Paronomasia

Enciclopedia Dantesca (1970)

paronomasia

Francesco Tateo

Termine della retorica greca, che designa la figura conosciuta dai Latini come ‛ adnominatio ', e consistente nell'accostare due o più vocaboli di suono simile o perché risalenti a un etimo comune, o perché casualmente identici in taluna parte.

Nella Rhet. ad Her. (IV XII 29) s'insiste sulla diversità del significato delle parole simili che in tal modo vengono accostate (" ut ad res dissimiles similia verba accommodentur "), mentre Quintiliano (Instit. IX III 66 ss.) illustra sia questo tipo di p., sia quello consistente nell'accostare due parole della stessa famiglia etimologica. Nel Medioevo la p. è prescritta dalle arti retoriche e poetiche e largamente impiegata da retori e poeti soprattutto nella forma più diffusa, consistente nell'accostare vocaboli simili per etimologia o differenziati dalla flessione. Quest'ultimo caso, non propriamente contemplato nella classica p., è previsto invece da Goffredo di Vinsauf (E. Faral, Les arts poétiques du XII et XIII siècles, Parigi 1924, 323: " currere currenti ") e sarà preferibile esaminarlo in gran parte a proposito della replicazione. È importante, per l'uso dantesco, una specie di p. sottolineata da Matteo di Vendôme (Faral, op. cit., p. 169) e consistente nell'accostare parole che iniziano o terminano con sillabe identiche (" sapit, rapit ", ecc.). È questo il caso di talune rime, nelle quali non è escluso si debba vedere, al di là della ricerca specifica dell'identica terminazione, quella della p., in quanto le parole che rimano si distinguono per la mutazione di una lettera o di una sillaba, ad es.: trovo-provo (Cv II Voi che 'ntendendo 6-7), pace-piace (III Amor che ne la mente 26-27), rimorso-morso (Pg III 7-9), giunto-digiunto (IX 49-51), Puglia-buglia (Fiore XLIX 3-6), nimistate-amistate (CXXXV 6-7).

La prosa della Vita Nuova è ricca di ripetizioni, ma non poche possono ascriversi alla p. vera e propria. Tipica è quella che mette in rilievo uno dei temi fondamentali del libello (XI 3 questa gentilissima salute salutava); altra, non giovandosi del rapporto etimologico, crea un sonoro bisticcio (verace voce, XXIII 10); altra ancora appartiene a una sorta di facile ornamentazione (Il 8 molte volte). Dipende dalle esigenze del racconto, ma tradisce una ricerca di amplificazione, la p. di XLI 1 (mandaro... che io mandasse) analoga ad altre che si rinvengono nella Commedia (del tipo di I' ti prego / che per me prieghi, Pg XVI 50-51). Nelle rime della Vita Nuova la p. sottolinea il tema della morte della donna e l'oppone all'eternità del suo ricordo (Voi non dovreste mai, se non per morte, / la vostra donna, ch'è morta, obliare, XXXVII 8 12-13), o, con insolito aggettivo, insiste sul concetto dell'errore morale (lo tuo fallar d'onni torto tortoso, VIII 9 9). Lo stesso tema del perenne ricordo della donna, che non può essere limitato se non dalla morte, s'incontra in Rime C 52-53, sviluppato nella p. inversa: perch'io son fermo di portarla sempre / ch'io sarò in vita, s'io vivesse sempre.

La p. contribuisce talora all'evidenza dello stile gnomico (è folle chi non si rimove / ... da follia, XCI 104-105), o con un gioco sonoro più esteriore, accresciuto dall'allitterazione, alla gravità di una sentenza (" Vie via vedrai morir costui! ". / Allor mi volgo per veder a cui..., CXVI 42-43, dove si aggiunge la p. vedrai-vedere); o, con una corrispondenza fra le consonanti delle parole, tanto più sottile quanto più labile, serve a sottolineare la somiglianza di due differenti situazioni: Tu non se' morta, ma se' ismarrita (Cv II Voi che 'ntendendo 40). Alla somiglianza della sillaba finale è affidata la p. di Amor di tanto onor (XCI 64), messa tuttavia in evidenza dalla misura ritmica dell'emistichio, mentre in LXXI 7-8 (al mio parere ella non rappresenta / quella che fa parer l'altre beate) la differenza dei due infiniti ripetuti è nell'apocope, ma anche nella loro diversa funzione logica; in XC 26-27 la p. acquista risalto a fine verso; in LXVIII 38 la p. corrisponde all'intensità del concetto (tanto attenta). Un esempio sintomatico, ma non consueto, dell'uso della p. nelle Rime è quel sonetto a Dante da Maiano (XLII) che potrebbe dirsi tutto costruito su tale figura: saver-Sacciate-saver-saggia-saggio-saver-saggio.

Nella prosa del Convivio spesso la replicazione (v.) è richiesta dalla struttura ragionativa e didattica del discorso.

Più rara è la p. che s'incontra tuttavia nei suoi vari tipi, dai più consueti, come molte cose... già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere (II XII 4, dove il medesimo verbo ricorre con accezione leggermente diversa), come con misura, e non dismisurata (I VII 9, dove la p. si fonde con la tautologia), o come né più cortese modo di fare a se medesimo altri onore non è, che onorare l'amico (III I 5), o come poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato (IV XXI 13, in concomitanza con una sentenza), o infine come nulla cosa veramente veggiono vera (IV XV 15, dove va notata l'allitterazione), ai più ricercati, come nel caso della doppia p. di II VIII 12 (a la morte del corpo sono corsi, per vivere ne l'altra vita), o dell'accostamento di intenzione-invenzione (IV XI 7) o di veritade e vertude (ha l'uomo amore a la veritade e a la vertude, III III 11), che solo il parallelismo dei due termini rende evidente. L'insistenza della p. acquista un valore che supera quello ornamentale, quando è intesa a concentrare l'attenzione sul tema centrale del discorso; così in IV IV 7 (esso è di tutti li altri comandamenti comandamento... però che di tutti li comandamenti elli è comandatore), dove ricorre la tautologia, e in IV VIII 13-15 (se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma sono non reverenze... Ma tracotanza sarebbe l'essere reverente... però che in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe). Ai modi della prosa dantesca, che ama riprendere i concetti per sviluppare l'argomentazione vanno ascritte p. come la viltà d'animo. Sempre lo magnanimo (I XI 18), che genera un'antitesi, e come Questo cielo si gira... la cui girazione (III V 8).

Nella Commedia la p. assolve una funzione ben più larga per il carattere stesso dell'opera, che richiede una particolare intensità rappresentativa e incisività didattica, oltre a manifestarsi in una notevole varietà di tipi. Comune è la p. in certe figurazioni allegoriche e nel parlare traslato, dove la corrispondenza etimologica dei termini serve a rivelare l'intendimento nascosto: cfr. a questo riguardo orsa... orsatti (If XIX 70-71), leonessa... leoncini (XXX 8), porco... porcil (XXX 27), lupo... lupicini (XXXIII 29), sposa... sposo (Pd X 140-141; cfr. XI 84). Quello di riprendere mediante la p. il termine precedente per procedere nell'esposizione è un modulo narrativo; cfr. l'un di lor trafisse / ... lo trafitto... (If XXV 86-88), Come si frange il sonno... / che fratto... (Pg XVII 40). Anche l'argomentazione si vale talora della p. per mettere in rilievo il termine su cui essa si regge: tipica è quella di Pg XXXI 53 (e se 'l sommo piacer sì ti fallio / per la mia morte, qual cosa mortale...?), dove la designazione delle creature terrene come ‛ cose mortali ' e la loro conseguente svalutazione si collega ovviamente al concetto che la cosa più bella aveva avuto il suo limite nella ‛ morte '. Così in Pd VIII 133 Natura generata... a' generanti ricalca il tecnicismo della terminologia scolastica.

Uno dei generi più frequenti di p. è quella che collega, o meglio oppone, due vocaboli della stessa radice e di significato contrario nello stesso verso e spesso di seguito: disvuol... volle (If II 37), disfatto, fatto (VI 42), sconoscente... conoscenza (VII 53-54), ingiusto... giusto (XIII 72), color d'erba / ... discolora (Pg XI 115-116), pietà... spietato (Pd IV 105), obediendo... disobediendo (VII 99-100). Altra volta il poeta sostituisce la p. alla consueta antitesi vivo morto servendosi di una perifrasi inconsueta: sanza morte / va per lo regno de la morte gente? (If VIII 85). È ancora la perifrasi, questa volta impreziosita dalla metafora, a sostenere la p. in If XI 53 (colui che 'n lui fida / e... quel che fidanza non imborsa), dove riscontriamo ancora un modulo antitetico, mentre in XXV 119-120 (genera il pel suso / per l'una parte e da l'altra il dipela) l'esigenza della p. e quindi la necessità di opporre a pel un verbo della medesima radice, ha provocato l'uso di ‛ dipelare ' in un'accezione non propria (dipela per " far scomparire i peli " è quasi una metonimia). Si veda ancora l'antitesi in p. del tipo di per non perder Lavina; / or m'hai perduta (Pg XVII 37-38), di Se i piè si stanno, non stea tuo sermone (v. 84), quant'è nascosa / la veritate a la gente ch'avvera (XVIII 35), ti fia chiaro / ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote (XXIV 89-90). Altrettanto diffusa è la p. mirante all'intensificazione di un concetto, come in If III 104 ('l seme / di lor semenza), dove essa ricalca il tono disperato della bestemmia, e in VIII 73-74 (il foco etterno / ch'entro l'affoca), e in XXI 20 (le bolle che 'l bollor levava), dove essa insiste sull'immagine della pena, e in Pd XXVI 64 (le fronde onde s'infronda), dove viceversa il poeta indugia sull'aspetto più coreografico dell'allegorico orto. Così un'insistenza al limite del pleonasmo si avverte talora nella ripetizione, in forma diversa, del medesimo verbo: Ravenna sta come stata è molt'anni (If XXVII 40), Voi credete / forse che siamo esperti d'esto loco; / ma noi siam peregrin come voi siete (Pg II 62-63), e ciò che fa la prima, e l'altre fanno (III 82), com'io t'amai / ... così t'amo (II 88-89). Si vedano i casi analoghi di If XIV 69 (ed ebbe e par ch'egli abbia), XXVI 19 (mi dolsi... mi ridoglio).

Ma da una vera amplificazione scaturisce la p. in Pg IV 86-87 ('l poggio sale / più che salir non posson li occhi miei), o in XXIV 95 (Qual esce... / lo cavalier di schiera che cavalchi), e soprattutto in Pd XXVIII 21 (locata con esso / come stella con stella si collòca), intrecciata a un chiasmo che conclude una terzina ricca di allitterazioni e replicazioni. Un'amplificazione è ancora Né creator né creatura di Pg XVII 91 (da collocarsi accanto a fattore-fattura), che sviluppa e precisa il concetto di " nessun essere ". Altrove la p. si risolve in una tautologia, come in If VII 3 (quel savio gentil, che tutto seppe).

Fra i numerosissimi casi di p. consistenti nell'accostare forme differenti del medesimo verbo, varrà soprattutto citare alcuni esempi tipici, nei quali la ripetizione delimita la scansione ritmica, creando una sorta di anadiplosi (al vostro guizzo, / guizza, Pg XXV 25-26; piglio / pigliavano, Pd VIII 10-11), oppure distinguendo i due emistichi del verso (fessi... fensi, Pd VII 147); o si raddoppia creando una sorta di chiasmo (vince... vinta... vinta... vince, Pd XX 98-99), o ancora determina un curioso assurdo (tacendo, disse ‛ Taci ' Pg XXI 104, che segue un modulo più volte impiegato senza questo particolare effetto antitetico, parlando, di parlare ardir mi porse, XVIII 9; dannando... dannò, Pd VII 27), o contribuisce alla particolare sonorità del passo (canto canta, V 139), o infine utilizza preziosamente le forme latineggianti (passuri... passi piedi, XX 105). Non è che un rafforzativo, diretto a sottolineare la sconcertante rivelazione, la ripetizione di ‛ vero ' in Pg XXIII 122-123 (per la profonda / notte menato m'ha d'i veri morti / con questa vera carne), ma è interessante la differente significazione dell'aggettivo, che nel primo caso allude alla più consueta distinzione simbolica fra morte spirituale e naturale, nel secondo impropriamente qualifica la ‛ realtà ' della carne (la quale non può che essere vera), distinguendola dall'aerea figura che riveste le anime. Una p. come d'un giro e d'un girare (Pd VIII 35) apparentemente risulta tautologica, mentre distingue sottilmente fra l'ampiezza del circolo e il ritmo del movimento. Talora l'identità dei vocaboli accostati con la p. sottolinea piuttosto l'accezione diversa in cui sono impiegati (cfr. ad es. quell'ombre che pregar pur ch'altri prieghi, Pg VI 26; in giungere a veder com'io rividi, XVII 8, dove il primo veder vale " immaginare ", " comprendere "), oppure rende più evidente l'antitesi (Non per far, ma per non fare, VII 25; del non ver vera rancura, X 133). Talora l'uso metaforico di un vocabolo rende più colorita e significativa la p., come in If XX 39 (di retro guarda e fa ritroso calle) e in Pg XXVI 87 (s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge), dove la metonimia di calle e schegge forza il significato proprio dei due predicati.

L'accostamento di vocaboli della stessa radice, vera o presunta, serve ancora a colorire l'immagine in una serie di p. quali cappe con cappucci (If XXIII 61), l'un capo a l'altro era cappello (XXXII 126), a' capelli / del capo (XXXIII 2-3; per la relazione ‛ capo-cappa-cappello ' cfr. Isid. Etym. XI I 28, XIX XXXI 3). Altrove dall'etimologia di Firenze scaturisce una p. con una colorita metafora (fiorian Fiorenza, Pd XVI 111), mentre sul forzato etimo di Sapìa gioca il poeta per costruire un'antitesi (Pg XIII 109).

Assai numerosi sono anche i casi di p. che rispecchiano il tipo più classico della figura, accostando parole simili nel suono ma assolutamente differenti nel significato. Talora (ma il caso è assolutamente raro) la ricerca mira ad accostare parole diverse, e pur simili, ma con significato opposto: si veda in If V 56 libito... licito e in Pd XIV 52-53 carbon... candor, dove la p. è posta in evidenza dalla collocazione parallela dei termini nella stessa sede metrica. Anche l'accostamento di vero - velo in Pg VIII 19-20 mette in risalto l'opposizione-rapporto fra contenuto allegorico e rivestimento. Ma solitamente tale p. mira solo a fermare l'attenzione del lettore secondo il classico canone: cor... corse (If II 131), Carro... Coro (XI 114), dispetti... petto (XIV 71-72), s'arresta... arrostarsi (XV 38-39), passa... pesa (XXIII 120, la p. si amplia nell'allitterazione), fossero... fossa (XXIX 49), suso... sasso (Pg III 57), Soleva... soli (XVI 106-107), vendicò... venduto (XXI 83-84), veduto... venuto (XXVII 128), mondo... modo (Pd VI 56), fé... fede (VIII 14), vedere... dovere (XVIII 53), canto... quanto (XX 40-41). Non perché differenti nella sostanza da questi esempi, ma per il loro esito particolarmente prezioso segnaliamo a parte un caso come sì appressando sé (Pg XXVIII 59), e altri che hanno in comune l'accostamento immediato dei vocaboli simili: era ora (Pg II 100), vene vane (XXV 42); altri ancora in cui il poeta gioca sull'apertura dalle vocale (voti, e vòti Pd III 57) o sull'accento (già-gìa, If XXVII 2). Si veda ancora come in Pg XXI 90 (mertai... mirto) la ricerca della p. (messa in risalto dalla collocazione dei termini agli estremi del verso) abbia condizionato la sincope, come in XXVII 132 (erte... arte) essa abbia procurato un singolarissimo latinismo, e come un latinismo in Pd XXIX 36 abbia a sua volta suggerito un neologismo (vime... divima).

Il De vulg. Eloq. e le epistole, per l'impianto fortemente retorico della loro prosa, accolgono in gran quantità la p. fra gli ornamenti dello stile. Basterà per il De vulg. Eloq. citare i casi più tipici, che riguardano tutti sostanzialmente l'uso dello stesso vocabolo in forme differenti: primitus primum (I V 1), misera miserum (VII 2), doctrinae... doctrinatas (II IV 3), astruximus... astruere (II 1). Frequenti sono, per lo stesso impianto dialettico dell'opera, come si è visto per il Convivio, le p. estese oltre i due termini consueti, come in I XVIII 1 (vertitur... versetur... vertitur... revertitur), in V 1 (sentiri... sentire... sentiatur... sentiat... sentire... sentiri), in II III 5 (efficit... factum est... efficiunt... faciunt). Sempre in I XVIII 1 la p. di plantas inserit vel plantaria plantat è interessante per la ‛ variatio ' (inserit-plantat) che vi s'intreccia. In II II 2 (si cognito habituante habituatum cognoscitur) la p. concorre col chiasmo, mentre in I 7 e II 4 si riscontra un modulo frequente che si vale dell'anafora e si sviluppa in una sorta di gradazione: quidam digni, quidam digniores, quidam dignissimi, aliquid dignum, aliquid dignius, aliquid dignissimum. A parte i casi comuni in cui la p. svolge una funzione intensiva (magnificentia magna, II I 5) o si struttura antiteticamente (anteriora posteriora, I I 1; formosae... deformibus, II I 10), alla p. va probabilmente riportata l'icastica definizione dei tre termini fondamentali della lirica Salus Venus Virtus (II II 8), quantunque la somiglianza si restringa alla terminazione e alla misura bisillabica dei vocaboli.

Nelle epistole si registra, in proporzione, un più intenso uso della p. in funzione puramente esornativa: si veda ad es. vestrum vestrae (II 7), nos... nostra (VII 4), de passione in passionem (III 2), de dolore dolorem (VI 19), luminaris illustret (V 30), verbo Verbi (§ 22), ex notioribus nobis innotiora (§ 23), terrori... territet (VI 9), timuisse timetis (§ 11), flumina... deflevimus (VIII 4). Tipico è il carattere esornativo di una p. come causa radicalis tollatur, et radice tanti doloris avulsa... (VII 22) per l'evidente tautologia. Va inoltre segnalata una serie di p. che sfrutta la somiglianza dei vocaboli: debite... devote (I 9), in semine Semeles (III 7), prolis propriae (V 11), temere... tumescunt (VI 4), dono... domino (XIII 12).

Nella Monarchia prevale la p. dovuta alle esigenze del discorso dialettico, in cui la ripetizione crea uno stile concettoso: homo hominem (I IX 1), principibus... principatus (XI 12), ars... artificis... artem (II II 2), intelligentes... intelliguntur (III III 5), causam... causa (V 5), principalis... principis... princeps... principis... principe (VII 7), actus activorum (X 13), subsistat... substantiae subsistentis (XI 5). Talora la p. si sviluppa in modo più complesso: diligibile... diligenti... diliguntur... diligi (I XI 15), talora soprattutto attraverso simmetrie e inversioni: motibus... motoribus... motore... motu... motoribus... motibus (IX 2), ignorantia... litigii... litigium... ignorantiae (III III 3). Né mancano certi pleonasmi determinati dalla ricerca della p.: ibi ubi (IX 1), dicunt dicentes (XI 3). Ma son rari i casi della classica p., con l'accostamento di parole simili con senso differente: cfr. un esempio particolarmente ricercato: orbatione... oblatione II V 8).

Nel Fiore la p. è largamente impiegata. Fra i casi più caratteristici ricorderemo quelli in cui l'accostamento fra vocaboli della stessa radice è posto in risalto alla fine di due versi successivi (nodrimento-nodrire, XXXIV 9-10; sottile-assottiglio, CXLIV 13-14), o alla fine dei due emistichi del verso (e d'un gran velo il viso avea velato, XXIV 3, dove la figura si accentua col concorso dell'allitterazione), o quasi agli estremi del verso (per lo vento a Provenza che ventava, XXXIII 2). Ma frequente è anche la ricerca di accostamenti di parole simili di senso diverso, generalmente ravvicinate per accrescere l'effetto: morto a torto (CXIX 4), vi conterò la contenenza (CXXVIII 9), domane ella mi domandasse (CXLIII 3), falla ciò che 'l folle crede (CCII 13); o distanziate alle estremità del verso: La cera sua non parea molto fera (CXXIX 5).

Nel Detto infine la serrata successione delle rime equivoche presenta numerosi casi nei quali è possibile in sostanza riconoscere delle p. quali ad es.: servito-inservito (vv. 5-6), omaggio-maggio (vv. 7-8), sempre assempr'è (vv. 9-10), pare-m'appare (vv. 37-38), Folle-t'affolle (vv. 87-88), ecc.

Bibl. - G. Lisio, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A. e del sec. XIII, Bologna 1902; Parodi, Lingua 331-332; E.R. Curtius, Annominatio, in Gesammelte Aufsätze zur Romanischen Philologie, Berna 1960, 333-338.