Partito politico

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In generale, i partiti politici sono associazioni private che hanno il monopolio di fatto delle elezioni politiche, attraverso la proposizione delle candidature. In ciò sta la loro natura ambivalente: da un lato, essi hanno una connotazione privatistica di fondo, riscontrabile nel fatto che, almeno nell’ordinamento italiano, sono associazioni non riconosciute, prive di personalità giuridica e con limitata autonomia patrimoniale, ancorché costituzionalmente riconosciute ex art. 18 Cost. (Libertà di associazione); dall’altro, essi svolgono indubbiamente una funzione pubblica fondamentale, quella di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.).

Il monopolio di fatto delle elezioni si riverbera anche sul funzionamento effettivo della forma di governo (Forme di Stato e forme di governo), in quanto si possono classificare le forme di governo a seconda del numero dei partiti politici che vi operano e del ruolo che essi ricoprono: si suole distinguere, infatti, secondo le classificazioni proprie della scienza politica, tra forme di governo a bipartitismo rigido, a pluripartitismo temperato, a pluripartitismo estremo ecc., così come tra forme di governo ove prevale il c.d. modello conflittuale (ove, cioè, vi è una netta distinzione tra maggioranza e opposizione e vi è una continua rotazione dei ruoli tra i partiti politici) e forme di governo ove prevale il c.d. modello compromissorio o consociativo (dove gli accordi tra i diversi partiti politici portano a una sostanziale partecipazione anche delle minoranze parlamentari al processo di decisione politica).

L’irrompere sulla scena politico-costituzionale dei partiti politici è uno dei caratteri distintivi del passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico di massa ovvero, riprendendo Giannini, dallo «Stato monoclasse» allo «Stato pluriclasse». Alcuni studiosi – ad esempio, G. Leibholz – hanno esplicitamente parlato dello Stato democratico come di uno «Stato di partiti», intendendo con ciò un ordinamento nel quale sono proprio i partiti politici i soggetti protagonisti della determinazione dell’indirizzo politico di maggioranza. Ciò non vuol dire che lo Stato liberale non conoscesse gruppi politici: basti pensare, ad esempio, alla divisione tra federalisti ed antifederalisti negli U.S.A. o tra tories e whigs in Gran Bretagna o tra i vari schieramenti della Rivoluzione francese (anglomani, cordiglieri, foglianti, giacobini, girondini, montagnardi ecc.). Tuttavia, questi raggruppamenti avevano una rilevanza prevalente all’interno dell’organo rappresentativo (Parlamento) ed anzi erano essenzialmente dei gruppi parlamentari, la cui organizzazione si riduceva ad un comitato elettorale. Invece, con l’avvento dello Stato democratico, fondato sul suffragio universale (Diritto di voto), l’organizzazione dei partiti politici non si limita al solo Parlamento, ma si estende a tutta società e a tutti gli organi costituzionali che esprimono l’indirizzo politico di maggioranza. L’ampliamento delle strutture organizzative dei partiti politici comporta che essi si incentrino su un apparato stabile e preordinato (con una differenziazione tra iscritti e simpatizzanti; un potere di direzione nelle mani di una cerchia ristretta di dirigenti politici; l’esistenza di una disciplina di partito, che gli iscritti riconoscono e a cui soggiacciono ecc.). Il modello di riferimento per questa trasformazione è stato il Partito socialista democratico di Germania, nato nell’ultimo quarto del XIX secolo e preso a modello prima dagli altri partiti socialisti europei, nonché, successivamente, anche da tutte le altre correnti politiche.

Un ulteriore impulso alla trasformazione dei partiti politici è stato dato dal cambio dei sistemi elettorali (Elezioni) in gran parte dei Paesi europei, con l’abbandono di formule elettorali maggioritarie e la contestuale introduzione di formule elettorali proporzionali. Questo cambiamento strutturale ha riguardato anche sui testi costituzionali, in quanto l’avvento dello Stato democratico ha comportato l’avvio di un processo di costituzionalizzazione (anche) dei partiti politici, laddove lo Stato liberale li aveva sostanzialmente ignorati. A partire dal primo dopoguerra, invece, i riferimenti al fenomeno partitico diventano sempre più precisi e puntuali, sino ad arrivare addirittura, in alcuni testi, al divieto esplicito di opzioni ideologiche antidemocratiche (art. 130 Cost. Germania 1919; art. 21 Legge fondamentale Germania 1949; XII Disp. trans. fin. Cost.; art. 4 Cost. Francia 1958; art. 6 Cost. Spagna 1978; artt. 137 e 147 Cost. Svizzera 1999).

La presenza di più partiti in competizione tra loro caratterizza in modo inequivocabile la democrazia costituzionale ed è proprio su questo punto che essa si differenzia dalle altre forme di Stato contemporanee (Forme di Stato e forme di governo). Nello Stato socialista, la negazione del principio della concorrenza tra partiti politici si concretizza, in particolare, nell’immedesimazione tra partito politico e Stato (art. 126 Cost. U.R.S.S. 1936; art. 6 Cost. U.R.S.S. 1977) o, nei casi in cui sia previsto un pluripartitismo, nell’obbligo per tutti i partiti politici di conformarsi ai principi politici del marxismo-leninismo (artt. 13, 14 e 53 Cost. D.D.R. 1949; artt. 72 e 86 Cost. Polonia 1952; artt. 3, 5, 21 e 29 Cost. D.D.R. 1974). Nello Stato autoritario, invece, la negazione della concorrenza politico-partitica avviene tramite la conquista del Governo, la concentrazione del potere in capo all’esecutivo, la messa fuori legge dei partiti politici non espressione dell’ideologia dominante e l’incorporazione del partito unico nella struttura statale.

Il partito politico nell’esperienza repubblicana. - Per quanto riguarda l’esperienza italiana, la Costituzione repubblicana si occupa dei partiti politici in tre diverse disposizioni: l’art. 49 Cost. sancisce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti politici, al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale; l’art. 98, co. 3, Cost. prevede la possibilità di limitare con legge l’iscrizione di alcune categorie di impiegati pubblici come magistrati, militari di carriera, funzionari e agenti di polizia e rappresentati diplomatici e consolari all’estero; la XII disp. trans. fin. Cost. vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. L’art. 49, in particolare, garantisce il pluralismo partitico-politico, perché riconosce il diritto di ogni cittadino di aderire (o di non aderire) a un partito esistente o di formarne uno nuovo. Per quanto riguarda l’adesione a un partito esistente, secondo C. Esposito il diritto dei cittadini di aderirvi non va interpretato nel senso che qualunque domanda di ammissione debba essere accolta, ma solo che non possono essere legittime esclusioni arbitrarie. Per quanto riguarda la XII disp. trans. fin. Cost., invece, ci si è chiesti se essa fosse da interpretare in un senso più restrittivo, come mera ricostituzione del Partito nazionale fascista (da intendersi, peraltro, secondo taluni in forma storica e secondo talaltri in forma rinnovata, nel senso del divieto di costituire partiti politici c.d. neofascisti) o non riguardasse tutti i partiti che, perseguendo la conquista integrale del potere, volessero poi porsi come partito unico dello Stato. A favore di quest’ultima interpretazione si era schierato Esposito, ma l’opinione maggioritaria in dottrina è stata nell’altro senso, confortata dalla legislazione di attuazione (l. n. 645/1952, l. n. 152/1975) e dalla stessa giurisprudenza costituzionale.

Per le funzioni pubbliche svolte dai partiti politici, si è posto il problema del controllo su di essi e, in primo luogo, delle loro fonti di finanziamento, per evitare fenomeni di corruzione. A questo si è cercato di ovviare con la l. n. 195/1974, la quale prevedeva, oltre a un rimborso delle spese elettorali, anche un finanziamento pubblico. Il finanziamento pubblico diretto è stato abrogato con un apposito referendum nel 1993, mentre è rimasta in vigore la previsione dei rimborsi delle spese elettorali. Successivamente, il Parlamento ha comunque deciso di reintrodurre una forma di finanziamento pubblico, attraverso un contributo volontario pari allo 0,4 per cento dell’I.R.P.E.F. (l. n. 2/1997). I problemi emersi dal meccanismo previsto nella l. n. 2/1997 hanno poi comportato l’approvazione della l. n. 157/1999, la quale ha introdotto un sistema di rimborsi elettorali che prescinde, però, dalle spese effettivamente sostenute e, quindi, ad avviso di taluni, costituisce una forma di finanziamento pubblico indiretto. Tale ultima legge, a sua volta, è stata oggetto di referendum abrogativo nel 2000, ma la consultazione non ha superato il quorum di partecipazione. La l. n. 157/1999 è stata poi successivamente modificata con la l. n. 156/2002, che ha elevato il finanziamento previsto con la l. n. 157/1999. L’ammontare del rimborso per le elezioni viene così ora determinato moltiplicando per un euro il numero di cittadini iscritti nelle liste elettorali per la Camera dei deputati e viene poi distribuito in proporzione ai voti conseguiti, a condizione che siano superate alcune soglie minime.

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