PIO II, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PIO II, papa

Marco Pellegrini

PIO II, papa. – Enea Silvio Piccolomini nacque il 18 ottobre 1405 a Corsignano, in Val d’Orcia, da Silvio Piccolomini e da Vittoria Forteguerri.

Tra i principali lignaggi della nobiltà di Siena, imparentati con i Tolomei, i Piccolomini erano stati esclusi dalla vita pubblica della città nel 1385 e costretti a ritirarsi nella signoria avita di Corsignano; qui versavano in difficili condizioni economiche. L’estrazione magnatizia fu per Enea Silvio un pungolo a riconquistare, grazie alla personale eccellenza nelle lettere e nella diplomazia, quella preminenza sociale un tempo goduta dalla propria famiglia.

Nel 1423 Enea Silvio si trasferì a Siena a studiare diritto; ma anziché seguire le direttive paterne, egli assecondò la passione per le lettere classiche. Nel 1429 si recò a Firenze per udire le lezioni di greco di Francesco Filelfo; vi conobbe anche Leonardo Bruni, Poggio e altri celebri umanisti. Dopo due anni rientrò in patria, dove seguì le lezioni di importanti giuristi quali Antonio Roselli e Niccolò Tudeschi, detto il Panormitano, e Mariano Sozzini. Nel 1431 venne notato per il suo talento dal cardinale Domenico Capranica, che si trovava a Siena di passaggio verso Basilea, dove intendeva unirsi al concilio riformatore. Assunto dal Capranica in qualità di segretario, Piccolomini giunse a Basilea nella primavera del 1432 e qui aderì al movimento conciliare con passione. Quando nel 1433 Eugenio IV sospese il concilio di Basilea, egli si oppose a tale gesto e abbracciò l’oltranzismo con cui l’assemblea conciliare continuò nel suo programma di demolizione della monarchia pontificia.

Nell’aprile 1434 il cardinale Capranica si rappacificò con Eugenio IV, tornando a Roma. Enea Silvio, rimasto a Basilea, passò al servizio di Nicodemo della Scala, vescovo di Frisinga. Successivamente fu assunto dal vescovo di Novara, Bartolomeo Visconti, poi dal cardinale Niccolò Albergati, che nel 1435 seguì in un lungo viaggio in Lombardia, in Savoia e in Borgogna. Di qui, proseguì da solo la missione fino in Scozia. Tornato a Basilea nel 1436, Enea Silvio trovò l’assemblea conciliare divisa fra un’ala propensa alla riconciliazione con Eugenio IV, capeggiata dal cardinal Cesarini, e una maggioranza fieramente antipapale, capeggiata dal cardinale d’Aleman e sorretta dalla componente gallicana. Egli si allineò a questa seconda corrente e si impose all’attenzione generale grazie alle sue doti oratorie.

La sua carriera di funzionario conobbe una notevole progressione, con il conseguimento delle cariche di scrittore, di abbreviatore e infine di primo abbreviatore del concilio. Rivestì anche mansioni organizzative, come quella di membro della commissione dei dodici, che preparava gli ordini del giorno da sottoporre all’assemblea; e, benché laico e non teologo, fece parte della deputazione per la fede, della quale assunse occasionalmente anche la presidenza.

Aggravatasi intorno al 1436-1437 la rottura fra il concilio di Basilea ed Eugenio IV divenne irreparabile nell’autunno del 1439, quando il concilio dichiarò deposto il papa di Roma e procedette all’elezione di un suo sostituto, nella persona del duca di Savoia Amedeo VIII, che il 5 novembre venne eletto con il nome di Felice V. Nel conclave Piccolomini rivestì le funzioni di cerimoniere; successivamente venne promosso a segretario papale. In questa veste, scrisse nel 1440 il Libellus con cui difese l’operato del concilio di Basilea, che Eugenio IV aveva condannato come scismatico.

Bisognoso di assicurarsi il sostegno del mondo germanico, Felice V inviò il Piccolomini in qualità di suo legato alla Dieta di Francoforte. Qui il 27 luglio 1442 ricevette la corona di poeta da Federico III d’Asburgo, che gli offrì un posto nella Cancelleria imperiale. Il trasferimento venne autorizzato da Felice V nel novembre dello stesso anno e nel gennaio 1443 Enea Silvio si stanziò a Wiener Neustadt. A contatto con il cancelliere imperiale Kaspar Schlick, di cui fu segretario minutante, Piccolomini ammorbidì la propria militanza conciliarista. Schlick, convinto che spettasse all’imperatore procurare la ricomposizione dell’unità interna alla Chiesa, lavorò affinché Federico III si imponesse quale arbitro fra Papato e Concilio.

Nei primi tempi del suo servizio alla Cancelleria imperiale Piccolomini attese soprattutto alla letteratura, componendo la commedia Chrisis (1443) e la novella De duobus amantibus historia (1444). Dell’esperienza della precarietà e dei disagi della condizione del cortigiano, diede testimonianza nel De curialium miseriis (1444).

Ancora nell’aprile 1443 egli fece professione delle sue convinzioni conciliariste. L’anno dopo, ripeté di non voler prendere gli ordini sacri a causa di obblighi per lui inosservabili, tra cui il precetto della continenza. Tuttavia qualcosa stava cambiando nella considerazione del proprio stato di vita, una questione che egli aveva lungamente lasciato sospesa. Nell’ottobre 1444 dichiarò che sua volontà era di servire Dio solo; ma la decisione di assumere gli ordini sacri, così preannunciata, venne rimandata fino ai primi del 1446, quando venne ordinato suddiacono. La consacrazione sacerdotale avvenne il 4 marzo 1447. Il passo, lungamente meditato, fu effettuato dal Piccolomini quando gli apparve chiara l’impossibilità che il concilio di Basilea potesse mai vincere una sfida che esso aveva gravato di complicazioni negative per la nazione tedesca, avendo fatto affidamento sull’appoggio politico del re di Francia. Per salvaguardare l’assetto unitario della cristianità europea, Enea Silvio si diede a procurare, nella sua nuova fisionomia di uomo di Chiesa, una convergenza di sforzi fra la Sede apostolica e l’Impero germanico.

In continuità con l’impegno culturale esibito in precedenza, si mostrò prolifico autore di scritti d’occasione. Così, se verso il 1440 aveva scritto il De gestis Basiliensis concilii, intorno al 1450 compose il De rebus Basileae gestis, stante vel dissoluto concilio, che altro non è se non un rifacimento, in senso papista, della prima opera, di intonazione conciliarista.

La metamorfosi delle posizioni di Enea Silvio ebbe modo di emergere nella primavera del 1445, quando una missione diplomatica lo portò a Roma. Qui a nome di Federico III invitò Eugenio IV a partecipare a un nuovo concilio, indetto sotto l’egida imperiale, per comporre i dissensi interni alla Chiesa. Come prevedibile, il pontefice respinse l’offerta; ma Enea Silvio approfittò della solenne udienza per fare ammenda degli errori passati, dichiarando la sua conversione alla causa della Chiesa romana. Senza difficoltà, Eugenio IV lo perdonò pubblicamente. Dietro la rapidità con cui il gesto fu avallato, si può intuire il buon funzionamento di un reticolo di amicizie che egli vantava alla Curia romana, poggiante su personaggi quali Tommaso Parentucelli, Pietro da Noceto e Giovanni Campisio, segretario del cardinale Berardi. Il recupero alla causa romana di un diplomatico di eccellenza, legato all’Impero germanico, consentì allo schieramento romano di annoverare un prezioso paladino alla corte di Federico III, dove Enea Silvio avrebbe agito di concerto con i nunzi pontifici Juan Carvajal e Tommaso Parentucelli. Nel propugnare tale linea, Piccolomini si atteggiò a restauratore dell’antica costituzione dell’Impero germanico, che nel 1446 rievocò nel De ortu et authoritate Romani imperii.

Entro l’estate del 1446 Enea Silvio riuscì a staccare dalla coalizione antiromana il marchese Alberto del Brandeburgo e l’arcivescovo di Magonza. Fu così possibile a Federico III trovare una via all’accordo con i principi tedeschi circa la pace della Chiesa (22 settembre), preludio al riconoscimento del papa come unico pastore supremo della Cristianità, che la Dieta di Francoforte decretò l’11 ottobre 1446. Tra la sessantina di rappresentanti del Sacro Romano Impero inviati a Roma a notificare l’obbedienza a Eugenio IV, vi era anche Enea Silvio, che il 7 gennaio 1447 tenne un discorso nel pubblico concistoro.

Neppure tre settimane dopo, il 23 febbraio, Eugenio IV moriva. Quale segnale dell’urgenza per la Sede apostolica di completare l’operazione di recupero del mondo tedesco, il 6 marzo 1447 venne eletto come nuovo papa Tommaso Parentucelli, che prese il nome di Niccolò V. Questi, dando compimento alla politica del suo predecessore, stipulò con Federico III d’Asburgo il concordato di Vienna del 17 febbraio 1448, al termine di uno sforzo a cui Enea Silvio diede un contributo di primo piano. Quale riconoscimento, il 19 aprile 1447 arrivò per lui la promozione a vescovo di Trieste, che tuttavia non andò a effetto per l’opposizione del capitolo della cattedrale. Niccolò V intese comunque promuoverlo al grado vescovile e il 23 settembre 1450 gli conferì la diocesi di Siena.

L’evento lo riportò, in una posizione di massimo prestigio, dentro l’orizzonte politico di quella patria lontana a cui egli non aveva mai smesso di pensare. Ma l’esaltazione alla cattedra senese divenne una fonte di attrito fra il Piccolomini e il governo di Siena, che diffidava di lui in quanto membro di una famiglia della vecchia aristocrazia, nemica del partito popolare allora al potere. Timorosi della richiesta di riammettere al governo la fazione nobiliare, che Enea Silvio avrebbe presto o tardi avanzato, i Senesi ne osteggiarono quanto poterono l’autorità vescovile.

Nel suo nuovo grado episcopale, Enea Silvio venne incaricato nell’estate 1451 da Niccolò V di svolgere una delicata legazione in Boemia. Qui toccò con mano le difficoltà del tentativo di ricondurre all’obbedienza romana il partito utraquista, contro le cui dottrine egli scrisse anche un trattatello e un’opera storiografica (Historia bohemica). Frattanto, dava gli ultimi ritocchi a un progetto di viaggio a Roma per Federico III, cui aveva messo mano subito dopo la riconciliazione di questi con la Sede apostolica. Secondo l’antica consuetudine, il re dei Romani avrebbe commutato il suo titolo in quello di sacro romano imperatore, ricevendo la corona dalle mani del papa.

Nel settembre 1450 il neoeletto vescovo di Siena fu mandato da Federico III a Napoli per pattuire con re Alfonso d’Aragona il matrimonio tra l’Asburgo ed Eleonora del Portogallo, nipote dello stesso Alfonso. Facendo tappa a Roma, Piccolomini riuscì a condurre in porto i negoziati per la futura incoronazione imperiale, vincendo le resistenze di Niccolò V, che al pari delle principali potenze padane (Milano, Venezia) era contrario a una discesa dell’Asburgo nella penisola.

Il 1° gennaio 1452 il re dei Romani giunse in Italia, accompagnato da un’esigua scorta, tra cui Enea Silvio. Durante il viaggio, questi ricevette la nomina a legato apostolico per l’Austria, la Boemia, la Moravia e la Slesia. L’incontro tra Federico d’Asburgo ed Eleonora del Portogallo – che, sotto l’attenta regia di Piccolomini, era stato fissato a Siena – avvenne il 24 febbraio, presso Porta Camollia, dove tuttora sorge una colonna commemorativa. Dopo le nozze la coppia si rimise in viaggio, per celebrare quella che fu l’ultima incoronazione di un imperatore a Roma che la storia ricordi. La considerazione che il pontefice riservò a Federico III fu alquanto modesta, come lo stesso Piccolomini ebbe a notare nella Historia Friderici III.

Nondimeno, Niccolò V si dimostrò accondiscendente verso le pretese dell’Asburgo, il quale, entrato a Roma il 9 marzo 1452, ottenne che il papa lo incoronasse anche re d’Italia. L’incoronazione imperiale si svolse domenica 19 marzo; in questa circostanza, il vescovo di Siena pronunciò un’orazione nel pubblico Concistoro, in cui indicò il prossimo compito che ricadeva sulla Cristianità occidentale ormai riunificata: la guerra santa per impedire che Costantinopoli venisse sottomessa dagli Ottomani. Gli sforzi messi in atto dai vertici della Chiesa latina non valsero a salvare la capitale greca da un destino che si compì il 29 maggio 1453, quando cadde nelle mani del sultano Maometto II. Il catastrofico evento non venne considerato irrimediabile da Niccolò V, che il 30 settembre 1453 bandì una crociata per la riconquista della capitale bizantina. Senza esitare, Piccolomini fece propria l’iniziativa papale e fu tra i primi a denunciare la lesione della Cristianità in una sua parte vitale, cioè l’Oriente ex bizantino.

A partire dalla fine del 1451, dopo la legazione in Boemia, il «cursus honorum» di Enea Silvio mise in preventivo la conquista della dignità cardinalizia. Per questo motivo, egli decise di trasformarsi in dignitario della Curia romana e si trasferì stabilmente nell’Urbe nell’agosto 1455, pochi mesi dopo la morte di Niccolò V, seguita dall’elezione di Callisto III. Agli inizi del 1456, questi investì Enea Silvio della legazione pontificia a Napoli, premiata al suo ritorno con la promozione a cardinale, avvenuta il 17 dicembre 1456. Di qui in avanti, Piccolomini funse da autorevole collaboratore dei piani di Callisto III per l’indizione della crociata, che egli curò soprattutto nei risvolti concernenti il rapporto con l’area germanica. Quando, il 6 agosto 1458, il pontefice venne a morte, la Chiesa romana versava in un momento critico. Nei Balcani, i Turchi, conquistata la Grecia, stavano muovendo contro la Serbia; in Italia, Jacopo Piccinino stava occupando le principali città dell’Umbria.

Quale via al risollevamento politico-militare della Sede apostolica, si fece largo la candidatura del potente e ricchissimo cardinale Guillaume d’Estouteville, che capeggiava la fazione degli amici del re di Francia. La sua vittoria implicava però il rischio di una revisione del processo di radicamento della Sede apostolica nell’alveo italiano, intrapreso dai papi dopo la chiusura del Grande Scisma, a partire da Martino V. L’intromissione della Francia negli affari d’Italia si stava facendo vicina, dopo che la morte di re Alfonso di Napoli (27 giugno 1458) risollevò la questione della legittimità dell’occupazione del trono napoletano da parte della casa d’Aragona. Sulla base dei timori che il nuovo sovrano, Ferrante, ebbe in comune con l’usurpatore del ducato di Milano, Francesco Sforza, fu agevole trovare, per i due principi italiani maggiormente esposti ai contraccolpi di un’eventuale ricomparsa della potenza francese in Italia, una convergenza sulla candidatura di Piccolomini, nonostante si trattasse di uno dei cardinali più sprovvisti di mezzi e di seguito che si annoverassero allora nel Collegio cardinalizio. Le altre due grandi potenze italiane dell’epoca, Venezia e Firenze, vennero soppiantate dal dinamismo con cui lo Sforza e l’Aragona affrontarono il problema.

Il conclave si aprì il 16 agosto. Le manovre dell’Estouteville vennero rintuzzate dal cardinale di Siena con franchezza, mediante la denuncia ai confratelli dei rischi connessi alla scelta di un papa francese, che avrebbe potuto riportare la Sede apostolica ad Avignone; ma anche qualora il papato fosse stato mantenuto a Roma, l’Italia sarebbe stata verosimilmente soggiogata alle ambizioni della corona di Francia. Il cardinale veneziano Pietro Barbo, controllore di ben sette voti, trovò persuasivo questo grido d’allarme, così che allo scrutinio del 19 agosto Piccolomini risultò primo con nove voti, seguito da Estouteville con sei. A questo punto si verificò l’adesione «per accessum» a Piccolomini di altri tre voti, che gli assicurò la maggioranza dei due terzi. Lo stesso 19 agosto venne annunciata l’elezione di Enea Silvio Piccolomini a sommo pontefice, con il nome di Pio II. L’incoronazione ebbe luogo domenica 3 settembre.

Il nome da lui prescelto come papa fu una reminiscenza del «Pius Aeneas» virgiliano; nell’adottarlo, egli non fu spinto soltanto dalla sua ricercatezza, quanto soprattutto dall’intento di esprimere una visione religiosa del proprio ruolo alla testa della Chiesa. Date le ombre che persistevano sul piano giuridico e dottrinale, la sua abiura del conciliarismo dovette essere ripetuta e trovò articolazione definitiva nella Bulla retractationum del 26 aprile 1463, diretta all’Università di Colonia, che era stata la destinataria dei suoi scritti in difesa della superiorità del concilio su Eugenio IV.

La linea portante del suo pontificato fu la prosecuzione dell’opera di restaurazione della monarchia pontificia e dell’unità religiosa dell’Occidente cristiano, intrapresa dai suoi immediati predecessori. Oltre alla lotta al conciliarismo e alle pretese autonomistiche delle «nationes» della cristianità, tale opzione implicò anche uno sforzo estremo, che arrivò al sacrificio di sé, per organizzare una riscossa dell’Europa cristiana che arrivasse a strappare agli Ottomani Costantinopoli nonché i territori, ancora a maggioranza cristiana, della penisola balcanica. Strumentale all’organizzazione di una grande controffensiva tra l’Egeo e il Bosforo fu la tutela che Pio II esercitò nei confronti delle dinastie che occupavano, pur senza titolo di legittimità, gli Stati di Milano e di Napoli. Incurante delle obiezioni da parte della Francia, egli non ebbe difficoltà a riconoscere Ferrante d’Aragona come nuovo re di Napoli, rilasciandogli, il 10 novembre 1458, la bolla di investitura con obbligo di vassallaggio. Pio II assicurò anche la permanenza al trono di Milano a Francesco Sforza e ai suoi discendenti. Il riconoscimento da parte papale della sovranità degli Sforza in un’area soggetta alla giurisdizione dell’Impero germanico comportò un’indiretta smentita dei diritti che Federico III d’Asburgo vi accampava. Di qui lo sdegno che l’imperatore concepì verso il suo ex segretario, assurto alla tiara.

Senza frapporre indugio, Pio II intavolò le trattative per organizzare la guerra santa, seguendo una preoccupazione che era in cima ai suoi pensieri. Con la bolla Vocavit nos (13 ottobre 1458), egli diede solennemente appuntamento per la primavera successiva a tutti i principi e potentati dell’Europa cristiana in una città dell’Italia del Nord, nella quale egli stesso contava di recarsi personalmente. L’annuncio suscitò il malcontento del mondo romano, sfavorevole alle assenze troppo lunghe dei pontefici. Incurante delle critiche, il 22 gennaio 1459 il pontefice, accompagnato da sei cardinali, partì per il convegno, che, durante il suo viaggio, fu stabilito dovesse aver luogo a Mantova.

Lungo il viaggio, Pio II passò per Assisi e Perugia, onde verificare la sottomissione della regione umbra all’autorità della Sede apostolica. Il 19 febbraio ripartì da Perugia e si recò al borgo natio di Corsignano, che proprio in quest’occasione decise di ricostruire, di erigere a diocesi, conferendogli la dignità di città, e ribattezzandolo Pienza. Ne approfittò anche per recarsi a Siena, onde regolare una volta per tutte i problemi interni al regime cittadino. Scarso ascolto era stato infatti prestato al suo breve del 25 novembre 1458, con il quale aveva intimato di riammettere il partito nobiliare alle cariche pubbliche. Il 24 febbraio 1459 Pio II fece il suo solenne ingresso in Siena, accolto con freddezza. I negoziati da lui condotti si conclusero con un compromesso che considerò onorevole. In segno di gratitudine, elevò la diocesi di Siena al rango di metropolitana, ponendola a capo di una provincia ecclesiastica che veniva pressappoco a coincidere con il territorio su cui la Repubblica senese esercitava la propria giurisdizione. Lo Stato di Siena venne ampliato con l’investitura perpetua da parte della Camera apostolica del centro di Radicofani, che controllava l’accesso allo Stato della Chiesa lungo la via Cassia. Un omaggio particolarmente lusinghiero fu infine la canonizzazione di s. Caterina da Siena, decretata nel 1461.

Lasciata Siena il 23 aprile, il resto del viaggio verso Mantova fu la dimostrazione dell’ostilità, più o meno dichiarata, che gli Stati italiani nutrivano verso di lui quale sovrano temporale. Il 25 aprile il pontefice entrò a Firenze, dove venne onorato con feste e spettacoli. Qui egli incontrò alcuni signori di Romagna, formalmente suoi vassalli, ma in realtà protetti dai principali Stati italiani, e il figlio primogenito del duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza. Tutti costoro si mostrarono assai renitenti a impegnarsi a favore della spedizione antiottomana. Più ambiguo di tutti fu Cosimo de’ Medici, che addusse una malattia per evitare di discutere con lui di questioni politiche.

Lasciata Firenze senza avere raccolto adesioni, il 9 maggio Pio II entrò a Bologna. La città, che giuridicamente ricadeva sotto la sovranità della Sede apostolica, era presidiata da truppe milanesi, che i Bentivoglio avevano fatto affluire per premunirsi contro eventuali rivendicazioni da parte papale. Ripartito da Bologna senza avere ottenuto nulla dai Bentivoglio, che tuttavia aveva dovuto accettare di fatto come governanti della città, il 17 maggio entrò a Ferrara. Il fastoso ricevimento e i modi cordiali che Borso d’Este, suo vicario, ostentò verso il papa nascondevano in realtà il proposito di strappargli nuove concessioni, onde rafforzarne l’autonomia dalla Sede apostolica. Dopo avere opposto un deciso rifiuto, Pio II ripartì per Mantova, dove entrò il 27 maggio, accolto con tutti gli onori dal marchese Ludovico Gonzaga.

Ad attenderlo a Mantova il pontefice non trovò alcuno dei principi cristiani che aveva invitato, e neppure alcun ambasciatore plenipotenziario. La Dieta da lui convocata per discutere dell’organizzazione della crociata sembrò non trovare alcuna ragione d’essere. Nondimeno, Pio II la inaugurò lo stesso, il 1° giugno 1459. Seguì la pubblicazione di una lettera a tutte le potenze cristiane, con cui esortò gli assenti a rimediare all’omissione e raggiungerlo al più presto a Mantova.

Particolarmente dolorosa fu la distanza che manifestò Federico III, irritato verso il pontefice per il riconoscimento del titolo di re d’Ungheria che da Roma era giunto a Mattia Corvino, in spregio alle pretese della casa d’Asburgo sulla corona magiara. Nel tentativo di rivalersi, Federico III cercò un’intesa con il re di Francia; ma a parte questo, occorre dire che una risposta positiva all’appello di Pio II non sarebbe mai potuta provenire dal mondo tedesco. I principi e i territori dell’Impero erano contrari a scendere in campo per un’impresa azzardata, che avrebbe fatto il gioco di potenze nemiche quali Venezia e l’Ungheria, tornando a vantaggio del prestigio di due autorità oggetto di diffidenza, come l’Impero e il Papato.

Frattanto Maometto II, constata la debolezza dei soccorsi europei nei Balcani, decise di sferrare l’attacco definitivo al Peloponneso e ai Balcani. L’attacco alla Bosnia spinse Mattia Corvino a inviare nel luglio a Mantova i propri ambasciatori, così come aveva da poco fatto, unico tra i principi italiani, anche Ferrante d’Aragona. Le sorti della Dieta sembrarono riaprirsi. A metà agosto giunse a Mantova la splendida ambasceria del duca di Borgogna, Filippo il Buono. Il 17 settembre arrivò Francesco Sforza, poi ripartito il 3 ottobre: la sua apparizione funse da stimolo per gli altri sovrani italiani, che in quello stesso frangente decisero di inviare propri rappresentanti alla Dieta papale. Particolarmente importante fu l’invio di ambasciatori da Venezia, segnale del superamento in Senato del timore di esporsi in prima linea in un’azione bellica contro la Mezzaluna. Pio II poté così celebrare l’inaugurazione del congresso mantovano il 26 settembre 1459, dopo ben quattro mesi di attesa. Dopo un suo lungo discorso, l’assemblea approvò all’unanimità la mozione di bandire la guerra contro gli infedeli; poi sciolse la seduta, delegando al pontefice la gestione dei preliminari diplomatici della spedizione. Seguirono settimane di negoziazioni infruttuose, fino a quando, il 14 gennaio 1460, Pio II celebrò la conclusione del convegno, con l’indizione della guerra santa per tre anni. Il gesto, non poco velleitario, sorvolò sul dramma della mancata risposta dei sovrani interpellati.

Il 19 gennaio Pio II lasciò Mantova. Prima di partire emanava la bolla Execrabilis (18 gennaio 1460), con la quale condannava come abuso la procedura del ricorso in appello al concilio (presente o futuro) contro le disposizioni papali. Nella più tarda Bulla retractationum (26 aprile 1463), composta per ribadire la propria ammenda degli errori commessi in passato, il pontefice affermò solennemente che la sua autorità doveva considerarsi come la più alta nella Chiesa; la pretesa di superiorità del concilio era di conseguenza errata.

Sulla strada del ritorno, Pio II arrivò a Siena il 31 gennaio 1460. Sarebbe rientrato a Roma solo il 6 ottobre, dopo un soggiorno di quasi otto mesi mesi nel Senese, trascorso ai bagni di Macereto e di Petriolo a curarsi la gotta.

Roma, nel frattempo, era scivolata nel caos. Le peripezie della guerra di successione in atto nel Regno di Napoli ebbero riflessi nella situazione di ingovernabilità di una città tradizionalmente teatro di scontri. Complice la lunga assenza del pontefice, scoppiarono tumulti ed episodi criminosi, a metà tra banditismo e rivolta, sobillate dalle potenze baronali maggiormente nemiche dell’autorità papale: ossia il conte Everso dell’Anguillara, Iacopo Savelli, i Colonna.

Al suo rientro in Roma, Pio II apparve scortato da cinquemila cavalieri, che aveva avuto cura di ottenere da Milano. Immediati i provvedimenti repressivi: il 31 ottobre fu impiccato il bandito Tiburzio, capo della banda della Palombara, che in nome della ribellione al papa aveva seminato il disordine in città. Altri suoi emuli fecero la stessa fine; ma fu solo la capitolazione di Iacopo Savelli (10 luglio 1461) che assicurò la ripresa del controllo del territorio laziale al pontefice, che per ragioni di sicurezza aveva trascorso l’estate del 1461 a Tivoli.

Il programma di rafforzamento dell’autorità papale nello Stato della Chiesa sarebbe dipeso in massima parte dai successi della coalizione antifrancese, che Pio II sostenne con il denaro e la diplomazia. Nell’autunno del 1460, stanco degli atti di disobbedienza del signore di Rimini, Sigismondo Malatesta, decise di castigarlo con i mezzi della giustizia papale. La vera colpa di Malatesta stava nell’avere abbracciato la causa del pretendente oltremontano al regno di Napoli, Giovanni d’Angiò, proprio nel momento in cui Pio II si applicava a tenere la minaccia francese lontana dall’Italia. Dall’abbattimento della potenza malatestiana, il pontefice si ripromise di ricavare un ampliamento del dominio ecclesiastico e una signoria per i suoi parenti. Per questo, il 25 dicembre 1460 dichiarò Sigismondo scomunicato e privato dei suoi domini, in quanto malfattore notorio e ribelle della Chiesa. Quale esecutore della punizione fu designato il suo nemico Federico da Montefeltro, conte d’Urbino, che sotto gli auspici congiunti del pontefice e di Francesco Sforza, iniziò la sua ascesa tra i signori di Romagna.

Nel successivo anno 1462, grazie all’aiuto milanese sollecitato da Pio II, Ferrante d’Aragona riuscì a debellare il fronte dei suoi nemici, riconquistando il pieno controllo del Regno. Nel contempo si consumò la rovina di Sigismondo Malatesta, costretto a cedere Senigallia che, insieme a Mondavio, venne concessa in vicariato a Giacomo Piccolomini, nipote del papa. Nel 1463 i Malatesta perdettero anche Fano, devoluta alla Sede apostolica. Solo l’intervento congiunto dei principali Stati italiani costrinse Pio II ad astenersi dall’incamerare anche Rimini e Cesena, in nome della preservazione dell’equilibrio italico.

Pur nell’accettazione di un condizionamento da parte degli Stati circonvicini, la politica italiana di Pio II poté considerarsi nel complesso fortunata, come testimoniarono gli accrescimenti territoriali dello Stato pontificio ottenuti nel corso del suo pontificato. Assai più controverso sarebbe stato l’esito delle sfide che Pio II dovette sostenere per difendere l’autorità della Chiesa romana nel campo spirituale. Le tendenze separatiste provenienti dalle maggiori «nationes» europee, in particolar modo Francia e Germania, non poterono infatti essere neutralizzate in modo soddisfacente.

Nel luglio 1461 l’avvento al trono francese del nuovo re, Luigi XI, che in passato aveva manifestato l’intenzione di ristabilire buoni rapporti con Roma, rese possibile la revoca della Prammatica Sanzione di Bourges (1438), avvenuta il 24 novembre 1461. Il tripudio con cui alla Corte pontificia venne accolta la notizia che la Chiesa gallicana era tornata a sottostare alla sovranità della Chiesa romana ebbe tuttavia corta durata. Già nel gennaio 1462 venne alla luce l’equivoco di un gesto che Luigi XI aveva strumentalizzato per richiedere al papato il ritiro dell’appoggio a re Ferrante di Napoli. Pesanti le minacce con cui il messaggio venne corroborato: esse andavano dalla convocazione di un concilio riformatore alla diserzione della crociata, fino all’alleanza con Venezia e all’invasione della Lombardia. Anche se il pontefice non cedette ai ricatti e non subì ritorsioni, la vittoria morale che ottenne sortì scarso effetto pratico, poiché Luigi XI non ripristinò la Prammatica, ma promulgò altre ordinanze reali con cui colpiva le prerogative di intervento della Sede apostolica nel Regno di Francia.

Anche dalla Germania Pio II ricevette amare frustrazioni. In passato, la sua dipendenza da Federico III gli aveva attirato l’avversione di alcuni principi dell’Impero, che respingevano qualsiasi forma di autorità sovrana che tornasse a detrimento dei loro poteri particolari. Da papa, il Piccolomini non poté più neppure contare su un efficace appoggio da parte del suo antico patrono, al fine di ristabilire il primato della Sede apostolica sopra una Chiesa tedesca attraversata da lacerazioni e continue intromissioni dei poteri secolari.

Deciso a rilanciare il prestigio del papato in un’area imperiale in preda alla guerra intestina, ai primi del 1460 Pio II vi mandò in legazione il cardinale Bessarione, deciso a far rispettare la promessa fatta a suo tempo di inviare dalla Germania trentaduemila fanti e diecimila cavalieri per la crociata. Secondo i programmi stabiliti a Mantova, il 2 marzo 1460 si aprì a Norimberga la Dieta che avrebbe dovuto definire le modalità della partecipazione tedesca alla crociata; ma lo scarso afflusso fece spostare la Dieta a Worms per il 25 marzo, e infine a Vienna per il 17 settembre, dove si concluse con un nulla di fatto. Dopo un anno di infruttuosa permanenza, Bessarione venne richiamato a Roma nel settembre 1461. Seguirono anni di scontri roventi, che si conclusero fra la primavera del 1464, quando il conte Federico del Palatinato ritornò all’obbedienza alla Sede apostolica, e l’estate dello stesso anno quando, appena dopo la morte di Pio II, venne composta la controversia tra Roma e Sigismondo del Tirolo a proposito del vescovado di Bressanone.

Ancor meno felice fu l’esito della politica perseguita da Pio II nella questione ceca. In Boemia, il movimento popolare di protesta antiromana ispiratosi alle dottrine di Hus aveva messo radici profonde, come lo stesso Enea Silvio Piccolomini aveva potuto constatare di persona nell’estate del 1451, in qualità di nunzio apostolico. Nuove speranze si aprirono per la causa romana con l’incoronazione a re di Boemia di Giorgio Podiebrad, avvenuta il 6 maggio 1458. L’elezione di Podiebrad fu il frutto di un compromesso, con il quale la Sede apostolica impose al nuovo sovrano l’impegno a ricondurre il suo popolo all’ortodossia cattolica. Tuttavia Podiebrad, preso dalla necessità di consolidare la propria posizione, disattese le promesse e si alleò con il partito antiasburgico e antiromano, attivo in Germania.

Giunta a Roma il 10 marzo 1462, l’ambasciata di obbedienza del Regno di Boemia portò alla luce tutti i malintesi fino ad allora non chiariti nei rapporti fra Podiebrad e la Santa Sede. Emerse che, in cambio del suo gesto di sottomissione, Podiebrad esigeva la conferma dei privilegi liturgici (i Compactata bohemica) concessi nel 1433 dal concilio di Basilea alla nazione boema. Tale richiesta irritò il papa, che per tutta risposta dichiarò nulli i Compactata (31 marzo 1462). Il gesto inflessibile provocò la fiera reazione di Podiebrad, che professò solennemente la sua appartenenza alla corrente utraquista dello hussitismo. Pertanto, il 16 giugno 1464 egli venne citato in Corte di Roma come spergiuro ed eretico recidivo. La morte di Pio II, sopraggiunta poco dopo, lasciò tuttavia in sospeso il destino del sovrano boemo.

Il pensiero dominante di Pio II, in quanto supremo pastore dell’Occidente cristiano, rimase sempre la crociata. Fu questa la più profonda causa della spaccatura fra lui e Federico III, il quale non poté accettare il tentativo papale di soppiantare l’autorità imperiale nel promuovere la mobilitazione armata dell’Europa cristiana. Un fondo pretestuoso ebbero anche le accuse di inerzia che Pio II mosse all’Asburgo, effettivamente incapace di passare all’azione, in quanto paralizzato dalle divisioni interne alla Germania e dalla refrattarietà del mondo italiano ai suoi comandi. Smanioso di rendere visibile le sue prerogative di alto coordinatore delle potenze cristiane, sia nella sfera spirituale sia in quella temporale, Piccolomini elaborò la quasi incredibile idea di assumere su di sé il ruolo di condottiero militare della Cristianità in armi, in supplenza di quel principe secolare che non aveva trovato per la latitanza generale di fronte i suoi appelli.

Incalzava in quegli anni la spinta dell’espansionismo turco nell’Europa orientale. Nel 1459 la Serbia venne soggiogata; nel 1460 cadeva il Peloponneso; nel 1461 fu presa Trebisonda, ultimo avamposto bizantino sul mar Nero; nel 1462 venne conquistata l’isola di Lesbo; nel 1463 fu invasa la Bosnia. L’indizione della crociata nel triennio successivo alla chiusura della Dieta di Mantova si risolveva intanto in un nulla di fatto, data la mancata risposta di tutti i principi cristiani, a cominciare da quelli italiani. La renitenza a pagare il sussidio imposto dal papa, manifestatasi in pressoché tutte le regioni della Cristianità, forniva un chiaro indizio che l’ideale della guerra santa non riscuoteva più un consenso generalizzato nella società di quel tempo. La chiamata alle armi non fu l’unica contromisura tentata da Pio II davanti allo sfacelo. Osando un gesto estremo in direzione opposta, verso la fine del 1461 egli compose la celebre lettera al sultano Maometto II, con cui gli proponeva di convertirsi al cristianesimo e ricevere dalla Sede apostolica il titolo di imperatore cristiano d’Oriente.

La lettera non venne mai recapitata al destinatario, mentre nel frattempo le opzioni di alcune potenze europee sembrarono andare nella direzione voluta da Roma. Venezia addivenne alla decisione di entrare in guerra contro i turchi, mentre il re d’Ungheria, Mattia Corvino, protagonista di vittoriose imprese contro i turchi, annunciò di voler partecipare alla spedizione promossa dal papa. A ciò si aggiunse la scoperta dei giacimenti di allume presso Tolfa, nell’alto Lazio, avvenuta nel maggio 1462, che fu interpretata dal pontefice come un segnale del favore divino ai suoi progetti. I proventi delle allumiere di Tolfa, calcolati in 100.000 ducati all’anno, vennero destinati a finanziare la guerra santa, che avrebbe condotto di persona, in mancanza di delegati di sua fiducia.

Fin dal marzo 1462 Pio II aveva dichiarato ai cardinali in Concistoro di volere mettersi alla testa della crociata da lui proclamata tre anni prima. A indurlo a tale passo fu la clausola del voto formulato anni prima da Filippo di Borgogna, che aveva giurato di partecipare alla crociata se un altro principe lo avesse preceduto. Pio II contava dunque di obbligare il duca di Borgogna a onorare la sua promessa, spingendo anche il re di Francia a unirsi all’impresa, per spirito di emulazione. Soprattutto, volle ricavare tutte le implicazioni dal nuovo impegno nella guerra contro i turchi, da parte delle potenze cristiane maggiormente toccate dalla loro aggressività. Nell’autunno successivo, una fortunata legazione del cardinal Bessarione a Venezia portò alla conclusione della lega offensiva contro i turchi fra la Serenissima, l’Ungheria e il papato (19 ottobre 1463), a cui Pio II sperò di far accedere anche l’imperatore. Insuperabile rimase, invece, la renitenza degli altri potentati italiani, contenti di lasciare che Venezia si logorasse nel guerreggiare con il tremendo nemico.

Il 23 settembre 1463, il papa annunciò di volere intraprendere una spedizione alla volta della Penisola balcanica e di lì verso Costantinopoli, con la partecipazione della Borgogna, dell’Ungheria e forse di Venezia. Pertanto il 22 ottobre bandì nuovamente la crociata, con bolla retrodatata al 6, per la durata di un anno a partire dal successivo maggio 1464. Alla realizzazione del suo ultimo sogno, Pio II profuse tutti i suoi mezzi: si calcola che tra l’autunno 1463 e l’estate 1464 più di 106.000 ducati venissero versati dalle casse papali per l’armamento della flotta che avrebbe dovuto attraversare l’Adriatico. Le illusioni ebbero tuttavia corta durata. Al momento di allestire i preparativi, proprio quei sovrani nei quali Piccolomini aveva riposto le sue più vive speranze manifestarono un radicale distacco da lui. Filippo di Borgogna, anziano e malato, colse il pretesto fornito da alcuni rovesci subiti dai veneziani nell’Egeo per procrastinare la sua venuta; infine, nel marzo del 1464, notificò che, malgrado il suo voto, non sarebbe partito, allegando a scusa il divieto che gli aveva imposto il re di Francia, suo sovrano feudale, che era tuttora offeso con il papa per la questione di Napoli. Francesco Sforza, a cui il pontefice aveva sperato di conferire il comando supremo della spedizione, per rivalità con Venezia si tirò indietro; anch’egli addusse a scusa la contrarietà di Luigi XI, a cui doveva obbedire in virtù del suo rapporto di vassallaggio.

Alle defezioni si mescolò l’arrivo di notizie alterne dal fronte di guerra. In Ungheria, Mattia Corvino sembrò poter rintuzzare l’assalto dei turchi; ma il contrattacco veneziano nel Peloponneso, dove Argo era andata perduta nell’aprile 1463, si risolse in un disastro. Larga parte del Sacro Collegio, scoraggiata dai messaggi provenienti dalla Francia e da Milano, premette sul pontefice perché desistesse dal suo proposito; ma egli procedette irriducibile nei suoi piani, nominando il 4 maggio 1464 il cardinal Forteguerri suo legato per la crociata. L’11 giugno il cardinal Todeschini Piccolomini venne designato vicario per Roma e lo Stato della Chiesa in assenza del papa. Nel fervore dei preparativi per la partenza, Pio II lasciò in sospeso un vasto piano per la riforma della Curia romana, che fece solamente in tempo ad abbozzare, ma che non promulgò.

Il 18 giugno, dopo una messa nella basilica vaticana al termine della quale prese il vessillo della Croce, il pontefice si mise in viaggio per Ancona, percorrendo la via interna dell’Umbria e delle Marche. Nella città adriatica diede appuntamento alle truppe e alla flotta che i sovrani partecipanti alla crociata avrebbero dovuto nel frattempo radunare, per poi salpare insieme alla volta di Costantinopoli. Arrivato gravemente infermo ad Ancona il 19 luglio, dopo un viaggio prostrante a causa della calura, il papa non trovò nel porto la flotta veneziana, come stabilito, ma solo due galee. Circa cinquemila erano i volontari affluiti da varie parti d’Europa: persone per lo più di bassa condizione e inadatte a combattere.

Stremato dagli stenti del viaggio e dal tormento del mancato arrivo delle quaranta galee che i veneziani gli avevano promesso, Pio II fu finito dalla peste, che insieme alla carestia andava allora imperversando nella città adriatica. Quando infine l’11 agosto arrivarono da Venezia due grandi navi da trasporto, seguite il giorno dopo da dodici galee comandate dal doge Cristoforo Moro in persona, il pontefice era ormai prossimo all’agonia. Pio II spirò ad Ancona, sul colle di S. Ciriaco, la notte fra il 14 e il 15 agosto 1464. Morto lui, il doge Moro fece vela verso la patria, dove diede ordine di disarmare la flotta. La spedizione crociata si sciolse, anche se Venezia si trovò a fronteggiare lo stato di guerra che aveva dichiarato all’Impero ottomano.

Il 17 agosto, la salma del papa venne trasportata a Roma, dove fu tumulata nella cappella di S. Andrea, gioiello artistico da lui eretto all’interno della basilica vaticana per accogliere la preziosa reliquia della testa di s. Andrea, portata a Roma dal fuggiasco despota di Morea, Tommaso Paleologo, nel marzo 1461. Per l’occasione fu rinnovato anche l’aspetto della piazza antistante S. Pietro, con la costruzione della nuova loggia delle benedizioni. Nel 1623 il grandioso monumento funebre di Pio fu trasferito, insieme a quello di Pio III, suo nipote, nella chiesa di S. Andrea della Valle.

Fonti e Bibl.: Oltre alla vasta bibliografia allegata alla voce Pio II di M. Pellegrini in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 663-685, si aggiungano alcuni titoli recenti: L. D’Ascia, Il Corano e la tiara. L’epistola a Maometto II di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II), Bologna 2001; Pius II ‘el più expeditivo pontifice’. Selected Studies on Aeneas Silvius Piccolomini, a cura di Z. von Martels - A. Vanderjagt, Leiden-Boston 2003; N. Bisaha, Pope Pius II and the Crusade, in Crusading in the Fifteenth Century, a cura di N. Housley, Houndmills - New York 2004, pp. 39-52; Enea Silvio Piccolomini. Uomo di lettere e mediatore di culture, a cura di M.A. Terzoli, Basel 2006; Pio II umanista europeo, a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze 2007; Nach dem Basler Konzil. Die Neuordnung der Kirche zwischen Konziliarismus und monarchischem Papat (ca. 1450-1475), a cura di von J. Dendorfer - C. Märtl, Berlin 2008; B. Baldi, Il ‘cardinale tedesco’. Enea Silvio Piccolomini fra impero, papato, Europa, Milano 2012; König und Kanzlist, Kaiser und Papst. Friedrich III. und Enea Silvio Piccolomini in Wiener Neustadt, a cura di F. Fuchs - P.-J. Heinig - M. Wagendorfer, Wien-Köln-Weimar 2013.

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