SISTO IV, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SISTO IV, papa

Giuseppe Lombardi

SISTO IV, papa. – Francesco della Rovere nacque a Celle in Liguria, in località Richetti, il 21 luglio 1414, da Leonardo «accimator panni» (così qualificato in diversi atti notarili; Varaldo, 1888, pp. 8 s.; Lee, 1978, pp. 13 s.) e da Luchina Monleone, appartenente a una famiglia nobile genovese esiliata nel 1317 a Savona e arricchitasi con il commercio.

La famiglia, anche se da alcuni biografi antichi venne definita «egregia» o «illustre» (così rispettivamente Venturino de’ Priori e Marco Vigerio; Di Fonzo, 1987, p. 51), fu probabilmente di condizione modesta, ma certamente non «bassissima e vile» come polemicamente affermeranno i detrattori del pontefice (N. Machiavelli, Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano 1962, VII, XXII; Corio, 1978, p. 1383). Importanza singolare avranno le sorelle di Francesco (Luchina, Franchetta, Maria, Bianca e una quinta di cui non si conosce il nome), per le alleanze matrimoniali e per il destino che sarebbe toccato ai figli, in particolare quelli di Bianca e di Paolo Riario (Pietro e Girolamo) e il figlio di Luchina, Girolamo Basso della Rovere. Francesco ebbe anche due fratelli: Raffaello (padre di Giovanni, di Bartolomeo, vescovo di Massa, e di Giuliano, il futuro Giulio II) e Bartolomeo, padre di Leonardo.

Un’aura di leggenda circonda, oltre che le origini della famiglia, anche i primissimi anni della vita di Francesco, che la madre consacrò fin da piccolo al poverello di Assisi e a s. Antonio per le grazie ricevute in situazioni disperate (Platynae historici Liber de vita Christi ac omnium pontificum..., in RIS, III, 1, a cura di G. Gaida, 1913-1932, p. 399; von Pastor, 1925, p. 435). Il fanciullo venne affidato fin dall’età di nove anni al minorita conventuale Giovanni da Pinerolo (Platynae historici Liber de vita Christi ac omnium pontificum..., cit., p. 399). Nel settembre del 1429, terminati a Savona gli studi elementari di grammatica e di retorica, all’età di quindici anni fece la sua professione, venendo affidato alla provincia e custodia di Genova. Sempre a Savona, sembra (Di Fonzo, 1987, p. 78), studiò la dialettica nell’anno successivo, per poi recarsi a Chieri, nel convento di S. Francesco, dove, sotto la guida del minorita Galasso da Napoli, iniziò lo studio della filosofia naturale (basato soprattutto sui commenti alla Fisica di Aristotele). In seguito (1431-32) studiò metafisica e morale presso lo studio generale di filosofia di Pavia, compiendo il previsto triennio di studi di logica e filosofia. Negli anni successivi (1432-35) Francesco iniziò anche l’attività di insegnante, in qualità di baccelliere, probabilmente a Chieri o nella stessa Pavia.

In questo periodo le sue doti intellettuali erano già apprezzate dai superiori, al punto che durante il capitolo dei frati minori conventuali svoltosi a Bologna nel maggio del 1434 della Rovere, che aveva appena diciannove anni, fu invitato a tenere una disputa, conquistandosi l’ammirazione del padre generale Guglielmo Casale. Terminato il proprio tirocinio a Chieri, e forse a Ferrara, nel 1435, partì alla volta di Bologna per studiarvi teologia. Qui, seguendo l’insegnamento dei francescani Giacomo Testori da Siena e Andrea da Nola, compì il biennio di studi teologici (1435-37), iniziando subito dopo la sua carriera di insegnante secondo l’iter previsto (docente di Sacra Scrittura per studenti di filosofia; maestro di studio baccelliere e poi lettore). Dopo un soggiorno di studio a Pavia, nel 1439, dove venne ordinato sacerdote, della Rovere passò a Venezia il triennio 1439-41 in qualità di lettore di filosofia. A completamento del triennio didattico fu quindi inviato a Padova, dove, dopo un ulteriore triennio di insegnamento e di esami, ottenne la licenza (27 marzo 1444) e infine, all’età di ventinove anni, il dottorato in teologia (14 aprile 1444). Fra i testimoni della cerimonia pubblica nella cattedrale di Padova al cospetto delle autorità universitarie vi era anche il rector della facoltà delle arti, Giovanni Argiropulo (per gli atti relativi alla licenza e al dottorato cfr. Acta graduum academicorum gymnasii Patavini ab anno MCCCCVI ad annum MCCCCL, a cura di G. Zonta - G. Brotto, Padova 1970, nn. 1783, 1800, 1818-1820; il testo dell’atto di conferimento del dottorato in Cortese, 1972, pp. 127-129 e in Di Fonzo, 1987, pp. 143-145). Dall’aprile del 1444 al maggio del 1446 rimase a Padova come reggente e professore di logica.

Della Rovere era già abbastanza reputato per insegnare filosofia, nel 1445 o nel 1446, in concomitanza con Gaetano da Thiene (Maier, 1953, 1967, pp. 137-138; Lee, 1978, p. 16). Il periodo che va dal 1445 al 1448 lo vide impegnato anche sul fronte dell’organizzazione ecclesiastica. Nel 1446 divenne infatti assistente del ministro generale Antonio Rusconi, nel 1448 decanus et regens della casa francescana di Padova, dove la sua presenza è attestata per gli anni 1445, 1446, 1448 e 1449. Dopo aver passato il biennio 1449-51 a Bologna in qualità di reggente dello studio conventuale e di professore pubblico di filosofia e di teologia all’università, si trasferì a Firenze, dove rimase per l’anno 1451 come reggente e docente nello Studio. Fra il 1451 e il 1455 insegnò filosofia a Perugia riscuotendo un grande successo (nel 1464 otterrà la cittadinanza onoraria). Una nuova fase della sua carriera ecclesiastica si inaugurò tuttavia poco prima del 1459, quando Bessarione, cardinale protettore dei francescani dal 1458, fece di lui il proprio confessore personale.

Dal 1460 al 1464 della Rovere fu vicario del ministro generale Giacomo da Sarzuela e procuratore generale dell’Ordine a Roma (Sevesi, 1936, pp. 199-200, 498). Secondo quanto attesta Marco Vigerio nel suo elogio (edito in Lee, 1978, Appendix nr. 2), verso la fine del 1460 Francesco fu eletto ministro della provincia francescana di Genova, ma non sappiamo se la notizia sia esatta né se la sua elezione sia stata confermata dai superiori o se, visti i suoi impegni romani, abbia esercitato l’ufficio in absentia. È invece certo che nel 1462 fu ministro della provincia romana. Proprio nel Natale di questo anno egli partecipò infatti, al cospetto di Pio II, alla disputa tra francescani e domenicani sul sangue di Cristo. Frutto di tale polemica fu un suo scritto teologico, il De sanguine Christi. Pio II, favorevole ai domenicani, lasciò tuttavia in sospeso la questione, non volendo alienarsi i minoriti la cui attività capillare era di grandissima importanza per diffondere l’idea di una crociata contro i turchi. Fra il 1460 e il 1464 della Rovere fu attivo a Roma anche come professore di teologia sia presso lo «Studium sacri Palatii» sia presso l’Università della Sapienza (Di Fonzo, 1987, pp. 275 s.).

Durante il capitolo generale dei francescani (Perugia 1464), della Rovere venne eletto all’unanimità generale dell’Ordine. Il nuovo incarico inaugurò una fase densa di attività in cui il neoeletto poté esplicare le doti sempre riconosciutegli, oltre che di fine teologo, anche di organizzatore della vita ecclesiastica: visitò i conventi, rimosse i professori minoriti che avevano raggiunto gradi accademici senza merito, si preoccupò della moralità dei frati (per altre attività di riforma cfr. Sevesi, 1936, pp. 497 s.). Fu forse l’intensità del lavoro a causare un periodo di malferma salute fra il 1464 e il 1466. Nel maggio del 1467 si aprì a Firenze il capitolo generale dei francescani, dedicato alla riforma dell’Ordine. Qualche mese dopo della Rovere, che intendeva recarsi a Venezia come professore di teologia, fu costretto a rinunciare al progetto perché Paolo II, il 18 settembre 1467, lo aveva creato cardinale di S. Pietro in Vincoli. Secondo Vespasiano da Bisticci fu Bessarione che «parendogli uomo dotto, fece tanto con papa Pagolo che lo fece fare cardinale, che mai non sarebbe suto sanza il mezo suo» (Vite degli uomini illustri del secolo XV, a cura di A. Greco, I, Firenze 1970, p. 173). Se le responsabilità del nuovo incarico non mutarono sostanzialmente l’attività di studioso dei della Rovere, ne acuirono tuttavia la sensibilità alle esigenze politiche. Egli coltivò così in modo particolare le sue relazioni con le corti di Savoia e di Milano. In questo contesto appare chiaro anche il desiderio di elevazione retrospettiva della famiglia di della Rovere, che in una lettera del 18 maggio 1468 a Cristoforo della Rovere di Vinovo, consigliere di Amedeo IX di Savoia, lo chiamava «affinis carissimus» (edita in Lee, 1978, Appendix nr. 5; de Villeneuve, 1887, p. 31). Più in generale Francesco cercò di far riconoscere l’appartenenza della propria famiglia alla nobiltà italiana, preoccupandosi al contempo di trovare i mezzi finanziari sufficienti a consolidare la nuova posizione da lui occupata. Si coglie in queste oscillazioni un contrasto che trascende la pura curiosità genealogica, e che rivela invece le tendenze contraddittorie, anche in seno ai francescani, fra l’esempio del poverello di Assisi e il bisogno imposto dalla mentalità, non solo dei laici, di quell’epoca.

È sullo sfondo di queste circostanze che vanno inquadrate le prime mosse politiche verso i potenti del tempo: il 26 novembre 1467 della Rovere scrisse a Galeazzo Maria Sforza chiedendogli di sostenere la sua nomina a vescovo di Novara, posizione che gli avrebbe permesso di sovvenire alla propria povertà di mezzi (Sevesi, 1936, pp. 210-211). Sforza, nonostante una nuova richiesta del 15 dicembre, non lo contentò, sostenendolo però per l’arcicardinalato di Genova (pp. 211-216). Il 18 maggio 1468 era il turno di Cristoforo della Rovere, al quale Francesco si rivolgeva per ottenere il beneficio dell’ospedale di S. Andrea a Vercelli. La lettera a Cristoforo, sopra citata, è molto indicativa del duplice bisogno di sostegno, economico e politico: senza il «principum favor et praesidium» non era possibile procurarsi i «benefitia in eorum dominiis contenta», senza i quali, arguiva il cardinale, era impossibile o difficile «dignitatem nostram sustinere» (Lee, 1978, Appendix nr. 5, p. 212). Gli stessi termini erano contenuti in una lettera, autografa, di qualche mese prima a Galeazzo Maria (2 gennaio 1468), in cui della Rovere aveva chiaramente confessato la «tenuis conditio» del suo stato (la lettera è edita in Bianca, 1986, pp. 49-50). È certo dunque che, all’epoca, della Rovere «pauper erat» (Platynae historici Liber de vita Christi ac omnium pontificum..., cit., p. 403) e che venne aiutato dai cardinali. Fra il 1468 e il 1469 Francesco aveva così già cumulato una discreta dotazione di beni: nel registro che riporta i servitia dei cardinali egli non appariva sfornito nei confronti degli altri porporati (Sevesi, 1936, p. 216). Nel 1469 divenne abate del monastero benedettino di S. Giustina in Sezzadio, nella diocesi di Acqui, e priore di S. Maiolo in Pavia, e ricevette inoltre in commenda da Paolo II l’Ordine del Santo Sepolcro (pp. 226 s., 477, 483 s.; Lee, 1978, p. 23). È sostanzialmente al periodo precedente l’elevazione al pontificato che risalgono gli scritti teologico-filosofici di della Rovere. Degli inizi degli anni Sessanta è la stesura del trattato De sanguine Christi.

Nell’opera egli difende la tesi francescana (scotista), propugnata pubblicamente da Giacomo della Marca, per questo accusato di eresia, secondo la quale il sangue di Cristo versato prima della sua resurrezione non mantiene la natura divina. I domenicani sostenevano l’opposta tesi della natura divina del sangue. La questione, in apparenza soltanto teologica (opposte teorie di scotisti e tomisti sul concetto di forma sostanziale, sulle nozioni di persona e di individuo, e quindi sul problema del rapporto fra anima e corpo), implicava di fatto anche la validità di numerose reliquie conservate in diversi luoghi di culto. Per quanto basata sulla difesa delle teorie scotiste, l’opera di della Rovere si proponeva di conciliare pacificamente le diverse teorie, secondo una tendenza al raccordo fra le due scuole che è tipica del suo pensiero.

Si conserva in diverse redazioni, soprattutto nella Biblioteca apostolica Vaticana, nel Vat. lat. 1052, con dedica a Pio II e tracce di lunghe revisioni (descrizione in Pelzer, 1931, p. 590; Scarcia Piacentini, 1986, pp. 137, 146). Agli anni di cardinalato di della Rovere, quindi dopo il 1467, risale la composizione del De potentia Dei. Contro le opinioni tomistiche sulla stretta unità di razionalità e volontà in Dio, egli difendeva ancora una volta le tesi scotiste sulla potenza di Dio, infinita e non soggetta ad alcuna legge.

L’infinita maestà divina non può essere limitata in alcun modo ed è «superiore a qualsiasi norma e ordine o considerazione del nostro intelletto» (Vasoli, 1991, p. 200). L’opera è interessante anche da un punto di vista politico, in quanto vi viene teorizzato il superiore potere che papa e imperatore hanno sui principi e sulle loro leggi, essendo in parte sciolti (assoluti) dalle comuni costrizioni.

Si conserva, assieme con il De futuris contingentibus, nel Vat. lat. 1050 (Pelzer, 1931, pp. 588 s.), nel manoscritto lat. 12390 della Bibliothèque nationale di Parigi, nell’Ottob. lat. 1128 della Biblioteca apostolica Vaticana e nel citato codice madrileno 6294.

Il De futuris contingentibus, composto nel 1470, nasce anch’esso da una disputa teologica, svoltasi nel 1465 all’Università di Lovanio fra Petrus Rivo e Henricus de Zomeren, relativa allo statuto logico e ontoteologico delle proposizioni concernenti gli avvenimenti futuri (come, ad esempio, le profezie bibliche). Esso inoltre testimonia dei rapporti che della Rovere ebbe con Bessarione, al quale de Zomeren si era rivolto per un parere. Fu infatti su sollecitazione del cardinale che della Rovere affrontò il problema, pervenendo a una soluzione mediatrice, con il sostenere la tesi di una sostanziale «concordantia doctorum» (Vasoli, 1991, pp. 205 s.).

L’opera è tradita, manoscritta, dai codici lat. 3169 e lat. 12390 della Bibliothèque nationale di Parigi (Baudry, 1950, pp. 49-54, 57-59; Bianca, 1986, p. 41); una diversa redazione (almeno della dedica) è nel citato Vat. lat. 1050 (Pelzer, 1931, pp. 588 s.; Bianca, 1986, p. 41), di cui è copia l’Ottob. lat. 1128 (Kristeller, 1963-1992, II, 1967, p. 416); esiste anche nel citato codice madrileno 6294 (ibid., IV, 1989, p. 551). Fu stampata a Roma in circa trecento copie da Giovanni Filippo de Lignamine, con dedica al pontefice (ivi per l’accenno al numero di copie), prima dell’agosto 1473 e quindi nel 1473 a Norimberga da Friedrich Creussner; ne esiste un’edizione moderna in Baudry, 1950, pp. 113-125.

Non tutti gli studiosi sono d’accordo sul numero o sull’esistenza di altri suoi scritti. Nel novero delle opere mai scritte sembra doversi collocare un trattato incompiuto sulla concordanza fra Duns Scoto e Tommaso d’Aquino per dimostrare la compatibilità dei teologi dei due Ordini mendicanti (l’esistenza del trattato è stata recisamente negata in Di Fonzo, 1987, p. 397). Analoghe perplessità valgono per un supposto scritto sull’Immacolata Concezione (De conceptione B.V. Mariae), mentre, fra gli scritti dedicati a Maria (una Preghiera indulgenziata alla B.V. Maria, inserita poi in una bolla, la Stella maris, del 5 giugno 1472, incisa anche su una lapide dell’ex ospedale della Consolazione in Roma, e una Homilia per l’Ufficio della Madonna, posteriore al 1477; Di Fonzo, 1987, pp. 385, 389 s.), non c’è accordo nell’attribuirgli una Oratio de conceptione B.M. Virginis (a cura di D. Cortese, Padova 1985), uno scritto giovanile identificato come tale solo in base alla supposta autografia dell’unico esemplare conservato.

Dopo circa una settimana dalla morte di Paolo II (26 luglio 1471), i diciassette cardinali presenti a Roma (raggiunti da Giacomo Ammannati Piccolomini il giorno seguente) si riunirono in conclave (2 agosto 1471). Dopo diversi scrutini risultò eletto, la mattina del 9, Francesco della Rovere, che assunse il nome di Sisto in omaggio al santo ricordato in quel giorno.

Ludwig von Pastor (1925, appendice n. 108-109) ha pubblicato due liste delle votazioni, sulle cui modalità non si hanno tuttavia informazioni dettagliate. In un primo scrutinio risultarono infatti preferiti Filippo Calandrini e Bartolomeo Roverella, con sette voti ciascuno. Successivamente si dovette addivenire a degli accordi (per il testo cfr. Mannucci, 1915, pp. 82 s.; per le diverse ipotesi cfr. Lee, 1978, pp. 29 s.). Favorevoli a della Rovere furono i cardinali Latino Orsini, Rodrigo Borja e Francesco Gonzaga, che furono in seguito ben compensati per il loro appoggio, e anche gli Sforza, i Medici e il re di Napoli. L’incertezza sull’effettivo svolgersi degli eventi deriva in parte dalle accuse di simonia più volte ricorrenti nelle polemiche antipontificie degli anni successivi, quando l’impegno politico-militare del pontefice e la lotta contro le tendenze neoconciliariste dell’ecclesiastico Andrea Zamometić gli procurarono alleati, ma anche nemici acerrimi.

Un ruolo importante nell’elezione di Sisto IV avrebbe svolto il nipote Pietro Riario, sicuramente presente al conclave, il quale, racconta il cronista viterbese Giovanni di Iuzzo, «con l’astuzia sua si operò nella creazione del papa» (Cronache di Viterbo e di altre città scritte da Niccola della Tuccia, in Cronache e statuti della città di Viterbo, a cura di I. Ciampi, Firenze 1872, p. 104); lo stesso attestano altri cronisti, come Leone Cobelli (Cronache forlivesi dalla fondazione della città sino all’anno 1498, a cura di G. Carducci - E. Frati, Bologna 1874, p. 258) e Stefano Infessura (Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, a cura di O. Tommasini, Roma 1890, p. 74; cfr. von Pastor, 1925, p. 433), anche se v’è qualche dubbio sulla veridicità di queste affermazioni. L’elezione provocò anche malcontenti, espressi in un incidente occorso durante la cerimonia del possesso papale in Laterano; Sisto IV credette opportuno creare subito un corpo di guardia personale, più tardi sostituito da Giulio II con i soldati svizzeri (de’ Reguardati, 1986, pp. 49-55).

Il pontefice tentò subito d’intrattenere amichevoli relazioni con i più importanti principati italiani ed europei, in particolare con Milano, Firenze e la Francia.

Fra le prime iniziative di grande respiro da lui prese vi fu il tentativo di organizzare i principi italiani ed europei in una grande alleanza per bloccare e respingere l’avanzata dei turchi. Il pontefice riprendeva con questa decisione la politica antiturca già tracciata con energia dai suoi predecessori, in specie da Pio II, ma agiva anche dietro la spinta della pressante avanzata del nemico. A tal fine inviò presso le maggiori potenze alcuni cardinali: Bessarione in Francia, Borgogna e Inghilterra; Borja in Spagna; Angelo Capranica presso gli Stati italiani; Marco Barbo in Germania, Ungheria e Polonia (von Pastor, 1925, p. 444). All’ultimo dei legati pontifici, Carafa, spettò l’organizzazione militare della guerra.

La flotta pontificia, per la quale il papa doveva spendere solo negli anni 1471-72 la rilevante somma di 144.000 ducati d’oro, dopo aver avuto la benedizione di Sisto IV, salpò da Ostia il 31 maggio 1472. Con l’aiuto di navi napoletane e veneziane, in accordo con una lega stretta fra il pontefice, Venezia e Napoli, venne preso il porto di Satalia. I dissidi sorti fra gli italiani impedirono però un pieno sfruttamento delle posizioni conquistate e convinsero Carafa a tornare a Roma appena qualche mese dopo (23 gennaio 1473). Si approntò una nuova flotta di dieci galere sotto il comando di Lorenzo Zane, arcivescovo di Spalato, alla fine dell’aprile del 1473, ma i rovesci militari dell’alleato principe dei turcomanni Uzun Hasan (sconfitto dai turchi il 26 luglio 1473) vanificarono ogni progetto di crociata, tanto più che gli interessi di Venezia facevano propendere la politica della Serenissima verso il mantenimento di uno status quo di sostanziale non belligeranza con i turchi. Finiva quindi per il momento, con successi scarsi, ma con la constatazione di una debolezza strutturale degli europei nel sostenere un impegno finanziario e militare unitario, una prima fase della politica sistina verso l’Oriente. Solo lo sbarco in Italia e la conquista turca di Otranto nel 1480 avrebbero dato nuovo impulso ai preparativi di una riscossa che tuttavia non raggiunse mai risultati definitivi. Anche la speranza di un aiuto russo alla lotta contro i turchi andò delusa allorché Sisto IV, che aveva favorito il matrimonio fra Zoe, figlia dell’ultimo imperatore bizantino rifugiata a Roma, e Ivan III (1472) dovette constatare che l’illustre ospite, lasciata l’Italia, aveva rinunciato all’obbedienza alla Chiesa di Roma.

Con molta più decisione che non i papi precedenti, ma sulla scia di pratiche ben affermatesi, ad esempio, durante il pontificato di Callisto III e di Pio II, Sisto IV seppe favorire i numerosi parenti, in particolare i nipoti, la cui ascesa alle più alte cariche ecclesiastiche e civili fu fulminea.

Nella strategia nepotistica apertamente adottata Sisto IV inserì diverse alleanze familiari: l’alleanza con Napoli fu rafforzata nel 1472 con il matrimonio fra Leonardo della Rovere e una figlia naturale di Ferrante d’Aragona (in quel febbraio il giovanissimo Leonardo fu nominato da Sisto IV prefetto di Roma, annullando le disposizioni di Pio II che aveva attribuito la carica ad Antonio Piccolomini e ai suoi eredi primogeniti; a Leonardo, morto tre anni dopo, successe poi Girolamo Riario). Nell’ambito di questi patti con il re di Napoli il papa ridusse nell’aprile del 1472 il tributo feudale tradizionalmente versatogli dal Regno a puri atti di riconoscimento simbolico. L’alleanza con Milano, che l’avvicinamento fra Roma e Napoli aveva reso instabile, venne invece rafforzata da un matrimonio fra Girolamo Riario e Caterina Sforza, figlia naturale di Galeazzo, nel 1477. Ai matrimoni si dovevano anche, oltre che la nobilitazione, i primi acquisti territoriali, presagio di future fortune familiari. Meno fortunato, per l’opposizione dei cardinali, fu inizialmente il progetto di nozze fra Giovanni (Giannetto) della Rovere, altro nipote di Sisto IV, e una figlia di Federico di Urbino, Giovanna, del quale si parlò in occasione della visita a Roma di quest’ultimo nel maggio del 1474 (Fubini, 1994, pp. 280 s.).

Gli eventi successivi mostrarono quanto nepotismo e oculate alleanze matrimoniali fossero importanti per assicurarsi la fedeltà dei collaboratori e soprattutto un solido sostegno nei confronti del Collegio cardinalizio: il matrimonio, rigettato nel maggio del 1474, fu concluso il 12 ottobre dello stesso anno, a suggellare il sostegno militare offerto da Federico nella repressione di alcune rivolte in Umbria (von Pastor, 1925, p. 482). Alle esigenze di questa politica furono piegate anche le attribuzioni di cariche civili: nel 1475-76, ad esempio, la tesoreria del patrimonio venne affidata al nipote Antonio Zuppi della Rovere e, alla morte di questi, a Bartolomeo Zuppi della Rovere. Identico meccanismo si riprodusse quando il complicato equilibrio politico italiano rischiò di rompersi nel 1473, allorché in maggio si seppe che il duca di Milano aveva venduto ai fiorentini per 100.000 fiorini Imola (città soggetta allo Stato pontificio e di notevole importanza strategica). L’espansione di Firenze verso la Romagna era evidentemente percepita come un serio pericolo per l’integrità dello Stato, di modo che Sisto IV non esitò a rivolgersi in tono secco al duca di Milano (breve del 16 maggio 1473; ibid., p. 467), ai fiorentini stessi, a Napoli e a Bologna e quindi ancora al duca di Milano in due brevi scritti di suo pugno (23 maggio 1473 e 6 giugno 1473). La soluzione accettata da tutti fu la vendita di Imola non più a Firenze, ma a Girolamo Riario, per una somma di 40.000 ducati d’oro. Le più alte aspirazioni erano però coltivate dal nipote Pietro Riario che si destreggiò abilmente fra le diverse potenze italiane (Firenze, di cui era arcivescovo, Milano, Mantova, Padova, Venezia). Questo fitto tessuto di alleanze, prodromo di una futura carriera, risultò vanificato dall’improvvisa morte del cardinale, scomparso all’età di soli ventotto anni il 5 gennaio 1474. La morte del nipote prediletto lasciò ampio spazio di intervento a Girolamo, che di fatto svolse da allora in poi il ruolo di ispiratore più influente dell’attività politica del papa.

Altro prezioso aiuto alla politica di Sisto IV fu offerto da Giuliano della Rovere (il futuro Giulio II), che dimostrò il suo talento, anche militare, in occasione di tre rivolte verificatesi nel giugno del 1474 nel cuore dello Stato pontificio, a Todi, a Spoleto e a Città di Castello. A Todi l’assassinio del signore locale, Gabriello Catalani, aveva suscitato le speranze degli oppositori, alleatisi a Giordano Orsini e ai conti di Pitigliano. A Città di Castello Nicolò Vitelli, che aveva sostenuto i rivoltosi di Todi e di Spoleto, rifiutava di sottomettersi da tempo al papa, creando un serio pericolo in una zona molto vicina alla Toscana, con la quale Vitelli aveva astutamente stretto una lega assieme a Milano suscitando l’irritazione del pontefice. L’inaspettato aiuto diplomatico e militare offerto dai fiorentini, che raccolsero 6000 uomini nel vicino Borgo San Sepolcro, costituì il primo segno di una contesa diretta fra Roma e Firenze che si sarebbe acuita di lì a poco. Se nelle vicende di Todi e di Spoleto il cardinale Giuliano riaffermò il controllo pontificio con un efficace intervento militare, nel caso di Città di Castello, la cui causa era sostenuta anche da re Ferrante, si dovette ricorrere a un professionista della guerra, Federico di Urbino, che per l’occasione venne elevato a duca (21 agosto 1474). Questi riuscì a trovare un accordo onorevole, che ristabiliva, almeno temporaneamente, l’autorità della Chiesa. La sua fedeltà venne ricompensata anche con il matrimonio fra una sua figlia e Giovanni della Rovere che si ritagliava inoltre un piccolo dominio personale con l’investitura dei vicariati di Senigallia e di Mondavio (ottobre del 1474). La signoria di Giovanni su Senigallia bene esemplificava il metodo di governo delle periferie, che Sisto IV cercava di favorire unendo nepotismo e sostegno delle oligarchie locali, rinunciando in parte a un dominio diretto della S. Sede e salvaguardando parzialmente le autonomie municipali (Caravale, 1978, pp. 104-107).

La lega difensiva stabilita il 2 novembre 1474 fra Milano, Venezia, Ferrara e Firenze, cui in un primo momento dovevano partecipare Ferrante e Sisto IV, fu percepita dal papa come una manovra di accerchiamento, non essendosi raggiunta l’unanimità su quello che doveva essere il fine di ogni alleanza, la ripresa della lotta contro i turchi.

Quello turco non si poteva dire un problema secondario: arrivavano continuamente appelli al papa dagli Stati più esposti. Più vicina si fece la minaccia nel 1477, con la sconfitta inflitta dai turchi ai veneziani, per di più avvenuta non in Oriente, ma nello stesso territorio veneto. Ciò costrinse Venezia, che non poteva sperare nell’aiuto degli altri Stati italiani in lotta fra loro, a stipulare unilateralmente una pace con i turchi (febbraio del 1479) che salvaguardasse almeno in parte gli interessi della Repubblica. Solo nel 1480 le paure divennero terrore alla notizia dello sbarco di una poderosa flotta a Otranto, che fu duramente saccheggiata. Un nuovo appello del papa agli Stati cristiani venne lanciato nell’estate di quell’anno, mentre a opera dello stesso venivano temporaneamente ricomposti i dissidi fra i diversi Stati italiani, a esclusione di Venezia che, forte del suo trattato, rimaneva neutrale di fronte ai preparativi per la difesa dell’Italia. La discussione sull’intervento e il reperimento delle somme stimate necessarie all’impresa richiese diverso tempo e trovò particolarmente ben disposto il re di Francia Luigi XI. L’8 aprile 1481 il pontefice emanò un’importante bolla (Cogimur iubente), in cui si esortavano tutti gli Stati cristiani a dare il loro appoggio militare. A raffreddare ancora una volta i preparativi della spedizione, che cominciava ad avere qualche possibilità di realizzazione, sopravvenne la morte di Maometto II. Il 4 luglio 1481 il cardinal legato Paolo Fregoso condusse la flotta a Napoli e poi a Otranto, che fu riconquistata dopo un breve assedio dalle truppe pontificie, assieme a quelle napoletane e ungheresi. Ciò che doveva essere un inizio di riscossa trionfale terminò però nelle solite divisioni fra i diversi eserciti, acuite da un inizio di diffusione della peste e dal malcontento dei soldati. La flotta di Ferrante rientrò a Napoli e, nonostante le esortazioni del pontefice a proseguire la spedizione in territorio albanese, anche la flotta pontificia dovette far ritorno a Civitavecchia nell’ottobre di quell’anno, per non più ripartire.

Se nel richiamo alla crociata la politica di Sisto IV trova una giustificazione in principi superiori religiosi e ideali, nei confronti degli Stati italiani e stranieri essa appare sempre più legata ai modi e alle concezioni del tempo: il papa appare ora come un contendente fra gli altri, accentuando notevolmente il processo di secolarizzazione della politica pontificia già parzialmente in atto a partire dal pontificato di Martino V.

L’assassinio del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza (26 dicembre 1476) inaugurò un periodo di crisi intensa soprattutto fra il papa e Lorenzo de’ Medici. Già vi erano stati in precedenza segnali di tensione fra i due, come al tempo della guerra di Firenze contro Volterra (1472), quando le truppe pontificie sotto la guida di Federico da Montefeltro si erano associate a quelle fiorentine commettendo contro la volontà del papa diverse violenze sui vinti. Più rilevante era il contrasto relativo all’uso dell’allume di Volterra da parte dei fiorentini, che in precedenza si erano impegnati con il papa a utilizzare esclusivamente l’allume della Tolfa. Venivano così a guastarsi i buoni rapporti stabiliti da Sisto IV con i Medici all’inizio del suo pontificato. Il tentato acquisto di Imola dai milanesi aveva poi costituito un secondo punto di contesa, cui si univa l’appoggio di Firenze alla rivolta di Città di Castello e, direttamente, a Nicolò Vitelli. Inoltre non poteva che acuire il dissidio la polemica ecclesiastica e politico-diplomatica (Fubini, 1994, p. 99) a un tempo, riguardante la scelta degli arcivescovi di Firenze e di Pisa (1474) e la riluttanza del papa a eleggere un cardinale fiorentino (cioè un Medici). Fra gli episodi più gravi del dissenso vi fu certamente il sostegno dato da Lorenzo a Carlo Fortebraccio, che all’inizio del 1477 aveva iniziato una manovra politico-militare di disturbo a Siena, nemica tradizionale di Firenze, mirante alla conquista di Perugia, dove si era assicurato l’alleanza con una parte della nobiltà cittadina. Fu ricorrendo ancora una volta all’arte militare di Federico da Montefeltro, che sconfisse le truppe di Carlo e di Firenze, che il papa riuscì a ridurre drasticamente una pericolosa espansione economica e politica fiorentina in Umbria. Con una bolla (Theiner, 1862, p. 497) Sisto IV fece confiscare dalla Camera apostolica tutto l’allume estratto dalla provincia del Patrimonio di S. Pietro da Lorenzo e dai suoi. Nel febbraio del 1478 i rapporti fra i vari Stati italiani vennero a determinarsi quindi naturalmente in due opposti schieramenti: da una parte Roma, Siena e Napoli, dall’altra Firenze, Milano e Venezia.

È in questa atmosfera che prese avvio un tentativo di rivolta degli oppositori di Lorenzo de’ Medici, capeggiati dalla famiglia rivale dei Pazzi, in accordo con il papa e soprattutto con l’ispiratore di una feroce politica antimedicea, Girolamo Riario. La congiura, organizzata certamente con l’avallo di Sisto IV, anche se con modalità ancora non del tutto chiare (per una discussione favorevole al pontefice, cfr. von Pastor, 1925, pp. 507 ss.), e molto probabilmente con la connivenza sia del re di Napoli sia di Federico di Urbino (Fubini, 1994, pp. 87, 263 s.), si concretizzò in un attentato a Lorenzo e Giuliano de’ Medici perpetrato nel duomo di Firenze domenica 26 aprile 1478. Come è noto, Giuliano venne ucciso, ma Lorenzo riuscì a salvarsi. I rapporti tesissimi fra la S. Sede e Firenze si aggravarono ulteriormente con l’arresto del cardinale Raffaele Sansoni Riario, che si trovava a Firenze proprio nel giorno dell’attentato e che era dai fiorentini ritenuto, a torto, fra i responsabili dell’accaduto. L’arresto contravveniva con evidenza ai principi dell’immunità ecclesiastica ribaditi dal pontefice appena due anni prima (von Pastor, 1925, p. 515). Con una bolla del 1° giugno 1478 (Ineffabilis et summi patris providentia), nella quale venivano ricordati anche i precedenti atti ostili di Lorenzo, Sisto IV scomunicava lui e i suoi seguaci e minacciava l’interdetto sulla città, che poi proclamava effettivamente il 20 dello stesso mese, nonostante il cardinale fosse stato liberato qualche giorno prima.

Il conflitto con Firenze, che ebbe risvolti polemici e religiosi non trascurabili (come l’elaborazione di un documento, la cosiddetta Synodus florentina, dove venivano lanciate terribili accuse contro il papa), coinvolse, oltre agli schieramenti italiani, anche Luigi XI, l’imperatore Federico III e gli svizzeri, allora in lotta contro Milano. La solita minaccia di convocazione di un concilio trovò alleati fiorentini e francesi, ma non ebbe il successo sperato. Grazie alla mediazione dell’imperatore, dello stesso re di Francia e poi del re Edoardo IV di Inghilterra, per lunghi mesi si protrassero a Roma trattative diplomatiche fra gli esponenti delle diverse potenze (gennaio 1479-dicembre 1480).

La pace fra la S. Sede e Firenze venne raggiunta e suggellata dall’assoluzione pontificia il 3 dicembre 1480, ma l’intera vicenda ebbe come risultato l’isolamento politico di Sisto IV, soprattutto dopo la defezione di Ferrante, che aveva firmato separatamente con Lorenzo un accordo di pace (dicembre del 1479), riavvicinando Napoli a Milano e a Firenze.

Il rovesciamento di alleanze prodottosi nella contesa tra Firenze e la S. Sede, che non poteva più fare affidamento sul re di Napoli, aveva indotto Sisto IV, già prima della pacificazione con Firenze, a volgersi verso Venezia, con cui venne stipulata una lega il 17 aprile 1480. Dietro questa alleanza vi era il disegno di Girolamo Riario di ampliare la propria personale base di potere territoriale: egli riuscì a ottenere il vicariato di Faenza (21 agosto 1480) e poi di Forlì (4 settembre 1480). Nel piano molto più ardito di impadronirsi del Regno di Napoli, Girolamo aveva preso accordi con Virginio Orsini, che rivendicava da Ferrante le contee orsiniane di Alba, Avezzano e Tagliacozzo, vendute dal re ai Colonna per 12.000 ducati. Con la promessa di cedere Ferrara, appartenente al duca Ercole d’Este e tradizionalmente antagonista di Venezia in quanto importante nodo commerciale, Riario seppe inoltre acquistarsi, nel settembre del 1481, l’appoggio della Serenissima, che sarebbe dovuta intervenire con la sua flotta per impegnare l’esercito napoletano. Nonostante i tentativi di pacificazione di Lorenzo de’ Medici e di Ercole d’Este, la guerra scoppiò nell’aprile del 1482, allorché le truppe napoletane sconfinarono nello Stato della Chiesa, per difendere i Colonna in lotta a Marino contro gli Orsini. Un duplice schieramento divideva di nuovo gli Stati italiani piccoli e grandi: da una parte Venezia, Roma, il marchese di Monferrato, Genova e Parma; dall’altra Ferrara, Napoli, Milano, Firenze, Mantova, Bologna e il temibile Federico di Urbino.

Questo schieramento si ripercuoteva nella stessa situazione interna di Roma, dal momento che le contese fra Orsini e Colonna (e famiglie alleate, rispettivamente Santacroce e della Valle) turbavano la città già da tempo, coinvolgendo appunto Riario, alleato degli Orsini, e il re di Napoli, alleato dei Colonna di Paliano-Genazzano. L’alleanza con gli Orsini contro i Colonna non era occasionale, ma derivava dall’accresciuta potenza di questi ultimi, ostili ad alcune importanti riforme agrarie che Sisto IV aveva adottato negli anni precedenti, come la bolla del 1° marzo 1476, con la quale si autorizzavano i coltivatori a lavorare in proprio un terzo dei latifondi, di laici o di ecclesiastici, che fossero rimasti incolti (Theiner, 1862, pp. 491 s.; Caravale, 1978, pp. 108 s.). Il papa invitò subito i napoletani a ritirare le loro truppe, alle quali rifiutò il passaggio alla volta di Ferrara. Come risposta all’alleanza fra Lorenzo Colonna, Mariano Savelli e Alfonso di Calabria, figlio di Ferrante e capo delle truppe inviate dal re, Sisto IV fece arrestare nel giugno del 1482 i due cardinali Lorenzo Colonna e Giovanni Battista Savelli. Mentre Alfonso riusciva a dilagare nella campagna romana, conquistando Albano, Castel Gandolfo e Civita Lavinia, Ferrante, a capo della flotta, conduceva azioni di disturbo lungo la costa laziale. La delicata situazione del pontefice venne infine risollevata dall’arrivo a Roma (23 luglio 1482) di Roberto Malatesta, signore di Rimini e capitano di fama, che riorganizzò, anche con truppe veneziane, l’esercito della lega veneto-pontificia. Riconquistati nell’agosto Albano, Castel Gandolfo e Castel Savello, l’esercito pontificio spinse il nemico verso le paludi pontine, sconfiggendolo duramente presso Campomorto (21 agosto 1482), in una battaglia che fu considerata poi fra le più aspre e sanguinose mai combattutesi in Italia negli ultimi anni (N. Machiavelli, Istorie fiorentine, cit., VIII). Il trionfo, celebrato anche festosamente a Roma, fu tuttavia di breve durata perché, in seguito alla morte di Malatesta, e alle defezioni dei veneziani e degli altri alleati, il conflitto minacciava di riaccendersi. Si pervenne così a una tregua con il duca di Calabria (28 novembre 1482), cui seguì il 12 dicembre la pace stipulata con Napoli, Milano e Firenze.

Della guerra restava soltanto la diffidenza di Venezia nei confronti del pontefice, che ora difendeva Ferrara, definita in un documento (redatto secondo von Pastor nella primavera del 1483) «antimurale totius Romandiole» (Responsio dom. Nostri Sixti papae IV. Ad obiecta sibi per Venetos in causa belli Ferrariensis; von Pastor, 1925, p. 565). Un ennesimo rivolgimento delle alleanze portava ora gli Stati italiani e il papa a una lega per difendere Ferrara dai veneziani: l’accordo, reso noto dal papa stesso il 30 aprile 1483, prevedeva anche azioni in mare, per le quali venne riorganizzata la flotta pontificia al comando del vescovo di Como, Branda Castiglione. Alla risposta di Venezia, che cercò anche appoggio presso i francesi sostenendo le loro antiche rivendicazioni contro gli Aragonesi e che si faceva insidiosa sulle coste pugliesi conquistando Gallipoli, si contrappose ancora una volta la terribile arma dell’interdetto, lanciato da Sisto IV contro Venezia il 24 maggio 1483 (bolla Ad bonorum tutelam, pubblicata subito a stampa).

La guerra contro Venezia si risolse però senza episodi militari significativi, segnando invece la vittoria delle diplomazie, soprattutto di quella milanese.

In questo contesto Sisto IV cercò, mediante una serie di riforme, non tutte attuate, di riorganizzare e razionalizzare il funzionamento dei principali organi di governo, portando a parziale compimento l’effettiva sussunzione delle antiche libertà comunali (in particolare di Roma dove, fra l’altro, l’assorbimento delle finanze comunali da parte di quelle pontificie fu pressoché totale; Bauer, 1927, p. 330), ma ribadendo in modo favorevole alla Chiesa i variegati rapporti di dipendenza delle singole entità politiche dello Stato: così nella bolla Etsi de cunctorum, del 30 maggio 1478, dove si ribadiva il rispetto delle costituzioni egidiane (Theiner, 1862, pp. 494-497), preceduta nel 1477 da una rigorosa iniziativa di repressione degli abusi dei funzionari provinciali (Carocci, 1996, pp. 179 s.). Uno dei momenti più rilevanti di questa politica fu la riforma della Camera apostolica quale appare nell’Ordo Camerae del 1480-81, che, pur non evidenziando importanti elementi di novità, «caratterizza assai bene le tendenze del papato del Rinascimento verso una netta affermazione dei suoi diritti statali e verso l’assetto delle sorgenti della sua forza» (Bauer, 1927, p. 323, pp. 392 s. per il testo dell’Ordo).

Un aspetto singolare delle nuove pratiche, destinato a svilupparsi anche dopo il pontificato di Sisto IV, era il reperimento di fondi mediante la concessione di uffici (fra cui quelli ‘vacabili’, cioè trasferibili a una terza persona una volta pagato il diritto), spesso puramente fittizi. I salari relativi rappresentavano gli interessi sul capitale investito acquistando la carica (Partner, 1960, p. 258; Id., 1990, pp. 197-200). L’ufficio della Dataria, che gestiva appunto tale vendita, cominciò proprio sotto Sisto IV ad avere uno sviluppo notevole. Anche la pratica delle ‘composizioni’, somme versate a titolo di elemosina per grazie ricevute, in realtà vere e proprie tasse su quanto accordato dal pontefice, e quella delle dispense trovarono nel medesimo ufficio della curia ampio sviluppo in epoca sistina, consolidandosi sotto Alessandro VI (Célier, 1910, pp. 87 s.; Partner, 1960, pp. 273 s.).

Bene si inseriscono, nel generale riassestamento della gestione della curia sotto Sisto IV, i tentativi di riforma della stessa, che tuttavia restarono in gran parte allo stato di progetto, anche per la resistenza indotta dal meccanismo della vendita degli uffici e dalla pratica delle composizioni. Vani risultarono, ad esempio, i tentativi di limitare il lusso delle corti cardinalizie e i testi elaborati per una riforma complessiva (cfr. la bolla Quoniam regnantium cura, sulla quale si veda in generale von Pastor, 1925, p. 600) non ebbero mai una promulgazione ufficiale. A questi tentativi si affiancava d’altro canto un’attiva politica verso gli Ordini mendicanti, soprattutto i francescani, che il pontefice cercò di riformare.

Una parte dei proventi dello Stato pontificio fu coscientemente finalizzata da Sisto IV alla promozione della città di Roma (ma anche di altri centri). Durante il pontificato sistino la vita culturale della città subì infatti una vera e propria mutazione, legata in parte a un disegno di supremazia papale da realizzarsi, oltre che nei confronti delle altre potenze, nell’affermazione complessiva, quindi anche culturale, della corte pontificia.

L’attività edilizia si sviluppò principalmente, anche se non esclusivamente, intorno al giubileo del 1475 (indetto da Paolo II e confermato da Sisto IV nella bolla Salvator Noster del 26 marzo 1472), un evento religioso propizio al rifacimento di edifici sacri e al miglioramento della viabilità cittadina e «banco di prova [... nella] costruzione della identità insieme nuova e antica del papa-re e dello Stato pontificio» (Fagiolo - Madonna, 1984-1985, p. 21).

Fra le chiese ristrutturate dalle fondamenta va citata in primo luogo S. Maria del Popolo, la «prima grande costruzione ecclesiastica della Roma rinascimentale» (Benzi, 1990, p. 99). Al posto di un’umile chiesetta si iniziò nel settembre del 1472 l’edificazione di un vasto edificio che fu compiuto probabilmente nel 1477; le due bolle sistine che affidavano la cura della chiesa agli eremitani dell’Ordine di S. Agostino della Congregazione lombarda, rispettivamente del settembre e dell’ottobre del 1472, sono riportate su due lapidi poste sulla facciata della chiesa (per i testi cfr. ibid., pp. 247-249; per le vicende insediative degli agostiniani e per la biblioteca annessa al convento cfr. Esposito, 1986, pp. 569 s.). Altre chiese riedificate dalle fondamenta sono, oltre a S. Pietro in Montorio, la chiesa di S. Vitale, una basilica del V secolo interamente ricostituita nel 1475; la chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo, riedificata dalle fondamenta nello stesso anno; le chiese dei Ss. Quirico e Giulitta, S. Sisto Vecchio, S. Anastasia, restaurate da Sisto IV nel 1475, ma dei cui lavori oggi ben poco sopravvive; infine la chiesa di S. Vito in Macello, integralmente rifondata nel 1477 su una chiesa più antica, la cui menzione risale all’VIII secolo (su questi lavori cfr. Benzi, 1990, pp. 120, 178, 188, 194). Fra le chiese costruite ex novo si ricordano: la chiesa di S. Cosimato, fondata in occasione del giubileo (1475); la chiesa di S. Maria della Pietà in Camposanto teutonico (chiesa non completata, continuata nel 1493: sono sistini solo fondazione e impianto, forse risalenti al 1475); infine la cappelletta della chiesa di S. Maria della Spazolaria, eretta nel 1476 (per le numerose opere sistine «distrutte, modificate o difficilmente riconoscibili», cfr. ibid., pp. 184, 200 s.).

Sempre agli agostiniani è legata la costruzione della chiesa di S. Agostino, fra il 1479 e il 1483 (data dell’epigrafe posta sulla facciata), a opera dell’architetto Jacopo di Pietrasanta, aiutato da Sebastiano Fiorentino, a spese del protettore dell’Ordine agostiniano, il cardinale Guillaume d’Estouteville. Agli anni 1482-84 risalgono i lavori per la chiesa di S. Maria della Pace, ancora un tempio dedicato alla Madonna, il cui culto è una delle caratteristiche del pontificato sistino. All’Immacolata Concezione venne dedicata la Cappella Sistina, un edificio di grandissima importanza, anche per gli sviluppi posteriori che ne hanno fatto un monumento fra i più celebri del mondo. Iniziata nel 1473 e terminata nel 1483, fu consacrata solo il 14 agosto 1483. La quantità e qualità degli artisti impegnati nella decorazione ben testimoniano il potere di attrazione che oramai Roma esercitava in tutta la penisola: le opere dei pittori che la decorarono – Perugino, Ghirlandaio, Botticelli, Signorelli – sono universalmente note e ammirate. Più controverso è il programma iconografico rappresentato dal ciclo degli affreschi, che la critica ha variamente interpretato e che sicuramente riposa su una concezione teologica in cui il cristianesimo, attraverso i successori di Pietro, si rivela come realizzazione e compimento dell’Antico Testamento. Sisto IV diede anche un nuovo impulso al coro della cappella pontificia.

Nel 1471 il pontefice donò al popolo romano la statua bronzea della Lupa (la Mater Romanorum), che venne trasportata dal Laterano, sua sede medievale, al Campidoglio. La lupa, simbolo della giustizia pontificia (caratterizzava infatti il luogo dove veniva resa giustizia davanti al Laterano), si sostituiva così all’altro simbolo di giustizia del Campidoglio, il leone, a indicare, forse più che la volontà di fondare un museo capitolino, anche il mutamento della realtà politica romana nei suoi rapporti con il pontefice (Scarcia Piacentini, 1986, pp. 165 s.). Accanto alla Lupa, Sisto IV donò anche le statue dello Spinario, della Zingara, una testa di bronzo e la Palla Sansonis, e fece restaurare, ma lasciandola in Laterano, la statua di Marco Aurelio (Buddensieg, 1983, p. 49). Fra le imprese di pubblica utilità unanimemente ricordate e lodate dai letterati troviamo in ordine di tempo il rifacimento dell’ospedale di S. Spirito in Sassia, antica sede dei pellegrini, iniziato a partire dal 1471 e conclusosi solo nel 1478. Una serie di affreschi scandisce le tappe della biografia del pontefice, anche mediante una serie di iscrizioni tratte dalla biografia scritta da Bartolomeo Platina. Fra le iniziative più importanti volute dal papa vi è poi sicuramente la costruzione di ponte Sisto (l’antico pons ruptus), iniziata il 29 aprile 1473 (Diario della città di Roma..., cit., p. 76). Il ponte, ai cui lavori erano devoluti anche i proventi della legge suntuaria del 1473 (Theiner, 1862, p. 476; Müntz, 1878-1882, p. 280), veniva a creare nella città un nuovo asse viario trasversale, utile soprattutto alle attività commerciali, ma anche a immettere il crescente flusso dei pellegrini in una delle zone che si erano andate maggiormente sviluppando, quella di Campo de’ Fiori e di piazza Navona. Furono assai notevoli anche la sistemazione delle strade, in particolare la via Sancta (Borgo Vecchio), la via Sistina (Borgo Sant’Angelo) da Ponte al Palazzo, prolungata successivamente fino a S. Maria del Popolo, la via Recta, la via Papalis, da Ponte a Campo de’ Fiori, con interventi di pavimentazione e rettificazione; i lavori di manutenzione delle mura e degli acquedotti (importante quello dell’Acqua Vergine), la cura di complessi edilizi di notevole importanza (Castel Sant’Angelo, Campidoglio). L’attenzione rivolta al decoro cittadino è testimoniata anche da una rivitalizzazione dell’antica magistratura capitolina delle strade, oramai direttamente gestita dal papa.

In generale sono state evidenziate due fasi distinte di questo imponente complesso di lavori: la prima, di intensa attività edilizia, è sostanzialmente legata all’evento giubilare (1471-76); la seconda riflette invece un’azione più minuta e capillare sul tessuto urbano.

Una menzione specifica nell’architettura romana dell’epoca sistina meritano i diversi edifici religiosi e i palazzi ristrutturati o edificati, in sintonia con le iniziative dirette del pontefice, soprattutto dai cardinali, che si inseriscono nel panorama complessivo del rinnovamento edilizio della città. In questa sede sarà sufficiente citare il palazzo Nardini, fatto edificare dal cardinale Stefano Nardini sulla «via Papalis», l’attuale via del Governo Vecchio, nel 1473 (dal 1483 divenne proprietà dell’ospedale di S. Salvatore in Lauro); lo stesso Nardini fece edificare nel 1483 la sagrestia di S. Maria in Trastevere, come appare da un’epigrafe murata alla porta di ingresso; il palazzo dei Ss. Apostoli (1472-74) di Pietro Riario e il palazzo di S. Pietro in Vincoli di Giuliano della Rovere (1474); il palazzo di Girolamo Riario a Tor Sanguigna, iniziato nel 1476 (oggi Museo romano di palazzo Altemps, con vestigia dell’antica fabbrica). Vennero interamente rifondate da Giuliano della Rovere nel 1480 la chiesa di S. Agnese fuori le Mura e nel 1483 la basilica di S. Pietro in Vincoli (Benzi, 1990, pp. 152 s., 192, 196). Secondo un’interessante teoria, la dislocazione di questi edifici non sarebbe casuale, ma finalizzata, coscientemente, alla divisione della città in zone anti e filopontificie controllate, queste, dall’incrocio concomitante di palazzi e strade (Guidoni, 1992, p. 222). Gli interventi sistini sulla città, tanto religiosi quanto, soprattutto, civili, ebbero nel loro insieme un effetto considerevole, specialmente perché recepivano, razionalizzavano e canalizzavano fenomeni edilizi e urbanistici che si erano manifestati spontaneamente fin dal secolo precedente.

Gli interventi sull’assetto urbano e soprattutto l’edificazione di ponte Sisto costituirono «una vera e propria rivoluzione viaria nella città» (Modigliani, 1998, p. 321), anche se la vera novità è piuttosto da ricercarsi, oltre che nella nuova qualità degli interventi stessi, nella direzione personalmente assunta dal pontefice, laddove anteriormente si trattava di un’attività gestita dalle istituzioni cittadine (pp. 319 s.).

Con la bolla Ad decorem militantis ecclesiae del 15 giugno 1475 (edita criticamente e studiata in Ruysschaert, 1969, passim) Sisto IV rifondava (o riorganizzava, dato che la sua creazione va attribuita a Niccolò V) la biblioteca pontificia, assicurandone inoltre, con atto di liberalità, encomiato ovviamente in modo abbondante dai letterati, l’apertura al pubblico.

Colto da febbre già da qualche giorno, morì il 12 agosto 1484.

Fonti e Bibl.: Oltre alle opere citate in questa voce, per una bibliografia completa fino al 2000 si rimanda a G. Lombardi, Sisto IV, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 701-717.

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De Angelis d’Ossat - A. Schiavon, Roma 2011, passim.

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