PAOLI, Pasquale

Enciclopedia Italiana (1935)

PAOLI, Pasquale

Ersilio Michel

Patriota còrso, nato a La Stretta di Morosaglia il 26 aprile 1725, morto a Londra il 5 febbraio 1807. Figlio minore di Giacinto, accompagnò il padre nell'esilio a Napoli, dopo che il generale Maillebois, con gli inganni e con le seduzioni, più che con le armi, ebbe ridotto nuovamente i Còrsi in soggezione della repubblica di Genova. Aveva allora quattordici anni (1739), e già, in patria, aveva ricevuto la sua prima istruzione, ma certo scarsa e manchevole, a causa dei continui rivolgimenti interni dell'isola. A Napoli si trovò nelle migliori condizioni per coltivare la mente, che era agile e pronta, e per soddisfare la sua brama di sapere. Allora lesse attentamente quasi tutti gli scrittori dell'antica Roma, frequentò assiduo le scuole dei più rinomati maestri, particolarmente quella di economia politica di Antonio Genovesi. All'inizio del 1741, entrò a far parte, col grado di cadetto, nel reggimento "Corsica", che era formato quasi tutto di Còrsi e che noverava, tra gli ufficiali superiori, anche suo padre. Per breve tempo rimase di guarnigione in Puglia; poi, nei primi mesi del 1745 (già nominato sottotenente), tornò a Napoli per frequentarvi un corso alla R. Accademia: allora dovette applicarsi più intensamente agli studî e riprendere le giornaliere conversazioni coi suoi maestri. Nel luglio 1749 passò nel reggimento "R. Farnese", che seguì in varie guarnigioni della Sicilia, sempre col grado di sottotenente. Per quanto fosse giudicato molto favorevolmente dai suoi superiori, non ottenne più alcun avanzamento; sicché, con la speranza di percorrervi più rapida carriera, meditò, indarno, di far passaggio nell'esercito francese. Negli ozî delle varie guarnigioni continuò ad applicarsi allo studio delle discipline politiche e morali e, sebbene lontano, seguì attentamente le successive fasi degli avvenimenti interni dell'isola nativa, sempre ribelle contro il governo genovese. Passato di guarnigione a Longone, nello stato dei Presidî, si mantenne in attiva corrispondenza col fratello Clemente e con altri maggiorenti còrsi, e assai presto ricevette dai medesimi l'invito di tornare in patria, per mettersi alla testa della "Nazione".

Alla fine dell'aprile 1755, o poco dopo, vinte le ultime incertezze, sbarcò nell'isola e, successivamente, nell'assemblea riunita a S. Antonio della Casabianca, il 15 luglio, venne proclamato capo e generale. Ma la sua autorità non fu da tutti riconosciuta; sicché, all'inizio del suo governo, dovette opporsi alle varie correnti separatiste, particolarmente a quella capeggiata da Mario Emanuele Matra, che fu vinto e ucciso in combattimento. Liberatosi dai pochi nemici interni, si volse tutto all'opera di riordinamento e alla lotta contro il governo genovese.

Quattro mesi dopo la sua nomina, propose alla Consulta di Corte una costituzione che, approvata nella tornata del 16-18 novembre, rimase, per 14 anni, salvo successive rielaborazioni, la carta fondamentale del libero stato di Corsica. In essa egli era riuscito a conciliare il principio unitario col rispetto dell'autonomia regionale. Organi principali del nuovo ordinamento, che egli aveva lungamente meditato, erano la Consulta e il Consiglio supremo; la prima rappresentava il popolo nella sua sovranità, il secondo le singole regioni, con membri eletti dai cittadini e tra i cittadini di ogni regione liberata. Nell'ordine amministrativo, conservò e migliorò il vecchio sistema isolano che era basato sulla pieve; in quello giudiziario, introdusse semplificazioni di procedura, per accelerare i processi; e severe sanzioni di rigore, per sradicare nei suoi connazionali l'uso inveterato della vendetta. Nel campo economico, volse le sue mire all'agricoltura, introducendo nell'isola nuove coltivazioni (fra le altre quella delle patate) e iniziando la bonifica di terreni paludosi; favorì l'industria; interessandosi più specialmente allo sfruttamento delle miniere; diede grande impulso alla marina mercantile, non solo per favorire l'economia nazionale, ma per danneggiare anche, e soprattutto, il commercio genovese.

Nella lotta armata combattuta contro la repubblica, P. non riportò notevoli vantaggi territoriali (il più importante fu la conquista di Furiani); e certo maggiori perdite inflisse al nemico armando numerosi bastimenti in corsa, costruendo il porto dell'Isola Rossa e facendone poi la base militare della marina isolana. Nel maggio 1761, essendo state presentate proposte di pace da parte del governo genovese, il P. convocò una consulta a Vescovato di Casinca, che, certo per sua ispirazione, deliberò di non doversi iniziare alcuna trattativa, se prima la repubblica non avesse riconosciuto il governo nazionale e non avesse ceduto le piazzeforti che ancora occupava nell'isola. Abortito questo tentativo di accomodamento, egli dovette guardarsi dalle insidie che venivano tramate contro la sua vita e domare le nuove ribellioni separatiste di Antonuccio e di Francesco Alerio Matra, fomentate dai Genovesi.

Nello stesso tempo, alternando la sua attività di generale comandante e di amministratore e legislatore (in questo secondo campo consiste la sua maggiore grandezza), introdusse, con l'approvazione delle consulte, riforme nell'ordinamento dello stato, fece coniare nella zecca di Murato una moneta nazionale, iniziò la stampa di un giornale. Per emancipare i suoi compatrioti da ogni dipendenza forestiera anche nel campo dell'alta cultura, istituì a Corte, che era la sede del governo, un'università, chiamandovi a insegnare i più celebri maestri còrsi del tempo.

Allora, dubitando di poter conservare più a lungo il dominio delle piazzeforti (v'era stato un complotto di cittadini per impadronirsi della fortezza di Aiaccio), il governo genovese nel 1764 si rivolse per aiuto e protezione alla Francia, che da tempo aveva posto le sue mire sulla Corsica e che, uscita allora dalla guerra dei Sette anni, mirava a rifarsi delle perdite subite oltre l'Atlantico con nuovi acquisti nel Mediterraneo. Così, stipulato il trattato di Compiègne, truppe francesi sbarcarono in Corsica per presidiare le piazzeforti, in luogo delle milizie genovesi. Il Paoli non vide certo di buon occhio questo intervento, anzi inviò una sua rimostranza a Parigi per deplorare che le armi francesi impedissero la resa a discrezione della repubblica e per affermare il buon diritto della nazione còrsa alla propria indipendenza. Ma il governo francese dichiarò di voler essere soltanto mediatore di un accordo e, poiché le sue truppe si mantennero neutrali nei presidî, il Paoli poté continuare le ostilità contro i Genovesi e occupare il piccolo porto del Macinaio: donde nel 1767 partì una piccola spedizione armata che riuscì a sorprendere la guarnigione genovese nell'isola di Capraia e l'obbligò a capitolare. Fu questa l'ultima operazione militare, di qualche importanza, tentata dai Còrsi. Il governo genovese, ormai stanco della lunga lotta (durava da circa quarant'anni) e stremato di forze, col trattato di Versailles, del 15 maggio 1768, fece, pur con riserve e condizioni, cessione alla Francia dei suoi diritti sull'isola. I Còrsi, che non tolleravano dominio genovese ma ancor meno dominio di Francesi, affatto estranei alla loro vita e al loro costume, resistettero e inflissero in un primo tempo non lievi perdite agli invasori stranieri, specie nella battaglia di Borgo (8-10 ottobre 1768). Grande animatore dalle resistenza fu P., che spiegò anche una larga azione diplomatica internazionale, specialmente presso gli stati che potevano avere interessi nel Mediterraneo, perché intervenissero in aiuto della Corsica. Mantenne rapporti anche con stati italiani, non mancando di prospettare spesso il pericolo che, per l'Italia, rappresentava l'insediamento francese nella vicina isola. Ma di fronte alle forze preponderanti comandate dal generale De Vaux, i Còrsi dovettero, dopo la rotta di Pontenuovo (10 maggio 1769), sottomettersi, non, tuttavia, senza ulteriori agitazioni e tentativi insurrezionali che furono spietatameme repressi.

Il P., costretto a esulare, sbarcò a Livorno, che era il tramite delle relazioni fra la Corsica e l'Italia e, potremmo dire, l'Europa, accolto con segni eloquenti di simpatia. Poi, mentre il fratello Clemente rimaneva in Toscana, egli, forse perché male accetto agli Asburgo, allora riconciliati coi Borboni, dovette partirsene. Riparò allora a Londra, dove ottenne una pensione dal governo britannico, contrasse autorevoli amicizie e godette, non solo per la sua bella fama di capo e legislatore dei Còrsi, ma anche per la sua condotta riservata e prudente, la generale estimazione. Solo dopo un po' più di vent'anni, cioè all'inizio della rivoluzione francese, poté far ritorno in patria, accolto dalle più entusiastiche manifestazioni di giubilo da parte dei suoi connazionali. Nominato presidente dell'amministrazione dipartimentale e comandante della guardia nazionale, rifiutò il duplice onore che gli si voleva rendere dell'erezione di una statua e di una pensione a vita di 50 mila franchi. Nei primi due anni, circa, egli si dimostrò convinto repubblicano e seguì fedelmente le direttive e gli ordini del governo di Parigi; ma poi non poté, in coscienza, consentire agli eccessi cui si abbandonarono (specie nel campo religioso) il partito giacobino e la Convenzione nazionale. Venuto perciò in sospetto e accusato anche di aver contribuito con la sua condotta all'esito infelice della spedizione inviata contro la Sardegna, fu sospeso dalle sue funzioni e invitato a presentare le sue discolpe alla sbarra della Convenzione (2 aprile 1793). Conscio del pericolo cui si sarebbe esposto e convinto, d'altra parte, dell'impossibilità di poter giungere a un accordo, il P. si appigliò al partito della opposizione e della resistenza. Acclamato generalissimo dalla Consulta convocata a Corte, organizzò un nuovo governo e, poiché le sole forze dei Còrsi non sarebbero bastate a mantenerlo in vita, si rivolse per aiuto e protezione al governo britannico. Così, nel 1794, capitolarono successivamente le tre fortezze di S. Fiorenzo, di Bastia, di Calvi, e il P. poté convocare una nuova Consulta per far proclamare l'unione all'Inghilterra e approvare una nuova costituzione. Ma rimasero deluse le sue speranze di esser nominato alla carica di viceré, che certo egli desiderò, non per una vana ambizione, ma per il desiderio di rendere veramente efficace e saldo il nuovo governo. Anzi, sotto il pretesto che la sua presenza nell'isola poteva intralciare l'azione dell'Elliot, ch'era stato eletto in sua vece a quella carica, ricevette da re Giorgio l'invito di far nuovamente ritorno a Londra. Partì per l'ultimo esilio il 13 ottobre 1795. Trascorse gli ultimi anni della sua vita applicandosi alla meditazione e allo studio e impiegando buona parte della sua pensione a beneficare i più bisognosi dei suoi compatrioti esuli. Nel 1889, la sua salma fu trasportata in Corsica e tumulata nella casa paterna di Morosaglia. Il P., rimasto sempre in grande amore presso i Còrsi, specialmente presso gl'italianizzanti, è stato assunto quasi a vessillifero del moderno autonomismo isolano e ad uomo rappresentativo della vera Corsica.

Bibl.: F. Cambiagi, Istoria del Regno di Corsica, IV, Firenze 1772; F. O. Renucci, Storia di Corsica, Bastia 1833, I, p. 57 seg.; A. Arrighi, Hist. de P. P. ou la dernière guerre de l'indep. (1755-1807), Parigi 1843, voll. 2; F. M. Gianmarchi, Vita politica di P. P., Bastia 1858; L. Ravenna, P. P., Firenze 1927; G. Volpe, Italiani vicini e lontani. I corsi, in Gerarchia, giugno 1923, e in Corsica, Milano 1927. Numerose lettere del P. furono pubbl. dal Tommaseo (1846), da N. Bianchi (1880), da G. Livi (1890), dal Perelli (1881-1900). Una ediz. più ricca e completa del suo carteggio si prepara a cura dell'Ist. di st. mod. e contemp. di Roma.