GIULIO III, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GIULIO III, papa

Giampiero Brunelli

Giovan Maria Ciocchi Del Monte nacque a Roma, il 10 sett. 1487, da Vincenzo e da Cristofora Saracini. Il padre esercitava la professione di avvocato concistoriale. Artefice delle fortune della famiglia, originaria di Monte San Savino, dev'essere considerato però lo zio paterno Antonio, uditore di Rota, arcivescovo di Siponto (Manfredonia), che curò l'istruzione del nipote.

Conclusi gli studi di diritto a Perugia e a Siena, il Del Monte intraprese la carriera ecclesiastica: fu chiamato a Roma come cameriere di Giulio II e, quando lo zio fu elevato al cardinalato - il 10 marzo 1511 -, rinunciò in suo favore all'arcidiocesi di Manfredonia. Poco dopo il Del Monte partecipò al concilio Lateranense V, tenendo, il 16 febbr. 1513, la prolusione della quinta sessione. Nel 1521 fu eletto vescovo di Pavia, dove tuttavia non si recò mai.

Nel giugno del 1527, dopo il sacco di Roma - del quale circolarono sue narrazioni come la Particola di lettere del reverendo arcivescovo Sypontino (M. Sanuto, Diarii, XLVI, coll. 209 s.) -, il Del Monte fu consegnato in ostaggio a garanzia del resto dei 400.000 ducati richiesti al papa dai lanzichenecchi e non ancora versati. In almeno due occasioni rischiò di essere giustiziato a causa dell'indugio nel pagamento. Alla fine di novembre del 1527 riuscì a fuggire a Narni e - sul finire dell'anno - a raggiungere Clemente VII a Orvieto. Nei primi giorni del 1528 fu inviato a Venezia, per accelerare la restituzione di Ravenna e Cervia, occupate durante la calata dell'esercito imperiale. Incontrò il doge e il Consiglio dei dieci, ma riuscì a ottenere soltanto la promessa che la questione sarebbe stata presto risolta: insoddisfatto, il 17 genn. 1528 partì per Orvieto.

L'insuccesso non parve compromettere i rapporti con Clemente VII (che lo aveva designato suo prelato domestico): nel gennaio e in febbraio esercitò, pur senza la nomina formale, le funzioni di governatore di Roma, quindi (con breve dell'11 marzo 1528), ricevette la nomina a presidente di Romagna. Qui il Del Monte si dedicò anzitutto alla conquista di Rimini, presa da Sigismondo Malatesta nel 1527: con l'aiuto dei nobili romagnoli Giovanni Sassatelli e Nicolò Guidi di Bagno, e assistendo personalmente alle operazioni militari, riuscì a tornarne in possesso alla metà di giugno 1528. Quindi attese alla pacificazione delle fazioni di Cesena e di Forlì e accarezzò addirittura l'idea di riprendere con la forza Ravenna e Cervia, ancora tenute dai Veneziani.

Richiamato a corte nel luglio 1529, il 28 settembre fu nominato governatore di Roma e rimase in carica fino al marzo 1532. Quindi, ceduta la diocesi pavese a Giangirolamo de' Rossi, ricevette in cambio un posto di chierico della Camera apostolica.

Agli inizi del pontificato di Paolo III, il Del Monte acquistò, per circa 10.000 scudi, la carica di uditore generale (cioè presidente) del tribunale della Camera apostolica e fu confermato prelato domestico. Nel dicembre 1534 fu chiamato al governo di Bologna e della Romagna. In questa occasione, autorizzato a procedere manu regia, fu chiamato a verificare l'operato degli amministratori, a correggere i casi di malgoverno, punire gli episodi di criminalità, spegnere le lotte di fazione. Un anno dopo fu richiamato in Curia per tornare, nel 1536, al governo di Bologna.

Il 22 dic. 1536 Paolo III lo creò cardinale con il titolo di S. Vitale (il 6 ott. 1542 mutato in quello di S. Prassede e, un anno dopo, in quello di Palestrina).

Nel novembre 1537 ricevette la legazione dell'Emilia settentrionale, con disposizione di procedere a un deciso accentramento. Riordinò l'assetto istituzionale di Parma e di Piacenza e curò particolarmente l'amministrazione della giustizia.

Al termine del mandato triennale tornò a Roma e fu coinvolto, per la sua preparazione giuridica e la lealtà nei confronti dei Farnese, nei cauti progetti di riforma di Paolo III. Nell'agosto 1540 entrò nella commissione "super reformatione" occupandosi del tribunale della Rota e partecipò alla preparazione del concilio: alla fine di ottobre 1542 stese una delle istruzioni informali per Pier Paolo Parisio, Giovanni Morone e Reginald Pole, nominati legati apostolici, nella quale chiarì che il sinodo non doveva essere aperto né, tanto meno, doveva essere discussa alcuna materia con i protestanti senza espressa autorizzazione del papa.

Dalla fine di maggio 1543, il Del Monte fu chiamato - insieme con Gian Domenico De Cupis, Marcello Crescenzi, Alessandro Guidiccioni, Giovanni Grimani, Marcello Cervini, Gregorio Cortese, Tommaso Badia - ai lavori per la deputazione del concilio: dopo la sospensione (decretata alla fine di settembre 1543), a causa della ripresa guerra in Europa, la commissione verificò le possibilità della riapertura (stabilita poi per il marzo 1545). Quando, con bolla del 22 febbr. 1545, fu formata la presidenza del sinodo, il Del Monte, al quale da pochi mesi era stata nuovamente affidata la diocesi di Pavia, fu creato legato, insieme con i cardinali M. Cervini e R. Pole.

Con la sua nomina, Paolo III intendeva affiancare a dei porporati versati negli studi teologici, e pronti a favorire profonde riforme nella Chiesa, un canonista esperto e pratico degli affari di governo e della Curia, convinto sostenitore della superiorità del pontefice sull'assemblea conciliare. Il Del Monte arrivò a Trento il 13 marzo 1545, senza aver ricevuto istruzioni particolari né sull'estensione del potere direttivo di cui era investito né sui temi da discutere. All'inizio di giugno 1545, dopo i lavori preliminari, le difficoltà sembravano aumentare: i prelati intervenuti erano pochi, a Worms i principi protestanti avevano reso noto che non avrebbero accettato le decisioni del concilio, il Papato si preparava a sostenere con denaro e truppe la campagna di Carlo V contro la Lega di Smalcalda.

Il Del Monte espresse quali dovessero essere, a suo giudizio, i compiti del concilio: emettere dopo un formale procedimento un giudizio di eresia a carico dei protestanti, in modo che poi fosse lecito affrontarli militarmente. La riforma della Curia e il riordino della giurisdizione ecclesiastica dovevano, invece, essere trattati in un secondo momento, a Roma o in un'altra città dello Stato della Chiesa. La soluzione, dal punto di vista del diritto canonico, era del tutto legittima, ma non teneva conto del rischio di un'insurrezione generale dei protestanti tedeschi, prima che l'imperatore fosse pronto a combatterli.

La seconda metà del 1545 fu ancora occupata da questioni procedurali. Dalla metà di agosto il Del Monte iniziò ad accusare problemi di salute, ma all'apertura solenne del sinodo, il 13 dic. 1545, cantò la messa inaugurale e passò a presiedere i lavori.

Alla fine di gennaio 1546 respinse duramente la proposta del cardinale Cristoforo Madruzzo di affrontare subito i temi della riforma: dimostrò in questa occasione di essere pronto allo scontro con chiunque intendesse porre in discussione la suprema autorità di papa Farnese, che aveva convocato il sinodo generale soprattutto per definire i dogmi della Chiesa. Dovette però accettare, per le pressioni dei prelati più vicini a Carlo V, che si trattasse congiuntamente di questioni dottrinali e di riforma della Chiesa, cosa che a Roma suscitò profondo malumore. Il Del Monte suddivise le materie fra tre congregazioni, sotto la presidenza di ciascun legato: questo modo di procedere, rivelatosi piuttosto macchinoso, fu abbandonato nel marzo 1546.

Nel contempo, egli aveva partecipato alla discussione sul canone della Sacra Scrittura, sostenendo la conferma dell'elenco tramandato dalla tradizione, per sconfessare le innovazioni propugnate dai protestanti.

Tra il marzo e l'aprile 1546 alcuni prelati del concilio mostrarono chiaramente l'intenzione di trattare della residenza dei vescovi: il Del Monte, tornato presidente il 1° apr. 1546 dopo gravi attacchi di gotta, riuscì a eludere la discussione sulla questione, ma dovette promettere di dibattere l'argomento in futuro. Anche la discussione sull'istruzione religiosa si rivelò molto insidiosa: il Del Monte dovette così intervenire in difesa dell'autorità del pontefice e del potere stesso dei legati. Quindi, nel maggio 1546, coordinò i lavori sulla questione del peccato originale e nel mese successivo riuscì a rimandare ancora la discussione sull'obbligo di residenza. Alla fine del giugno 1546 il Del Monte, malato, si assentò di nuovo dalle sessioni conciliari. Nelle settimane seguenti chiese più volte di essere sostituito, ma Paolo III non poteva accontentarlo, poiché l'inizio della guerra contro i principi protestanti lasciava nelle mani dei legati la decisione sul trasferimento della sede del concilio: tornò così alla presidenza nei dibattiti del 13 e del 17 ag. 1546, dedicati al cruciale tema della giustificazione, ma si tenne ai margini della discussione, mostrando di non essere versato negli studi teologici. Pur rinnovando la richiesta di essere sostituito, il Del Monte pianificò insieme con gli altri legati quella sospensione del concilio che Paolo III desiderava, ma della quale non intendeva assumersi la responsabilità di fronte a Carlo V. Quindi, lasciata al cardinale Marcello Cervini, più competente in teologia, la guida dei lavori sulla giustificazione, si concentrò sulla residenza dei vescovi: il 7 genn. 1547 presentò un abbozzo di decreto con il quale si cercava di raggiungere un compromesso tra chi propugnava la riforma e chi la temeva. Non riuscì però a evitare l'aspra opposizione del cardinale Pedro Pacheco, né la bocciatura di una nuova versione del decreto, presentata il 13 genn. 1547.

Appariva ormai chiaro che il Del Monte, abile nel differire gli argomenti più scottanti, non riusciva a dominare la discussione quando erano affrontati i temi della riforma. Mantenne la presidenza anche dopo la traslazione del concilio a Bologna (decisa all'inizio di marzo 1547) e tentò di far crescere il numero dei partecipanti. A partire dall'estate 1547 i lavori si concentrarono sui sacramenti, e poco dopo il Del Monte fece trattare degli abusi nella loro amministrazione: tuttavia la discussione, nonostante il tema relativamente innocuo, riuscì piuttosto aspra.

Dovette quindi esprimersi sulla richiesta, formulata a Roma alla fine di novembre 1547 dal cardinale Cristoforo Madruzzo per conto di Carlo V, circa il ritorno del concilio a Trento, dove erano rimasti i prelati fedeli all'imperatore: a suo giudizio, il papa doveva difendere l'autonomia e la libertà del sinodo e, nel contempo, provvedere a un ordinamento religioso interinale della Germania. Intervenne anche nelle congregazioni conciliari del 19 e 20 dic. 1547, dedicate allo stesso argomento: pose come condizioni per il ritorno a Trento l'accoglimento da parte dei protestanti di tutti i decreti emanati e il trasferimento in Bologna dei prelati fedeli all'imperatore, rimasti per protesta a Trento, in modo che riconoscessero la legittimità della traslazione. Ebbe successo: il testo di risposta, che corrispondeva in gran parte alla sua posizione, incontrò il favore di Paolo III (animoso nei confronti di Carlo V per l'assassinio di Pier Luigi Farnese e l'occupazione di Piacenza) e fu trasmesso alla fine di dicembre 1547.

Il Del Monte si incaricò quindi, all'inizio del 1548, di ripetere ai rappresentanti imperiali, a nome dell'assemblea, che la traslazione era avvenuta legittimamente e che nessuno poteva interferire sulla libertà del concilio.

La questione fu, nel febbraio 1548, avocata da Paolo III. Quando poi, alla metà di maggio, fu reso noto l'Interim di Augusta (cioè l'accordo voluto da Carlo V, per una momentanea pacificazione tra cattolici e protestanti), il Del Monte lo criticò aspramente, indignato per l'improvvisa accondiscendenza e per la trattazione di materie sulle quali il concilio si era già pronunciato. Poiché i lavori erano fermi dal 23 dic. 1547, montava un clima di sfiducia, che il Del Monte tentò dapprima di arginare. Poi, appoggiato dai prelati francesi, propose la traslazione del sinodo a Roma o, in subordine, la sua sospensione. Continuò più volte a proporre questa soluzione, nonostante i rifiuti di Paolo III, che voleva evitare un'aperta rottura con l'imperatore. Per questo suo contegno, decisamente avverso alla politica religiosa di Carlo V, il Del Monte fu privato delle rendite della diocesi di Pavia. Ma il papa gli conferì, nel luglio 1548, la legazione di Bologna, liberandolo dalla presidenza del concilio (sciolto all'inizio del settembre successivo).

Alla morte di Paolo III, il 10 nov. 1549, entrati i cardinali in conclave, iniziarono le forti pressioni da parte dell'imperatore e del re di Francia, che originarono in breve due fazioni poco disposte al dialogo. Cadde così, in poco tempo, la candidatura del cardinale Giovanni Salviati, reputato filofrancese. I cardinali del "partito imperiale", secondo le commissioni dello stesso Carlo V, si orientarono su R. Pole, che dopo alcuni successi all'inizio del dicembre 1549, non riuscì a raggiungere il numero di voti necessari per l'elezione, a causa dell'opposizione dei filofrancesi e dei cardinali più decisi a un duro confronto con i protestanti, che gli imputavano alcune ambigue convinzioni dottrinali. Tramontata la candidatura Pole, i due schieramenti si trovarono in equilibrio. Il Del Monte, nel frattempo, era stato inserito tra i candidati graditi a Enrico II: vantava esplicite simpatie per la Francia almeno fin dal 1546, si era trovato più volte in contrasto con i prelati vicini a Carlo V e, dopo aver contribuito alla traslazione del concilio a Bologna, aveva ricevuto - nell'ottobre 1548 - esplicite offerte "ex parte regis in promovendo eum in pontificem" (Concilium Tridentinum, Diaria, I, 1, p. 805). Il cardinale Charles de Guise, capo del "partito francese", avanzò, dunque, il 14 genn. 1550, il suo nome. I cardinali filoimperiali, invece, insistevano sul cardinale R. Pole, proponendo come alternativa solo G. Morone.

Il conclave perdeva velocemente credibilità: non era rispettata la clausura, continuavano le pressioni esterne, i cardinali conducevano uno stile di vita discutibile. Alcune norme correttive furono pubblicate il 31 genn. 1550, quando era caduta la candidatura di Niccolò Ridolfi (gravemente malato) ed era fallito un nuovo tentativo in favore di Giovanni Salviati. Nei primi giorni di febbraio 1550, il cardinale Guidascanio Sforza avanzò nuovamente il nome del Del Monte: l'opposizione della fazione filofrancese fu presto superata; i cardinali dell'altro partito ancora diffidavano, sebbene ignorassero che Carlo V lo aveva espressamente escluso dal novero dei papabili.

L'accordo - non comprendente i porporati spagnoli - sopraggiunse, dopo una breve trattativa, il 6 febbr. 1550: l'indomani, i cardinali Ch. de Guise e Alessandro Farnese guidarono l'omaggio nella cappella Paolina al Del Monte, che fece comunque redigere un atto notarile comprovante l'avvenuta elezione; quindi, nella notte, prese il nome di Giulio III, per riconoscenza nei confronti di Giulio II, il quale aveva elevato lo zio Antonio al rango cardinalizio. L'8 febbr. 1550, dopo che anche i cardinali spagnoli avevano prestato omaggio, fu tenuta un'ultima formale votazione.

L'elezione di G. fu considerata un successo di Enrico II: lo credettero gli stessi diplomatici francesi, che pure, durante il conclave, lo avevano giudicato infido e incostante. Tuttavia G. mostrò subito l'intenzione di non schierarsi, deciso a ritornare alla politica di equilibrio di Paolo III. Per questo si circondò di personale già impiegato nel precedente pontificato, come Girolamo Dandino e i cardinali Girolamo Capodiferro e Marcello Crescenzi. Accortamente G. trovò anche il modo di blandire i fautori di una radicale riforma della Curia, come Gian Pietro Carafa e Juan Alvárez de Toledo.

Sotto la pressione dei rappresentanti di Carlo V, G. sottopose, nell'aprile 1550, la questione del concilio ai cardinali Gian Domenico De Cupis, G.P. Carafa, G. Morone, M. Crescenzio, R. Pole, M. Cervini, che si pronunciarono a favore di una ripresa del concilio a Trento. Furono altresì inviati Sebastiano Pighino presso Carlo V e Antonio Trivulzio presso Enrico II. I risultati furono poco soddisfacenti: l'imperatore diede il suo assenso, ma gettò pesanti ombre sulla capacità del concilio di risolvere i dissidi religiosi in Germania. Il re di Francia si mostrò apertamente contrario.

L'opposizione francese era eminentemente politica: Enrico II constatava infatti che ogni iniziativa di G. (compresa la restituzione di Parma a Ottavio Farnese) andava a vantaggio del suo rivale, proprio mentre cercava di formare un vasto fronte antimperiale. Le perplessità di Carlo V erano invece dettate dalla situazione interna dell'Impero e da nette divergenze nella politica religiosa. Fu G. a rompere gli indugi: stese lui stesso la bolla di convocazione (datata 14 nov. 1550 e fatta pubblicare il 1° genn. 1551), disponendo la ripresa dei lavori a Trento a partire dal 1° maggio 1551.

Com'era prevedibile, la riapertura del concilio non incontrò il favore dell'imperatore, né quello del re di Francia. Carlo V dovette accettare non solo la conferma dei decreti già approvati (che annullava le speranze di un confronto dottrinario con i protestanti), ma anche una formale legittimazione della passata traslazione del sinodo in Bologna, cui si era violentemente opposto. La reazione di Enrico II fu ancora più aspra: a metà febbraio 1551, infatti, prospettò la convocazione di un concilio gallicano. I rapporti tra la Sede apostolica e la Francia sembravano inoltre degenerare per le contemporanee tensioni causate dalla questione di Parma.

G. aveva infatti restituito Parma a Ottavio Farnese, compiendo passi presso Carlo V perché gli fosse resa anche Piacenza. Tuttavia, non era riuscito a impedire che le persistenti mire imperiali sulle due città provocassero un deciso avvicinamento dei Farnese alla Francia. G. cercò di porre rimedio, tra la fine del 1550 e l'inizio del 1551, offrendo Camerino a Ottavio, in cambio del ritorno di Parma alla Chiesa. Prospettò anche diverse soluzioni diplomatiche a Carlo V, ma senza esito. Nel gennaio 1551 la conclusione di una alleanza tra i Farnese e la Francia determinò un irrigidimento della posizione pontificia. Con un Monitorium penale (emanato l'11 apr. 1551), G. dichiarò il duca Ottavio reo di ribellione, accettò le offerte di assistenza militare degli Imperiali, giunse a prospettare la destituzione di Enrico II e l'investitura del Regno a Carlo V o a suo figlio Filippo. Non intendeva, tuttavia, abbandonare definitivamente le vie diplomatiche: inviò in Francia il nipote Ascanio Della Cornia (alla fine di aprile 1551) e rinnovò le offerte a Ottavio Farnese. Naufragati questi negoziati, il 22 maggio 1551, Ottavio fu dichiarato decaduto dal feudo e si iniziarono gli arruolamenti di truppe. Sembrava che una guerra si potesse ancora evitare: Enrico II affermava di essere pronto a rispettare le decisioni di Ottavio Farnese e Carlo V spingeva per una soluzione pacifica, non volendo essere accusato, mentre la Germania si mostrava inquieta, della violazione della pace di Crépy (che era stata stipulata il 18 sett. 1544 sulla base della tregua di Nizza del 1538).

G. si trovò, a quel punto, in un vicolo cieco: aveva sperimentato nel 1527 le conseguenze nefaste di un aperto schieramento politico-militare di un pontefice. I propositi di tenersi equidistante tra Francia e Impero e di riprendere il concilio lo costringevano tuttavia ad atteggiamenti contraddittori: non poteva permettere - pena la fine dei lavori del sinodo generale - che si riaccendesse la guerra in Italia, com'era probabile se Ottavio Farnese, insediatosi a Parma, avesse stretto alleanza con i Francesi; non vedeva di buon occhio il rafforzamento in Italia delle posizioni dell'imperatore, la cui politica religiosa non condivideva; da ultimo, aveva bisogno del sostegno di Enrico II e di Carlo V per portare a termine i lavori del concilio.

Solo pochi dei contemporanei seppero giudicare appieno la complessità di quel contesto: più spesso G. fu tacciato di opportunismo, di ignavia, di attitudini deplorevoli per la dignità rivestita (come la passione per il gioco d'azzardo) e di debolezza a vantaggio dei suoi familiari. È pur vero che sulla sua credibilità gravava la nomina a cardinale (il 30 maggio 1550) di Innocenzo Del Monte, il suo favorito (fatto adottare al fratello Baldovino) privo anche di una minima vocazione alla vita ecclesiastica.

Nel giugno 1551 iniziò la guerra: a Ferrante Gonzaga, governatore di Milano (nominato poco dopo capitano generale della Chiesa) fu ordinato di muovere contro Parma; pochi giorni dopo, le truppe francesi e farnesiane fecero irruzione nel Bolognese. G. si preoccupò, in quella fase, di limitare per quanto possibile le spese e di proteggere i confini dello Stato ecclesiastico. Il piano d'azione concordato prevedeva invece che, mentre il Gonzaga stringeva Parma, le truppe pontificie si concentrassero nell'assedio della piazzaforte di Mirandola.

Le relazioni diplomatiche franco-pontificie si interruppero bruscamente: Enrico II richiamò da Roma l'ambasciatore, i cardinali e i prelati francesi. Il 7 luglio 1551 Paul de La Barthe de Thermes in concistoro espresse una formale protesta, e il 4 agosto Antonio Trivulzio fu bruscamente congedato.

Rapporti tanto tesi determinarono l'assenza di vescovi, abati e teologi francesi dal concilio di Trento: nei primi mesi del 1551 erano continuati infatti i preparativi ed era stata nominata la presidenza (formata dal cardinale legato M. Crescenzi, l'arcivescovo S. Pighino, il vescovo di Verona Luigi Lippomani). Nella scarsamente frequentata sessione inaugurale, tenuta il 1° maggio 1551, si era stabilito che i lavori sarebbero ripresi il 1° settembre seguente.

La guerra combattuta presso Parma e Mirandola faceva temere uno scisma: a metà agosto 1551 Enrico II valutò l'ipotesi della creazione di un patriarcato gallicano e poco dopo vietò l'invio a Roma di rendite ecclesiastiche. Indirizzò altresì ai prelati riuniti in Trento una lettera (letta il 1° sett. 1551 dall'abate Jacques Amyot), nella quale accusava G. di aver provocato la guerra, allontanando i prelati francesi dal sinodo. A Trento si reagì duramente, ma fu G. a incaricarsi della risposta: rammentava che il concilio era legittimamente convocato e rappresentava la Chiesa universale, che una guerra come quella di Parma (la punizione di un vassallo ribelle da parte del suo sovrano) non poteva giustificare l'assenza dal concilio di vescovi, abati e teologi francesi; ribadiva che a costoro, peraltro, sarebbe stata data ogni garanzia di lavorare in sicurezza. Enrico II moderò il proprio atteggiamento, avendo constatato che l'ipotesi di scisma non incontrava alcun favore nel suo Regno.

Nei mesi di settembre e ottobre 1551 il sinodo generale dibatté sull'eucarestia (elaborando la dottrina della transustanziazione). Particolarmente povero fu, invece, il dibattito sulla riforma della Chiesa: l'assemblea si limitò a esaminare e a votare in fretta un decreto presentato da M. Crescenzi sulla giurisdizione dei vescovi sopra i chierici loro sottoposti. Il 10 ottobre una congregazione generale approvò un salvacondotto per i protestanti che intendessero recarsi al concilio per sottoporre i loro articoli di fede. Si stabilì, quindi, che nella sessione successiva (il 25 nov. 1551) si sarebbero votati decreti riguardanti i sacramenti della penitenza e dell'unzione degli infermi, provocando le proteste dei prelati spagnoli e tedeschi che vedevano allontanarsi una vera riforma della Chiesa. Il clima si fece più difficile con la creazione cardinalizia del novembre 1551: solo due dei porporati erano stati indicati da Carlo V; G. conferì il cappello ad alcuni esperti membri della corte di Roma (come Alessandro Campeggi, Giovanni Ricci e il filofrancese Girolamo Dandino), oltre a prelati graditi alla Repubblica di Venezia e a suoi familiari, come Cristoforo Del Monte e Fulvio Della Cornia.

Alla fine del 1551 obiettivo della politica pontificia era, anzitutto, la ricomposizione dei contrasti con la Francia. La guerra sotto Parma si era trascinata senza episodi rilevanti per tutta l'estate del 1551, ma con ingenti spese, in assenza di regolari sussidi finanziari da parte di Carlo V; lo Stato della Chiesa era esposto al rischio di incursioni da parte dei Francesi o dei Turchi, loro alleati, e si temevano persino rivolte in Romagna. L'unico effettivo risultato era rimasto l'occupazione del Ducato farnesiano di Castro. Dopo l'attacco francese alle posizioni imperiali in Piemonte, G. si rese conto che Carlo V non avrebbe impegnato troppe energie nella conquista di Parma: così, nell'ottobre 1551 inviò in Francia Girolamo Veralli con offerte di pace. Fu una missione infruttuosa, confortata solo dalla constatazione che l'eventualità di uno scisma gallicano era tramontata. Doveva invece avere pieno successo l'azione diplomatica del cardinale François de Tournon, arrivato a Roma all'inizio di febbraio 1552: chiese un armistizio che lasciasse ai Farnese Parma e Castro, offrendo in cambio l'adesione di Enrico II alla politica religiosa di Giulio III. Le trattative furono condizionate dal fiacco andamento delle operazioni presso Parma e Mirandola, nelle quali aveva perso la vita il nipote del papa, Giovanni Battista Del Monte. Così, il 29 apr. 1552, si giunse a un accordo, sostanzialmente alle condizioni francesi.

Pesarono sulla decisione di G. anche i rovesci subiti dal concilio negli stessi giorni. Alla fine di novembre 1551 (quando l'assemblea si era concentrata sui sacramenti della penitenza e dell'unzione degli infermi e su aspetti secondari della riforma della Chiesa) erano presenti a Trento due delegazioni protestanti. La sessione successiva avrebbe dovuto occuparsi del sacramento dell'ordine e della messa. Tuttavia, il 23 genn. 1552 l'attenzione si era spostata sul problema dell'ammissione dei riformati ai lavori. Le loro delegazioni avevano dapprima tentato di ottenere il diritto di voto, poi si erano accontentate della facoltà di fare proposte e di trattare qualunque argomento con gli incaricati del concilio.

Il momento era sembrato favorevole alla discussione di dottrine controverse: tuttavia, il legato Crescenzi aveva decretato la sospensione delle deliberazioni sino al marzo successivo, favorendo in tal modo i protestanti (che stavano aspettando l'arrivo delle loro commissioni di teologi). Ne era derivato un sostanziale blocco dei dibattiti, aggravato - a metà marzo 1552 - dall'inizio del conflitto di Enrico II, Maurizio di Sassonia e altri principi tedeschi contro Carlo V.

G. aveva quindi decretato, nella seconda metà di aprile 1552, la sospensione del concilio. Sembrò aprirsi una nuova fase: la fine dei lavori conciliari e della guerra di Parma fecero credere a Enrico II che G. lo avrebbe apertamente sostenuto, per coalizzare i principi italiani in un esteso fronte antiasburgico.

In effetti, nell'estate 1552 vi furono intensi contatti tra la Santa Sede e la Francia: forse impressionato dal momento di difficoltà politico-militare di Carlo V, G. dapprima blandì le offerte francesi, poi si limitò all'obiettivo di ristabilire amichevoli relazioni con l'invio di Prospero Santacroce come nunzio ordinario, cui G. diede anche l'istruzione di sollecitare la conclusione di una pace con Carlo V. Nel luglio 1552 fu data istruzione al nunzio straordinario presso l'imperatore, Achille de' Grassi, di tranquillizzare l'imperatore circa la politica pontificia e di favorire un accordo con i ribelli tedeschi. G. non immaginava che il trattato concluso a Passavia il 2 ag. 1552 avrebbe sostanzialmente garantito ai protestanti l'esercizio della propria confessione religiosa.

Il contesto internazionale fu aggravato dalla rivolta di Siena (alla fine di luglio 1552), dove era stato cacciato il presidio spagnolo. G. partecipò alle prime trattative e garantì per il patto raggiunto all'inizio di agosto 1552, che sanciva l'indipendenza della città. Tentò anche di evitare che la Repubblica si affidasse militarmente ai Francesi: dapprima offrì la presenza di una guarnigione pontificia; poi, inviò a Siena il cardinale Fabio Mignanelli come legato a latere. La sua missione fallì: i soldati francesi rimasero a presidiare la città, mentre le sue proposte di riforma istituzionale non approdarono a nulla. Così, il 1° ott. 1552, F. Mignanelli fu richiamato a Roma.

Erano poste le basi perché la questione senese degenerasse in un aperto conflitto. Nell'autunno del 1552 G., insieme con una commissione cardinalizia ad hoc (formata da Gian Domenico De Cupis, Marcello Cervini, Pedro Pacheco, Bernardino Maffei), tentò di raggiungere un'intesa politica con la Repubblica di Venezia e il duca di Firenze, Cosimo de' Medici, che garantisse la neutralità della Repubblica di Siena. Dalla fine del 1552 G. sembrò sostenere sempre più le ragioni di Carlo V e giunse a consigliare ai Senesi la sottomissione. Dal momento che il progetto di far entrare Siena in una estesa zona neutrale dell'Italia centrale non riusciva, G. considerava una veloce esecuzione del piano imperiale contro la città l'alternativa meno rovinosa. Non intendeva, però, sbilanciarsi troppo in favore dell'imperatore: i rappresentanti francesi chiesero e ottennero dimostrazioni di neutralità ed equidistanza da parte della Santa Sede.

Il ritorno di G. a una posizione più equilibrata fu probabilmente dovuto anche agli insuccessi di Carlo V, costretto ad abbandonare l'assedio di Metz. I contemporanei giudicarono di nuovo incerta e oscillante la condotta di G.: in realtà egli perseverava nella politica inaugurata nella primavera del 1552, pronto a blandire il sovrano più potente e a fornire al più debole minimi appoggi, non impegnandosi in alcuna formale alleanza. Semmai, il timore che il Regno di Napoli subisse un'invasione dei Turchi, alleati dei Francesi, costituiva per G. una ragione di preferenza per una veloce chiusura della questione senese.

Le operazioni iniziarono verso la fine del gennaio 1553; alla fine di marzo G. esplorò ancora, ma senza esito, le possibilità di arrivare alla pace, offrendosi come garante dell'indipendenza di Siena. In aprile inviò come legati a latere G. Dandino e G. Capodiferro, rispettivamente a Carlo V ed Enrico II, ma le due missioni sfociarono in un completo fallimento.

Dopo l'insuccesso dei nuovi negoziati condotti a Siena e a Firenze, G. decise di assumersi il peso della trattativa, recandosi, il 5 giugno, a Viterbo. Vi trovò i rappresentanti dei Senesi, dei Francesi e degli Imperiali, con i quali si spostò a Bagnaia. La proposta di una tregua di un mese non fu accettata da Francesi e Senesi, che contavano di approfittare degli insuccessi militari degli assedianti. G. fu così costretto a rientrare a Roma (19 giugno 1553).

L'insuccesso di questa iniziativa personale portò G. a ripercorrere strade già battute: ai primi di agosto 1553 intavolò trattative preliminari di pace, ma senza esito. I legati Dandino e Capodiferro avevano continuato a insistere nella linea pontificia di una pace immediata, sulla base dello status quo: ma gli spazi di manovra si erano chiusi, poiché la guerra tra Francia e Impero si era riaccesa con violenza anche nei Paesi Bassi, in Lorena, nel Mediterraneo; i legati, quindi, furono richiamati a Roma. L'attenzione di G. si era intanto spostata sull'Inghilterra, dove, nel luglio 1553, per la morte di Edoardo VI, era succeduta al trono Maria Tudor che, educata cattolicamente, faceva sperare nella fine dello scisma anglicano. Appena ricevuta la notizia, G. aveva nominato legato apostolico il cardinale R. Pole, che partì il 29 sett. 1553.

Il progetto di una rapida riunione dell'Inghilterra alla Chiesa romana doveva scontrarsi con le diffidenze del Parlamento inglese, le resistenze di ampi strati della società e soprattutto con l'ambizioso disegno della diplomazia imperiale di un'unione dinastica (il matrimonio di Maria Tudor con Filippo d'Asburgo), in funzione eminentemente antifrancese. Così, già alla fine di ottobre 1553, Carlo V rese noto al Pole di non ritenere tempestiva la sua missione, adducendo il rischio di rivolte, e inopportuno che egli, come gli era stato commissionato da Roma, tentasse nuove mediazioni di pace a poche settimane dal fallimento delle legazioni dei cardinali Dandino e Capodiferro. G. reagì difendendo solo l'opportunità di esplorare ogni via per far cessare la guerra in Europa; cedette invece sulla questione inglese, comunicando al legato di assecondare gli indirizzi politici di Carlo V e di attendere che maturasse in Inghilterra un clima più favorevole.

Il cardinale R. Pole rimase dunque bloccato a Dillingen e solo dopo la conclusione del contratto matrimoniale (nel gennaio 1554) raggiunse la corte imperiale a Bruxelles, ma ne registrò presto l'ostilità. Il quadro si complicò per l'inizio in Inghilterra di una estesa rivolta (guidata da sir Thomas Wyatt iunior), che il legato - personalmente contrario all'insediamento di Filippo d'Asburgo - aveva già da tempo previsto. In primavera Pole si spostò presso Enrico II, ma non ottenne speranze di arrivare a una pace. Sconfitti i ribelli inglesi, fu celebrato il matrimonio (il 25 luglio 1554) al quale il Pole non poté presenziare. Il legato chiese di essere richiamato, ma G. lo fece restare nelle Fiandre fino alla fine di novembre 1554, quando poté recarsi in Inghilterra. Nonostante la Sede apostolica avesse rinunciato al recupero dei beni ecclesiastici e al perseguimento delle violazioni alla legge canonica perpetrate durante lo scisma, a Roma fu un momento di grande euforia: G. ordinò giornate di festeggiamenti. Poco dopo incaricò il cardinale G. Morone di una missione di pacificazione religiosa della Germania (poi non portata a compimento) presso la Dieta di Augusta.

Restavano assai flebili le speranze di pace: nel 1554, infatti, la guerra si era riaccesa in Italia e in Piccardia. Le operazioni militari contro Siena erano guidate da Cosimo de' Medici, accordatosi con Carlo V; G. cercò di mantenersi equidistante e riprese i tentativi di mediazione dopo la sconfitta di Francesi e Senesi a Marciano (2 ag. 1554). Sebastiano Gualterio, inviato in Francia, trovò un clima di forte diffidenza, tanto che G. si dichiarò disposto, per ottenere la pace, a recarsi a Siena. Seguirono altri negoziati fra il 1554 e il 1555, ma di fronte alle evidenti intenzioni dei Francesi di continuare a combattere fu cessato ogni sforzo.

Lo stato di guerra in Italia e in Europa ebbe ripercussioni anche sui progetti di riforma concepiti a Roma. Fin dal febbraio 1551 era stata nominata una commissione cardinalizia che si occupasse della Dataria e della Segnatura. Dopo la sospensione del concilio, l'azione aveva preso maggiore respiro e lo stesso G., nel concistoro del 16 sett. 1552, aveva esposto in dettaglio gli obiettivi: nuove regole per il conclave, per impedire indebite ingerenze da parte dei principi; obbligo ai cardinali di visitare la propria diocesi e divieto di accettare in commenda benefici curati; rigorosi criteri per l'assunzione alla dignità episcopale; rispetto dell'obbligo di residenza dei vescovi; limiti al conferimento di benefici ecclesiastici; rigidi requisiti per i candidati a ricevere gli ordini sacri; profonde innovazioni nella Dataria e nella Penitenzieria.

I rappresentanti di Carlo V si erano duramente opposti al progetto, alternativo alla ripresa del concilio generale. Invece, nell'inverno 1552-53, la commissione (della quale facevano parte i cardinali Carafa, Cervini, Pole, Toledo, Morone, Veralli, Crescenzi) affrontò gran parte di questi temi e i risultati, nell'aprile 1553, furono sottoposti al concistoro. Seguì una pausa, dettata dal concitato contesto internazionale. Solo verso la fine dell'anno, G. iniziò a preparare un'organica bolla di riforma, che lo impegnò sino al febbraio 1554.

Il documento - intitolato Varietas temporum e formato da centocinquanta capitoli - raccoglieva gran parte delle proposte emerse, integrate con i decreti emanati dal concilio di Trento: prendeva le mosse da definizioni generali riguardanti il ruolo del papa e dei cardinali, vietava il cumulo delle diocesi, sanciva l'obbligo di residenza, riformava i criteri di ammissione allo stato clericale e di conferimento dei benefici ecclesiastici, definiva l'autorità dei vescovi, limitava la concessione di grazie e dispense, disciplinava la vita del clero regolare, chiariva gli usi leciti della Sacra Scrittura ed emendava la predicazione e l'istruzione religiosa; da ultimo, condannava gli abusi delle autorità civili sulla giurisdizione ecclesiastica. Questa bolla fu presentata come una raccolta di temi da sottoporre al futuro concilio, ma di fatto si sostituiva al sinodo generale, tanto che suscitò forti malumori fra i sovrani cattolici. Forse per questi motivi non fu pubblicata, come invece era stato previsto, nella primavera del 1554.

Nella seconda metà del 1554, i cardinali si pronunciarono sulle prime parti del provvedimento, ma il 23 marzo 1555, in Roma, a esame ancora incompleto, G. morì.

La ripresa del concilio a Trento e i progetti di riforma elaborati a Roma non esaurirono la politica religiosa di Giulio III. Egli rivolse la sua attenzione agli ordini religiosi, in prima linea nella ripresa cattolica: accrebbe i privilegi dei barnabiti (1550), confermò quelli dei teatini (1551), approvò la riforma degli agostiniani (1551). In particolare, sembrò favorire la Compagnia di Gesù, istituita da pochi anni: confermò l'Ordine (con bolla del 21 luglio 1550) e ne ampliò i privilegi (il 22 ott. 1552), difendendoli dall'ostilità delle autorità episcopali in Spagna. Per i gesuiti eresse in Roma, nell'agosto 1552, il Collegio germanico.

G. incoraggiò l'evangelizzazione del Nuovo Mondo: agevolò (con un breve del 20 luglio 1554) le partenze di regolari per le missioni e fondò le nuove diocesi di La Plata (od. Bolivia) e San Salvador (od. Brasile). Diresse i suoi sforzi anche verso Oriente, riuscendo a riunire alla Sede apostolica i nestoriani fedeli al "katholikòs" Simeone VIII Sullaqa, nel 1553 creato patriarca di Mossul.

Sostenne, infine, la repressione in Italia delle idee riformate difendendo e ampliando la giurisdizione del tribunale del S. Uffizio e colpendo la diffusione delle dottrine eretiche per mezzo della stampa. Procurò tuttavia "che non si dovesse ricever dispositione alcuna nel Santo Officio contra cardinali o altri prelati superiori […] senza farlo sapere prima" (deposizione, datata 1558, di Girolamo Muzzarelli, maestro di Sacro Palazzo di G., in Firpo, p. 219).

L'Inquisizione era infatti particolarmente sollecita nel mostrare l'ambiguità delle opinioni dei cardinali Pole e Morone in materia di fede e nel procedere contro le posizioni fortemente sospette di alti prelati, come il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo o il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani. G. garantì personalmente circa l'ortodossia dei due porporati, che stimava i candidati più idonei per condurre una politica di conciliazione religiosa di respiro europeo, e fece in modo di risolvere in maniera sostanzialmente extragiudiziale diverse altre vicende. Sembra che conservasse nella propria camera da letto una cassetta contenente numerosi fascicoli relativi a procedimenti inquisitoriali in corso.

Circa il governo dello Stato della Chiesa, G. aveva visibilmente mitigato i tratti più conflittuali della politica del predecessore, adottando innanzitutto una linea piuttosto morbida nei confronti del baronaggio (ceto nel quale, con la creazione del marchesato di Castiglione del Lago, aveva introdotto un ramo dei propri consanguinei, i Della Cornia). Altrettanto flessibile si era dimostrato nel governo delle principali città (innanzitutto Bologna e Perugia), con il largo coinvolgimento dei locali ceti dirigenti. Solo nella capitale era stata rafforzata l'autorità dei rappresentanti pontifici, il governatore di Roma e quello di Borgo. Anche nella riforma dello Studium Urbis (1552-53) era apparso evidente il disegno di limitare le prerogative della Municipalità romana. D'altro canto, erano stati precedentemente presi alcuni provvedimenti indirizzati al miglioramento delle condizioni dei sudditi: a Roma era stata abolita l'imposta sul macinato e cospicue risorse erano state investite nell'approvvigionamento annonario; nelle province era stata soppressa la "tassa dei cavalli", destinata al pagamento dei corpi di cavalleria. Il continuo incremento delle uscite aveva inoltre obbligato G. ad alternare misure consolidate (come l'aumento della pressione fiscale) a decise innovazioni di politica finanziaria. Nel 1550 era stato istituito il Monte Giulio, un prestito pubblico di 150.000 scudi di capitale, premiato con interessi al 12% e garantito dalle entrate delle dogane di Roma. Alla fine del 1551, era stata reintrodotta la tassa dei cavalli e nel 1552, a Roma, quella sul macinato (anche se con aliquote più basse), impiegata tuttavia principalmente a garanzia di un nuovo prestito pubblico, il Monte della farina (di 100.000 scudi, con interessi al 10%). Infine, nel 1552-53, G. aveva imposto una nuova tassa, il "quattrino della carne".

L'esigenza di potenziare le entrate dell'Erario nasceva in G. anche da cospicue spese causate dal suo mecenatismo: durante tutto il regno fece rappresentare commedie in Castel Sant'Angelo e in Vaticano (tra cui i Menecmi e l'Aulularia di Plauto, l'Eunuco di Terenzio, la Cassaria di Ariosto); garantì protezione a letterati come Paolo Giovio e Pietro Aretino (anche se al di sotto delle aspettative di entrambi), patrocinò gli esordi come compositore di Giovanni Pierluigi da Palestrina.

Soprattutto, si distinse nel patronage artistico. Appena eletto, commissionò un complesso "apparatus" per la cerimonia di incoronazione (formato da archi decorati, stucchi, fregi e altre opere effimere): vi lavorarono, fra gli altri, Bartolomeo Ammannati, Taddeo Zuccari e il Salviati (Francesco De Rossi). Quindi, dalla fine del 1550, dopo aver assegnato l'abituale residenza romana (sul sito dell'odierno palazzo Braschi) a Giovanni Battista Del Monte, si concentrò su progetti che dovevano assicurare lustro al proprio lignaggio. Decise la risistemazione della "vigna" di Roma, fuori della porta del Popolo (acquistata nel 1519). Secondo quanto riporta Giorgio Vasari - che intorno al 1548 si era occupato di palazzo Del Monte a Monte San Savino -, fu opera propria il primo disegno della futura villa Giulia, poi rivisto dal Buonarroti.

Dal febbraio 1551, G. aveva iniziato ad acquistare una serie di terreni confinanti con i suoi giardini, pensando di dividere l'area in due parti: una per lo sfruttamento agricolo e una occupata da una villa, luogo di svago. Diversi progetti si susseguirono tra l'inizio del 1551 e la fine del 1552. Ai primi disegni del Vasari si aggiunsero i progetti dell'Ammannati e di Jacopo Barozzi da Vignola: preponderante il ruolo del primo, che prese in mano la direzione dei lavori, concentrati dapprima sul casino, quindi sul ninfeo (comprendente la fontana dell'acqua vergine) e sulla loggia (progettata dallo stesso Ammannati). Realizzarono le decorazioni pittoriche (con grottesche e soggetti in prevalenza mitologici) Prospero Fontana, Pietro Venale (Pietro Mongardini) e T. Zuccari.

La principale attrazione del complesso, dove G. si intratteneva non di rado (talvolta allietato da buffoni di corte), era costituita da una collezione di statue e copie di busti di soggetto antico (divinità classiche, consoli e imperatori romani), con ricco impiego di marmi preziosi. Si trattava insomma di una "villa all'antica", che suscitò l'entusiasmo dei contemporanei. G. concepì progetti ancora più ambiziosi, ispirandosi al modello del patronage farnesiano. Ipotizzò la trasformazione del mausoleo di Augusto in palazzo: ma l'idea fu presto abbandonata. Quella parte del rione romano di Campo Marzio gli interessava particolarmente: riprese il progetto dell'apertura della "via Trinitatis", già concepito da Paolo III, che doveva congiungere la collina del Pincio al Tevere. In più, acquistò nella zona le residenze e le proprietà dalla famiglia Cardelli.

L'obiettivo era di costruire un palazzo per il fratello Baldovino e uno per il nipote Fabiano, collegandoli attraverso un giardino porticato; nell'autunno 1552 il proposito prese corpo. B. Ammannati iniziò i lavori al palazzo ex Cardelli (poi passato ai Medici e denominato palazzo di Firenze): allargò il cortile, spostò l'asse dell'atrio, costruì il cosiddetto palazzetto, prolungò il lato esterno. Vi furono quindi fatti eseguire affreschi attribuiti a Pellegrino Tibaldi, T. Zuccari, P. Fontana. Il palazzo di Fabiano, che, progettato da Ammannati, avrebbe dovuto affacciarsi sulla "via Trinitatis", non superò invece lo stadio iniziale.

Anche altri interventi di G. furono rivolti alla manifestazione del potere familiare: in Monte San Savino fece riprendere i lavori per la costruzione di un palazzo di famiglia. In S. Pietro in Montorio eresse (intorno al 1552) la cappella Del Monte, commissionò al Vasari il disegno (ritoccato probabilmente da Michelangelo) delle tombe di famiglia e fece eseguire dall'Ammannati le statue che le adornavano. Infine commissionò a Michelangelo il progetto per l'edificazione delle tombe dei suoi parenti in S. Giovanni dei Fiorentini, a testimonianza di una forte aspirazione all'ingresso dei propri consanguinei - ai livelli più alti - nell'aristocrazia legata ai Medici.

Si trattò di una committenza rivolta quasi esclusivamente al consolidamento della posizione raggiunta dai Del Monte. G., infatti, il 27 nov. 1553 donò a Baldovino e ai suoi discendenti il palazzo ex Cardelli e la villa Giulia. Limitato fu invece il patronage artistico-religioso, al quale si possono ricondurre solo a fatica i progetti di Michelangelo per il cortile del Belvedere in Vaticano. Anche la chiesa di S. Andrea sulla via Flaminia, costruita nel 1552-53 su progetto del Vignola e decorata da P. Tibaldi e da Girolamo Siciolante (il Sermoneta), deve essere considerata più una cappella privata - eretta in forme classiche - dedicata a un santo cui G. era particolarmente devoto, che un edificio per il culto pubblico. Persino per la decorazione di alcune nicchie delle logge dei palazzi vaticani (opera di Daniele Ricciarelli da Volterra), i motivi prescelti - paesaggi - richiamavano l'amore di G. per la caccia e la vita campestre.

Altre committenze rispondevano a esigenze di propaganda politica: la "fontana publica" eretta sulla stessa via Flaminia era ornata da statue e motivi che rendevano omaggio agli sforzi di G. per assicurare alla zona approvvigionamento idrico. Nelle medaglie ricorrono simili temi esaltanti la prosperità pubblica, accanto ad altri (soprattutto dopo il 1551) che evocavano le difficoltà delle responsabilità sostenute in un contesto internazionale sfavorevole. Da ricordare, infine, ricorrenti scelte iconografiche dettate da assonanze onomastiche: il tema del "monte" e i riferimenti al più celebre "Iulius" (Gaio Giulio Cesare). A questo riguardo, G. si avvalse dell'opera e della consulenza del letterato Anton Francesco Rainerio, che in più opere celebrò le gesta del pontificato.

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