Parlamento

Enciclopedia del Novecento (1980)

Parlamento

Bernard Crick

di Bernard Crick

Parlamento

sommario: 1. Il concetto di parlamento. 2. Le origini dei parlamenti. 3. I modelli classici. 4. I parlamenti moderni e la formazione dello Stato. 5. Il supposto declino dei parlamenti. 6. L'evoluzione della funzione dei parlamenti. 7. L'avvenire dei parlamenti. □ Bibliografia.

1. Il concetto di parlamento

Il parlamento, comunque venga chiamato, è una caratteristica specifica del sistema politico moderno, e sorge in forma distinta e suscettibile di studio comparato solo in Occidente (è sconosciuto nel mondo classico o nell'antichità in genere). Le forme assunte dall'istituzione parlamentare variano a seconda delle circostanze e dei contesti culturali; si sono anche dati casi di ‛trapianti', come nei processi di decolonizzazione intorno alla metà del Novecento, anche se i risultati di tali trapianti sono stati sempre imprevedibili, sorprendenti e singolari. Le assemblee delle città-Stato elleniche erano gli organi di una democrazia diretta che comportava, almeno in teoria, la partecipazione personale di tutti i cittadini, mentre il Senato romano era il diretto strumento di governo della classe senatoria, sia pure con una piccola rappresentanza del populus tramite i tribuni; comunque, nell'antichità classica mancava, in generale, il concetto della rappresentanza di classi, categorie, o interessi, che fu caratteristico del mondo medievale, e ancor più quello della rappresentanza del popolo inteso come un tutto unico o della nazione sovrana, quale si sviluppò sulla scia delle assemblee della Rivoluzione francese.

È estremamente importante rendersi conto che i parlamenti fanno la loro comparsa molto prima dell'età moderna; le loro origini affondano infatti nel Medioevo: essi nascono dal fondamentale pluralismo dei centri di potere proprio di quell'età e vanno considerati come uno strumento tipico e non già eccezionale del sistema politico medievale. Come riflesso di condizioni in certa misura analoghe, i parlamenti - dopo il declino o la soppressione nel Sei e Settecento - tornarono a nuova vita nell'Ottocento. Le origini dello Stato moderno sono intimamente connesse con quell'età dell'assolutismo che quasi dovunque, eccetto che in Inghilterra, trovò necessario distruggere o limitare il potere dei parlamenti. Senonchi, nel corso delle sue vicissitudini attraverso la Rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, lo Stato moderno - caratterizzato, rispetto all'epoca feudale, dall'ordine e dal centralismo burocratico - sembrò avvertire il bisogno di quella più larga base di potere, di quella capacità di mobilitare le masse che i parlamenti sono così atti a procacciare. Solamente nel nostro secolo la questione è stata nuovamente messa in discussione: dalle potenze totalitarie fra le due guerre mondiali, e al giorno d'oggi dalla Russia e dalla Cina, nonché dalla maggior parte dei nuovi Stati emergenti dal declino del vecchio imperialismo. È importante rendersi conto preliminarmente che un parlamento è strumento idoneo a governare in una maniera ragionevolmente civile nella misura in cui è in grado di assicurare la rappresentanza dei cittadini di uno Stato. Un governo senza rappresentanza è, senza dubbio, un'autocrazia; d'altro canto, i parlamenti o le assemblee sono riusciti raramente, se pur mai è accaduto, a esercitare direttamente il governo, per quanto rappresentativi possano essere stati: di fronte a una scelta fra ordine e disordine, gli uomini normalmente scelgono l'ordine. Ma se nessun paese è propriamente governato ‛da' un parlamento, alcuni sono riusciti a governarsi ‛per il suo tramite'; dove ciò avviene - non dobbiamo aver timore dei luoghi comuni - i risultati sono di solito migliori, sia dal punto di vista della giustizia sociale che da quello di un reale adeguamento della società alle trasformazioni sociali.

Le definizioni non hanno, nello studio della storia o delle scienze sociali, quell'utilità che a volte si suppone. Una semplice comparazione delle istituzioni sia del passato che dei nostri tempi ci mostra quanto sia ampia la gamma dei parlamenti e delle assemblee possibili. Una definizione di ‛uomo' ci dice ben poco degli uomini. Comunque, ciò di cui stiamo parlando è, in termini generali, un sistema politico in cui il governo in carica, per ampio che sia il suo potere di iniziativa in campo legislativo e amministrativo, si regge sul periodico consenso di assemblee elette, anche se in taluni casi queste ultime possono risultare manipolate o scarsamente rappresentative. Senza dubbio, nel Ghana di Nkrumah, il parlamento, anche se continuava a essere eletto e a riunirsi, era solamente un'ombra; ma la sua stessa sopravvivenza mostrava che, sia pure in piccola parte, il potere del regime di Nkrumah e la sua autorità sembravano dipendere dall'esser considerati come ‛parlamentari'. Il Reichstag, invece, pur continuando a esistere nominalmente sotto Hitler, era meno di un'ombra, solo un cadavere imbalsamato, e la stessa cosa si può dire del Parlamento italiano sotto il fascismo. Essi erano divenuti una cassa di risonanza delle decisioni del regime o, ancor più spesso, delle orazioni celebrative di un antiparlamentarismo trionfante.

Bisogna tener presente che i veri parlamenti, oltre a essere istituzioni rappresentative, sono anche istituzioni che contribuiscono a dare legittimità e quindi potere reale ai governi. Nel corso dei dibattiti alla Convenzione Federale di Filadelfia del 1787, i delegati erano divisi, come è noto, fra i federalisti, favorevoli a un forte governo centrale che la sua origine (l'elezione indiretta ad opera delle assemblee provinciali o di collegi elettorali di wiseelders) doveva mettere al riparo dagli umori popolari, e i true republicans (si sarebbero presto detti ‛democratici'), secondo i quali il potere fondamentale doveva rimanere alle assemblee degli Stati in quanto elette direttamente dal popolo. Un delegato della Pennsylvania, J. Wilson, colse il nocciolo essenziale della problematica politica moderna, e le sue argomentazioni alla fine prevalsero: egli ‟sostenne energicamente che il ramo più numeroso del corpo legislativo doveva essere eletto direttamente dal popolo. Egli era favorevole a dare un'altezza considerevole alla piramide federale, e per questa ragione desiderava fornirle la base più ampia possibile. Nessun regime poteva mantenersi a lungo senza la fiducia del popolo, e per un regime repubblicano questa fiducia era in modo particolare indispensabile" (v. Morison, 19652, p. 241).

Un parlamento è, quindi, un intermediario fra governo e consenso; ovvero, si trova alla confluenza di due tumultuose correnti: quella del nostro desiderio che lo Stato faccia le cose che noi non possiamo fare da soli e quella del nostro desiderio di non subire interferenze; del pari, lo Stato stesso deve destreggiarsi fra sopravvivenza del corpo sociale e giustizia individuale. Idealmente, il parlamento deve quindi essere nettamente separato dal governo, ma, in quanto istituzione reale, può esserne separato solo parzialmente. I rapporti fra parlamenti e governi sono diversi e complessi. Non esiste nella prassi politica e nella realtà sociale quella ‛separazione dei poteri' di cui parlarono Montesquieu, Locke e anche Beccaria. Tale concetto giuridico non spiega come l'umanità sia a volte riuscita a conciliare o equilibrare libertà e ordine. La spiegazione va piuttosto ricercata nella pluralità e nelle diversità che caratterizzano alcune società; i parlamenti dapprima rispecchiarono quelle diversità, per arrivare in seguito ad arginarle e anche a controllarle. Se esistesse, in realtà, un'unica ‛volontà della nazione' su tutti i problemi importanti, i parlamenti non sarebbero necessari e un solo partito sarebbe sufficiente. I parlamenti nacquero dalla convinzione che l'ordine potesse essere mantenuto anche frammezzo alle diversità, e questo avvenne molto prima dell'età della democrazia; è quindi evidente che i motivi del loro apparire sono intimamente collegati alla crescente politicizzazione della società europea, politicizzazione seguita al crollo del sogno romano di un impero universale e all'insufficienza manifesta, quanto alla garanzia dell'ordine e della giustizia, delle concezioni germaniche e franche dell'autorità e della regalità.

I parlamenti furono all'origine un'istituzione aristocratica, ma l'aristocrazia non fu mai monolitica; divennero poi un'istituzione borghese, ma neppure la borghesia fu mai monolitica; e infine divennero un'istituzione popolare, e neppure il popolo è monolitico, salvo quando sia vittima dell'oppressione, dell'indottrinamento o della disperazione.

2. Le origini dei parlamenti

Il Parlamento inglese è spesso chiamato - erroneamente - la ‛madre dei parlamenti'. L'Althing islandese, per esempio, ha una più lunga e ininterrotta storia come assemblea rappresentativa. I parlamenti costituivano la regola piuttosto che l'eccezione nella vita politica dell'Europa feudale. Essi emergono nettamente verso la fine del sec. XII nel regno di León in Spagna, fioriscono nel sec. XIII in Catalogna, in Sicilia, nella Linguadoca, nella Castiglia, in Portogallo, nell'Impero (il Reichstag), in Aragona, Navarra, Boemia, Brandeburgo, Austria, Valenza, Piemonte e Irlanda, e dal sec. XIV in Svezia, Danimarca, Norvegia e Polonia. Molti scomparvero nel sec. XVI, altri all'epoca della Rivoluzione francese e della Restaurazione: solamente un piccolissimo numero sopravvisse. Il Parlamento inglese dovrebbe chiamarsi più propriamente ‛il superstite dei parlamenti'.

Nei secc. XIV e XV, essi erano spesso divisi in tre - anziché in due - assemblee o camere, composte dai nobili, dal clero e dai rappresentanti delle città. Come l'imperatore o il papa, pur con malagevole divisione dei poteri, venivano considerati i rappresentanti dell'ordine divino, così i parlamenti venivano considerati i rappresentanti degli elementi costitutivi di un ordine sociale naturale, formato dai tre stati. La classe militare, quella mercantile e il clero erano le classi politicamente attive: l'antico concetto romano di populus significava ben poco nel mondo medievale, a eccezione di alcune città italiane e tedesche che godevano di un autogoverno parziale o totale. I contadini avevano propri rappresentanti solamente in Svezia, in Danimarca, in Norvegia e nel Tirolo. Essi sono stati di solito una forza politica passiva rispetto agli abitanti delle città, come la parola stessa ‛cittadino' suggerisce. All'interno dei tre stati, e nei loro rapporti reciproci, esisteva una vera vita politica. Il concepire la monarchia medievale come analoga sotto ogni aspetto a un dispotismo costituisce il più grossolano dei fraintendimenti. Il feudalismo era un sistema politico e sociale altamente decentrato, più spesso carente di un efficace potere centrale inteso al bene comune che non dotato di un potere eccessivo nei confronti delle libertà locali. Privo sia di un'idea di ‛Stato' o di ‛Nazione' che dello strumento di una burocrazia formalmente costituita, il monarca medievale si trovava costantemente ad avere bisogno del sostegno della Chiesa, della forza coercitiva della spada o del potere del denaro, cioè di uno o dell'altro dei tre stati.

Le origini dei parlamenti sono oscure, e in ultima analisi quella della prima comparsa dei parlamenti è una questione oziosa, dato che vi sono poche fasi veramente chiare nell'evoluzione (interrotta da molti passi a ritroso) dal Consiglio del re alle assemblee che rivendicavano il diritto di riunirsi perché erano rappresentative, e non semplicemente perché convocate. E perché venivano convocate? Ciò avveniva principalmente a causa della posizione semindipendente della nobiltà sotto il feudalesimo. La terra, un tempo in teoria proprietà universale del re, era per tradizione e di fatto posseduta dai capitani o dai baroni, o quali che fossero i loro nomi via via che la gerarchia sociale diveniva più complessa. Il servitium era di natura personale. Un uomo d'armi o un affittuario giurava fedeltà al suo signore, il quale giurava fedeltà al re, spesso anche attraverso qualche grande intermediario. Non c'era un giuramento di fedeltà al re pronunciato direttamente da parte di chi lavorava nei campi, o forgiava i metalli e portava le lance. Il re poteva costringere talvolta alcuni membri della sua nobiltà, mai tutti e sempre. Nel Consiglio del re (prima che vi fossero veri parlamenti) come anche nei Consigli regi (dopo la comparsa dei parlamenti) erano endemiche le dispute se i consiglieri occupassero il proprio posto perché scelti dal re a scopo di consultazione ovvero in virtù del proprio potere economico e militare. In ogni modo, è stata sempre cosa grave e pericolosa escludere gli uomini potenti; di conseguenza, i Consigli si ampliarono sempre più, fino a divenire inidonei alla funzione quotidiana di governo. Infine, il Consiglio si trasformò in un piccolo gruppo di uomini appositamente scelti, che si riunivano con periodicità più o meno regolare, mentre il parlamento divenne un consesso più vasto, in cui alcuni sedevano di diritto ma la maggior parte come rappresentanti di altri. Nel sec. XIII, tuttavia, è spesso estremamente difficile distinguere il parlamento dal Consiglio; sono quindi sorte frequenti dispute fra gli storici su quali fossero - tra le molte ch'essi senza dubbio adempivano - le funzioni fondamentali dei parlamenti.

‟Qual era la funzione del parlamento?", oppure ‟qual è la funzione del parlamento?" sono entrambe domande prive di significato: non solo infatti parlamenti diversi, ma il medesimo parlamento può adempiere diverse funzioni nello stesso tempo. Il massimo che possiamo fare è cercare di stabilire quali fossero le funzioni principali, mentre la loro importanza relativa varierà secondo il tempo e il luogo.

Alcuni storici ottocenteschi, come ad esempio il vescovo W. Stubbs nella sua Constitutionai history of England del 1878 (per prendere in considerazione solo il caso inglese), videro il sorgere dei parlamenti come la naffermazione di antiche libertà (di ascendenza principalmente sassone e germanica) contro il dispotismo regio (principalmente di tradizione romana). Altri, seguendo F. W. Maitland, intesero i primi parlamenti prendendo alla lettera la loro denominazione: ‛alta corte del parlamento'; la loro attività era soprattutto giudiziaria, consistendo nell'interpretare le leggi, e non nel legiferare, o nel dare ascolto a petizioni indirizzate al re riguardanti questioni secondarie relative a diritti locali. Fleta (pseudonimo di un giudice incarcerato) così scriveva durante il regno di Edoardo I: ‟il re ha [...] la sua corte nel consiglio dei suoi parlamenti, nei quali siedono prelati, baroni, conti, magnati e altri uomini saggi. Quivi vengono chiariti i dubbi riguardanti giudizi, vengono trovati nuovi rimedi per torti recentemente portati alla luce e viene amministrata la giustizia a ciascuno secondo i suoi meriti" (v. Bodet, 1968, p. IX).

Studiosi moderni quali Ch. McIlwain, H. G. Richardson, G. L. Haskins e G. O. Sayles hanno tutti sostenuto che i parlamenti erano essenzialmente corti di giustizia, mentre R. F. Traherne e B. Wilkinson affermano che il parlamento era un'istituzione essenzialmente politica - esterna al Consiglio del re - in cui i baroni si riunivano per trattare con il re sulle grandi questioni di Stato. T. F. Tout ha potuto asserire che i re portavano deliberatamente in parlamento rappresentanti delle città per controbilanciare il peso della nobiltà; e sir J. G. Edwards ha cercato di dimostrare che i primi parlamenti avevano una funzione sia politica che giudiziaria, e che nell'Inghilterra medievale gli stessi re vedevano nel parlamento un organismo dotato di svariate funzioni. Ma un elemento rimane costante in tutte le interpretazioni: la straordinaria importanza dei parlamenti nei riguardi dell'imposizione fiscale; e questo elemento si riscontra per ogni dove in Europa.

Ogni qual volta il re, a causa di cambiamenti di prezzi, di una cattiva amministrazione o di nuove iniziative politiche, non poteva raccogliere denaro a sufficienza dalle sue proprietà o dalle imposte tradizionali, o quando si rendevano necessarie imposte speciali, allora venivano convocati i parlamenti o era loro permesso di rimanere in sessione. Nella società feudale il sottrarre dei beni a qualcuno senza il suo consenso era avvertito come una minaccia per tutti, e l'atteggiamento era così radicato che, per esempio, un ribelle poteva perdere la vita, ma raramente, fino al tardo sec. XV, la famiglia avrebbe perso i suoi possedimenti. Inoltre, non c'era semplicemente il problema di ottenere il riconoscimento di un'imposta per qualche ‛scopo straordinario', ma anche quello di riscuoterla, cosa per molti aspetti anche più difficile. In linea generale, salvo alcune eccezioni, il parlamento rappresentava sia coloro che dovevano pagare le imposte sia coloro che avevano il compito di riscuoterle: nell'assenza di una burocrazia estesa e articolata e di un corpo di polizia, non c'era nessun altro che potesse riscuoterle se non i signori feudali, la nobiltà locale, e gli stessi mercanti delle città.

L'efficace slogan della Rivoluzione americana, ‟no taxation without representation", non era un mero pregiudizio feudale, ma illustrava una realtà politica; se i re volevano nuove imposte dovevano dare ascolto ai pareri, spesso franchi, duri e realistici, sulle possibilità e sulle modalità di riscossione ed erano costretti a fare delle concessioni. In taluni casi, tali concessioni andarono estendendosi sino a comprendere i diritti e i poteri dei parlamenti stessi: ebbe così inizio un processo - come si dice con termine brutto ma appropriato - di ‛istituzionalizzazione'; la necessità di imposte ‛straordinane' si rivelò perenne, e le riunioni delle rappresentanze degli stati da saltuarie divennero frequenti, anche se raramente regolari. La formula costituzionale inglese secondo la quale ‟la riparazione di un'ingiustizia da parte della corona deve essere presa in esame prima della concessione di fondi" non era un saggio di legge pietistica, ma una dura realtà politica, che poteva essere ignorata dal sovrano solo a suo rischio.

Nella convocazione del Model Parliament del 1295 comparve un motto latino, ‟quod omnes tangit, ab omnibus approbetur": una massima politica più che una norma giuridica. La chiave della storia dei primi parlamenti è il concetto feudale che un servizio personale, limitato e ben definito, reso a un superiore fosse normale e conforme alle consuetudini, mentre l'imposizione fiscale era un fatto fuori dell'ordinario. Nei casi in cui le assemblee furono originariamente convocate per consultazione sulle imposte, si osservò che, di fatto, la riscossione procedeva nel modo migliore se c'era il consenso delle assemblee e se queste s'impegnavano, almeno in una certa misura, a ripartirle fra i loro membri. In tal modo i due concetti, quello delle imposte come cosa straordinaria e quello della rappresentanza come cosa normale, vennero intrinsecamente collegati. I precedenti e i dettagliati meccanismi procedurali per le elezioni e la rappresentanza non vennero rinvenuti nella tradizione, o nelle scarse testimonianze sul mondo antico, ma nella prassi vigente in molti dei nuovi ordini monastici. I domenicani, in particolare, eleggevano gli abati e i superiori e tenevano dibattiti a tutti i livelli.

L'esempio inglese, tuttavia, è in parte fuorviante. Delle due indubbie funzioni del ‛parlamento' medievale, quella politica e quella giudiziaria, l'Inghilterra accentuò infatti la prima, giungendo quasi a escludere, seppur non completamente, la seconda; la Francia invece sviluppò i suoi parlements quasi interamente come istituzioni giudiziarie, gelose delle prerogative locali, il cui rilevante potere era spesso di natura ‛ostruzionistica', si da impedire abusi da parte di funzionari regi, ma anche da ostacolare il cammino del paese verso le riforme e l'efficienza. In Inghilterra l'elemento politico divenne così preponderante che già nel Cinquecento l'attività del parlamento consisteva nella produzione piuttosto che nell'interpretazione delle leggi; esso andava inoltre acquistando sempre più un carattere nazionale, ed era tanto lontano dal costituire un impedimento per la corona che Enrico VIII ebbe il sostegno del parlamento nella sua rottura con Roma, nella confisca dei beni ecclesiastici e nell'esautorazione definitiva dell'antica nobilità. In generale, mentre sul continente europeo la creazione dei nuovi Stati-nazione e la nascita di un ‛senso dello Stato' comportarono l'eliminazione dei parlamenti proprio perché si ravvisava in essi un'istituzione feudale e disgregatrice, in Inghilterra ‟the Tudor revolution of government", come l'ha definita Elton, fu effettuata con l'appoggio del parlamento. ‟Siamo informati dai nostri giudici - disse Enrico VIII al parlamento - che mai siamo stati tanto in alto nella nostra dignità reale quanto nell'epoca del parlamento, in cui noi come testa e voi come membra siamo uniti e costituiamo insieme un unico corpo politico" (v. Pollard, 19262, p. 231).

La concezione che il governo sia in Inghilterra the crown-in-parliament trova riscontro nei fatti. I parlamenti sopravvissero al mondo medievale in quanto diedero essi stessi un contributo diretto alla riforma dell'apparato statale, al rafforzamento dell'esecutivo centrale nazionale e alla creazione di una burocrazia, ciò che fu - per la società moderna - una condizione preliminare importante quanto le scoperte geografiche e scientifiche e le innovazioni economiche e tecnologiche. Solo alla fine del sec. XVIII e agli inizi del XIX doveva acquistare credito l'idea che i parlamenti, le assemblee e i congressi potessero governare direttamente: il breve ed eccezionale tentativo del Parlamento inglese di assumere le funzioni di governo durante il periodo del Commonwealth seguito alla guerra civile non era stato incoraggiante, e la prima metà del sec. XX avrebbe d'altro canto dimostrato che questa concezione dell'importanza e del ruolo dei parlamenti è in ultima analisi insostenibile. Essi sono condizione necessaria, ma niente affatto sufficiente, di una società libera.

3. I modelli classici

Esistono due concezioni delle funzioni di un parlamento o di un'assemblea, ambedue profondamente radicate ma anche alquanto contraddittorie. In realtà vi sono molte e varie forme intermedie e combinazioni; nondimeno, i due orientamenti di fondo rimangono sempre quelli del governo ‛di' un'assemblea, come fu tentato in Francia durante e dopo la Rivoluzione, o del governo ‛attraverso' il parlamento, quale fu realizzato in Inghilterra.

Il Parlamento inglese sopravvisse all'era medievale perché divenne lo strumento prescelto dalla Corona nella sua lotta per imporre la legge e l'ordine alla grande nobiltà. La Camera dei Comuni crebbe d'importanza rispetto alla Camera dei Lords, che fu d'altra parte soggetta a un'epurazione quasi continua e a un'immissione di sangue nuovo, spesso borghese. In nessun altro paese l'aristocrazia fu più forte, ma anche meno chiusa. Anche durante il regno di Elisabetta I la necessità del monarca di agire attraverso il parlamento per riscuotere imposte e per mobilitare l'opinione pubblica comportò limitazioni e tensioni. Dopo la morte di Elisabetta, il conflitto venne alla luce. La Corona perse il sostegno del parlamento e tentò di governare da sola, alla maniera allora abituale sul continente. Ciò si rivelò impossibile; d'altra parte, quando la guerra civile degli anni quaranta dette la vittoria militare alla causa del parlamento, altrettanto impossibile si rivelò - per il parlamento - governare da solo. Cromwell dapprima epurò e poi sciolse il parlamento, avendo constatato che una grande assemblea non poteva governare. Ma la restaurazione monarchica, avvenuta dopo la sua morte, rese evidente che né la Corona nè il Parlamento avrebbe potuto governare l'uno senza l'altro. Nei confronti del parlamento, Carlo II aveva tenuto un comportamento oscillante, talora adescandolo con lusinghe e favori, talora ignorandolo; in realtà, poté farne a meno fino a quando non ebbe grandi necessità, ma, nel momento in cui ebbe bisogno di aiuto, in denaro o in uomini, il parlamento dovette essere riconvocato. Quando il suo successore e fratello, Giacomo II, tentò di introdurre grandi cambiamenti ignorando il parlamento, il sistema andò semplicemente in pezzi.

Il 1644 aveva dimostrato che il re non poteva governare senza il parlamento; gli anni 1650 dimostrarono che il parlamento non poteva governare senza il re; toccò al 1688, infine, dare una formulazione legislativa alla necessità di un'armonia fra Corona e Parlamento. Da quel momento in poi, il re ha dovuto trovare ministri che potessero contare su una maggioranza alla Camera dei Comuni per ottenere il rinnovo annuale del potere d'imposizione fiscale e del potere di arruolare, mantenere e disciplinare un esercito; dal canto loro, i Comuni regolavano l'imposizione fiscale secondo le proposte dei ministri del re, senza assumere essi stessi l'iniziativa. La formula si sviluppò fino a che furono i leaders della maggioranza ai Comuni a esercitare i poteri della Corona: prima della fine del sec. XVIII il re aveva perduto ogni reale controllo sulla scelta dei ‛suoi ministri', e il primo ministro, in quanto leader del partito di maggioranza, esercitava i poteri della Corona.

L'oligarchia, e non la dinastia, governava l'Inghilterra, e lo faceva attraverso il parlamento. Dopo il Reform bill del 1 832 divenne evidente che solo il veto dell'elettorato in un'elezione generale costituiva il vero potere di controllo, e non più il veto reale, e neppure, se non di rado, una sconfitta del governo nell'aula dei Comuni.

Nel 1886 Gladstone, in veste di primo ministro, poteva dire alla Camera dei Comuni: ‟La vostra funzione non è quella di governare il paese, ma di chiedere a chi lo governa, quando lo riteniate opportuno, di rendere conto del suo operato". Egli stesso fu chiamato quell'anno a ‛rendere conto', fu sconfitto e dovette dare le dimissioni a causa del suo tentativo di concedere la home rule all'Irlanda. Ma, da allora a oggi, nessun governo inglese che goda della maggioranza è stato più sconfitto da un voto dei Comuni; talmente forte è il sistema bipartitico e talmente rigida la disciplina di partito: caratteristiche queste affatto peculiari quanto storicamente accidentali.

Le parole di Gladstone devono suonare autocratiche a orecchie francesi o americane; il Congresso americano, che nacque con il 1776, non conosceva ministri, creava commissioni e presidenti di commissioni, e sbrigava direttamente le eventuali questioni di portata nazionale. All'inizio erano infrequenti, poiché le tredici assemblee statali autonome erano estremamente gelose dei loro poteri, ma il caos economico e le continue minacce di guerra spinsero gli Americani a creare, nel 1787, un governo nazionale più forte, sia pure riservando ancora molti poteri alle assemblee degli Stati.

Per gli Americani, la presenza del ministro del re nell'aula della Camera dei Comuni, a Westminster, stava a significare la pressione e il controllo da parte dell'autorità regia sui rappresentanti eletti. Essi accolsero quindi la formula della separazione dei poteri, che era stata teorizzata da Locke e Montesquieu, e che d'altronde era stata praticata anche nelle loro assemblee locali. La nuova costituzione creò la figura del presidente, i cui poteri non dovevano però essere esercitati attraverso il Congresso, dovevano da questo venire controllati e controbilanciati. Sembrerebbe, quindi, che gli Americani credessero nel governo dell'assemblea, o meglio delle assemblee; di fatto, i poteri conferiti alla presidenza erano però molto vasti: con gli Inglesi ancora nel Canada, i Francesi nella Louisiana, e gli Indiani desiderosi di rivalsa alle frontiere occidentali, il presidente doveva essere un comandante in capo; ed era necessario mettergli a disposizione, magari inventandoli, dei ‛poteri straordinari' che gli permettessero, in caso di emergenza, di agire con celerità a difesa della Repubblica (in pratica, si riscoprì l'antica dottrina romana della dittatura costituzionale). Era come se lo spettro del fiorentino Niccolò Machiavelli incombesse sul tentativo di realizzare una costituzione puramente popolare.

Benché il Congresso abbia poteri molto maggiori del parlamento in materia di iniziativa e di controllo dell'attività legislativa, per ciò che concerne il problema di una linea politica coerente e stabile si trova oggi più o meno nella stessa situazione, malgrado le reali o presunte differenze specifiche: esso cerca di controllare il governo, possiede il potere costituzionale e politico per esercitare un certo grado di controllo sul governo, cioè sul presidente, ma non governa direttamente.

In Francia, l'idea dominante in tutte le forze politiche della Rivoluzione era quella di un'assemblea, eletta dal popolo, che governasse direttamente per mezzo di sedute plenarie o di commissioni. Limitazioni costituzionali, sia di tipo formale (al modo americano), sia di tipo informale (al modo inglese), erano considerate come impedimenti alla sovranità del popolo, che era dichiarata ‛indivisibile': non poteva cioè essere delegata né a ministri di Stato né ad assemblee provinciali. L'immagine di un governo assembleare aveva in realtà, sull'Europa ottocentesca, un ascendente molto maggiore del modello inglese, più conservatore (o whiggish, per essere più esatti). Che un governo siffatto si fosse sempre dimostrato incapace di governare non aveva importanza: la responsabilità era attribuita alle forze della reazione, a cospirazioni, alla mancanza di spirito civico. Perfino durante la Restaurazione borbonica, i membri di un parlamento eminentemente realista, eletto in base al censo, delusero le aspettative di quanti pensavano si sarebbero comportati come i tories che, nel Parlamento inglese, davano lealmente il loro sostegno ai ministri della loro amata Corona. E con il ritorno dei regime repubblicano in Francia, particolarmente dopo la caduta del Secondo Impero e con l'avvento della Terza Repubblica, si realizzò un modello classico di assemblea che governava direttamente, con costanti cambiamenti di ministri e fluttuazioni di coalizioni.

Si pone spesso la domanda se parlamenti o assemblee siano o no sovrani, se siano l'autorità suprema, se possano fare qualsiasi cosa rientri nell'ordine delle possibilità o se siano soggetti alle superiori limitazioni sancite dal diritto naturale o da una costituzione. Il contrasto fra l'Inghilterra e gli Stati Uniti è evidente. Nei secc. XVIII e XIX gli Inglesi parlavano costantemente della ‛sovranità del parlamento'. Ancora recentemente, nel 1957, l'‛Erskine May', la guida ufficiosa delle procedure, delle regole e delle consuetudini del parlamento inglese, poteva affermare: ‟La costituzione non ha imposto alcun limite all'autorità del parlamento su tutte le materie e le persone sotto la sua giurisdizione. Una legge può essere ingiusta e contraria a sani principi di governo, ma il parlamento non è soggetto a controlli nella sua discrezionalità e, quando sbaglia, i suoi errori possono essere corretti solo dal parlamento stesso" (v. May, 195716, p. 28). Non esiste alcuna circostanza nella quale tribunali inglesi possono dichiarare incostituzionale un atto del parlamento, e lo stesso dicasi di qualsiasi iniziativa di un ministro o di un pubblico funzionario autorizzati da una legge.

Negli Stati Uniti, invece, la Corte Suprema può - com'è di fatto accaduto - dichiarare incostituzionali atti del Congresso, impedendo così che divengano leggi: la costituzione scritta è ritenuta superiore alle assemblee legislative: ‟un governo di leggi e non di uomini", come disse J. Adams, uno dei padri fondatori.

La tradizione francese, a partire dalla Rivoluzione e dalla Costituzione del 1791 in poi, è stata quella di dichiarare formalmente, in una costituzione scritta, che la sovranità risiede nel popolo e che le assemblee elette rappresentano il popolo, ma anche che il popolo ha dei diritti naturali che nessun governo o assemblea può insidiare. Con la Quarta e la Quinta Repubblica, tuttavia, la Francia si è volta da un modello centrato sulla sovranità popolare a un modello centrato sul potere esecutivo, che però è costretto, un po' alla maniera inglese, a governare attraverso il parlamento.

In pratica, tuttavia, entrambi i principi, ‛la sovranità del parlamento' e ‛la costituzione al di sopra del Congresso', sono fortemente limitati da fattori politici. Un congresso, un'assemblea o un parlamento, in un sistema federale quale gli Stati Uniti o la Svizzera, servono anzitutto come strumento di conciliazione. La necessità di tenere unito un paese diversificato e pluralistico rappresenta una realtà politica molto più importante dei poteri formali, per esempio negli Stati Uniti, della Corte Suprema o del Congresso. Nel modello inglese, poi, la sovranità del parlamento è nozione vuota se non si forma, nel parlamento, un consenso politico attorno a dei leaders e se, d'altra parte, il parlamento stesso non ha dietro di sé il consenso politico del paese. Ciò che il parlamento può fare è determinato, infatti, da fattori politici e sociali assai più che non da norme costituzionali formali.

Una caratteristica, tuttavia, accomuna sia il modello americano che quello francese al modello inglese successivo al 1832, differenziandoli tutti dai vecchi parlamenti: dopo la Rivoluzione tutte le assemblee e tutti i parlamenti si trovarono sottoposti a una crescente pressione perché si aprissero al pubblico. I rappresentanti dei grandi interessi non potevano più continuare a trattare l'uno con l'altro e con la monarchia in condizioni di semisegretezza; dopo la Rivoluzione le assemblee riformatrici avevano bisogno di pubblicità, di far arrivare la propria voce al popolo, e lo stesso valeva, sia pure per motivi diversi, anche per i regimi conservatori: un parlamento leale poteva conseguire l'obiettivo di mantenere l'ordine e il rispetto per i governanti con maggior efficacia dei governanti stessi (l'esempio classico di ciò fu la pazienza dimostrata da Bismarck nei confronti del parlamento).

J. Bentham formulò il grande problema pratico del suo tempo: tradurre tutte le norme di procedura parlamentare, derivanti da tante diverse tradizioni, in norme che fossero intellegibili da tutti. Nel suo Essay on polilical tactics (1816) egli cercò di ridurre la grande massa delle norme di procedura a un codice semplice, inteso ad assicurare che ogni assemblea potesse produrre una maggioranza operante che riflettesse la pubblica volontà. Il trattato di Bentham, nella traduzione di P. Dumont, pubblicata a Ginevra, ebbe grande influenza sulla Svizzera e sui Parlamenti francesi della Restaurazione; contribuì perfino a stabilire la procedura dell'Assemblea Nazionale tedesca del 1848, il famoso Parlamento di Francoforte, e di lì la sua influenza si estese all'Europa centrale.

Per Bentham era di primaria importanza che i parlamenti fossero pubblici, e di ciò egli addusse sei ragioni: 1) per costringere i membri dell'assemblea a fare il loro dovere; 2) per assicurare la fiducia del popolo e il suo consenso alle risoluzioni dell'assemblea; 3) per rendere possibile ai governanti di venire a conoscenza dei desideri dei governati; 4) per rendere possibile agli elettori di fare scelte ragionate in occasione delle elezioni; 5) per permettere all'assemblea di trarre vantaggio da informazioni provenienti dal pubblico; 6) per offrire occasioni d'intrattenimento: motivo, quest'ultimo, per null'affatto bizzarro, poiché i regimi parlamentari devono pur avere un qualche equivalente della pompa e della curiosità pettegola che accompagnano le autocrazie, e guai quando essi appaiono, specialmente ai giovani, noiosi e privi d'interesse.

Bentham era vicino a una valutazione moderna della pubblicità; egli comprendeva come essa sia importante non solo nel senso di permettere ai governi di ascoltare il popolo, ma anche nel senso opposto - e altrettanto vitale, se il potere non deve usare la coercizione nell'influenzare la gente - di permettere ai governati di ascoltare i governanti; la pubblicità è cioe' importante ai fini di quella che un commentatore americano dei giorni nostri, S. Beer, ha definito ‟la mobilitazione del consenso", mobilitazione che deve riguardare i regimi parlamentari altrettanto quanto i regimi autocratici.

4. I parlamenti moderni e la formazione dello Stato

Il risorgere dei parlamenti come elemento tipico del sistema politico fu una conseguenza della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. I nuovi parlamenti, tuttavia, a differenza dei loro antecedenti feudali, erano quasi dovunque strumento del potere della borghesia contro l'ancien régime e l'aristocrazia. Furono i Francesi a introdurre le assemblee in Svizzera, in Olanda e in alcuni Stati italiani. Si trattò di un'esperienza breve e prematura di governo repubblicano, che promosse tuttavia una diffusa richiesta di parlamenti nazionali, come conseguenza del sentimento popolare nazionale che proprio l'esempio francese aveva attizzato dappertutto in Europa, in gran parte come reazione alle ambizioni napoleoniche e al nazionalismo francese.

Se una nazione voleva essere governata come nazione, e non come proprietà di una dinastia, quale istituzione avrebbe dovuto sostituire la monarchia dinastica? La risposta delle dinastie era: una monarchia nazionale; ma spesso tale risposta era insufficiente sia a contenere i fermenti nazionali che a suscitare e guidare una mobilitazione nazionale contro i Francesi. Fu così che parlamenti furono concessi in molti degli Stati tedeschi minori e in Svezia, e, quando fu costituito, nel 1815, il Regno dei Paesi Bassi si configurò come una monarchia costituzionale parlamentare.

Nel 1830 fu istituito in Francia un sistema parlamentare di gran lunga più borghese del compromesso aristocratico della Restaurazione borbonica; del resto, neppure la Restaurazione borbonica aveva osato governare - secondo la tradizione assolutistica - senza un'assemblea popolare, come invece avevano continuato a fare la Prussia, l'Austria e la Russia.

I moti del 1848 accelerarono la crescita del parlamentarismo. Le rivendicazioni di autogoverno nazionale contro le autocrazie apparivano identiche alla richiesta di una limitazione dei poteri dei governi e di una costituzione, il che, a sua volta, sembrava implicare necessariamente un parlamento. In altri termini, il parlamento venne identificato come l'istituzione nazionale, mentre nella monarchia dinastica si venne invece ravvisando un'istituzione non nazionale o cosmopolitica. Le lotte quarantottesche per l'indipendenza nazionale miravano tutte all'instaurazione di parlamenti e costituzioni, a differenza di quelle che seguirono alla seconda guerra mondiale. Gli eventi del 1 848 spinsero molte monarchie a concedere costituzioni in tutta fretta e a convocare una qualche specie di assemblee nazionali. Lo Statuto concesso nel 1848 da Carlo Alberto, re di Sardegna, divenne lo strumento di cui Cavour si valse per stimolare il sentimento nazionale e conciliarlo con gli interessi piemontesi: esso doveva diventare la base costituzionale del nuovo Stato nazionale, e, nell'Italia unificata, il parlamento fu, sin dall'inizio e malgrado tutte le debolezze e discordie al suo interno, la più importante istituzione del paese.

Il Reichstag tedesco istituito nel 1871 era formalmente molto democratico per la sua base elettorale e per le sue procedure; era però privo di potere reale e la gran parte dell'opinione pubblica guardava all'imperatore, e non al Reichstag, come fattore di unificazione, il che era del resto conforme alla realtà storica (naturalmente, dire imperatore voleva dire Bismarck). Anche la concessione di una costituzione nel 1867 per l'Austria-Ungheria era più teorica che effettiva. L'istituzione comunque esisteva, cosicché subito dopo il 1918 - cioè dopo la sconfitta e il crollo delle vecchie monarchie degli Hohenzollern e degli Asburgo - poté imporsi abbastanza facilmente l'idea che i parlamenti prendessero direttamente le redini del governo, benché nelle peggiori circostanze possibili. È interessante notare che quando il Giappone, per una precisa scelta dell'imperatore, decise di occidentalizzarsi, e inviò negli anni 1880 la famosa missione imperiale in Europa per decidere quale fosse il miglior modello cui ispirarsi, la scelta cadde su un parlamento alla tedesca, e non all'inglese, come comunemente si crede. La missione si rese conto perfettamente che il Parlamento tedesco costituiva un impedimento minore per l'autorità imperiale, e poteva anzi persino rafforzarla col darle un'apparenza di legittimità democratica.

Solamente la Russia rimase completamente fuori da questi sviluppi occidentali. Solo nel 1905 lo zar Nicola II permise la convocazione di un'assemblea nazionale, la Duma, ma la considerò sempre come una minaccia, risentendosi per qualsiasi tipo di critica, cosicché l'istituzione non ebbe mai modo di svilupparsi in modo tale da assicurare nel 1917 e 1918, com'era avvenuto per la Germania, la continuità della vita nazionale anche durante il cambiamento di regime.

Gli avvenimenti nel Sudamerica e nella Spagna durante il sec. XIX non consentono uno sguardo d'insieme; comunque, quasi nessun paese del mondo ispanico mancò di istituire un'assemblea o un parlamento, anche se in taluni casi questi istituti si ridussero presto, ancor prima della fine del secolo, a un'esistenza prevalentemente nominale, dominati o ignorati com'erano dai capi militari.

I parlamenti furono quindi, quasi dovunque nell'Europa ottocentesca, lo strumento del nazionalismo. Che non ci fosse alcunchè d'inevitabile in questo processo è mostrato dal gran numero di Stati sorti dopo il 1945 in seguito al crollo degli imperi coloniali europei: fin dall'inizio questi Stati o non hanno affatto avuto un parlamento, o hanno avuto semplicemente un'assemblea del partito unico dominante, convocata di rado e solo per acclamare e per ricevere ordini. Lo strumento principale del processo di formazione nazionale in epoca postcoloniale è stato il partito politico, anzi il partito unico, e con esso la conservazione, anche una volta raggiunta la vittoria, dell'atmosfera di unità e di combattività creata durante la lotta di liberazione. Vi sono però importanti e interessanti eccezioni. L'India è rimasta decisamente parlamentare, senza che il presidente o l'esercito, malgrado gravi crisi, abbiano mai modificato un regime d'impronta fondamentalmente inglese. Le divisioni di lingua, di cultura e di religione sono state talmente gravi da far temere lo sfacelo del paese o la necessità di poteri dittatoriali per mantenere l'unità; ma sembrerebbe che in India tutte le élites dominanti credano nelle virtù e nei vantaggi del sistema parlamentare e che questo sistema corrisponda alla volontà della gente. Anche un piccolo Stato creato dalla guerra e sopravvissuto vittorioso ad altre tre guerre disperate, in condizioni di perenne pericolo e crisi - uno Stato cioè che, secondo ogni criterio classico di scienza politica, dovrebbe essere un'autocrazia, se non altro durante l'emergenza si mantiene invece decisamente parlamentare: Israele. Israele è un esempio di Stato fondato da esuli con poca o punta esperienza o tradizione di partecipazione politica, uno Stato fondato da gente che credeva tuttavia appassionatamente nella partecipazione politica in senso classico, ravvisando in essa la vera antitesi alla condizione di mero suddito di un regime oppressivo.

Il pessimismo circa il destino dei parlamenti nel mondo moderno può venire esagerato: gli stessi regimi arabi arriveranno forse a comprendere che parte della superiorità militare d'Israele nei loro confronti risiede nel morale più saldo che deriva da un genuino regime parlamentare basato sulla partecipazione, mentre i loro paesi rimangono ancorati alle vecchie contrapposizioni tra dominanti e dominati, leaders e seguaci; nè importa, sotto questo aspetto, quanto grande possa essere l'altruismo e il sentimento nazionale nutriti dai leaders.

5. Il supposto declino dei parlamenti

Senza dubbio la fine dell'Ottocento vide il massimo sviluppo dell'ideologia del sistema parlamentare. Pochissimi dubitavano, e ancor meno negavano, che la civiltà e il progresso fossero in qualche modo collegati con le istituzioni rappresentative e con i parlamenti. Se Marx aveva messo in risalto la natura borghese dell'istituto parlamentare, ciò difficilmente poteva suonare come una condanna, ma indicava piuttosto una fase necessaria dell'evoluzione. Ciò che sarebbe seguito era estremamente vago: forse una forma diversa d'istituzione rappresentativa; ma che importanza ha un nome? L'essenziale è che vi sia un'istituzione eletta dal popolo, che le elezioni siano libere, oneste e periodiche, e che questa istituzione possa o governare o controllare il governo, anche se ‛controllo' a volte significa solamente ‛influenza'. Nel pensiero di Marx, il ruolo preciso del partito, e in particolare del partito comunista, nello Stato era tutt'altro che definito; ad ogni modo per la stragrande maggioranza dei pensatori il progresso, sia sul piano dell'industria che su quello dell'istruzione, era legato all'esistenza di istituzioni parlamentari.

Alcune di queste credenze andarono semplicemente in pezzi nel terrore e nell'estremo caos della prima guerra mondiale. La sconfitta della Russia portò alla fine del regime zarista, ma distrusse anche in gran parte le possibilità di sopravvivenza della Duma in mezzo a crisi così gravi e totalmente impreviste. La sconfitta della Germania portò alla caduta della monarchia e aprì la porta a un sistema parlamentare, dato che già esisteva un parlamento sperimentato, anche se fino ad allora relativamente privo di poteri; ma ciò avvenne in circostanze tali che resero il regime parlamentare e la stessa Germania di Weimar il capro espiatorio di quasi tutte le recriminazioni conseguenti alla sconfitta.

Malgrado la vittoria nominale, il regime parlamentare italiano, screditato dalla condotta della guerra, dalla disoccupazione operaia e dal timore del comunismo diffuso nelle classi medie, si diede con sorprendente facilità - considerando la tradizione repubblicana del secolo precedente - nelle mani dell'ambiguo, ma chiaramente antiparlamentare fascismo di Mussolini.

In Germania e in Italia, e ben presto in Spagna e nell'Europa orientale, cominciò a emergere un'ideologia antiparlamentare. I parlamenti, sosteneva tale ideologia, facevano accomodamenti anziché prendere decisioni, non erano altro che botteghe di chiacchiere e mercati delle vacche, nient'altro che canali di promozione sociale per una borghesia ambiziosa; erano pacifisti mentre i tempi richiedevano una maggiore combattività; erano dominati dai socialisti e deboli verso i comunisti; erano quindi allo stesso tempo una minaccia per la proprietà privata e una creatura del capitalismo internazionale giudaico-americano; infine, si facevano vestali delle virtù liberali della tolleranza e del compromesso in un'era in cui erano necessarie azioni eroiche e risolute. Non tutti gli antiparlamentari erano nazisti e fascisti, anche se facevano il loro giuoco; molti conservatori e nazionalisti rispettabili, per esempio in Germania, sonavano la stessa musica. Inoltre nessuno dei regimi parlamentari del mondo occidentale sembrava capace di contenere la disoccupazione degli anni venti, e la Germania fu colpita due volte da un'inflazione galoppante.

Molti studiosi seri, negli Stati Uniti e in Inghilterra, non credevano che un governo parlamentare potesse fronteggiare la disoccupazione. Gran parte degli assurdi timori nutriti, nei confronti del ‛bolscevismo' di Roosevelt e del suo moderato New Deal, dagli uomini d'affari americani derivava dalla loro convinzione (fortunatamente erronea) che una disoccupazione delle proporzioni di quella del 1931-1932 non potesse essere superata se non con mezzi draconiani e dittatoriali.

In Inghilterra molti liberali e socialdemocratici temevano che il ‛governo nazionale', la coalizione del 1931, avrebbe condotto a un regime monopartitico e all'erosione di tutti i reali poteri del parlamento. Negli anni trenta la maggior parte degli osservatori politici in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia guardavano alla Germania, alla Russia e all'Italia, e prestavano fede a quanto tali regimi venivano dicendo circa la loro capacità di decisione e la loro efficienza, e di conseguenza parlavano del ‛prezzo', in termini di efficienza, che i regimi parlamentari dovevano pagare per salvaguardare la loro libertà. La propaganda di Hitler e di Mussolini costruì un grande mito sulla superiore efficienza dei regimi totalitari. Di fatto, la storia economica della seconda guerra mondiale smascherò come meramente retoriche molte di quelle chiacchiere sul controllo e sulla pianificazione totale. Quando, per la prima volta nel 1939, i capi di stato maggiore della Germania e dell'Italia s'incontrarono per coordinare i loro piani militari, ai fascisti fu chiesto il numero dei loro bombardieri e caccia operativi; essi risposero che avrebbero dovuto telefonare ai comandi delle zone militari e chiedere loro di fornire le cifre, dato che le decisioni in materia erano decentralizzate. I capi nazisti si contendevano l'un l'altro le scarse risorse per la produzione bellica: il Führer poteva si emanare decisioni immediate, ma lo fece raramente, e difficilmente un altro avrebbe osato farlo. Il nazismo totalitario decise la coscrizione delle donne solo nel 1944, quando era già con le spalle al muro; l'Inghilterra parlamentare aveva chiamato in servizio le donne fin dal 1941.

L'Inghilterra riuscì, in realtà, a trasformare un sistema parlamentare in una dittatura bellica estremamente efficiente anzitutto perché la gente era disposta a lavorare in gruppo, era abituata a farlo, ed era altresì disposta a prendere decisioni in proprio, ben sapendo che la punizione per l'insuccesso non sarebbe stata la morte o la prigionia, ma la ‛promozione' alla Camera dei Lords o al governatorato di qualche isola tropicale.

È certo però che ci furono debolezze da parte dei regimi parlamentari nel periodo fra le due guerre mondiali. Il rapido crollo della Francia sotto l'offensiva tedesca del 1940 fu dovuto a fattori tanto politici che militari: le truppe francesi avevano perduto la fiducia negli uomini politici molto prima di perderla nei loro generali. In ogni modo, nell'esperienza concreta della seconda guerra mondiale i regimi parlamentari si dimostrarono almeno altrettanto capaci degli Stati a partito unico di mobilitare le loro popolazioni per sforzi e sacrifici eccezionali.

Dopo la seconda guerra mondiale, alcuni regimi parlamentari non sono più rinati a causa di conquiste e intimidazioni (come nell'Europa orientale), sebbene si debba notare che, anche in questi casi, i vecchi parlamenti nazionali adempiano ancora a una funzione di legittimazione. Essi esistono, si riuniscono, approvano risoluzioni e dibattono questioni di scarsa importanza; anche se la realtà è quella del governo di partito, anzi governo dei capi del partito, con scarsissimi resti di democrazia pluripartitica, la forma del regime parlamentare continua nondimeno a sussistere: il vizio paga alla virtù almeno l'omaggio dell'ipocrisia.

La maggior parte dei nuovi Stati africani, come abbiamo già notato, sono spesso nati come regimi parlamentari, ma in seguito si sono convertiti in regimi meramente partitici, in autocrazie, o in regimi militari; alcuni di essi conservano un parlamento sul tipo di quelli dell'Europa orientale, altri hanno fatto a meno delle formalità. Si dice che le circostanze favoriscano il dominio del partito unico, o anzi che lo renda indispensabile la necessità di concentrare gli sforzi e le risorse umane nella battaglia per un rapido sviluppo economico. Si tratta di una questione complessa, e i dati a disposizione sono nel contempo molteplici e malcerti. A volte la cosa può anche essere vera, benché molto dipenda da ciò che s'intende per ‛rapido'; rimane anche da sapere perché, con l'occhio ai tempi lunghi, la rapidità sia sempre da preferire: uno sviluppo economico controllato, che permetta il graduale adattamento dei processi sociali indotti, potrebbe ben essere una soluzione migliore. Ma spesso la pretesa necessità di un governo monopartitico è solo una squallida scusa per la libido dominandi e per l'intolleranza nei confronti dell'opposizione. Si potrebbe anzi sostenere che per le autocrazie di ogni sorta una programmazione efficace risulta più difficile, e non già più facile; la programmazione sembra funzionare meglio quando c'è libertà di discussione, quando le punizioni per gli errori o gli insuccessi non sono drastiche, e quando contempla anche la possibilità di apportare agevolmente modifiche - nei casi di cattivo funzionamento - secondo un atteggiamento sperimentale ed empirico, che non invece quando il raggiungere le mete prefisse dal ‛piano' diventa una questione di prestigio del partito e del suo amato capo.

I regimi parlamentari presentano dunque dei vantaggi, nel lungo periodo, sia sul piano dello sviluppo economico che su quello delle libertà personali. Gli uomini del Sette e Ottocento, in Europa, non attaccavano l'ancien régime solamente in nome delle libertà civili, ma anche perché l'autocrazia appariva restrittiva, inefficiente e, spesso, lenta e contraddittoria nelle questioni economiche anziché rapida e risoluta (il mito fascista): essi si opponevano non meno alla sua irragionevolezza che alla sua costante oppressività.

Ci sono ragioni valide per pensare che le autocrazie non rappresentino strumenti efficaci per operare trasformazioni sociali rapide: occorre o un totalitarismo pienamente dispiegato (del tipo russo, cinese, o nazista) oppure un regime parlamentare libero. Bisogna scegliere - come Machiavelli nei Discorsi sembra suggerire per la politica in genere - fra una cosa o l'altra, poiché le forme intermedie di solito falliscono.

Se è vero che la storia postbellica dei parlamenti in Africa e nell'Asia sudorientale è stata ‛deprimente', tuttavia la Germania occidentale, l'Italia e il Giappone hanno tutti dato vita - con vario successo, ma pur sempre con successo - a regimi parlamentari. Per la prima volta il Giappone ha un vero parlamento, che può creare e influenzare un primo ministro senza alcun'altra autorità (imperatore o esercito) sopra di sé. La Repubblica Federale Tedesca ha prodotto quella che è probabilmente la più interessante costituzione del dopoguerra: una fusione meditata delle esperienze americane, inglesi e tedesche. Il sistema partitico ha prodotto in genere maggioranze efficienti; d'altro canto, coalizioni sono state possibili senza disastri, e il prestigio del parlamento e del regime si sono conservati alti.

L'Italia è afflitta da problemi derivanti dalla mancanza di un partito con una netta maggioranza e dalla instabilità delle coalizioni: il governo è debole, mancandogli un consistente appoggio parlamentare. Il ricordo dell'esperienza passata rimane nondimeno vivo, e la costituzione gode di un vasto e generale sostegno. Benché il suo funzionamento non sia soddisfacente, nessuno ha il timore che la situazione vada deteriorandosi; tra l'altro, l'ormai trentennale vicenda del parlamento ha fatto anche del Partito Comunista Italiano il più costituzionale e il più nazionale tra i partiti comunisti dell'Europa occidentale. Il vecchio repubblicanesimo parlamentare della giovane Italia unita sopravvive ancora, e il costituzionalismo più conservatore dei democristiani, pur diverso da esso, non ne differisce tuttavia in maniera pericolosa.

In Spagna, già prima della morte di Franco, si dava comunemente per scontato che - sia per le necessità del progresso industriale sia per il desiderio di partecipare alla vita dell'Europa - il paese poteva essere adeguatamente governato soltanto mediante istituzioni parlamentari; e il regime parlamentare è infatti rinato sotto la forma di una monarchia costituzionale. Le differenze regionali e sociali rimangono grandi come per l'innanzi, ma la maggioranza dei gruppi ha imparato la lezione del passato e la tolleranza ha prevalso. Il Partito Comunista Spagnolo si è dimostrato altrettanto favorevole di quello italiano al regime parlamentare.

Verso la metà degli anni settanta sia la Grecia che il Portogallo hanno visto la fine della dittatura e il ritorno al regime parlamentare.

6. L'evoluzione della funzione dei parlamenti

Nel suo realistico, anche se antidemocratico, libro del 1867, The English constitution, W. Bagehot individuò cinque funzioni fondamentali del parlamento. Egli vedeva il parlamento come un'assemblea elettorale che sceglie il primo ministro o il presidente (ciò che non è sempre vero). Egli identificò una ‟funzione espressiva": il parlamento ha il compito di ‟esprimere le opinioni del [...] popolo su tutte le questioni che gli vengono presentate"; parlò poi di una ‟funzione educativa": ‟non è possibile porre al centro di una società un grande e aperto consesso di uomini eminenti senza modificare la società stessa". C'è poi la ‟funzione informativa", che ci consente di venire ‟in qualche misura a conoscenza di ciò che altrimenti non sapremmo". ‟Infine - concludeva Bagehot - c'è la funzione legislativa, di cui sarebbe assurdo negare la grande importanza, ma a proposito della quale mi limito soltanto a negare che sia importante ‛quanto' la direzione esecutiva dell'intero Stato, o l'educazione politica che il parlamento dà all'intera nazione

Cento anni più tardi stiamo ancora cercando di liberarci dell'idea che il parlamento fallisca se non legifera direttamente o almeno se non modifica sostanzialmente la legislazione. La vecchia teoria democratica dell'epoca del laissez-faire asseriva che i corpi legislativi si sostituivano agli autocrati in quanto legislatori. Oggi è forse molto più realistico affermare che soltanto un potere esecutivo con un'estesa e potente burocrazia può produrre quella legislazione complessa e armonica nelle sue varie parti che è necessaria alle società moderne. La funzione del corpo legislativo è quella di ottenere che la pubblica opinione intenda i problemi impliciti nelle nuove leggi e dia eventualmente a esse il proprio sostegno; la sua funzione non è quindi di respingerle ma, se è il caso, di criticarle pubblicamente, con forza ed efficacia, cosi da accrescere, se possibile, il peso di coloro che vogliono la sconfitta del governo alle elezioni successive. I corpi legislativi non possono legiferare direttamente in modo efficace; essi possono però: 1) influire sulla legislazione d'iniziativa del governo; 2) influenzare il pubblico pro o contro il governo. Quando i regimi parlamentari sono stabili, è sempre l'elettorato - più che il parlamento - a fare o disfare i governi.

Le vecchie teorie costituzionali erano state elaborate con l'occhio fisso ai poteri giuridici che il parlamento doveva o non doveva avere nei confronti dell'esecutivo. Ma l'esperienza di oggi, sia in economia che in politica, induce sempre di più a mettere l'accento sull'importanza delle ‛comunicazioni' (e quindi l'importanza di restringerle o ampliarle) piuttosto che sulle sanzioni dirette, di qualunque natura siano. Il parlamento è qualcosa che si trova fra un popolo e il suo - potente ma transitorio - governo, e funge da strumento di comunicazione e di mediazione fra i due. Un parlamento che oggi bocciasse continuamente le leggi promosse dal governo rischierebbe piuttosto di distruggere il regime anziché prevenire gli abusi più gravi. Il destino della Terza e anche della Quarta Repubblica francese è istruttivo: in entrambi i casi un eccesso di potere parlamentare danneggiò il sistema democratico. Anche in Grecia al regime parlamentare si associò l'instabilità del governo. I parlamenti sono le istituzioni democratiche più importanti, ma per null'affatto le uniche. La partecipazione a libere associazioni, l'esistenza di sindacati e di associazioni imprenditoriali, una stampa libera, un sistema educativo non irreggimentato e un potere giudiziario indipendente sono tutti elementi di quella che alcuni autori chiamano con termine appropriato civic culture. L'opposizione e la persuasione politica non operano soltanto attraverso il parlamento; il parlamento è talmente importante che non dobbiamo schiacciarlo affibbiandogli tutto il peso della difesa della libertà politica.

In questo contesto l'esperienza inglese è rilevante, se non si considerano i pittoreschi particolari procedurali. Il controllo parlamentare non è mai stato, in Inghilterra, il nemico di un governo forte ed efficiente, è stato anzi la sua prima condizione: il parlamento sostiene e controlla i governi allo stesso tempo. Il sistema politico inglese ha goduto di una stabilità unica perché è riuscito a combinare un governo forte con una forte opposizione. I governi devono governare, ma essi governano nel miglior modo quando sono soggetti a quell'opera di sorveglianza e di critica che i parlamenti o esercitano direttamente o riflettono, concentrandola, quando provenga da altri: stampa, mezzi d'informazione, autorità di ogni genere, ecc. Il ‛controllo parlamentare', concepito realisticamente, non significa tanto la lontana minaccia di far cadere il governo con un voto dell'assemblea, quanto badare a informare l'elettorato e influire sul governo con inchieste, dibattiti, e con la sorveglianza dell'amministrazione. Fondamentalmente, i parlamenti moderni non devono essere concepiti come governi, nè come rivali dei governi, ma come sistemi di comunicazione che collegano i governi e gli elettori.

Le incombenze di un governo moderno sono troppo complesse per permettere alle commissioni parlamentari, per quanto bene attrezzate, di legiferare direttamente, almeno non nel senso di operare in modo organico o comunque di evitare contraddizioni nella legislazione. La libertà dipende dal diritto di criticare i governi, dalla capacità di farlo, e dal farlo effettivamente; e la libertà è il prodotto di molte altre istituzioni oltre al parlamento: essa sarà perduta se verrà a dipendere interamente dal parlamento, ma non funzionerà bene senza un parlamento. Ciò che è d'importanza fondamentale per un regime libero non è la possibilità che un governo sia sconfitto ogniqualvolta introduca una legge impopolare, ma che possa essere sconfitto in elezioni imparziali. Le consultazioni elettorali meritano considerazione altrettanto quanto il parlamento.

Nella realtà accade che, a causa della complessità stessa degli affari di un governo moderno, molte decisioni vitali che toccano la vita della gente non siano prese tramite nuove leggi, ma tramite semplici decisioni amministrative sulla base di vecchi regolamenti o di poteri discrezionali. Una siffatta attività deve essere sorvegliata; il potere e il peso delle burocrazie moderne impongono un'attenta sorveglianza da parte delle commissioni parlamentari, anche se, per la natura delle cose, le indagini e i controlli potranno essere soltanto retrospettivi.

I governi trovano un limite alla loro azione nella consapevolezza che, in parole povere, la gente si rende conto del perché viene presa questa o quella decisione. Essi temono l'opinione pubblica quando comincia a prendere forma in vista delle prossime elezioni; i parlamenti possono influire in larga misura su questo processo, e in maniera molto più determinante di quanto possano o debbano farlo nei riguardi di leggi specifiche.

I parlamenti devono essere concepiti come un elemento, necessario ma da solo non sufficiente, di un libero sistema politico. Dopo i disastrosi fallimenti di alcuni parlamenti durante gli anni trenta, e nella totale assenza d'istituzioni parlamentari presso la maggioranza dei popoli del mondo, dobbiamo stare estremamente attenti a non pretendere troppo. Se, per descrivere un certo tipo di regime, adoperiamo la locuzione di ‛sistema parlamentare' (parliamentary government), dobbiamo anche tener presente che se si verifica un collasso dell'esecutivo, nessun parlamento potrà sopravvivere a lungo; dobbiamo dunque dire, riformulando la definizione: ‛regimi in cui si governa attraverso il parlamento' (regimes of government through parliament). Si delinea così una fondamentale differenza fra un governo che, per ottenere e mantenere il consenso, è obbligato ad affrontare un dibattito pubblico in parlamento, e un governo che può tenere segrete le sue ragioni e le sue previsioni, e perfino le sue intenzioni di fondo.

I parlamenti hanno sempre più il ruolo di preparare l'opinione pubblica alle decisioni che il governo ritiene necessario prendere: sono strumenti per mobilitare il consenso esattamente come lo è il partito unico in un regime totalitario. La differenza è che sono normalmente più efficaci perché operano attraverso dibattiti e polemiche: un uomo persuaso, infatti, lavora meglio di un uomo costretto contro la sua volontà. I parlamenti sono inoltre in grado di avvertire in tempo se l'opera di persuasione fallisce; e in tal caso si procederà a modificare le leggi o le misure in questione piuttosto che la gente, come qualche volta succede.

Dato che nell'attività dei parlamenti si dà oggi alla funzione di assicurare il flusso di comunicazioni in entrambe le direzioni (le funzioni ‛espressiva', ‛educativa' e ‛informativa' di Bagehot) un'importanza relativamente maggiore che alla funzione legislativa, ne consegue che la rappresentanza dei gruppi tramite organi diversi dai partiti acquista un'importanza maggiore. I partiti sono ancora oggi elementi essenziali dei regimi parlamentari per il mantenimento di una coerenza di fondo sia nelle scelte politiche che nei dibattiti; ma in un certo senso essi hanno forse un minor peso che nel passato, e i membri delle assemblee che siano notoriamente rappresentanti di interessi determinati, come gruppi di pressione economica o movimenti di riforma, acquistano particolare peso. La funzione di rappresentanza e di conciliazione degli interessi di gruppo è ora esplicita, meno occulta, e ciò è un fatto salutare.

Alcuni autori, tra i quali anche S. e B. Webb, negli anni trenta sostennero che parlamenti opportunamente riformati dovrebbero presentare (almeno in parte, o in una delle camere) una composizione funzionale oltre a quella basata sui collegi elettorali geograficamente ripartiti. Ciò non è avvenuto formalmente in nessun paese, ma è prassi sempre più diffusa. Molti oggi si rendono conto che i gruppi di pressione possono esercitare sui governi, sulla burocrazia e sui leaders di partito un'influenza maggiore di quanto sarebbe possibile attraverso i partiti stessi. I partiti in quanto istituzioni non sono in declino: avanzano però minori pretese alla globalità, il che vale anche per i parlamenti.

Se il mito di una supremazia legislativa è stato abbandonato, rafforzando così in realtà le libere istituzioni, lo stesso deve accadere per il mito della sovranità parlamentare. Il Parlamento europeo si trova nella prima fase del suo sviluppo, e ha quindi solo alcuni di quei poteri che, nella tradizione francese o in quella americana, lo renderebbero davvero degno di essere definito un'assemblea sovrana; tuttavia nella tradizione inglese, specialmente risalendo alle origini feudali, troviamo un'assemblea che con le sue prerogative - diritto di dibattere, di esser consultata, e pubblicità degli atti - poteva avere un peso politico affatto sproporzionato ai suoi poteri giuridici. Comunque, per quanto debole sia, il Parlamento europeo simboleggia pur sempre il fatto che la sovranità parlamentare, nel senso classico dell'espressione, non esiste più per gli altri parlamenti del Mercato Comune. Infatti, il Trattato di Roma e i poteri delle conferenze dei ministri e delle commissioni hanno sottratto molte questioni al controllo delle assemblee nazionali, anche intendendo ‛controllo' nel senso più sfumato e realistico di influenza politica piuttosto che in quello di sanzioni legali. Quella ‛sovranità', a ogni modo, stava divenendo una forma di potere sempre più evanescente.

I paesi europei hanno concluso un accordo per raggiungere mete che era loro impossibile conseguire da soli; la perdita di sovranità formale ha significato in realtà un maggior potere reale. Inoltre, mentre il potere viene trasferito a istituzioni europee, si manifesta anche in quasi tutti i paesi industrialmente avanzati una decisa tendenza a delegare molte funzioni di governo alle Regioni e alle amministrazioni locali. La tendenza non va verso un federalismo formale, ma verso un maggiore realismo per quanto riguarda la dimensione più appropriata per le varie funzioni di governo: per alcune, lo Stato nazionale tradizionale è troppo piccolo, per altre, troppo grande.

Vi sarà probabilmente un'estensione delle istituzioni rappresentative, sia a livello nazionale che sopranazionale. I parlamenti nazionali costituiranno i raccordi vitali fra le amministrazioni regionali e locali e il governo europeo. Le teorie e pratiche moderne della programmazione, che si ragioni in termini economici o fisici, ammettono la necessità, e non solo la semplice opportunità, d'incrementare la pubblica partecipazione alla programmazione. E in via di elaborazione una nuova rete di istituzioni rappresentative che rafforzano il sistema parlamentare, sebbene ne esca relativamente sminuita l'importanza del parlamento tradizionale, il quale sarà oggi da vedere bensì come la principale istituzione rappresentativa, ma non più come quella onnipotente. I poteri tradizionali dei parlamenti, intesi come poteri sovrani, diminuiranno; ma, se saranno concepite realisticamente come parte di tutto un insieme d'istituzioni rappresentative operanti in una situazione eminentemente pluralistica, nella quale non è possibile rintracciare alcuna singola sede del potere reale, è probabile che le istituzioni parlamentari verranno in generale rafforzate e non indebolite.

7. L'avvenire dei parlamenti

Che cosa ci riserva l'avvenire? In nessun paese l'età contemporanea ha mostrato, riguardo alle forme dei regimi politici, un'inventiva paragonabile a quella dispiegata nelle forme della produzione industriale e agricola, e perfino nella condotta della guerra; e certamente assai più creativa si è rivelata - è banale sottolinearlo - nelle scoperte scientifiche e nelle applicazioni tecnologiche. Anche se consideriamo gli elementi costitutivi dei sistemi politici, quelli che alcuni chiamerebbero a rigore ‛istituzioni', quali i parlamenti, i partiti, le burocrazie e i sistemi elettorali, non possiamo che constatare una povertà di invenzione. Gli unici tratti originali del Novecento in materia di regimi politici consistono nel totalitarismo in quanto sistema, nell'idea di un controllo totale della società (oggi si tende a ricadere in regimi che presentano maggiori somiglianze con le burocrazie di vecchio stampo) e nella concezione del partito - specialmente del partito unico - inteso come una nuova e peculiare istituzione di governo. (I partiti esistevano, naturalmente, anche prima del Novecento, ma non cercavano di governare, bensì semplicemente di influire sui governi).

In una situazione di accelerato mutamento tecnologico e sociale è possibile raggiungere una ragionevole stabilità di governo non con nuove invenzioni, ma semplicemente con una più saggia applicazione di meccanismi e principi già abbastanza collaudati, quali il parlamento e il parlamentarismo. Meccanismi e principi quali le elezioni, per esempio, o l'informazione del pubblico sui motivi delle decisioni adottate (diversamente dalla segretezza abituale nelle autocrazie vecchio stampo), possono presentare notevoli differenze sia per quanto riguarda le forme che i contenuti. Le elezioni sono una cosa quando esiste una scelta e quando i voti vengono contati onestamente, e una cosa interamente diversa quando la scelta non c'è o quando le cifre vengono manipolate. Per quanto riguarda poi l'‛informazione del pubblico', questa può concretarsi nel fatto che un governo viene costretto politicamente dal parlamento a divulgare informazioni che altrimenti non avrebbe rilasciato, o può semplicemente assumere la forma di una propaganda governativa. Le autocrazie o i regimi totalitari di nuovo conio non possono ignorare le masse, né semplicemente prosperare sulla passività, al modo delle vecchie autocrazie: data l'universale irrequietezza, frutto della fiducia nella possibilità di un costante miglioramento del tenore di vita, essi hanno un reale bisogno, al fine di mobilitare le masse, di propaganda, di assemblee fidate e di elezioni (per fittizio che tutto ciò possa essere). Nessuno crede più, come l'umanità ha creduto durante la maggior parte della sua storia, che il futuro debba somigliare al passato.

Tra i grandi problemi, sia attuali che futuri, dei regimi parlamentari c'è una questione di dimensioni e di scala. A prima vista, vi è una netta contrapposizione fra quanti sostengono che l'efficienza esige entità grandissime - il mondo delle superpotenze (benchè anche qui si debba notare la rapidità con la quale si sia passati da due superpotenze, gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica, a un gruppo di cinque che include anche la Cina, il Giappone e l'Europa occidentale) - e coloro, anarchici, pluralisti e sindacalisti, che sostengono che la libertà e la giustizia possono essere salvaguardate soltanto nei gruppi di modeste dimensioni. Ma secondo la previsione più probabile le tendenze generali dell'avvenire vanno contemporaneamente verso un aumento e una diminuzione di dimensioni. Ciò che è probabile non è la dissoluzione del governo centrale, ma la delega di un numero sempre maggiore di decisioni alle amministrazioni locali, ai sindacati, alle industrie e agli ordini professionali: decisioni che saranno bensì soggette a un controllo finale da parte del centro, ma avranno forme e contenuti specificamente locali. L'edilizia, l'urbanistica, l'istruzione e la politica previdenziale saranno sempre più di competenza regionale; lo Stato si limiterà a imporre, attraverso il controllo finanziario, standard minimi, consentendo una sempre maggiore libertà di scelta quanto alla loro attuazione pratica.

Ma allo stesso tempo, e ciò è di pari importanza, sta accadendo che alcune funzioni di governo, tradizionalmente accentrate nello Stato nazionale, richiedono oggi unità più ampie. Proprio mentre l'Europa occidentale si occupa del problema del decentramento amministrativo, alcune funzioni fondamentali di governo hanno oltrepassato la competenza dei governi nazionali. La situazione non è radicalmente diversa nell'Europa orientale. La politica estera, la difesa, la politica monetaria, industriale e commerciale, sono regolate a livello sopranazionale, mentre d'altra parte gli indizi e gli argomenti in favore di una maggiore delega di poteri e di una maggiore autonomia decisionale a livello di fabbrica acquistano sempre maggior vigore.

Non è forse azzardato affermare che tutti i grandi paesi del mondo, nel tentativo di risolvere alcuni dei problemi posti dalla conciliazione dell'ordine con il progresso economico, cioè della stabilità con l'innovazione, stanno battendo tre vie. In primo luogo, si consente la crescita e l'influenza di una più ampia rappresentanza di gruppi all'interno dello Stato, cioè di gruppi al di fuori dei sistemi formali costituiti dai partiti, dal parlamento e dalle elezioni. In secondo luogo, si riconosce o si incoraggia l'istituzionalizzazione di questi gruppi, sicché essi cominciano a godere, perfino nei regimi totalitari, di una certa limitata ‛autonomia'. Dato che, ai fini della mobilitazione industriale, essi si dimostrano strumenti più efficaci dei partiti (sia nei regimi a partito unico sia in quelli pluripartitici), conviene tollerare a loro riguardo una certa libertà, una certa diversità e anche certe difficoltà politiche. E, in terzo luogo, stanno delineandosi in tutti i paesi (in alcuni sono avviati da lungo tempo) processi - formali o informali - di consultazione tra governi e gruppi siffatti in occasione di decisioni importanti. I leaders amano esser certi che saranno seguiti: si è sempre più consapevoli, infatti, che politiche economiche e sociali del genere di quelle necessarie in uno Stato moderno non possono trovare applicazione, o non avranno l'effetto voluto, se non incontrano l'approvazione delle masse operaie specializzate e dei managers, che dimostrerebbero altrimenti scarso zelo. In una società industriale, i mutamenti esigono risposte ‛positive'. Anche se, persino in regimi liberali, la politica è in larga misura, da parte della gente, una questione di accettazione rassegnata anziché di positiva adesione, ci sono nondimeno dei limiti alla sopportazione, per esempio, di un lavoratore specializzato. La ribellione non è la risposta estrema o più efficace contro un governo dispotico: lo è, invece, il lavorare lentamente, male, di mala voglia e con inefficienza (ciò è vero dell'operaio specializzato come del manager con formazione universitaria).

Non è verosimile che una tale dipendenza dei governi dai tecnici e dagli esperti dia frutti democratici, nel senso convenzionale di una sempre maggiore partecipazione politica aperta; potrà però produrre un risultato altrettanto importante anche ai fini della democrazia: un aumento decisivo dell'efficacia delle comunicazioni (e i parlamenti sono proprio al centro delle reti di comunicazione politica). Sembra probabile che ciò che nelle società industriali avanzate vincola i governi inducendoli a perseguire gli interessi del popolo sia la consapevolezza: in primo luogo, che le loro decisioni vengono rese note (si pensi alle lotte sette e ottocentesche contro l'inefficienza oltre che contro l'iniquità dell'autocrazia dispotica); in secondo luogo, che saranno resi noti anche i ‛motivi' delle loro decisioni (se non altro negli ambienti di quelle élites manageriali le cui capacità sono indispensabili); e, infine, che le conseguenze delle loro decisioni daranno luogo a un processo di valutazione critica e di divulgazione, attraverso il quale è possibile nel contempo istruire, mobilitare e quindi integrare nelle élites dominanti quelle masse operaie specializzate da cui sia le società capitalistiche sia quelle socialiste dipendono.

È cosa sempre proficua e istruttiva rifarsi a quella che è stata la prima teoria generale della politica. Delle due regole proposte da Aristotele per la stabilità della polis (cioè il tipo di Stato che gestisce i suoi affari con mezzi politici e non tirannici) la prima è famosa: gli uomini (o meglio, i cittadini) devono governare ed essere governati a turno (da questo deriva il principio delle istituzioni rappresentative); la seconda regola è meno nota: lo Stato non dovrebbe avere un'estensione maggiore di quella che permette alla voce dell'araldo di essere udita da un confine all'altro, o in altre parole, che esprimono però lo stesso concetto, di quella che permette ai cittadini di conoscersi vicendevolmente. Saremmo tentati di trascurare questa seconda regola perché, come molti hanno pensato per molto tempo e come alcuni studenti radicali pensano ancora, essa sembrerebbe limitare la democrazia ai piccoli gruppi.

In realtà, com'è ovvio, l'araldo moderno sono la stampa e la radiotelevisione; per il loro tramite diviene possibile la conoscenza reciproca anche fra Stati i cui popoli s'incontrano di rado (o addirittura mai). L'umanità può avere fatto tutti i progressi possibili nell'investigare le implicazioni della prima regola di Aristotele, ma ha appena iniziato a valutare la seconda e a trasporla nelle condizioni della società di massa e dei moderni Stati industriali.

I parlamenti saranno quindi più importanti che mai, anche se i loro poteri formali non si accresceranno in misura corrispondente. Se saranno sempre meno in grado di legiferare direttamente o di controllare effettivamente il governo, costituiranno però il centro dell'intero sistema di comunicazioni della società moderna, l'elemento chiave nel feedback non soltanto fra governati e governo, ma anche fra governo e gruppi d'interesse di ogni sorta e fra i gruppi stessi. I partiti continueranno a sedere in parlamento, cercando di imprimere un indirizzo e di assicurare una qualche linea politica coerente in una situazione di sempre crescente diversità di interessi, ma avranno un peso minore rispetto alla prima metà del Novecento. L'influenza politica dei parlamenti aumenterà via via che i politici, facendo tesoro delle dure lezioni della storia, impareranno sempre meglio che i governi più forti, quelli cioè che non si limitano a esercitare un potere negativo che elude il mutamento e perpetua lo status quo, ma sono capaci di portare avanti con la massima efficacia nuove politiche sociali, sono i governi che sanno procacciarsi il sostegno attivo del popolo; e i più forti fra i forti sono quelli a cui quel sostegno viene concesso liberamente e spontaneamente, e non per mezzo della propaganda e di una restrizione delle scelte. Nessun paese può oggi impedire ai suoi cittadini di venire a conoscenza di come gli altri popoli sono governati. E alla lunga i regimi parlamentari, per la spontaneità del sostegno popolare, per la loro maggiore duttilità, e per i loro programmi sociali ed economici aperti alla pubblica critica e alle modifiche, si dimostrano più forti delle autocrazie. Spesso può essere più facile governare senza parlamenti: la Roma repubblicana, afferma Machiavelli nei Discorsi, avrebbe potuto evitare continui tumulti e conflitti fra le classi se avesse eliminato il tribunato della plebe; come repubblica esclusivamente aristocratica e senatoria, avrebbe potuto godere di una maggiore tranquillità, ma, sostiene Machiavelli, sarebbe stata allora meno forte. L'uomo comune non avrebbe potuto essere arruolato nelle legioni con piena fiducia se non si fosse sentito parte integrante dello Stato. Oggi l'avvenire della civiltà non dipende dal cittadino-soldato, ma dalla soddisfazione e dall'energia del cittadino-lavoratore dell'industria. I Russi, ad esempio, pensano che sia più facile governare nell'interesse del cittadino che non permettergli di governarsi da se stesso. In realtà, uno Stato in grado di utilizzare la lealtà e le energie del cittadino in un sistema politico libero andrà magari incontro a un numero maggiore di crisi e di agitazioni che non l'Unione Sovietica, ma sarà tuttavia molto più capace di attuare i nuovi programmi che richiedano il sostegno popolare. Governare per mezzo dei parlamenti non è facile, ma a lungo andare è l'unica alternativa al ristagno burocratico o all'oppressione ideologica. L'unica cosa che possa gettare discredito sul parlamentarismo è il tentativo dei parlamenti di governare direttamente.

bibliografia

Bagehot, W., The English constitution, London 1967; seconda ed. ampliata 1872.

Barker, E., The dominican order and convocation. A study of the growth of representation in the Church during the thirteenth century, Oxford 1913.

Barraclough, G., The origins of modern Germany, Oxford 1947.

Bodet, G. P. (a cura di), Early English parliaments, Boston 1968.

Butt, R., The power of parliament, London 1967.

Cam, H. M., The theory and practice of presentation in medieval England, in ‟History", 1953, XXXVIII, pp. 11-26.

Carsten, F. L., Princes and parliaments in Germany from the fifteenth to the eighteenth century, Oxford 1959.

Cocks, B., The European parliament: structure, procedure and practice, London 1973.

Crick, B., The reform of parliament, London 19702.

Edwards, J. G., The plena potestas of English parliamentary representatives, in Oxford essays in medieval history presented to H. E. Salter, Oxford 1934, pp. 141-154.

Edwards, J. G., Historians and the medieval English Parliament, Glasgow 1960.

Fawtier, R., Parlement d'Angleterre et États Généraux de France au Moyen Age, in ‟Comptes endus de l'Académie des Inscriptions et Belles Lettres", 1953, pp. 275-284.

Friedrich, C. J., Constitutional government and democracy, New York 19684.

Fryde, E. B., Miller, E. (a cura di), Historical studies of the English parliament, 2 voll., London 1970.

Haskins, G. L., The gowth of English representative government, London 1948.

Hirsch, H., Hancock, M. D., Comparative legislative systems. A reader in theory and research, New York 1971.

Konberg, A., Musolf, L. D., Legislatures in development perspective, Durham 1970.

Loewenberg, G., Parliament in the German political system, Ithaca, N. Y., 1967.

Loewenberg, G. (a cura di), Modern parliaments: change or decline?, Chicago 1971.

McIlwain, Ch., The high court of parliament and its supremacy, New Haven-London 1910.

Macrae, D., Parliament, parties and society in France (1946-1958), New York 1967.

Major, J. R., Representative institutions in Renaissance France (1421-1559), Madison 1960.

Major, J. R., The deputies to the Estates General in Renaissance France, Madison 1960.

Marongiu, A., L'istituto parlamentare in Italia dalle origini al 1500, Milano 1949.

Marongiu, A., Parlamenti e governi nella storia costituzionale italiana, in Studi in memoria di Luigi Rossi, Milano 1952, pp. 297-330.

Marongiu, A., Il parlamento in Italia, nel medioevo e nell'età moderna, Milano 1962.

May, Th. E., Treatise on the law, privileges, proceedings and usage of parliament (a cura di E. Fellowes), London 195716.

Morison, S. E. (a cura di), Sources and documents illustrating the American revolution, London-New York 19652.

Morris-Jones, W. H., Parliament in India, Philadelphia 1957.

Neale, J. E., The Elizabethan House of Commons, London 1949.

Pasquet, D., Essai sur les origines de la Chambre des Communes, Paris 1914.

Passerin D'Entrèves, A., San Tommaso d'Aquino e la Costituzione inglese nell'opera di sir John Fortescue, in ‟Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino", 1926-1927, LXII, pp. 261-285.

Passerin D'Entrèves, A., La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino 1929.

Patterson, S. C., Comparative legislate behavior. A review essay, in ‟Journal of political science", 1968, XII, pp. 599-616.

Plucknett, T. F. T., Parliament, in The English government at work, 1327-1336 (a cura di J. F. Willard e W. A. Moris), Cambridge, Mass., 1940, pp. 82-128.

Pollard, A. F., The evolution of parliament, London 19262.

Ramos, D., Historia de las cortes tradicionales de España, Madrid 1944.

Richardson, H. G., The Commons and medieval politics, in ‟Transactions of the Royal Historical Society" (4th series), 1946, XXVIII, pp. 21-45.

Richardson, H. G., Sayles, G. O., Parliament and great councils in medieval England, in ‟Law quarterly review", 1961, LXXVII, pp. 213-236, 401-426.

Rizzo, G. B., La responsabilità regia e le disposizioni dei re inglesi, Milano 1939.

Roskell, J. S., Perspectives in English parliamentary history, in ‟Bulletin of the John Rylands library", 1964, XLVI, pp. 448-475.

Spangenberg, H., Vom Lehnstaat zum Ständestaat, München 1912.

Spufford, P., Origins of the English Parliament, London 1967.

Stephenson, C., Taxation and representation in the Middle Ages, in Medieval institutions. Selected essays (a cura di B. D. Lyon), Ithaca, N. Y., 1954, pp. 104-125.

Stephenson, C., The beginnings of representative government in England, in Medieval institutions. Selected essays (a cura di B. D. Lyon), Ithaca, N. Y., 1954, pp. 126-138.

Templeman, G., The history of parliament to 1400, in ‟Birmingham historical journal", 1948, I, 2, pp. 202-232, reprinted in The making of English history (a cura di R. L. Schuylera e A. Ausubel), New York 1952, pp. 109-127.

Thompson, F., Magna Charta: its role in the making of the English Constitution (1300-1629), Minneapolis 1949.

Thompson, F., A short history of parliament (1295-1642), Minneapolis 1953.

Wheare, K. C., Legislatures, New York 1963.

Williams, P. M., The French Parliament: politics in the Fifth Republic, New York 1968.

CATEGORIE
TAG

Accademia delle scienze di torino

Repubblica federale tedesca

Partito comunista italiano

Partito comunista spagnolo

Seconda guerra mondiale