono valutazioni diverse delle p.: se da un lato esso inclina a un’etica ascetica che tende a eliminare le p., dall’altro porta anche a una nuova valutazione del mondo umano che può offrire i presupposti per una considerazione positiva delle p., là dove esse non contrastino con i fondamenti dell’etica evangelica.

La concezione di Cartesio e di Spinoza

Un contributo fondamentale all’indagine filosofica sul tema della p. sarà dato nell’età moderna da Cartesio e da Spinoza. Nel trattato Le passioni dell’anima (1649) Cartesio afferma l’insopprimibilità delle p., distinguendo tra quelle che per loro natura sono intrinsecamente buone, e il loro cattivo uso ed eccesso, che soli costituiscono l’inconveniente morale contro il quale mettere in atto i ‘rimedi’ della virtù. Le p., al pari delle azioni (atti di volontà) appartengono all’anima come res cogitans, rientrando quindi nell’esercizio delle libertà e della razionalità. Cartesio classifica le p. tra le percezioni, in quanto, a differenza degli atti volitivi, sono subite; al contrario delle idee, inoltre, non rappresentano oggetti esterni, e diversamente da altri modi di sentire, come la fame o la sete, non ineriscono al corpo ma all’anima; esse sono affezioni dell’Io, ma non sono causate dall’Io, bensì dagli spiriti animali del corpo. L’anima non è quindi padrona delle proprie p., che non possono essere eccitate o soppresse da un semplice atto di volontà, ma può assicurarsi un dominio indiretto su di esse mediante la costruzione di un habitus comportamentale ispirato alla razionalità. La forza e la debolezza d’animo consistono rispettivamente nella capacità di opporre alle p. «giudizi saldi e precisi circa la conoscenza del bene e del male», o viceversa nel lasciarsi trascinare da opposte p., sino a rendere l’anima «schiava e infelice». Ogni anima, se ben indirizzata, può acquistare così un dominio assoluto sulle passioni. Spinoza, dal canto suo, afferma il valore universale dell’affectus (la p. in generale, come tendenza di ogni essere a perseverare nel suo stato), in quanto nella sua concezione ogni vita cosciente è sempre cupiditas, «desiderio», e insieme laetitia o tristitia, a seconda che essa avverta la propria esperienza come favorevole o sfavorevole per il suo vivere e agire. Il desiderio è costitutivo dell’uomo, che viene costantemente spinto da esso verso il futuro. Tristezza e gioia sono invece p. per le quali la mente trascorre, rispettivamente, a una minore o maggiore «potenza di esistere». L’affectus (diverso, in Spinoza, dall’affectio, equivalente al modus, cioè alla particolare determinazione di ciascun attributo della realtà; e del resto già l’antico termine πάϑος aveva avuto talora il significato di accidens) si distingue d’altronde in actio e passio, a seconda che l’esperienza affettiva presenti carattere di attività o di passività. Actio è soltanto quando risponde a un’idea «adeguata» (Ethica, post., 1677, III, 3), in cui la mens manifesta la sua piena attività conoscitiva: l’affetto veramente attivo è quindi quello che risponde all’idea, assolutamente adeguata, dell’unica natura delle cose, e cioè l’amor Dei intellectualis. Così Spinoza concepisce come attività affettiva suprema la stessa vita etica, in grado di superare gli affetti passionali. Egli rifiuta quindi una considerazione moralistica delle p. umane. La p. fa parte della natura quanto la ragione. Se è vero che l’uomo è tanto più virtuoso quanto più si conduce secondo ragione, condursi secondo ragione significa conoscere la natura umana ed esaltare ciò che aumenta la felicità e la potenza, compresi gli affetti. L’idea morale di Spinoza non è dunque l’atarassia (➔), l’annullamento della vita emotiva, bensì la predominanza degli affetti attivi sulle passioni.

Dai moralisti a Freud

L’idea che la p. sia la forza che una intensa emozione esercita sull’animo, indirizzando completamente il comportamento dell’uomo, senza possibilità di sottrarsi al suo potere trascinante, si afferma in partic. con i moralisti dei secc. 17° e 18°. Presente in Pascal, essa si mostra nel graffiante cinismo sotteso alle Massime (1665) di La Rochefoucauld, in cui la resistenza alle p. viene presentata come obiettivo irraggiungibile (a meno di non aver a che fare con una p. veramente debole), e la durata delle p., come quella della nostra vita, viene sottratta al dominio dell’uomo. A Kant si deve uno dei primi, chiari tentativi di operare una distinzione tra emozione e passione. Nello scritto Antropologia pragmatica (1798) l’emozione è infatti riportata a esperienze di piacere e dispiacere che impediscono al soggetto di riflettere e, in tal senso, rientra nella sfera del sentimento; la p., viceversa, è da ascrivere alla facoltà di desiderare, in quanto rinvia alle inclinazioni o ai desideri sensibili naturali, nella misura in cui una singola inclinazione acquista forza sufficiente a esercitare un dominio totale e profondo su tutta la personalità dell’individuo. Kant rigetta ogni esaltazione della p. per il pericolo che essa rappresenta per la scelta razionale e per la libertà morale dell’uomo. L’idea che la p. non sia un’emozione, ma il dominio assoluto di uno stato affettivo sulla personalità nella sua totalità viene ripreso dalla filosofia romantica, che però capovolge il giudizio negativo espresso da Kant. Così per Hegel nella p. «l’intera soggettività dell’individuo» viene limitata a un’unica determinazione del volere, «quale che sia il contenuto di questa determinazione», per cui la p. deve essere considerata come «la totalità dello spirito pratico in quanto si pone in una delle molte determinazioni limitate che sono fra loro in contrasto». La p. però non è né buona né cattiva: «la sua forma esprime solo che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l’interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno, del carattere, del godimento». Contrapponendosi esplicitamente alla condanna kantiana, Hegel giunge ad affermare: «Niente di grande è stato compiuto né può essere compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della p. in quanto tale» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817, parr. 473-74). Negli sviluppi successivi del pensiero la riflessione sul tema delle p. diventerà in misura crescente dominio della psicologia, sviluppatasi come disciplina autonoma. Un’originale riformulazione e rielaborazione della problematica filosofica relativa al conflitto tra ragione e p. e al carattere radicalmente diviso della natura umana si trova tuttavia nella teoria psicoanalitica di Freud (➔), che propone una concezione dualistica e antagonistica delle p. fondamentali da cui è mosso l’uomo, reinterpretate in termini di «pulsioni».