GREGORIO XIV, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GREGORIO XIV, papa

Agostino Borromeo

Appartenente a una famiglia nobile di origine cremonese, Nicolò Sfondrati nacque, probabilmente a Somma Lombardo (nei pressi di Varese), l'11 febbr. 1535 da Francesco e da Anna Visconti.

Il padre, insigne giurista e senatore, si era conquistato la fiducia di Carlo V da quando il Ducato di Milano era stato devoluto all'Impero (1535). Rimasto vedovo nel 1538, abbracciò lo stato clericale e fu cardinale dal 1544; dopo avere occupato altre sedi episcopali, nel 1550 fu da Paolo III trasferito alla diocesi di Cremona, dove morì improvvisamente due settimane dopo la presa di possesso.

Lo Sfondrati studiò a Milano e completò a Firenze la sua formazione umanistica con il fiorentino F. Migliori, rettore dell'Università di Pisa. Ancora a Firenze proseguì gli studi di filosofia e dal 1550, dopo la morte del padre, frequentò l'Università di Padova dove, il 2 marzo 1555, si addottorò inutroque iure. Appena quattordicenne, il 21 marzo 1549, era subentrato al genitore nella dignità di abate commendatario del monastero olivetano di Civate, presso Lecco, alle cui rendite si aggiunsero 700 scudi di pensione sugli introiti della mensa vescovile di Cremona trasmessigli dal padre.

A Civate lo Sfondrati si dedicò alla riforma della vita religiosa, al restauro dell'abbazia, al rinnovo delle suppellettili e degli arredi sacri. Quest'opera è indicativa del suo zelo religioso ed è probabilmente anche espressione dell'influsso del barnabita Alessandro Sauli, futuro vescovo e futuro santo. A questi anni, oltre ai contatti con gli ambienti milanesi più rappresentativi della riforma pretridentina, risalgono i rapporti con figure in seguito importanti nell'episcopato postconciliare, quali Guido Ferrero e, soprattutto, Carlo Borromeo.

Il 20 giugno 1552 lo Sfondrati fu chiamato da Filippo II al Senato milanese, il supremo organo politico-amministrativo della Lombardia spagnola. La benevolenza spagnola gli consentì più facilmente di ricevere, nel 1557, la diocesi di Cremona ceduta dal cardinale Federico Cesi. A dispetto delle insistenti pressioni della diplomazia spagnola (o, forse, proprio a causa di esse), Paolo IV Carafa non concesse al troppo giovane Sfondrati la dispensa necessaria per la consacrazione episcopale. La nomina giunse solo dopo la morte del papa, il 3 marzo 1560, all'inizio del pontificato di Pio IV, il cui cardinale nipote era Carlo Borromeo, con il quale lo Sfondrati era già in relazione e al quale sembra fosse legato da vincoli di parentela. Il 4 luglio fece il suo ingresso solenne nella diocesi.

Il 29 nov. 1560, Pio IV riconvocò infatti il concilio per la terza e ultima fase dei lavori. Lo Sfondrati fu tra i primi ad aderire alla convocazione e il primo padre conciliare a raggiungere Trento, il 31 marzo 1561. La ripresa dei lavori pareva al giovane vescovo un'occasione propizia per ingraziarsi i favori del papa e del Borromeo in vista dell'elevazione al cardinalato, in ciò sostenuto dal fratello Paolo, allora residente a Roma. Il contributo dello Sfondrati ai lavori conciliari sembrò inizialmente produrre i frutti sperati, ma nella primavera del 1562 la sua posizione sulla questione cruciale dell'obbligo della residenza doveva far tramontare la speranza della promozione cardinalizia. Lo Sfondrati, convinto, come dichiarava al fratello, di dovere anteporre "la verità e il servizio di Dio a qualsivoglia altro mio rispetto particolare" (L. Castano, G. XIV, Niccolò Sfondrati, 1535-1591, Torino 1957, p. 71), si era espresso a favore dell'origine divina dell'obbligo della residenza, in contrasto con gli ambienti curiali romani. Egli stesso giudicò quindi più prudente evitare di mettersi in mostra e il suo apporto ai lavori conciliari divenne irrilevante.

Conclusosi il concilio, il 4 dic. 1563, lo Sfondrati rientrò a Cremona e da allora la sua principale occupazione fu l'applicazione del programma tridentino. Pur dimostrandosi sempre pastore solerte e impegnato, la sua azione mancò talvolta di incisività: gli difettavano la necessaria energia di carattere e le condizioni di salute per affrontare fatiche e disagi di un'opera che richiedeva anche resistenza fisica.

Pochi mesi dopo il suo ritorno in diocesi, convocò - come prevedeva uno specifico canone conciliare - il sinodo diocesano per il 5-6 giugno 1564.

Il concilio di Trento aveva imposto la convocazione annuale del sinodo che si era tenuto a Cremona circa ottant'anni prima. Lo Sfondrati ne convocò soltanto tre nel corso del suo trentennale episcopato. Il secondo fu nell'agosto del 1580 e il terzo e ultimo nel settembre del 1583. Poco dopo la sua promozione cardinalizia, avvenuta il 12 dic. 1583, fece stampare il complesso della legislazione da lui promulgata.

Tra le ragioni che possono avere indotto lo Sfondrati a disattendere la norma, ignorata tra l'altro dalla maggioranza dell'episcopato italiano, vi fu probabilmente il timore che la riunione potesse divenire occasione di coalizioni ostili alla riforma. Nel caso dello Sfondrati la cosa può essere spiegata anche con la presenza di un'ampia e dettagliata legislazione provinciale emanata dal metropolita di Milano, Carlo Borromeo. Il Borromeo fu uno dei pochi arcivescovi della penisola ad adempiere alla prescrizione della triennalità del concilio provinciale: ne indisse sei tra il 1565 e il 1582 e sempre con la partecipazione dello Sfondrati.

Borromeo fu sempre prodigo di consigli e di incoraggiamenti, ma anche di ammonimenti; pur senza sottovalutare gli sforzi dello Sfondrati, avrebbe però desiderato da lui un'azione più incisiva, come traspare dalla loro corrispondenza e dagli atti della visita apostolica del Borromeo (11 giugno, 6 sett. 1575).

Sia per il carattere, sia per la malferma salute, lo Sfondrati non era certo in grado di emulare il suo modello milanese. Ma se la visita apostolica aveva messo in evidenza come l'opera di riforma non fosse ancora completata, essa attestava anche i notevoli risultati raggiunti dallo Sfondrati a un decennio dalla conclusione del concilio, tenuto conto degli ostacoli che gli frappose una parte del clero.

Il suo primo atto in diocesi fu l'erezione del seminario diocesano (1° dic. 1566), una delle innovazioni più significative introdotte dal concilio. Il seminario era necessario alla formazione di un clero meglio preparato sotto il profilo intellettuale, morale e pastorale; molte erano però le difficoltà: l'elaborazione dei piani di studio, la selezione degli insegnanti e il reperimento dei fondi, obiettivo per il quale lo Sfondrati fornì il proprio contributo e costrinse il clero a versare, come prevedeva un decreto conciliare, la quota spettante a ciascuno. Un decennio più tardi l'istituzione era però ancora lungi dall'essere pienamente operativa e ciò spiega il motivo per cui lo Sfondrati mantenne in vita le scuole di grammatica e d'arti liberali presso alcune parrocchie.

Lo Sfondrati si applicò inoltre con solerzia all'obbligo della visita pastorale sin dal suo ritorno da Trento.

La prima visita iniziò il 19 maggio 1565; condotta dal vescovo o da suoi delegati, nel 1575 si era svolta per più di due terzi. Per quanto la documentazione non consenta di valutare l'opera svolta dallo Sfondrati, tra il 1565 e il 1590 egli dovette compiere quattro visite: tra il 1565 e il 1575, tra il 1575 e il 1580, dopo il 1583 e la quarta, nel 1590, fu interrotta dalla sua elezione al soglio pontificio.

Seguendo una direttiva del primo concilio provinciale, del 1565, lo Sfondrati avviò il riassetto delle strutture diocesane, introducendo il vicariato foraneo mediante l'unione di parrocchie, soggette all'autorità di un vicario che doveva visitarle periodicamente e fungere da congiunzione tra la Curia e i parroci.

I due principali abusi erano l'assenteismo dei sacerdoti con cura d'anime e il cumulo dei benefici. Quando lo Sfondrati intimò ai beneficiati di presentare i titoli d'investitura, vennero alla luce numerosi casi di ecclesiastici che mai avevano risieduto o che, investiti di più di un beneficio, non vivevano in alcuno di essi. Non tutti desideravano sanare la situazione e pretestuosamente interponevano appelli ai tribunali romani.

Grandi resistenze giunsero dal capitolo della cattedrale. Arroccati, come accadeva altrove nella penisola, alla difesa dei loro privilegi, i canonici cremonesi pretendevano che l'ordinario diocesano non potesse procedere alla loro sospensione nemmeno in caso di gravi colpe, né prendere misure contro di loro senza il parere e l'assenso del capitolo. Lo Sfondrati fu quindi costretto a rivolgersi a Pio V, ottenendo un breve (30 sett. 1568) che gli concedeva, in quanto delegato della S. Sede, la facoltà di visitare, correggere e punire i canonici del duomo.

Ulteriori tensioni con il capitolo vennero dalla controversia sul diritto di nomina ai seggi vacanti, trascinatasi fino al 1582; alla fine lo Sfondrati prevalse, ma il processo di rinnovamento del clero fu lento e faticoso.

Lo Sfondrati mirava a creare una figura di sacerdote che elevasse il livello religioso e morale dei cristiani. La sua azione, come quella degli altri vescovi dell'età postridentina, si incentrò sulla santificazione delle feste, la frequenza ai sacramenti e sul controllo, affidato ai parroci, dell'osservanza dei precetti festivi. Per converso erano limitati o vietati intrattenimenti profani suscettibili di alterare il clima del giorno festivo, come balli, spettacoli e giochi. L'azione di disciplinamento fu accompagnata dall'attenzione verso la formazione dei fedeli per mezzo della predicazione e della catechesi. Avvalendosi del sacerdote G. Rabbia, priore generale della Compagnia della dottrina cristiana di Milano, risollevò le scuole della dottrina cristiana già esistenti a Cremona per l'istruzione dei fanciulli: nel 1568 in città erano trenta e da due anni si stavano diffondendo nel resto della diocesi. Nel 1572 la struttura fu eretta a confraternita ed ebbe il coordinamento delle scuole parrocchiali.

Oggetto di attenzione furono anche le comunità religiose femminili, dove l'intervento contro l'indisciplina trovava spesso ostacoli nelle influenti famiglie delle fanciulle mandate nei monasteri quando non potevano essere avviate al matrimonio. Ciò malgrado, lo Sfondrati ripristinò la rigorosa osservanza della clausura e impose il rispetto della disciplina regolare.

Nei casi più gravi non mancò di agire con severità, come nel caso della badessa del monastero di S. Quirico, che nel 1565 si oppose alla visita episcopale e fu sospesa dalla carica. Al fine di riportare l'ordine dove era più compromesso, nel 1571 lo Sfondrati chiese e ottenne un breve pontificio che gli conferì la facoltà di affidare il governo di benedettine e di clarisse a religiose - dello stesso o anche di altro ordine - da lui designate.

In quest'opera lo Sfondrati si avvalse dei nuovi ordini religiosi nati nella temperie spirituale pretridentina. Nel 1566, chiamò a Cremona i cappuccini; nel 1570, grazie ai suoi antichi legami con il Sauli, in quel momento preposito generale dell'Ordine, chiamò i barnabiti ad aprire il collegio di S. Giacomo; nel 1579 ottenne, non senza fatica, che vi si istallassero i teatini, a disposizione dei quali mise il convento di S. Abbondio, mentre dal 1561 aveva consegnato ai somaschi la chiesa di S. Geroldo per ospitare, nell'edificio adiacente, un orfanotrofio e nel 1583 affidò loro anche la chiesa parrocchiale di S. Lucia. Completamente fallimentare fu, invece, il tentativo di introdurre nella città i gesuiti.

Con il potere laico seppe mantenere buone relazioni, senza rinunciare a difendere i diritti della Chiesa di fronte a rivendicazioni, non sempre fondate, dei rappresentanti spagnoli. Momenti di tensione dovevano ingenerare, nel 1575 e nel 1587, le divergenti interpretazioni sul privilegio di foro per gli ecclesiastici e sul diritto d'asilo per quanti, laici o chierici, si fossero rifugiati in edifici sacri o di proprietà ecclesiastica per sottrarsi alla giustizia secolare.

Nella controversia lo Sfondrati fu più moderato del Borromeo, che a Milano si era duramente scontrato con le autorità spagnole, sforzandosi di mantenere aperto il dialogo con i rappresentanti del potere civile e con la diplomazia spagnola presso la S. Sede, alla quale le autorità laiche milanesi non mancavano di ricorrere affinché appoggiasse le loro pretese presso il pontefice. Non stupisce dunque che in una relazione spagnola inviata a Filippo II alla fine del pontificato di Gregorio XIII, lo Sfondrati fosse annoverato tra i cardinali devoti alla Corona spagnola.

Una svolta decisiva nella vita dello Sfondrati fu l'elevazione al cardinalato (12 dic. 1583), alla quale molto aveva lavorato il fratello Paolo utilizzando le sue relazioni con il duca Carlo Emanuele I di Savoia, con il cardinale Marco Sittico Altemps e con il duca di Sora, Giacomo Boncompagni, figlio legittimato di Gregorio XIII. La sua formale incorporazione nel S. Collegio avvenne un anno più tardi, per ragioni di salute; prese parte al suo primo concistoro il 7 gennaio successivo e il giorno 14 gli fu assegnato il titolo presbiterale di S. Cecilia.

Probabilmente poco tempo dopo rientrò nella sua sede episcopale, e a distanza di qualche mese tornò a Roma per il conclave - nel quale lo Sfondrati non sembra avere svolto alcuna parte di rilievo - che elesse Sisto V. Nel gennaio 1587 era ancora a Roma per un breve soggiorno e a marzo era in sede. All'inizio di maggio si recò a Torino dove, a nome di Sisto V, tenne a battesimo Filippo Emanuele, figlio del duca Carlo Emanuele I. Di nuovo a Roma nel settembre del 1587, vi sarebbe rimasto per oltre due anni.

I motivi del trasferimento sono oscuri: probabilmente partecipò ai lavori della neoeretta congregazione dei Riti, alla quale Sisto V lo ascrisse nel quadro della riforma della Curia varata con la bolla Immensa aeterni Dei del 22 genn. 1588. La congregazione era competente in materia di liturgia e di cause di canonizzazione dei santi, ma non è noto l'apporto dello Sfondrati all'assolvimento di questi compiti. È certo, invece, che durante il soggiorno romano rafforzò i legami con Filippo Neri e prese parte alle attività dell'oratorio della chiesa Nuova.

Tra la seconda metà di febbraio e i primi di marzo del 1590 tornò a Cremona, da dove ripartì dopo la morte di Sisto V, avvenuta il 27 agosto, per l'elezione del pontefice. All'inizio del conclave il nome dello Sfondrati circolava con insistenza essendo gradito al partito spagnolo, ma altre candidature lo precedevano nella lista dei porporati appoggiati da Filippo II. Fra questi spiccava il nome del cardinale Giovani Battista Castagna, che fu eletto il 15 settembre (Urbano VII) ma morì dopo 12 giorni di pontificato.

Alla vigilia del nuovo conclave la diplomazia spagnola a Roma (rappresentata dall'ambasciatore Enrique de Guzmán, conte di Olivares, e da un inviato straordinario, il duca di Sessa Antonio Folch y Cardona) rese eccezionalmente pubblica la lista con sette cardinali sostenuti da Filippo II. In essa figurava lo Sfondrati, ma gli erano anteposti altri cardinali, in particolare Giulio Antonio Santoro e Lodovico Madruzzo. L'appoggio della Corona spagnola avrebbe avuto, al giusto momento, peso determinante, posto che, almeno in teoria, controllava 22 cardinali sui 52 presenti: non abbastanza per raggiungere il quorum dei due terzi, ma sufficiente per escludere candidature non gradite.

Il conclave fu particolarmente lungo: apertosi la sera del 6 ott. 1590, si concluse il 5 dicembre. Dopo il fallimento delle candidature più forti la scelta cadde sullo Sfondrati, che assunse il nome di Gregorio XIV in segno di gratitudine per Gregorio XIII che lo aveva creato cardinale. Certamente giocò a suo favore la circostanza che, essendo vissuto lontano dagli intrighi della corte di Roma, nessun elettore gli era personalmente ostile.

A Roma furono presto conosciute la vita esemplare, la frugalità e la pietas del nuovo papa, che anche dopo l'esaltazione al soglio pontificio, conservò l'abitudine quotidiana di confessarsi e celebrare messa. Il carattere mite, l'inesperienza nelle questioni politico-ecclesiastiche e amministrative lo rendevano però inadatto a sostenere il peso del governo della Chiesa e dello Stato. G. XIV ne era consapevole e perciò chiamò presso di sé persone di fiducia, quali il teatino G. Ferri e il nipote Paolo Emilio Sfondrati, trentenne abate promosso cardinale il 19 dic. 1590, messo a capo della segreteria pontificia e investito della soprintendenza dello Stato con breve del 31 dic. 1590. Nelle mani del cardinale nipote - che era ancor meno preparato dello zio - si concentrarono così vastissimi poteri, ulteriormente ampliati dalla delega per la Segnatura delle suppliche, che gli conferiva la facoltà - eccessiva e senza precedenti - di accordare o rifiutare le richieste al pontefice. Dinanzi al malcontento del S. Collegio, G. XIV emanò il breve (12 ott. 1591) con il quale la Segnatura di grazia e giustizia e la soprintendenza dell'attività politica era attribuita congiuntamente allo Sfondrati, ai tre cardinali capi d'ordine e al cardinale Mariano Pierbenedetti, governatore di Roma all'epoca di Sisto V. La decisione giunse però tardiva, poiché sarebbe stata seguita dopo qualche giorno dalla morte del pontefice.

La designazione del nipote, che pure aveva ricevuto un'ottima formazione nell'oratorio della chiesa Nuova prima, e nell'Università di Pavia dopo, fu una scelta infelice. La palese bramosia di potere, i modi brutali e autoritari con i quali tentava di imporsi lo resero presto impopolare e contribuirono a gettare un'ombra sul pontificato di Gregorio XIV.

Tra i problemi rimasti irrisolti alla morte di Sisto V, il più grave e urgente era la questione del trono di Francia. Alla morte di Enrico III, il successore designato era l'ugonotto Enrico di Borbone, re di Navarra scomunicato da Sisto V come eretico "relapso" e dichiarato inabile a regnare. Al candidato protestante si opponevano inoltre i francesi riuniti nella Lega cattolica e Filippo II di Spagna, che alla Lega forniva appoggio militare anche per far valere i diritti che la figlia Isabella Clara Eugenia vantava come nipote ex sorore di Enrico III. Sisto V, tuttavia, non aveva sostenuto nemmeno le mire del sovrano spagnolo e, ora che sulla cattedra di Pietro sedeva un papa favorevole agli Spagnoli, questi rinnovavano le pressioni, soprattutto presso il cardinale nipote, ansioso di entrare nelle grazie del sovrano.

Agli inizi di gennaio, il papa riuniva la congregazione per gli Affari di Francia, alla quale aveva ascritto alcuni cardinali di sentimenti filoispanici, quali L. Madruzzo, G.A. Santoro ed Enrico Caetani, e il giorno 19 inviò un breve laudatorio a Filippo II per il soccorso portato alla città di Parigi assediata dagli ugonotti. Una settimana più tardi, G. XIV nominò nunzio straordinario in Francia un prelato suddito e devoto del sovrano spagnolo, il milanese Marsilio Landriani, al quale fu affidato il compito di favorire l'unione delle forze cattoliche contro Enrico di Navarra e di adoprarsi affinché i seguaci cattolici di quest'ultimo abbandonassero la sua causa. A marzo il pontefice, vincendo l'opposizione di una parte dei cardinali, ottenne dal concistoro l'autorizzazione di prelevare dal tesoro di Castel Sant'Angelo la cospicua somma di 300.000 scudi per finanziare un corpo di spedizione destinato a combattere a fianco della Lega e della Spagna. Al comando delle truppe nominò, il 19 maggio, il nipote Ercole Sfondrati, che lasciò Roma alla testa delle sue truppe il 12 giugno. Lo seguì, pochi giorni più tardi, il Landriani, al quale furono consegnati un monitorio che dichiarava il re decaduto da ogni diritto alla Corona e una bolla che fulminava la scomunica contro quanti si fossero ostinati a difenderne la causa.

La posizione di Enrico di Borbone era però più solida di quanto si pensasse a Roma. Il Landriani si scontrò con l'opposizione del Parlamento di Parigi, che ravvisò nella missione un'indebita interferenza negli affari del Regno; alcuni dei principali seguaci cattolici del Navarra si rifiutarono inoltre di aderire all'invito del pontefice. Il corpo di spedizione pontificio giunse in Lorena, stremato dalle fatiche e decimato dalle diserzioni, soltanto nel mese di settembre e si acquartierò, con truppe del duca di Lorena, presso Verdun, dove alla fine di ottobre non si era ancora verificata la prevista congiunzione con l'esercito spagnolo comandato da Alessandro Farnese. La morte del pontefice, che sarebbe venuta di lì a poco, avrebbe sancito il completo fallimento della sua politica francese.

Al momento della sua ascesa al soglio pontificio, G. XIV si trovò a dover far fronte a tre gravi problemi interni: la carestia, la peste e il banditismo. Appena eletto, cercò di fare fronte alla difficile situazione creatasi con la carestia. Il 9 dicembre scrisse a Filippo II per ottenere frumento dalla Sicilia; dall'isola non giunse nulla, ma nel febbraio il sovrano fece pervenire rifornimenti dal Regno di Napoli. Altri cospicui invii furono ottenuti dal granduca Ferdinando I di Toscana e dal duca Carlo Emanuele I di Savoia. Di scarsa efficacia si rivelarono invece i provvedimenti contro la speculazione e per il razionamento del pane. L'emergenza fu superata alla fine di aprile grazie al prelievo di 100.000 scudi dal tesoro di Castel Sant'Angelo e all'arrivo di nuovi rifornimenti dal Regno di Napoli.

I primi sintomi della peste si manifestarono nel gennaio del 1591 e l'epidemia si diffuse ad aprile e maggio. G. XIV largheggiò in aiuti e promosse l'apertura di lazzaretti. Nel soccorso si distinsero Camillo De Lellis e i suoi confratelli, nonché Luigi Gonzaga il quale, spinto dal suo ardente spirito di carità, finì con il contrarre il morbo, morendo a soli 23 anni.

Con la carestia e la pestilenza, turbò il già tribolato pontificato la piaga endemica del banditismo. La lunga sede vacante, la carestia e le diffuse collusioni con la nobiltà (famoso bandito fu Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano) avevano reso le bande più audaci e aggressive. Nessun risultato produsse la promessa della remissione della pena in cambio dell'arruolamento nel corpo di spedizione in Francia. Effetti concreti si ebbero solo con l'energica azione di repressione, per mezzo di un contingente di 600 uomini, nella primavera del 1591. Determinante fu inoltre la collaborazione delle autorità spagnole di Napoli e del granduca di Toscana, le cui truppe catturarono in territorio pontificio, a gennaio del 1591, il Piccolomini.

La volontà di attuare un'efficace repressione della delinquenza, ma anche di delimitare i confini tra giurisdizione ecclesiastica e laica, ispirò la costituzione Cum alias del 24 maggio 1591, con la quale G. XIV intendeva dettare una più chiara normativa in materia di diritto d'asilo. Pur riaffermando le tradizionali immunità della Chiesa, il papa veniva incontro alle esigenze manifestate in vari Stati dalle autorità civili, escludendo dal godimento di tale diritto i colpevoli dei crimini più gravi, quali il banditismo, l'omicidio, l'assassinio su commissione, la lesa maestà.

L'ultima questione politico-ecclesiastica che il papa affrontò fu la successione nel Ducato di Ferrara. Alfonso II d'Este non aveva discendenti diretti e alla sua morte, il Ducato, feudo pontificio, doveva essere devoluto alla Sede apostolica in base alla bolla Admonet nos del 29 marzo 1567 (detta De non infeudandis) con la quale Pio V aveva vietato nuove infeudazioni. Alfonso II desiderava invece come suo successore il capostipite di un ramo collaterale, Filippo d'Este, marchese di San Martino. Occorreva accertare se il caso fosse compreso nella bolla di Pio V, che faceva riferimento alle nuove investiture, ma non al prolungamento di quelle ancora in vigore. G. XIV era incline ad accontentare Alfonso, tanto più che i marchesi di San Martino erano imparentati con gli Sfondrati, ma si scontrò con la maggior parte del concistoro riunito il 13 sett. 1591. Ciò suscitò lo sdegno del papa e lo indusse, probabilmente su istigazione del cardinale nipote, a considerare la possibilità di scavalcare il concistoro. Alla fine G. XIV desistette e il 4 ottobre fu pubblicata la bolla confirmatoria.

È nell'ambito religioso che il pontificato di G. XIV riveste particolare rilevanza. Le sue iniziative riflettono lo spirito riformatore al quale si era ispirato il suo impegno di pastore. Sin dall'inizio del 1591 furono impartite direttive affinché i cardinali e tutti gli ecclesiastici presenti in Curia, vincolati all'obbligo della residenza, rientrassero nelle rispettive sedi. Al fine di garantire un più attento controllo sull'applicazione dei decreti di Trento, con il breve Ut securitati (22 febbr. 1591) ampliò le competenze della congregazione del Concilio, alla quale furono attribuite le facoltà di interpretare i decreti disciplinari tridentini, di conoscere le cause relative alla loro applicazione e di emanare decreti a nome del pontefice. Con la costituzione Onus apostolicae servitutis del 15 maggio successivo, G. XIV fissò le procedure per la raccolta di informazioni sui candidati vescovi. Per la scelta dei vescovi italiani aveva in mente un esame da svolgersi dinanzi a una congregazione cardinalizia, progetto attuato, nel 1592, da Clemente VIII, con l'erezione della congregazione per l'Esame dei vescovi.

Particolare attenzione il papa riservò agli ordini religiosi, specialmente i più recenti. Su richiesta del preposito generale C. Acquaviva intervenne, nel giugno 1591, per confermare le costituzioni della Compagnia di Gesù contro il tentativo messo in opera durante il pontificato di Sisto V di modificarle. Ripristinò inoltre la pensione, sospesa qualche anno prima da Sisto V, di 4000 ducati a beneficio dei collegi e dei seminari della Compagnia in Giappone. Con il breve del 21 sett. 1591 confermò privilegi, indulgenze e facoltà già concesse ai gesuiti nelle Indie.

Notevole fu anche il sostegno di G. XIV agli oratoriani, ai quali fece consegnare due chiese a Napoli nell'agosto 1591. A Filippo Neri avrebbe voluto conferire la porpora, e prese in considerazione il nome dello storico oratoriano Cesare Baronio come vescovo di Senigallia: il rifiuto di entrambi lo indusse a rinunciare ai suoi propositi. Il 18 febbr. 1591 confermò la Congregazione dei chierici regolari minori fondata da Francesco Caracciolo e da Giovanni Agostino Adorno, e il 21 settembre approvò le costituzioni della Congregazione dei ministri degli infermi di Camillo De Lellis, alla quale, per le sue benemerenze nel soccorrere gli appestati, aveva assegnato un sussidio mensile di 50 scudi.

Un'impresa rimasta in sospeso dopo la morte di Sisto V era l'edizione ufficiale del testo della Vulgata. Il lavoro di revisione, affidato a una commissione, era stato personalmente ripreso da papa Peretti con criteri di critica testuale del tutto arbitrari. L'edizione, pubblicata nella primavera del 1590, fu subito oggetto di critiche severe. G. XIV, seguendo il parere del dotto gesuita Roberto Bellarmino, decise di promuovere una nuova edizione che, a salvaguardia della memoria del defunto pontefice, sarebbe stata pubblicata sotto il suo nome dopo un'accurata correzione. Il compito fu affidato a una commissione di 18 membri, presieduta dal cardinale Marcantonio Colonna. Ma questa, riunitasi dal 7 febbr. 1591, procedeva molto lentamente anche a causa del numero elevato dei componenti. Il papa deliberò quindi la formazione di una commissione ristretta presieduta dal Colonna e dal cardinale William Allen. A luglio la revisione era ultimata, ma la nuova edizione vide la luce dopo la morte del papa.

Le spese per l'azione di repressione della delinquenza e per l'approvvigionamento durante la carestia non consentirono a G. XIV grandi lavori urbanistici e artistici. Riprendendo i progetti avviati sotto Sisto V, ordinò il completamento della cupola di S. Pietro e del palazzo del Quirinale. Fece collegare il palazzo del Laterano con gli appartamenti dell'arciprete della basilica e ripristinò il passaggio tra il palazzo di S. Marco e S. Maria in Aracoeli. A Domenico Fontana commissionò la tomba del cardinale Federico Corner, cui era stato particolarmente legato, in S. Silvestro al Quirinale. Il progetto per la costruzione della propria cappella funebre in S. Maria Maggiore, abbozzato nel marzo 1591, fu da lui stesso abbandonato.

G. XIV sembra avere avuto da sempre uno speciale interesse per la musica (a lui dedicarono composizioni Marc'Antonio Ingegneri, Paolo Isnardi e Ippolito Chamaterò). Con la bolla Cum nos super (1° ott. 1591, con effetto retroattivo dal 1° gennaio), egli dotò la Cappella musicale pontificia di nuove rendite. E il compositore Giovanni Pierluigi da Palestrina, tra i beneficiari del provvedimento, non mancò di esprimere la sua gratitudine dedicando al papa il Magnificat octo tonum liber primus, pubblicato in quell'anno.

Nell'ultima decade di settembre, G. XIV ebbe un attacco di calcolosi e, dopo un'effimera ripresa, morì a Roma nella notte tra il 15 e il 16 ott. 1591.

Fonti e Bibl.: Per la bibliografia si rinvia ad A. Borromeo, G. XIV, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, p. 240.

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